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LE VITE IM-POSSIBILI

Le false biografie di LEONARD ZELIG, FORREST GUMP e BOB ROBERTS

di Micaela Veronesi

" C'è una ragione, mi sembra, per cui non possiamo afferrare l'essenza delle cose se non

eccezionalmente. Forse la nostra incapacità di vivere la vita pienamente mantiene la riserva

di possibilità che rende il mondo, e il nostro essere nel mondo, attraente. Ha più senso, si

accorda di più con l'evidenza, credere che noi non esistiamo per sfruttare tutte le possibilità,

ma perché le possibilità non vengano tutte consumate."

(R.P. Harrison, Roma, la pioggia1)

C'è un numero infinito di vite da vivere nel mondo, miliardi di storie che non sempre vengono

sfruttate dagli uomini, esistenze possibili che forse non si consumeranno mai. C'è il tempo che

si biforca di fronte ad una scelta (argomento di celebri romanzi e film famosi) dimostrando

come il fatto stesso di dover scegliere non sia indifferente, e quanto grande sia la sua

importanza nel ciclo totale di una vita, perché alla fine di ogni viaggio si fa sempre un

bilancio e i conti, si sa, devono sempre tornare... A volte è sufficiente scegliere di non agire, di

non affrontare un ostacolo, non rispondere ad una telefonata, o non uscire più di casa, ed ecco
che un numero infinito di vite possibili vengono scartate, non saranno mai vissute, andranno

ad alimentare quella riserva di possibilità di cui parla Pogue Harrison nel brano citato in
apertura. Non dobbiamo qui decidere se tutto questo è buono o cattivo, ma se ci accordiamo

con il pensiero dello scrittore americano possiamo apprezzarne il lato positivo, possiamo

vedere come tutto ciò può contribuire a inventare nuove storie, nuovi racconti e possibili film

da realizzare.

1. PRIMO: NON IMMEDESIMARSI TROPPO

1R.P.Harrison, Roma, la pioggia, Milano : Garzanti, 1995


Tutte le storie che leggiamo nei romanzi o che vediamo rappresentate sugli schermi

cinematografici sono storie possibili, spesso probabili, ma quasi mai vissute realmente, perché

pure invenzioni. C'è tuttavia un caso molto particolare, che si collega al discorso della

menzogna cinematografica, al paradosso tra incofutabilità dell'immagine (ciò che vedo esiste)

e il suo essere talvolta veramente falsa (ciò che vedo non esiste, è pura invenzione, viene

rappresentato solo per ingannarmi), ed è il caso di un testo a cui viene data l'impressione di

realtà, in cui gli eventi vengono presentati come veri, reali e non possibili, mentre invece sono

pure invenzioni, frutto della fantasia di qualcuno che ha voluto prendersi gioco di noi. Non è

bello scherzare con la credulità degli altri, soprattutto quando questi si fidano di noi, ma lo

spettatore contemporaneo è preparato al peggio, si stupisce ma non si offende, abituato a non

fidarsi mai di niente, sempre pronto al peggio, non rifiuta l'improbabile incontro tra Forrest

Gump e il presidente degli Stati Uniti, non trova strano il connubio tra realtà e finzione e non

si sente tradito nelle sue certezze (ne ha del resto così poche!), anzi accetta il gioco e si unisce

a quanti, nel film ingannatore, fanno del personaggio un eroe, sta al loro gioco, asseconda la

volontà del regista, pur sapendo che si tratta di una volontà subdola. L'inganno in un film

come Forrest Gump (Usa, 1994) di Robert Zemeckis, non sta soltanto nell'aver fatto un film

di finzione e averlo trasformato in una biografia (veste impegnativa per una storia, dedicata di

solito a grandi personaggi, e quindi contenitore ufficiale, serio, costrittivo di una vita che si

presume realmente vissuta), ma soprattutto nell'aver inserito in questa falsa biografia elementi

veri, date, luoghi, personaggi che fanno parte della Storia. In questo caso la menzogna si

trova, possiamo dire, ad un livello primario, superficiale, perché, a differenza dei film di cui

parleremo in seguito, si limita a un bluff, mantiene il suo inganno al livello di un gioco

furbesco e ad armi impari: da un lato Zemeckis e i suoi mezzi tecnici, gli effetti speciali,

specialissimi e ultra moderni che gli permettono di inserire il suo personaggio in filmati

d'epoca, accanto a uomini famosi come Nixon e Kennedy, dall'altro lato ci sono invece gli

spettatori che assistono al gioco, ma non vi partecipano, perché sanno che non è vero, che quel

simpaticone di Forrest non era veramente presente in quei filmati, e che non è mai stato in

Vietnam o alle manifestazioni studentesche nel Sessantotto. Questo accade perché quello di

Zemeckis è comunque un film e come tale viene fruito (potremmo dire "con il dovuto
distacco") dagli spettatori, le immagini cinematografiche attirano e coinvolgono ancora, ma

tutti sappiano che sono finte, anche quando riproducono fatti veri, forse addirittura con

maggior coscienza quando i fatti riprodotti sono veri, perché il pubblico diventa più esigente.

Così Forrest Gump diventa una favola e il suo personaggio un possibile eroe contemporaneo,

e l'inganno teso nei nostri confronti resta appena un embrione.

2. MA SE ZELIG FOSSE QUA?

Diverso è il caso di Zelig (Usa, 1983) di Woody Allen, perché il protagonista, Leonard Zelig,

non è soltanto, al pari di Forrest Gump, un personaggio "strano" divenuto parte della Storia,

egli ha qualcosa di più: la sua biografia viene ripresa cinematograficamente perché è più

importante della Storia, la quale è uno strumento nelle mani del regista, che la usa per dare

spessore e credibilità al suo personaggio. La vita di Zelig prende corpo e diventa vera fin dal

primo momento del film, quando appaiono Susan Sontag, Bruno Bettelheim e Saul Bellow a

parlarci di lui, a spiegare cosa la sua figura ha rappresentato per la società in cui è vissuto. La

menzogna prende corpo dalla struttura stessa del film: quella di un documentario, un

reportage che cala il film nella veste ben più impegnativa del cinegiornale (antico veicolo di

informazione, ma anche di deformazione della realtà2). L'immagine di Zelig non si limita a


confondersi, come faceva Forrest Gump, ai personaggi della sua epoca, grandi scrittori,

uomini politici, scienziati, sociologi, ma sono gli stessi personaggi a mettersi in relazione con
lui, a farsi testimoni (e quindi falsari) della sua esistenza. Susan Sontag (personaggio della

realtà) che rilascia un'intervista sul personaggio Zelig è messa da Allen sullo stesso piano
della dottoressa Fletcher (psicoanalista e sposa di Zelig, quindi personaggio della finzione),

con il risultato che il film assume davvero la cadenza della cronaca, e diventa difficile per lo

spettatore distinguere i fatti veri da quelli girati da Allen. La stessa fotografia del film si

confonde (camaleonticamente come il personaggio di cui tratta) con quella delle immagini di

repertorio a cui si mischia la fiction. Il ritmo stesso è quello del reportage giornalistico, e in

questo va ricercata la forza dell'inganno teso da Allen ai suoi spettatori: la menzogna

cinematografica funziona meglio nel momento in cui il cinema si maschera in forma

2Sfruttato spesso per manipolare la verità dei fatti a favore della ricerca della notizia sensazionale.
televisiva. E' dalla tv che siamo abituati ad apprendere le VERE notizie, è la tv il nostro

VERO veicolo d'informazione, il più diretto e il più efficace. Woody Allen gioca su questo

motivo e tutto il film prende la forma di un grande cinegiornale, con tutti gli ingredienti:

interviste in lingua originale con traduttori simultanei, sottotitoli e didascalie, l'accento posto

sulle ripercussioni tipiche del fenomeno di massa che il personaggio ha rappresentato,

influenzando mode e culture. Così Zelig si eleva a falso personaggio storico (persino lo

scrittore americano Saul Bellow si ricorda di lui!), e compie quel salto di qualità che

Zemeckis non è riuscito a far fare al suo personaggio, troppo ancorato agli schemi

cinematografici e così poco televisivo. Per Leonard Zelig ci illudiamo, parteggiamo,

sorridiamo, crediamo, nell'ora e mezza di visione, che sia veramente con noi a difendere i

diritti degli insicuri, che in quanto insicuri non hanno la forza di prendere una forma esclusiva

e si confondono fino a mimetizzarsi, proprio come noi di fronte alla televisione.

3. L'ETERNO DILEMMA

Invano si dibatte ormai se sia davvero tutta colpa della tv, o se il dilemma fra ESSERE e

APPARIRE non sia da intendere in termini più vasti. Di certo si sa che la sociopatia è il vero

problema della nostra epoca, e che davvero “non vali niente se non appari in televisione”,

come dice Nicole Kidman nel film di Gus Van Sant, To die for (Da morire, Usa, 1995), ma

non avevamo forse mai fatto caso a come il problema della menzogna cinematografica sia

strettamente connesso a quello dell'inganno televisivo. Non c'è dubbio sul fatto che il film di

Woody Allen compia anche un esercizio di tipo meta cinematografico, e che svolga, quindi,

un'auto riflessione sulle possibilità del linguaggio cinematografico. Mettere in scena una

menzogna narrativa così complessa e radicale crea uno scompenso notevole fra lo statuto

realistico dell'immagine filmica, la cui essenza non può essere dissociata dall'apparenza, e

quello assolutamente ambiguo del raccontare, che si fonda esclusivamente su un patto di

fiducia fra narratore e narratario, patto che può essere continuamente tradito. Viene così

radicalmente intaccata la credibilità di chi racconta, e accentuata la crisi del cinema

contemporaneo, neanche più in grado di offrire immagini veritiere. Molto più radicale del

tranello che Orson Welles aveva teso ai suoi spettatori con il mistero di rosebud in Quarto
Potere (Usa, 1941), non vera e propria menzogna cinematografica, ma semplice omissione, o

di quello ordito dal personaggio del falsario così come viene descritto da Deleuze,

personaggio simbolico del cinema moderno, responsabile della crisi dell'immagine-azione,

l'immagine bugiarda mette a soqquadro tutte le certezze raggiunte dallo spettatore

contemporaneo. Ed è a questo punto che il cinema viene sopraffatto dalla tv. Il film di Tim

Robbins, Bob Roberts (Usa, 1992), è interamente un falso reportage sulla vita e la campagna

elettorale di un (falso) cantante country, candidato al senato degli States. Robbins lavora sul

terreno dell'ambiguità: interpreta una parte sgradevole, vestendo i panni del protagonista,

contro cui è schierato ideologicamente, e maschera il film da documentario. Si sdoppia come

attore (alla Dr. Jekyll) e come autore (facendo un film di finzione ma dandogli la forma del

reportage). Ecco che i canoni televisivi entrano con maggior irruenza a far parte dell'inganno

cinematografico: un film può inventare una vita, così come lo sa fare un racconto, ma la tv

riesce a dare a questa vita una connotazione realistica tale da non lasciare più intravedere il

confine tra vero e falso. Gli spettatori di Bob Roberts seguono il film solo attraverso lo

sguardo della troupe televisiva che segue la campagna elettorale del candidato, e passano così

da spettatori a complici, perché condividono lo sguardo con chi è responsabile di

quest'enorme messa in scena, con chi ha accesso ai suoi inganni, ma sceglie di coprirli con

fotomontaggi o più semplicemente puntando la macchina da presa altrove. Come dimostra

Van Sant con il suo To die for, è il metodo televisivo, con i suoi continui intersecarsi di piani

narrativi, che annulla la forza di qualsiasi punto di vista. Non c'è nessuno sguardo dietro alla

videocamera che riprende la sua protagonista Suzanne, mentre rilascia la sua lunga intervista,

ma il pubblico non lo sa, è anche qui vittima di una menzogna. Anche Oliver Stone in Natural

born killer tentava un procedimento del genere, ma la sua videocamera, e la sua

tele/fotogenicità erano ancora troppo in forma "cinema" per essere prese per vere (un po' come

accade a Zemeckis, per intenderci), invece Van Sant radicalizza l'eterno dilemma, quello

avviato da film come Zelig e Bob Roberts: che immagine ci resterà del mondo, dopo che tutto

sarà passato dietro lo schermo televisivo? a cosa potremo ancora credere, e di chi fidarci se

l'immagine del mondo non sarà altro che quella trasmessa da una videocamera accesa
abbandonata in un angolo e sintonizzata su tutte le frequenze dell'universo a riprendere, forse,

lo suggerisce Bazin, il cinegiornale n. 1, quello del Giudizio Universale3.

3A. Bazin, A proposito di Why we figth, in Che cos'è il cinema?, Milano : Garzanti, 1986, p. 25

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