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UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE

Facoltà di Lettere e Filosofia


Corso di Laurea in Lettere Moderne

FORMA E CONTROLLO:
IL TOPOS CORRIDOIO IN KUBRICK

Relatore: Chiar.mo prof. Bruno DE MARCHI

Tesi di Laurea di:


Leonardo D’ITRI
Matr. Nr. 2262013

Anno Accademico 1998-1999


INTRODUZIONE pp. I-III

I. DALLO SPAZIO A KUBRICK

I.1 IL CINEMA COME ARTE DELLA VISIONE p. 1


I.2 L’INQUADRATURA
I.2.1 Il limite e la selettività 7
I.2.2 Lo spazio cinematografico 13
I.2.3 Organizzazione di un mondo 19
I.2.4 Lo stile 23
I.3 VI PRESENTO STANLEY KUBRICK
I.3.1 La scelta 28
I.3.2 Passeggiata nella narrativa Kubrickiana 33

II. L’UOMO LIBERO

II.1 LA PROSPETTIVA
II.1.1 Etimologia 52
II.1.2 Cenni storici 56
II.1.3 L’uomo, il mondo 67
II.1.4 Dissimili prospettive 80
II.2 PERSPICERE KUBRICK (da The Killing a
Full Metal Jacket) 85
III. L’UOMO COSTRETTO

III.1 IL CORRIDOIO
III.1.1 Etimologia 106
III.1.2 Currere storico 108
III.1.3 Corridoio, unico movimento 114
III.2 KUBRICK NEL CORRIDOIO (da The Killing a
Full Metal Jacket) 122

IV. IL CORRIDOIO COME«SIMBOLISCHE


FORME»
IV.1 L’OCCIDENTE PROSPETTICO 138
IV.2 STANLEY KUBRICK, CREATORE DI CONTROLLO
IV.2.1 Movimento 143
IV.2.2 Labirintica scacchiera 150
IV.2.3 Metafore visive di una crisi 156
IV.2.4 L’illusione e il controllo visivi da
The Killing a Full Metal Jacket 160

CONCLUSIONI 198

BIBLIOGRAFIA 214
I

Con questo lavoro di ricerca ci si propone di mostrare come nella filmografia del regista

americano Stanley Kubrick sia presente uno stretto rapporto tra l’ambito narrativo e

quello visivo. In particolare si tenterà di evidenziare come la struttura spaziale del

corridoio abbia una valenza determinante nel sottolineare la costrizione e l’impossibilità

di scelta in cui vengono a trovarsi i personaggi kubrickiani.

Innanzitutto, nel primo capitolo, si affronterà l’aspetto visivo del cinema, cercando di

provare che la settima arte possiede come proprietà basilare e ineliminabile quella di

essere visibile.

Partendo da tale assunto abbiamo l’intenzione di spostarci all’interno della stessa

struttura cinematografica, analizzandone lo spazio.

Si tenterà quindi di evidenziare come lo spazio cinematografico sia un mondo a parte

rispetto a quello della realtà, un mondo visivo che deve essere organizzato secondo il

volere del regista. Si cercherà perciò di porre in rilievo come tale organizzazione

rappresenti lo stile visivo di un autore.

A questo punto si ha intenzione di studiare il cinema di Stanley Kubrick. Come primo

passo porremo dei limiti alla nostra ricerca. Infatti non si analizzeranno tutti i film, ma

si escluderanno dal nostro lavoro Fear and Desire (1953), Killer’s Kiss (1955) e

Spartacus (1960), dal momento che Kubrick non li riteneva totalmente suoi1.

1
Comunque le ultime due opere (Killer’s Kiss e Spartacus) verranno trattate in modo limitato e solo per

quanto concerne l’ambito visivo, dato che lo stesso Kubrick ha sostenuto che presentano alcuni, anche se

limitati, aspetti di valore, mentre nei riguardi di Fear and Desire non ha mai fatto alcun apprezzamento

positivo.
II

Si ha quindi intenzione di analizzare l’impianto narrativo della sua filmografia tentando

di porre in evidenza come siano costantemente presenti due temi fondamentali: da un

lato l’illusione da parte dei personaggi di poter guidare il proprio destino e dall’altro

l’assoluta impossibilità, dovuta al caso e a forze superiori, di attuare tale controllo.

A questo punto si tenterà di mostrare come tale dualità tematica, evidente studiando il

plot di ciascun film, sembri trovare un parallelo a livello visivo. In particolare si

cercherà di mettere in risalto il fatto che due costanti visive del cinema di Stanley

Kubrick, ossia la prospettiva centrale ed il corridoio, potrebbero costituire la metafora

visiva, rispettivamente, dell’illusione da parte del personaggio di poter controllare il

proprio destino (la prospettiva), e della reale condizione in cui lo stesso personaggio si

trova, cioè impotente a decidere della propria vita ed immesso su un tragitto obbligato

(il corridoio).

Per dare sostanza a tali supposizioni, nel secondo capitolo analizzeremo la prospettiva

sia etimologicamente che storicamente. Inoltre dedicheremo il nostro interesse anche al

pensiero quattrocentesco che parrebbe costituire il retroterra culturale in cui la

prospettiva fu ideata. Tornando poi al cinema di Stanley Kubrick, forniremo per ogni

film esaminato un nutrito numero di esempi relativi alla presenza di una strutturazione

dello spazio cinematografico riconducibile al modello della prospettiva centrale.

Nel terzo capitolo ci occuperemo invece del corridoio, seguendo lo schema di

procedimento utilizzato per l’analisi della prospettiva. Infatti studieremo la figura

architettonica del corridoio dapprima etimologicamente e poi storicamente. Vedremo

quindi la funzione che parrebbe avere e poi, come per il precedente capitolo, studiando

le opere kubrickiane, indicheremo dove è rilevabile il corridoio in ogni film analizzato.

Nel quarto capitolo approfondiremo innanzitutto il significato che pare assumere il

corridoio (suddiviso nella nostra ricerca in corridoio scenico, intendendo con ciò il

corridoio come struttura architettonica, ed in corridoio fotografico, comprendendo in


III

questa definizione quel tipo di corridoio creato dal carrello in avanti o all’indietro e

dallo zoom in avanti o all’indietro2) nella produzione di Stanley Kubrick, inteso cioè

come un percorso, un tragitto obbligato in cui il personaggio è costretto a seguire

un’unica direzione impostagli. Quindi dedicheremo la nostra attenzione ad un raffronto

diretto fra i due temi narrativi presenti nei film del regista americano ed i due temi visivi

da noi analizzati. In particolare tenteremo di provare che, generalmente, nel momento in

cui un personaggio si illude di guidare il proprio destino, visivamente si riscontra la

prospettiva centrale, mentre quando si trova in una condizione impostagli, nei confronti

della quale non ha possibilità di controllo, è rilevabile la struttura del corridoio.

2
A questo proposito ringraziamo il professor Eugeni che ci ha suggerito di considerare l’uso dello zoom

come costruzione di un corridoio visivo in luogo di quello architettonico.


1

I.1 IL CINEMA COME ARTE DELLA VISIONE

E’ risaputo che i sensi sono cinque: vista, udito, tatto, olfatto e gusto. La prima,

attraverso gli occhi, ci permette di ricevere l’impressione della luce e di distinguere la

forma e il colore degli oggetti. Il secondo senso rende possibile percepire un suono, un

rumore e simili, per mezzo delle orecchie. Con il terzo, i cui organi, diffusi in tutta la

superficie del corpo, sono specificamente più diffusi nei polpastrelli delle dita,

riconosciamo le forme, le condizioni e le qualità esterne degli oggetti. Il quarto senso,

mediante il quale è possibile percepire gli odori, prodotti dalle emanazioni di particelle

sottili e volatili di alcuni corpi, ha la sua sede nel naso. Il quinto, e ultimo, dal quale si

ha la sensazione dei sapori, risiede nel palato e nella lingua.

Questi sensi sono utilizzati nella vita di tutti i giorni, ma quando si assiste ad uno

spettacolo teatrale o ad un film si riducono a due soltanto, la vista e l’udito.

Per la vista esistono eccezioni minime, legate ad un certo tipo di teatro d’avanguardia,

dove gli spettatori hanno la possibilità di utilizzare gli altri sensi. Per il secondo senso

non esistono eccezioni.

Infatti durante un film lo spettatore non tocca niente che riguardi la finzione sullo

schermo, non annusa nulla, dato che il film non odora (ha un certo odore la pellicola,

ma questo in sala non si sente).

Infine non gusta lo spettacolo cinematografico (può gustarlo metaforicamente, ma non

materialmente). Al massimo può gustare un sacchetto di patatine, elemento inerente alla

sala cinematografica e non al film in sé.


2

Quindi la vista e l’udito, sia per uno spettacolo cinematografico, sia per uno spettacolo

teatrale, risulterebbero gli unici sensi indispensabili, anche se la vista sembrerebbe

superiore rispetto all’udito.

Infatti parlando di teatro lo scrittore latino Orazio ha scritto: “Segnius inritant animos

demissa per aurem / quam quae sunt oculis subiecta fidelibus”1.

L’attenzione del lettore cade sull’importanza data agli oculi che sono definiti fideles

rispetto alle aures, che è caratterizzato dall’avverbio in posizione iniziale, quindi più

forte: segnius.

Segnis vale, come è noto, tardo, lento, pigro, neghittoso; fiacco, debole.2 Perciò in

ambito teatrale il senso dell’udito assume una connotazione inferiore rispetto a quello

della vista, è più debole, più fiacco nel dare emozioni allo spettatore.

Le riflessioni di Orazio sembrano tuttora valide, dato che il teatro dal I secolo a.C. fino

ad oggi non ha subito cambiamenti radicali nella sua struttura3.

Per quanto riguarda il cinema, potrebbe risultare chiarificatrice una prova pratica.

E’ sufficiente entrare in una sala cinematografica e chiedere all’operatore

cinematografico di far partire la macchina di proiezione senza sollevare la ventola

paraluce. Il risultato sarà che lo sventurato spettatore, totalmente al buio, si sentirà

circondato da rumori, musica e voci, ma, non riuscendo a comprenderne la provenienza,

si troverà completamente impossibilitato a seguire lo scorrere degli eventi sullo

schermo.

1
Quinto Orazio Flacco, Ars Poetica in Le Lettere, Bur, Milano 1989, p. 266, vv. 180-1
2
Ferruccio Calonghi, Dizionario Latino-Italiano, Rosemberg & Sellier, Torino 19643, p. 2492
3
Infatti il teatro, da quello greco fino a quello contemporaneo, si è sempre fondato sulla presenza di attori

che, in uno spazio separato dal pubblico, recitano un determinato testo. Ad ogni modo per una storia del

teatro si rimanda, ad esempio, a Cesare Molinari, Storia del teatro, Laterza, Bari 1996
3

Quindi sembrerebbe che il cinema, ancor più del teatro, sia legato al senso della vista

più che a quello dell’udito.

Questa più stretta unione tra cinema e vista dipenderebbe dalla sua particolare origine.

Infatti, seguendo ad esempio le indicazioni di Gian Piero Brunetta, le basi del cinema,

databili dal XV secolo in poi, poggiarono su una ricerca dell’icononauta4.

L’icononauta, viaggiatore delle e fra le immagini, è l’uomo visionario che ha il potere di

muoversi nell’iconosfera, cioè lo spazio delle immagini, di dominare e colonizzare il

tempo e lo spazio, di usare gli occhi come remi per navigare liberamente, alla velocità

della luce. Insomma è colui che ha la capacità di apprendere in modo naturale il

linguaggio delle immagini e di sapersene servire come vero e proprio mezzo di

comunicazione, riuscendo a superare ogni forma di separazione politica, geografica,

linguistica5.

Il cinema si pone quindi al termine dell’evoluzione scientifica dell’icononauta,

precisamente alla fine del XIX secolo, quando furono presentati i primi spettacoli

cinematografici dei fratelli Lumière e dei loro concorrenti6.

4
Questo neologismo, icononauta, è stato inventato da Gian Piero Brunetta che lo ha coniato per un suo

voluminoso e recente studio Il viaggio dell’icononauta dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei

Lumière, Marsilio, Venezia 1997, dove ha descritto in maniera ampia e accurata gli antecedenti che

portarono l’uomo prima alla scoperta della fotografia e poi a quella del cinematografo. Su tale tema cfr.

anche Bruno De Marchi, Umbra Dei e palpebra del cinema, luce, Euresis, Milano 1996 e René Prédal,

Histoire du cinéma – Abrégé pédagogique, CinémAction – Corlet, Paris 1994, tr. it. Cinema: cent’anni di

storia, Baldini&Castoldi, Milano 1996


5
G.P. Brunetta, op. cit., pp. 15-16
6
J. Deslandes, Histoire comparée du cinéma, vol. I, Tournai-Paris 1966; e J. Deslandes – J. Richard,

idem, vol. II, 1968


4

Una notazione interessante potrebbe essere che tali esibizioni erano presentate come

«fotografie animate», «scene animate» o, più semplicemente e più spesso come

«vedute»7.

La veduta è, come si sa, l’atto del vedere8.

Il cinema, dato che in origine era sprovvisto di suono9, rimase perciò solo ed

esclusivamente immagini. Questo accadde fino al 1927 quando, con il film The Jazz

Singer10, il cinema venne “fornito” del sonoro sincronizzato alle immagini e

quest’innovazione mutò completamente la maniera di fare i film11.

Da quel momento fino ai giorni nostri il cinema è rimasto uguale; e altre innovazioni,

come ad esempio il colore, non hanno portato mutamenti paragonabili a questo.

Quindi il cinema nacque prima come immagini in movimento e a queste, solo in un

secondo tempo, si aggiunse il sonoro.

Su questo rapporto tra immagine e suono sono stati molti gli studiosi che hanno

espresso la loro opinione e sempre in un’unica direzione, cioè la supremazia della prima

sul secondo.

7
Jacques Aumont, Le point de vue, in Communications, 1983, n° 38, tr. it. Il punto di vista, in L. Cuccu e

A. Sainati (a cura di), Il discorso del film. Visione, narrazione, enunciazione, Edizioni Scientifiche

Italiane, Napoli 1988, p. 86


8
Fernando Palazzi (a cura di Gianfranco Folena), Novissimo Dizionario della Lingua Italiana, Fabbri,

Milano 1986, vol. II, p. 975


9
In realtà per creare “atmosfera” veniva eseguita della musica da un’orchestra presente in sala, ma tale

contributo non era inerente al film in sé


10
Questa è una data ufficiale. In realtà il processo di invenzione e diffusione della tecnologia sonora si

svolse in fasi diverse nei diversi Paesi, con una quantità di sistemi e brevetti concorrenti.
11
Per una più approfondita analisi di quali mutamenti stilistici causò tale invenzione si rimanda a D.

Bordwell e K. Thompson, Film History: An Introduction, McGraw-Hill, Inc., 1994, tr. it. Storia del

cinema e dei film, Il Castoro, Milano 1997-8, vol. I, pp. 273-93


5

Ad esempio, il semiologo russo Jurij M. Lotman ha sostenuto che “il cinema è la sintesi

di due tendenze narrative, quella figurativa (pittura in movimento) e quella verbale”12,

ma ha chiarito che “gli elementi non figurativi del film (la parola, la musica) svolgono

un ruolo subordinato”13.

Oppure lo studioso francese Jean Mitry nella sua monumentale Esthétique et

Psychologie du cinéma ha scritto che “un film, ce sont d’abord des images”14; ed anche

che “un film est fait pour être vu et uniquement pour être vu”15.

Sfogliando poi altri testi di teoria cinematografica - quali sono, per esempio, Film come

Arte di Rudolf Arnheim16, Cinema Arte Figurativa di Carlo Ludovico Ragghianti17,

Saper vedere il cinema di Antonio Costa18, L’immagine-tempo di Gilles Deleuze19 - si

12
Jurij M. Lotman, Semiotika kino i problemy kinoestetiki, Vaap, Moskva 1972, tr. it. Introduzione alla

semiotica del cinema, Officina, Roma 1979, p. 57


13
Ivi, p. 60-1, cfr. anche Sandro Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche, Parma

1990, p. 6, dove sostiene che “il cinema si presentava, fin dall’inizio, (…) arte della visione”.
14
Jean Mitry, Esthétique et Psychologie du cinéma, Editions universitaires, Paris 1963, vol. I, p. 53
15
Ivi, vol. I, p. 111
16
Rudolf Arnheim, Film als Kunst, E. Rowohl Verlag, Berlin 1932, tr. it. Film come Arte, Il Saggiatore,

Milano 1963, p. 167, dove afferma che “la letteratura si serve delle parole per descrivere; il cinema delle

immagini”
17
Carlo Ludovico Ragghianti, Cinema Arte Figurativa, Einaudi, Torino 1952. Cfr. Antonio Costa,

Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, pp. 93-7, dove viene ripercorso il saggio di Ragghianti, il cui

titolo è esemplificativo dell’opinione del famoso storico dell’arte


18
Antonio Costa, Saper vedere il cinema, Bompiani, Milano 1985, che a p. 25 considera il cinema come

“espressione del momento più avanzato del processo di produzione del visibile”
19
Gilles Deleuze, L’image-temps, Minuit, Paris 1985, tr. it. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1997, p.

264, dove sostiene che “il cinema è arte innanzitutto visiva”


6

trova sempre la tesi secondo la quale, al cinema, le immagini sono sempre più

importanti del suono.

In conclusione si ribadisce che il cinema attiva, come il teatro, sostanzialmente due

sensi, la vista e l’udito, ma soprattutto nel cinema solo la prima risulta fondamentale;

infatti il cinema è nato e si è sviluppato muto, scoprendo solo dopo trent’anni il sonoro.
7

I.2 L’INQUADRATURA

I.2.1 Il limite e la selettività

Il cinema, arte della visione, diventa veramente visibile solo nel momento in cui viene

proiettato su uno schermo cinematografico, il quale possiede determinate caratteristiche.

Innanzitutto ci sono schermi di varie dimensioni: “superfici ridotte, come gli schermi di

molte salette d’essai o culturali, che propongono un’esperienza di fruizione assai simile

a quella domestica della televisione, ma anche superfici assai ampie, che rendono

possibile la massima resa delle componenti spettacolari del cinema”20.

Tuttavia, per quanto grande sia, uno schermo cinematografico non può contenere lo

spazio, dato che questo è un “luogo infinito e illimitato di cui le cose materiali occupano

una parte con la loro dimensione definita”21. Di conseguenza la prima caratteristica

dello schermo è il fatto di essere una superficie finita.

Una seconda notificazione, derivante dalla prima, consiste nel fatto che uno schermo

cinematografico, in quanto finito, non può racchiudere l’intera realtà circostante, ma

soltanto un “ritaglio delle dimensioni dello schermo”22; quindi uno schermo è finito e

limitante23.

20
Francesco Casetti e Federico di Chio, Analisi del Film, Bompiani, Milano 199810, p. 69
21
Salvatore Battaglia (a cura di), Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino 1998, vol. XIX, p.

750
22
Jurij M. Lotman, op. cit., p. 42
23
Si ha una conferma di tale conclusione anche sfogliando un dizionario etimologico come il M.

Cortelazzo e P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1997. Infatti lo

schermo è definito una “superficie bianca su cui vengono proiettate le immagini della pellicola

fotografica o cinematografica” (vol. V., p. 1151). La superficie indica un “ente geometrico che delimita
8

Una terza peculiarità risiede nella semplice funzione riflettente dello schermo

cinematografico, definito, appunto da Jean Mitry come “le cadre de l’image

considérablement agrandi”24. Perciò uno schermo cinematografico, di solito bianco, ha

come unica funzione quella di riflettere l’immagine ingrandita che vi viene proiettata.

Ne deriva che la finitezza e la funzione limitante non sono caratteristiche proprie dello

schermo, ma sono conseguenti di un’attività precedente.

Infatti, se durante la visione di un film, invece di guardare le immagini sullo schermo, si

alza lo sguardo, si noterà un fascio di luce proveniente dalle nostre spalle che colpisce

lo schermo davanti a noi, dando vita al film che stiamo guardando. Questo fascio

luminoso è prodotto dal proiettore cinematografico.

Attraverso tale macchina viene proiettata sullo schermo, mediante lo scorrimento e

l’arresto della pellicola, costituita da un numero variabile di fotogrammi, una serie di

immagini di varia durata. La pellicola in arresto viene illuminata dalla lampada

all’interno del proiettore e così l’immagine impressionata su quel singolo fotogramma,

passando attraverso un obiettivo di focale variabile, appare ingrandita sullo schermo25.

Quindi l’immagine che al cinema vediamo molto grande si riduce, in realtà, alle

modeste dimensioni di un fotogramma della larghezza di 24,89 mm e dell’altezza di

18,67 mm26.

un corpo” (vol. V, p. 1297). Infine il verbo delimitare ha il significato di “segnare il limite, il confine”

(vol. II, p. 320).


24
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 166
25
Per una più esauriente descrizione del funzionamento del proiettore cinematografico si rimanda a Pietro

Macellapi, Corso per l’operatore cinematografico, Anec Lombardia, Milano 1994


26
Mario Bernardo, L’immagine filmata. Manuale di ripresa cinematografica, La Nuova Italia Scientifica,

Roma 1992, p. 70 e Mario Bernardo, Tecnica dell’inquadratura, in F. Borin e R. Ellero (a cura di),

L’inquadratura cinematografica, Circuitocinema – Quaderno n° 50, Venezia 1994, p. 34. Sulle

dimensioni di un fotogramma è doverosa una precisazione, dato che le misure appena fornite riguardano
9

Il fotogramma27, dato che è l’immagine rimpicciolita che apparirà sullo schermo,

riproduce le sue stesse caratteristiche, cioè finitezza e funzione limitante.

Di fatto, quindi, il quadro dello schermo e quello del fotogramma sarebbero omologhi,

dal momento che l’elemento rilevante non risiederebbe nelle dimensioni ma

consisterebbe nel fatto che “toutes les lignes compositionnelles de l’image se rapportent

(…) au couple de lignes horizontales et verticales de ce quadrilatère qui fait fonction de

référentiel absolu”28.

Mitry ha sottolineato giustamente come il quadro o del fotogramma o dello schermo

abbia una funzione di referenziale assoluto, nel senso che durante la creazione del film

si deve tenere conto della natura finita e limitante di tale quadro.

Per creazione del film si intende sia il momento letterale (la sceneggiatura) sia il

momento pratico (le riprese).

la cosiddetta full sceen aperture (silent). A questo proposito è utile leggere cosa scrive Mario Bernardo

nel suo manuale, L’immagine…, cit., a p. 71: “Nel formato accademico 35 mm, che in proiezione diviene

1,33:1, il rapporto di 1,375:1 del negativo occupa verticalmente lo spazio tra quattro perforazioni mentre,

tra il centro di un fotogramma e il seguente vi sono 19 mm. Però, non tutto questo spazio è occupato

dall’immagine. Il fotogramma è spostato verso il bordo destro del supporto, per lasciare liberi i 2,13 mm

della colonna sonora ottica. Sopra e sotto l’immagine si trova una striscia di emulsione non esposta, di

spessore variabile a seconda del formato scelto, che si chiama interlinea. Oltre al formato accademico, nel

35 mm sono diffusi l’1,66:1, l’1,75:1 e l’1,85:1, e il negativo Cinemascope con rapporto 1,18:1 sul

negativo, con un’immagine decompressa in proiezione per suono Stereofonic Perspecta Sound di rapporto

2,55:1 (oggi, tuttavia, con in nuovi sistemi stereofonici, il formato Cinemascope è 2,35:1)”
27
Stephen Heath nel suo testo Questions of Cinema, Macmillan Publishers Ltd., London 1981, a p. 35

nota come il “frame describes the material unit of film (the single transparent photograph in a series of

such photographs printed on a lenght of cinematographic film, twenty-four frames a second) and, equally,

the film image in its sitting, the delimitation of image on screen”


28
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 172
10

Infatti, anche se in maniera diversa, in queste due situazioni si deve o pensare (nel

primo caso) o girare (nel secondo), tenendo sempre conto del limite del quadro

cinematografico.

Se ne ha una palese dimostrazione durante le riprese quando il regista, con tutto lo

spazio infinito a sua disposizione, è costretto a scegliere che cosa deve essere ripreso;

cioè che cosa entrerà nel quadro della macchina da presa e che cosa, invece, ne resterà

fuori. Quanto scelto verrà impresso sulla pellicola e, dopo essere stato sviluppato e

stampato, arriverà al proiettore e quindi sullo schermo.

Di conseguenza, in questo processo risultano fondamentali due elementi: il quadro

dell’immagine (il referente assoluto di Mitry29), con la sua finitezza e la sua funzione

limitante e la scelta compiuta dal regista, di cui si tratterà nel sottoparagrafo I.2.4

quando verrà studiato lo stile.

Per approfondire la nozione di quadro sembra utile partire dalla definizione che viene

fornita dal dizionario: “un oggetto, pezzo o spazio quadrato; una pittura su tavola o su

tela messa in telaio”30. Se, poi, si legge quanto scritto da Gianfranco Folena su questo

termine si trovano diversi spunti di riflessione: “Tornando alla protostoria di quadro,

vediamo dunque che le prime documentazioni e le premesse dell’affermazione pittorica

del termine si collocano nello scorcio del Quattrocento e agli inizi del Cinquecento. Il

che mi pare che renda plausibile (…) che questa accezione pittorica del termine sia un

ispanismo, e lo confermerebbe anche la resistenza dell’ambiente fiorentino. In spagnolo

cuadro, col femminile cuadra, è medievale e attestato ai primordi della lingua nel senso

proprio e specifico di ‘pittura, dipinto’. Non è escluso che negli ambienti artistici italiani

29
A questo riguardo è utile un’altra riflessione dello studioso francese: “les choses devenues image – une

image constituée dans un cadre – sont relatives à ce cadre et lui sont liées phénoménalement ” (in op. cit.,

vol. I, p. 170)
30
M. Cortelazzo e P. Zolli, op. cit., vol. IV, p. 1008
11

ci sia un’evoluzione semantica autonoma a partire dall’accezione architettonica

(‘riquadro’[spazio quadro, porzione quadrangolare di una superficie]31) nei casi in cui il

termine non è riferito alla pittura o indica comunque l’utilizzazione figurativa di una

superficie squadrata. Ma certo nella fissazione progressiva del significato pittorico di

quadro, fino alla cancellazione del tratto geometrico del significato, l’impatto del

termine spagnolo è stato decisivo”32.

A parte la notazione sull’origine ispanica, che in questa sede è di relativa importanza, è

interessante sottolineare come il termine quadro prima di indicare il dipinto

individuasse il supporto, anzi, la forma geometrica del supporto, cioè la cornice.

In particolare Aumont l’ha definita “ciò che fa sì che l’immagine non sia né infinita né

indefinita, ciò che circoscrive l’immagine, che la fissa”33, essa “oltre che limite fisico

(…) è anche e soprattutto limite visivo dell’immagine: ne regola le dimensioni e le

proporzioni”34.

Insomma il quadro cinematografico, inteso sia come cornice sia come il materiale

inscritto in esso, divide lo spazio della sala cinematografica in due parti: lo spazio che

non vi entra, definito fuori quadro, e quello che viene inquadrato, nel senso che si trova

nel quadro35.

31
Ivi, vol. IV, p. 1088
32
Gianfranco Folena, La scrittura di Tiziano e la terminologia pittorica rinascimentale, in Umanesimo e

Rinascimento a Firenze, all’interno di AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, Leo S.

Olschki, Firenze 1983, vol. III, tomo II, pp. 835-6


33
Jacques Aumont, L’œil interminable. Cinéma et peinture, Librairie Séguier, Paris 1989, tr. it. L’occhio

interminabile. Cinema e Pittura, Marsilio, Venezia 1991, p. 70


34
Ivi, p. 71
35
Giulia Carluccio nel suo studio intitolato Cinema e Racconto. Lo Spazio e il Tempo, Loescher, Torino

1988, a p. 47 definisce il quadro in questi termini: “Per quadro possiamo intendere la dimensione

virtualmente statica dell’immagine dinamica e trasformazionale determinata in base al sistema di


12

Jean Mitry spiega in maniera molto chiara tutto questo: “En rapportant à ses [du cadre]

côtés les lignes et les volumes des choses représentées on peut composer l’image

exactement comme un peintre compose son tableau; on peut lui donner une structure

expressive en «cadrant» d’une certe manière le fragment de réalité visé car tout ce que

contient le cadre lui devient relatif au sens géométrique du mot. En lui-même, ce

«contenu» est indépendant de quelque cadre que ce soit mais, par le fait qu’il est

présenté dans un cadre, il s’ordonne relativement à lui”36.

Quindi la messa in quadro, detta comunemente inquadratura, può essere definita

l’azione che “ritaglia il reale oggetto della sua ripresa, ma, contemporaneamente, (…) è

la condizione necessaria all’emergere del discorso filmico”37.

Di conseguenza “a cominciare da questa delimitazione la porzione di realtà profilmica

rappresentata diventa filmica, l’iconico si incrocia con il diegetico, la storia diventa

discorso”38.

posizionamento e strutturazione di un campo visivo o porzione di spazio profilmico nei limiti e nella

superficie del rettangolo o quadro dello schermo, che ne è supporto di iscrizione”.


36
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 167
37
André Gardies, L’espace du récit filmique: Propositions, in D. Chateau, A. Gardies, F. Jost (eds.),

Cinémas de la modernité: films, théories, Klincksieck, Paris 1981, tr. it. Lo spazio del racconto filmico, in

L. Cuccu e A. Sainati, op. cit., p. 57


38
Giulia Carluccio, op. cit., p. 47
13

I.2.2 Lo spazio cinematografico

Si è visto che l’inquadratura risulta essere sia la delimitazione di un campo visivo39 sia

lo spazio comprendente tutto quello che è presente nell’immagine: scene, personaggi,

accessori40.

Ora che abbiamo affrontato il primo aspetto nel sottoparagrafo precedente occupiamoci

del secondo.

Lo spazio cinematografico, selezionato all’interno dell’inquadratura, mostra una

caratteristica di estrema rilevanza: pur trovandosi su di un supporto bidimensionale,

presenta l’illusione della terza dimensione.

Questo effetto dipenderebbe “esclusivamente dall’instaurazione e dal rispetto delle leggi

della prospettiva, leggi che provengono direttamente dall’Alberti e dalla pittura del

Quattrocento. La messa a punto dell’apparecchio della cinepresa è stata subordinata alla

riproduzione integrale degli effetti del sistema prospettico. E’ così che il cinema

riprende a sua volta i principi della visione monoculare (…) come l’avevano concepita i

pittori del Rinascimento”41.

39
Jacques Aumont, L’occhio interminabile…, cit., p. 17. A questo riguardo Lotman, in op. cit., p. 43,

afferma che “uno degli elementi fondamentali del concetto di inquadratura è la delimitazione dello spazio

artistico”
40
Gilles Deleuze, L’image-muovement, Minuit, Paris 1983, tr. it. L’immagine-movimento, Ubulibri,

Milano 1997, p. 25
41
Marc Vernet in AA.VV., Attraverso il cinema…, cit., p. 163. Inoltre i termini essenziali della relazione

tra prospettiva rinascimentale e cinepresa sono riassunti in J. Collet, Cinepresa, sempre nella stessa

raccolta di saggi. Anche Antonio Costa in Cinema…, cit., p. 30, sottolinea questo rapporto: “il legame più

radicale che si può stabilire tra il cinema e la pittura consiste nel fissare nella rappresentazione prospettica

un comune denominatore: in tal modo si fa discendere il cinema da quella tecnica (la prospettiva) che
14

Infatti nel XV secolo fu scoperta42, in pittura, la prospettiva, “cioè la prima modalità

scientifica di rappresentazione dello spazio – che è tridimensionale – su una superficie

piana, che è bidimensionale”43.

Da quel momento in poi, all’interno del quadro si venne a creare un’illusione per

l’occhio umano, un trompe-l’œil, che ha dato parvenza e inganno della possibilità di

entrare nella rappresentazione. Da questo punto di partenza sarebbe derivato il cinema.

Infatti, per Heath, il cinema sarebbe essenzialmente una “machine for the reproduction

of objects (of solids) in the form of images realized according to the laws of the

rectilinear propagation of light rays, which laws constitute the perspective effect”44.

Citando Bazin è lecito perciò affermare che “si può svuotare l’immagine

cinematografica di ogni realtà, salvo una: quella dello spazio”45.

Ma cos’è lo spazio cinematografico?

Aumont risponde in questi termini: “lo spazio non è un percetto, come lo sono il

movimento e la luce, non è visto direttamente ma è costruito, a partire da percezioni

visive, ma anche cinestetiche e tattili. Vedere lo spazio, vorrà dunque dire

costituisce una delle acquisizioni fondamentali della pittura del Rinascimento”. Cfr. anche Casetti – di

Chio, op. cit., p. 75


42
Sulla dibattuta questione se la prospettiva sia stata scoperta o riscoperta nel Rinascimento e per

un’analisi più dettagliata del che cosa sia e come sia strutturata rimandiamo al secondo capitolo di questo

lavoro.
43
Bruno De Marchi, op. cit., p. 223
44
Stephen Heath, op. cit., p. 28; inoltre per un’approfondita analisi della condizione prospettica

dell’immagine cinematografica e il suo funzionamento cognitivo e narrativo si rimanda a David

Bordwell, Narration and Space, in Narration in the Fiction Film, University of Wisconsin Press,

Madison 1985, cap. VII, pp. 99-146


45
André Bazin, Qu’est ce que le cinéma? I-II-III-IV, Ed. Du Cerf, Paris 1958,1959,1961,1962, tr. it.

parziale Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1994, p. 175


15

necessariamente interpretarlo, al prezzo di una costruzione già complessa di un certo

numero di informazioni visive”46.

Le informazioni visive che permettono allo spazio cinematografico, strutturato su una

superficie piana a due dimensioni, di dare il senso illusorio della profondità, sono:

prospettiva, profondità di campo e movimento47.

Per quanto riguarda la prospettiva monoculare, come già accennato poco sopra, si ha un

rapporto diretto tra cinepresa e leggi prospettiche, e quindi è sufficiente porre la

macchina da presa in un punto qualsiasi per avere una strutturazione prospettica dello

spazio, dato che, come dice Balázs, “le linee dell’immagine segnano lo spazio in

prospettiva”48.

La profondità di campo, a differenza della prospettiva, non è direttamente legata allo

statuto cinematografico, ma è “un importante mezzo ausiliario dell’istituzione

dell’inganno di profondità. Se essa è grande, la disposizione su diversi piani degli

oggetti in asse, tutti nitidamente visibili, andrà a rafforzare la percezione dell’effetto

prospettico; se essa è ridotta, i suoi stessi limiti manifesteranno la «profondità»

dell’immagine (il personaggio diventerà nitido «avvicinandosi» a noi, ecc.)”49.

Quindi la profondità di campo è “un dato tecnico dell’immagine che peraltro è possibile

modificare facendo variare la focale dell’obiettivo (la profondità di campo è tanto più

ampia quanto più corta è la focale), o l’apertura del diaframma (la profondità di campo è

tanto più ampia quanto meno è aperto il diaframma)”50.

46
Jacques Aumont, L’occhio interminabile…, cit., p. 92-3
47
J. Aumont - A. Bergala – M. Marie – M. Vernet, Esthétique du film, Nathan, Paris 1994, tr. it. Estetica

del film, Lindau, Torino 1995, pp. 20-1


48
Béla Balázs, Der Film. Werden und Wesen einer neuen Kunst, Globus Verlag, Wien 1952, tr. it. Il film.

Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino, 1997, p. 149


49
J. Aumont – A. Bergala - …, op. cit., p. 24
50
Ivi, p. 23
16

Se ne potrebbe desumere che se da una parte la prospettiva monoculare appartiene

storicamente al cinema, dall’altra, invece, la profondità di campo dipende dall’obiettivo

utilizzato e da procedimenti tecnici valevoli di volta in volta in maniera diversa.

Insomma la prospettiva è nel cinema, la profondità di campo è derivata dal cinema o

quanto meno dalla fotografia.

Questa filiazione del cinema dalla fotografia (e non solo), è ormai un assunto acquisito,

dopo i numerosi studi al riguardo. Naturalmente sembra un’affermazione abbastanza

perentoria, ma se si prova a sfogliare alcuni dei numerosissimi saggi sulla nascita del

cinema si ha conferma di tale rapporto di parentela51.

Considerato questo legame come acquisito, procediamo oltre.

La fotografia, dunque, ha trasferito due sue peculiarità al cinema: la prospettiva e la

profondità di campo. La prima, come si è visto, è di derivazione rinascimentale, la

seconda è dovuta allo sviluppo dell’ottica e degli obiettivi. Esiste però una caratteristica

(tra le altre) posseduta dal cinema che lo differenzia in maniera netta dalla fotografia: il

movimento.

Infatti, questo terzo fautore dell’illusione della profondità non deriva dalla fotografia,

dato che questa “malgré la perspective (…) ne se détache point de son support; elle

colle à l’écran. Ce n’est qu’une photographie”52.

Il movimento appare quindi come una grande novità del cinema, una novità di così

rilevante importanza da spingere lo spettatore a credere che le immagini che stiamo

vedendo sullo schermo si estendano in uno spazio tridimensionale.

Se, ad esempio, si prende in considerazione uno dei primi film proiettati con pubblico

pagante, L’arrivé du train à la gare de Ciotat (1895) dei fratelli Lumière, si riscontrano

due elementi di estrema rilevanza: da una parte il movimento, sia della locomotiva che

51
Cfr. G.P. Brunetta, cit., Bruno De Marchi, cit., D. Bordwell e K. Thompson, cit.
52
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 112
17

delle foglie e del fumo, e dall’altra lo sfruttamento della profondità di campo, dove si

trova “anticipata già quella scala di piani, dal totale al campo medio al primo piano, su

cui il cinema costruisce il suo spazio”53.

Infatti è “le mouvement [qui] détermine le sentiment de profondeur, le crée

effectivement”54, in tal maniera sussegue che “l’image filmique se donne à mon regard

comme une «image spatiale», semblablement à l’espace réel qui s’étend devant mes

yeux”55.

Logicamente, Mitry non è stato l’unico studioso a proporre una riflessione di questo

genere. Ad esempio Lotman ha sostenuto come sia il movimento sullo schermo a

produrre un’impressione di volume56 ed anche gli autori francesi del testo Estetica del

film hanno sottolineato che la “riproduzione del movimento (…) aiuta la percezione

della profondità”57.

Inoltre Mario Pezzella, in un’analisi sullo sviluppo dei procedimenti cinematografici tra

gli anni Venti e Trenta, ha scritto che furono la carrellata, i movimenti di macchina, le

variazioni del punto di ripresa a condurre alla costruzione dello spazio

cinematografico58.

53
Paola Valentini, Dal cinematografo al cinema: Edison, Porter, Lumière, Méliès, in Paola Valentini,

Alberto Ostini, Lontano da Hollywood? Legere enim et non intellegere neglegere est, Euresis, Milano

1996, p.16
54
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 112
55
Ibidem
56
Jurij Lotman, op. cit., p. 49
57
J. Aumont – Bergala A - …, op. cit., p. 20. Inoltre cfr. A. Michotte Van Den Berck, Le caractère de

“réalité” des projections cinématographiques, in Revue Internationale de Filmologie, Octobre 1948, n°

3-4, pp. 257-8.


58
Mario Pezzella, Estetica del Cinema, Il Mulino, Bologna 1992, p. 53. Molto interessanti sono anche i

contributi di Hochberg J. e Brooks V., The Perception of Motion Picture, in Carterette – Friedman (eds.),
18

Insomma il movimento, o degli elementi in scena, come ad esempio nel film dei

Lumière il fumo e le foglie da una parte e i viaggiatori dall’altra, o della macchina da

presa, come il travelling o il dolly, è un mezzo atto a creare l’illusione della profondità

di campo. “In altre parole il cinema riproduce il movimento sia registrando ciò che si

muove dentro il quadro (uomini, animali, oggetti ecc.), sia muovendo l’apparecchio di

registrazione”59.

In conclusione, si può affermare che i fattori dello spazio filmico sono: la prospettiva,

propria della fotografia e, prima ancora, creata in pittura; la profondità di campo, che

come è stato visto è di derivazione fotografica – ottica, ed è ottenuta con variazioni di

focale e di diaframma; ed infine il movimento o del profilmico o della macchina da

presa.

Handbook of Perception, vol. X, 1978, dove si sostiene che è sufficiente il movimento della cinepresa

nello spazio della scena perché i diversi elementi si mettano come in prospettiva e di J.J. Gibson, Motion

Pictures and Visual Awareness, in The Ecological Approach to Visual Perception, Houghton Miffin,

Boston 1979, testo in cui si afferma che i movimenti della cinepresa sono utili strumenti per la percezione

della terza dimensione.


59
Francesco Casetti e Federico di Chio, op. cit., p. 83
19

I.2.3 Organizzazione di un mondo

Lo spazio cinematografico, grazie alle sue particolari caratteristiche, evidenzierebbe che

“en tant que représenté les images filmiques se montrent semblables aux images

immédiates de la conscience mais, en tant que représentation, ce sont des formes

esthétiquement structurées”60. Insomma sarebbero “immagini che non si limitano a

raccontare un’azione, ma che la significano, le danno un senso”61.

Questo indicherebbe che le immagini che compongono lo spazio cinematografico e

quindi “la construction filmique supposent et impliquent nécessairement deux plans

compositionnels: la composition dramatique (…) qui s’organise dans l’espace (…); et la

composition esthétique ou plastique, qui organise cet espace dans les limites du cadre,

quel que soit le champ considéré”62.

Perciò esisterebbero due tipi di «composizione»: da una parte quella relativa alla fabula

della vicenda narrata, dall’altra quella attinente all’organizzazione dello spazio

cinematografico.

Uno degli studiosi che, come è noto, si è soffermato ad analizzare, in tutte le sue

componenti, il secondo tipo di composizione è stato Eric Rohmer, al secolo Maurice

Schérer, nel suo lavoro sull’analisi spaziale del Faust di Murnau63.

Come dato di partenza va subito posta un’affermazione fatta dal regista e studioso

francese nel 1955, quando scrisse che “in ogni grande opera cinematografica si scoprirà

60
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 263
61
Giorgio Cremonini, op. cit., p. 41
62
Mitry, op. cit., vol. I, p. 171
63
Eric Rohmer, L’organisation de l’espace dans le «Faust» de Murnau, Union Général D’Editions, Paris

1977, tr. it. L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau, Marsilio, Venezia 1991. Cfr. anche il

suo studio Le cinéma art de l’espace in La revue du cinéma, n°14, Giugno 1948
20

la presenza di un certo rigore geometrico, non sovrapposto come un vano ornamento

geometrico, bensì come del tutto consustanziale ad essa”64.

Il rigore geometrico indicherebbe un’organizzazione degli elementi che il regista ha a

disposizione per strutturare un mondo con proprie caratteristiche di valore pittorico,

architettonico e quindi filmico.

In altre parole, secondo Rohmer, lo spazio cinematografico si potrebbe suddividere in

tre ambiti: c’è uno spazio pittorico, costituito dall’immagine cinematografica che,

proiettata sul rettangolo dello schermo, viene percepita e considerata come la

rappresentazione più o meno fedele di quella parte del mondo esterno; c’è uno spazio

architettonico, in cui le stesse parti del mondo, naturali o ricostruite, sono dotate di

un’esistenza obiettiva, a prescindere dal tipo di riprese65; ed infine c’è uno spazio

filmico, che lo spettatore non percepisce direttamente, ma che ricostruisce

«virtualmente» nella sua mente, sulla base degli elementi frammentari che il film gli

fornisce.66

64
In «Cahiers du Cinéma», n° 51, 1955; ora in Giovanna Grignaffini (a cura di), La pelle e l’anima.

Intorno alla Nouvelle Vague, La Casa Usher, Firenze 1984, p. 21


65
Sulla «scena filmica» cfr. G. Bettetini, Produzione del senso e messa in scena, Bompiani, Milano 1975,

pp.129-32
66
Eric Rohmer, L’organizzazione…, cit., p. 19. Lo spazio pittorico e quello architettonico sono

assimilabili (facendo le dovute differenze) alla messa in scena e alla messa in quadro di cui parlano

Casetti e di Chio, cit., p. 124, dove si sostiene che “se la messa in scena allestisce un mondo (…) [spazio

pittorico e architettonico], la messa in quadro, invece, definisce il tipo di sguardo che su quel mondo si

getta, la maniera in cui esso è colto dalla macchina da presa [spazio pittorico]”. Inoltre lo spazio filmico è

a sua volta assimilabile alla messa in serie (sempre Casetti – di Chio, p. 126): “Se a livello di messa in

scena e di messa in quadro ci si concentra preferenzialmente sulla singola immagine, nei suoi contenuti e

nelle sue modalità, a livello di messa in serie l’analisi deve passare a considerare più immagini”. Per un

discorso riassuntivo vd. p. 156 dello stesso testo


21

A ognuno di questi tre spazi – che ovviamente devono costituirsi in unità tanto più

coerente quanto più il regista tenderà a mantenere un equilibrio – corrispondono fasi e

competenze diverse del processo di produzione: la fotografia per lo spazio pittorico, la

scenografia per quello architettonico, la messa in scena e il montaggio per quello

filmico67.

Per quanto riguarda lo spazio pittorico – fotografico, vorremmo far notare che il regista

deve adoperarsi a scegliere il tipo di ripresa da effettuare. Il che vuol dire: «dove» porre

la macchina da presa, «quali» obiettivi impiegare, «se» eventualmente utilizzare filtri

colorati o solamente di copertura dalla luce, ecc. Inoltre, l’autore deve decidere in che

maniera la scena debba essere illuminata.68

Per quanto concerne l’ambito architettonico – scenografico, vorremmo sottolineare il

fatto che esso è legato maggiormente alle forme, nel senso che “un’architettura è un

forma (o un insieme di forme) proposta al nostro sguardo: forma di un edificio, di un

oggetto, di un paesaggio”69. Perciò il regista ha per compito di decidere la forma dei

luoghi dove si svolgerà l’azione; logicamente più un luogo è piccolo più sarà facilmente

modificabile ai fini della ripresa, fermo restando che al giorno d’oggi l’utilizzo del

computer ha permesso trasformazioni che in passato erano impensabili.

Infine, per quanto attiene allo spazio filmico, costituito da messa in scena e montaggio,

si potrebbe affermare che esso sia uno spazio virtuale di volta in volta immaginato da

ciascuno spettatore. In questo ambito gli attori, guidati dall’autore, recitano all’interno

dello spazio architettonico – scenografico prescelto e il montatore unisce le singole

riprese secondo una sequenza logica.

67
Antonio Costa, Saper vedere …, cit., p. 231
68
Naturalmente tutte le decisioni che il regista deve prendere sia in questo sia negli altri due ambiti

includono solo gli aspetti visivi di un film, dato che è questo il settore di studio del presente lavoro
69
Eric Rohmer, L’organizzazione…, p. 53
22

Per tirare sommariamente le fila di questo discorso, lo spazio cinematografico è uno

solo, ma, scomposto e scomponibile nelle tre nozioni sopra descritte, prende vita e si

anima nelle mani del regista.

Insomma “qu’il s’agisse en effet de la construction d’un espace, en architecture, de sa

figuration, en peinture, ou de sa mise en valeur, au cinéma, ces compositions sont

fondées sur une science de l’espace, elle – même relative à une science des proportions.

Il s’agit, ici et là, d’organiser une étendue”70.

Quindi un regista – o meglio un autore – nel raccontare una storia, organizza, secondo

proprie modalità stilistiche, lo spazio cinematografico che si crea all’interno

dell’inquadratura.

70
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 195
23

I.2.4 Lo stile

Si è visto nel sottoparagrafo I.2.1 che l’inquadratura «fissa» contemporaneamente sia i

limiti del campo visivo sia l’organizzazione dello spazio al suo interno71.

L’organizzazione all’interno dell’inquadratura implica tutto quello che viene ripreso e il

come viene compiuta quest’operazione.

Detto in maniera più elegante, “l’inquadratura è (…) percepire nella mente, attraverso il

mirino o la macchina da presa, quello stato di cose che poi verrà riprodotto nel film. Si

tratta cioè della scelta, per così dire ‘attimale’, della porzione di mondo fenomenico da

girare e del modo in cui sarà girata. Ossia il cosa e il come”72.

Perciò, lo spazio all’interno dell’inquadratura viene scelto dal regista per raccontare o

esprimere qualcosa. E’ attraverso il che cosa viene ripreso e il come viene effettuato

tutto ciò, che l’autore spinge lo spettatore ad osservare lo spazio selezionato in una certa

maniera rispetto ad un’altra.

L’autore, nel momento stesso in cui decide di riprendere un elemento rispetto ad un

altro effettua una selezione, una scelta tra le infinite possibilità che gli si offrono.

Rudolf Arnheim lo ha esplicitato molto semplicemente: “Siccome i nostri occhi possono

muoversi liberamente in ogni direzione, il nostro campo visivo è praticamente senza

limiti73. Un’immagine cinematografica è invece costretta in limiti precisi. Soltanto ciò

che appare entro questi limiti è visibile, e l’artista del cinema è quindi costretto –

71
AA.VV., Lectures du film, Albatros, Paris 1974, tr. it. Attraverso il cinema. Semiologia, Lessico,

Lettura del film, Longanesi, Milano 1978, p. 214. Sulla doppia funzione di inquadratura: i margini del

quadro e i modi di ripresa, si rimanda anche a Francesco Casetti e Federico di Chio, op. cit., pp. 76-7
72
Massimo Gemin, Dal quadro all’inquadratura, in F. Borin e R. Ellero (a cura di), op. cit., p. 3
73
Della stessa opinione è, ad esempio, Mitry quando afferma che “dans l’espace réel nous ne pouvons pas

choisir, isoler un fragment quelconque; le champ visuel nous est donné en totalité” (op. cit., vol. I, p. 174)
24

avendone la possibilità – a operare una scelta tra gli infiniti aspetti della realtà. In altre

parole può scegliere un motif ”74.

Di conseguenza, non ci può essere obiettività, perché anche se decide di non

commentare le immagini, in realtà il regista, implicitamente e inevitabilmente, offre allo

spettatore il suo vedere.

Mitry ha sottolineato chiaramente il fatto che il cinema non può essere obiettivo: “une

image photographique est la reproduction mécanique d’un réel visé à travers un objectif

et résultant de l’impression des zones d’éclairement de ce sujet grâce à la réaction

photo-chimique d’une émulsion sensible coulée sur un support cellulosique. On peut

donc dire que cette reproduction, en tant que telle, est quasi impersonelle. Mais toute

photographie est le fait d’un photographe. Ayant à enregister un réel quelconque,

l’opérateur accomplit un certain choix: il délimite son cadre. Si besoin est, il organise

les éléments répartis dans le champ en établissant certains rapports harmonieux”75.

Dalla riflessione dello studioso francese deriverebbero due conclusioni: la prima è che

la presenza del regista è inequivocabile, cioè è lui e non la macchina da presa che decide

che cosa riprendere, oggetto, essere umano o paesaggio che sia; la seconda è che oltre a

selezionare il che cosa, l’autore deve stabilire il come, cioè la modalità di ripresa.

Se, ad esempio, il «che cosa» è una mela su di un tavolo, il «come» può essere

rappresentato dalla posizione della macchina da presa rispetto ad essa (in basso, in alto,

di lato, in obliquo, ecc.), da quale obiettivo viene utilizzato (focale corta, media, lunga,

ecc.), da che tipo di luce viene illuminata (diretta, riflessa, oppure lasciata in ombra,

ecc.), dal tipo di sviluppo della pellicola (sottoesposta, sovraesposta, esposta in maniera

corretta, ecc.), ecc.

74
Rudolf Arnheim, op. cit., p. 103
75
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 107
25

Perciò “lo sguardo del narratore [visivo] (…) è il primo organizzatore delle

informazioni attraverso le quali si produce il racconto: egli seleziona uno spazio, ma lo

connota attraverso la posizione che assume rispetto ad esso”76. Infatti Boris M.

Ejchenbaum affermava al riguardo che “nella questione dello stile filmico riveste

un’importanza decisiva il carattere della ripresa (piani, angolazioni, luci, diaframma,

ecc.)”77.

Insomma il regista cinematografico, dopo aver stabilito quale storia raccontare, si trova

di fronte al problema di come renderla visibile 78.

Su questo aspetto della questione, uno degli studiosi russi che più si è occupato di

questo argomento è stato Sergej M. Ejzenštejn, soprattutto nelle sue Lezioni di regia79

(ma anche nei suoi altri numerosissimi saggi). In esse insegnava ai suoi allievi

dell’Institut Kinematografii quale tipo di inquadratura fosse necessaria per rendere una

determinata situazione, che fosse ricca di azione scenica o ricca soltanto di azione

interiore ai personaggi.

Generalmente, il tipo di inquadratura e dunque di ripresa sono legati al genere o

sottogenere a cui appartiene il film80. Se cioè questo rientra nell’area della paura, allora

76
Giorgio Cremonini, Cinema e Racconto: L’Autore, Il Narratore, Lo spettatore, Loescher, Torino 1988,

pp. 9-10
77
Boris M. Ejchenbaum, Problemy kino-stilistiki, in Poetika kino, Moskva 1927, tr. it. I problemi dello

stile cinematografico, in Giorgio Kraiski (a cura di) I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano 1987,

p.32
78
Logicamente il lavoro sul materiale visivo è strettamente legato alla narrazione
79
Sergej M. Ejzenštejn, Na urokack rezissury S. Ejzenštejna, Iskusstvo, Moskva 1958, tr. it. Lezioni di

regia, Einaudi, Torino 1998


80
Per quanto riguarda l’analisi dei generi cinematografici, che non compete a questo studio, si rimanda,

per esempio, ai testi di Kaminsky S.M., Generi cinematografici americani, Pratiche, Parma 1977 e Schatz
26

le immagini scelte dal regista saranno di un certo tipo, tali da creare suspense e ansia

nello spettatore, al contrario, se il suo campo di riferimento è la commedia sentimentale,

il regista cercherà di riprendere i personaggi e la situazione narrata in maniera da

stimolare nello spettatore una partecipazione diversa alla vicenda.

Naturalmente esistono film che non sono classificabili come appartenenti ad alcun

genere cinematografico; ma anche loro, nel momento in cui narrano una specifica

situazione, rientrano nei clichés sopra descritti.

Poco prima abbiamo utilizzato un avverbio che denota e connota lo sviluppo di questo

discorso: generalmente. Tuttavia, il fatto che a seconda dei vari generi vengano

utilizzate determinate tipologie di ripresa è vero, ma solo per coloro che vengono

definiti i mestieranti, cioè registi che si adattano al genere da loro narrato senza lasciare

traccia. Non vi è un qualcosa che renda riconoscibili visivamente i loro film. Manca

loro il cosiddetto stile visivo, il motif di cui parlava Arnheim.

Coloro che vengono definiti autori riescono invece a trasferire nei loro film certe

particolarità visive che vengono quindi a caratterizzare ogni loro opera.

Queste costituiscono lo stile, o almeno gli stilemi di un narratore visivo.

Lo stile è qualcosa di variamente labile, non facilmente classificabile, a cui comunque

sono riconducibili secondo Segre almeno due accezioni: “a. l’assieme dei tratti formali

che caratterizzano (in complesso o in un momento particolare) il modo di esprimersi di

una persona, o il modo di scrivere [o di riprendere] di un autore; b. l’assieme dei tratti

formali che caratterizzano un gruppo di opere, costituito su basi tipologiche o

storiche”81.

T., Hollywood Genres: Formulas, Film-making and the Studio System, Temple University Press,

Philadelphia 1981
81
Cesare Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1985, p. 307. Cfr. anche

Francesco Casetti e Federico di Chio, op. cit., p. 74, dove vengono trattati i codici stilistici che sono
27

Inoltre se si prende la briga, per esempio, di consultare il dizionario etimologico

Cortelazzo-Zolli, lo stile viene essenzialmente definito secondo tre ambiti. Il primo

attinente all’ambito letterario, è la “qualità dell’espressione risultante dalla scelta degli

elementi linguistici che l’individuo compie”. Il secondo, proprio della sfera musicale, è

il “modo particolare di esprimersi musicalmente”. Il terzo, infine, concernente l’area

artistico-visivo, è “in pittura, architettura e simili, l’insieme degli elementi e delle forme

caratteristiche d’un autore, una scuola, un’epoca”82.

Il cinema, arte del visibile, appartiene al terzo gruppo.

definiti come “codici che associano ai tratti che consentono la riconoscibilità degli oggetti riprodotti altri

tratti che rivelano la personalità e l’idiosincrasia di chi ha operato la riproduzione”.


82
M. Cortelazzo e P. Zolli, op. cit., vol. V, p. 1274. Risulta pertinente anche la definizione proposta da

Giorgio Cremonini in Stanley Kubrick. Shining, Lindau, Torino 1999, pp. 85-6, dove chiosa lo stile di un

autore come “un insieme di procedimenti fedeli a se stessi nell’impostazione generale, ma capaci di

adattarsi con precisione al senso delle singole opere: perché le storie cambiano, ma l’autore è sempre lo

stesso”.
28

I.3 VI PRESENTO STANLEY KUBRICK

I.3.1 La scelta

Nel paragrafo precedente si è cercato di descrivere in che cosa consista lo spazio

cinematografico e come un autore possa strutturarlo per esprimere un proprio stile.

Ora si tenterà di affrontare il cinema di Stanley Kubrick prima dal punto di vista della

composizione drammatica di cui parlava Mitry, per poi passare ad analizzare

l’organizzazione spaziale presente nei suoi film. L’obiettivo è mostrare come esistano

diversi elementi di contatto tra questi due ambiti della creazione cinematografica del

regista newyorchese.

Innanzitutto una premessa. Per quanto riguarda l’aspetto narrativo della filmografia

kubrickiana, questo lavoro intenderebbe analizzarne solo una parte, effettuando quindi

una scelta, non arbitraria, ma basata su dichiarazioni dello stesso regista e su riflessioni

di studiosi.

Infatti, benché i film di Kubrick siano tredici83, tuttavia solo dieci di questi sono

completamente ascrivibili al regista statunitense, nel senso che sono stati sotto il suo

83
Stanley Kubrick ha girato tredici lungometraggi: Fear and Desire (1953), Killer’s Kiss (1955), The

Killing (1956), Paths of Glory (1957), Spartacus (1960), Lolita (1962), Dr. Strangelove or: How I

Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (1964), 2001: A Space Odyssey (1968), A Clockwork

Orange (1971), Barry Lyndon (1975), Shining (1980), Full Metal Jacket (1987), Eyes Wide Shut (1999).

In realtà l’ultimo canto totalmente kubrickiano è stato Full Metal Jacket (1987). Infatti Eyes Wide Shut, la

sua ultima e forse fatidica fatica cinematografica, non è stato portato completamente a termine, a causa

dell’improvvisa scomparsa del regista il 7 marzo 1999. Del resto la Warner Bros., benché il missaggio del

film non sia stato ultimato da Kubrick, lo ha fatto ugualmente uscire, negli USA, il 16 Luglio 1999

(decisione fondata soprattutto su motivi finanziari, dato che in quest’opera la casa di produzione

statunitense ha investito circa centocinquanta milioni di dollari). A parte questo non è che in questi anni
29

totale controllo sotto ogni aspetto, dalla scelta del soggetto fino alla scelta

dell’immagine sulla locandina e alla cura del doppiaggio.

Quindi per opera kubrickiana si intende un film sul quale, sia dal punto di vista

narrativo che da quello visivo, il regista americano ha avuto un potere assoluto.

Che cosa indica il potere assoluto?

Se si consulta un buon dizionario italiano si trova che il verbo potere indica l’essere in

grado di fare qualcosa84, mentre l’aggettivo assoluto denota la facoltà di essere libero da

restrizioni o limiti85.

Da questo se ne deduce che possedere il potere assoluto in un determinato ambito vuol

dire essere in grado di fare (nella specifica sfera d’azione) qualunque cosa senza alcuna

restrizione.

Il discorso, riferito a Stanley Kubrick, si chiarifica in questi termini. Il regista americano

non ha potuto godere di un potere assoluto solo su tre dei suoi film: Fear and Desire

(1953), Killer’s Kiss (1955) e Spartacus (1960). Nel senso che nella realizzazione dei

primi due non possedeva ancora tali conoscenze tecniche, artistiche e culturali da

permettergli una totale libertà di manovra; per quanto riguarda invece il terzo film, i

limiti non furono dovuti ad una sua ancora acerba maturazione, quanto al volere del

divo Kirk Douglas.

Una chiarificazione ulteriore di questa situazione la si può trarre leggendo le

dichiarazioni dello stesso regista sui tre film.

Kubrick fosse rimasto con le mani in mano. Infatti, nel 1989 aveva acquistato i diritti del romanzo di

Süskind Das Parfum. Inoltre aveva lavorato su un progetto inerente la tragedia della seconda guerra

mondiale e dei campi di concentramento, poi accantonato dopo la realizzazione di Schindler’s List di

Steven Spielberg. Infine aveva in progetto la realizzazione di un film di fantascienza intitolato A.I.
84
Palazzi, op. cit., vol. II, p.662
85
Ivi, vol. I, p. 87
30

Riferendosi a Fear and Desire ha affermato che “Pain is a good teacher”86, “it’s not a

film I remember with any pride, except for the fact it was finished”87, “a very inept and

pretentious effort”88. Inoltre quando nel 1991 e poi nel 1994 il film venne presentato di

nuovo al pubblico il regista chiese alla Warner Bros. di realizzare una dichiarazione

nella quale era specificato che “he [Kubrick] considers it [Fear and Desire] nothing

more than a ‘bumbling, amateur film exercise’, written by a failed poet, crewed by a

few friends, and ‘a completely inept oddity, boring and pretentious’”89.

Per quanto riguarda Killer’s Kiss, è molto illuminante ciò che ha sostenuto in

un’intervista rilasciata a Walter Renaud “It’s better than Fear and Desire, but it’s still a

pretty idiotic film. As far as the directing is concerned, there are a few very good bits,

but it’s an idiotic subject. The actors’ playing is extremely mediocre, and… what can a

movie be worth when the story is idiotic and the actors are bad?”90.

Perciò, in queste due opere cinematografiche si possono rilevare punti di contatto e, in

nuce, elementi che si ritroveranno in tutto il cinema di Kubrick. Ma non sono elementi

tali da consentire un’analisi proficua del livello narrativo. Perciò si analizzerà solo

Killer’s Kiss, ma esclusivamente da un punto di vista visivo, dato che, come ha detto

Kubrick, questo film presenta “a few very good bits”.

86
Intervista rilasciata a Joanne Stang pubblicata il 12/10/58 sul New York Time Magazine
87
Intervista rilasciata a Joseph Gelmis in The Film Director as Superstar, New York 1970
88
Intervista rilasciata a Robert Brustein in Out of this world, in The New York Review of Books, 6/2/70
89
Thelma Adams, A ‘lost’ Kubrick unspools, in New York Post, 14/1/94. Per dovere di completezza va

comunque segnalato il parere di Paolo Cherchi Usai il quale, in Scacco al generale: analisi di «Fear and

Desire», in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, Marsilio, Venezia 1999, p. 131, sostiene che “Fear

and Desire è, in nuce, l’intera galassia Kubrick, nel momento della propria esplosione”.
90
Intervista rilasciata a Walter Renaud, From Killer’s Kiss to 2001: A Space Odyssey, in Positif n° 100-

101, Dicembre-Gennaio 1969, ora in Michel Ciment (a cura di), Stanley Kubrick, Giorgio Mondadori – la

Biennale di Venezia, Milano 1997, p. 48


31

Per quanto poi riguarda Spartacus, il discorso è un po’ particolare, perché, come si sa,

Kubrick subentrò “ad Anthony Mann all’interno di un progetto sostanzialmente voluto e

coordinato da Kirk Douglas”91. Di conseguenza “Kubrick non poté controllare come al

suo solito l’intero apparato del film, ma dovette limitarsi a mettere in scena un soggetto

e una sceneggiatura già disposti, senza avere troppa libertà di rielaborazione”92.

Infatti lo stesso Kubrick ha affermato: “Then I did Spartacus, which was the only film

that I did not have control over, and which I feel was not enhanced by that fact. It all

really just came down to the fact that there are thousands of decisions that have to be

made, and that if you don’t make them yourself, and if you’re not on the same wave

length as the people who are making them, it becomes a very painful experience, which

it was. Obviously I directed the actors, composed the shots, and cut the film, so that,

within the weakness of the story, I tried to do the best I could”93.

Riferendosi a questo film, Norman Kagan ha ritenuto coerente analizzare

essenzialmente “the composition, direction, and cutting rather than story line and

characters”94, dato che secondo lui “the character Spartacus is to me incompatible with

Kubrick’s film, for he is a man who undergoes a profound personal transformation,

from good bright tough to heroic democratic-general. Such a character shift is unknown

in all the director’s films”95.

91
Ruggero Eugeni, Invito al cinema di Kubrick, Mursia, Milano 1995, p. 50-1
92
Ivi, p. 51
93
Intervista rilasciata da Stanley Kubrick a Charles Kohler in Eye, August 1968, pp. 84-6, cfr. anche

Walter Renaud, op. cit. p. 51, dove Kubrick dice che “Spartacus is the only film I didn’t have absolute

control over”.
94
Norman Kagan, The Cinema of Stanley Kubrick, New Expanded Edition, Roundhouse, Oxford 1997, p.

71.
95
Ivi, p. 80
32

In altre parole, lo studioso americano si è soffermato a studiarne solo l’aspetto visivo e

non quello narrativo. Per questo film, si seguirà la linea di studio proposta da Kagan,

precisando d’altronde che Spartacus è stato considerato in tutto e per tutto un’opera di

Kubrick solo dalla critica francese.

Benché esista questa eccezione critica, per il nostro lavoro si preferisce comunque

avvalerci delle dichiarazioni dello stesso regista. Si ritiene che sia sempre meglio

tornare alla fonte.


33

I.3.2 Passeggiata nella narrativa Kubrickiana

La filmografia kubrickiana, analizzata da un punto di vista narrativo, mostra peculiarità

tali da renderla un corpus unitario: infatti in ciascun film evidenzia alcune

caratteristiche, verificabili in maniera più o meno chiara, ma sempre presenti.

Innanzitutto è riscontrabile una tematica strutturale96, per cui le opere di Kubrick sono,

come ha affermato Giuliani, suddivisibili in due parti distinte, in due metà “de longueur

et de densité le plus souvent inégales, qui semblent se faire face, se regarder peut-etre:

une ascension et une chute - A Clockwork Orange, Barry Lyndon, Lolita d’une certaine

manière -, une répétition générale et un échec - The Killing, Full Metal Jacket -, une

programmation et son dérèglement -, Dr. Strangelove, 2001, et encore The Killing”97.

In secondo luogo è possibile rilevare la presenza costante di due temi: da un lato

l’illusione da parte del protagonista di controllare il proprio destino, e dall’altro la sua

incapacità di guidare la propria vita secondo la propria volontà, dovuta al suo essere in

balìa degli eventi, del caso, di un volere superiore.

Queste tre peculiarità appena esposte verranno evidenziate, di volta in volta, in ciascun

film del regista americano.

Per quanto esposto nel sottoparagrafo precedente, quest’analisi prenderà le mosse da

The Killing (1956), il film per il quale Kubrick fu considerato il nuovo Orson Welles, e

definito da Ciment “probabilmente il primo «vero» film di Kubrick”98.

Johnny Clay, da poco uscito di prigione, organizza una rapina all’ippodromo. Per
realizzare il suo piano costituisce una banda composta da George, Mike, Randy Kennan e
Martin. George e Mike sono entrambi dipendenti dell’ippodromo (il primo come cassiere,

96
Ringrazio il professor Eugeni per questo suggerimento
97
Pierre Giuliani, Stanley Kubrick, Rivages, Paris 1990, p. 11
98
Michel Ciment, Lo spazio e il tempo nell’opera di Kubrick, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Stanley

Kubrick, cit., p. 29
34

il secondo come barista), Randy è un poliziotto e Martin è il finanziatore dell’impresa.


Inoltre assolda, come esterni al gruppo, Maurice, un picchiatore russo che prima della
rapina dovrà provocare una rissa e Nikki, un killer, che dovrà uccidere un cavallo durante
la settima corsa, in modo tale da ritardare il pagamento delle vincite e far in modo che la
cassaforte resti piena di soldi. A parte qualche intoppo il piano riesce. Tuttavia Val,
l’amante della moglie di George, con la speranza di impadronirsi dei soldi del furto,
sorprende Mike, George, Randy e Martin mentre stanno attendendo l’arrivo di Johnny
con il denaro. George, però, appena scoperto che sua moglie Sherry l’ha tradito con Val,
scatena una carneficina. Johnny, arrivato sul luogo della strage e scoperto quanto è
accaduto, decide si scappare con l’intero bottino. Ma all’aeroporto gli viene impedito di
portare la valigia con i soldi come bagaglio a mano, dal momento che è troppo
ingombrante. E mentre questa è trasportata verso l’aereo un cagnolino taglia la strada al
trenino dei bagagli provocando la caduta della valigia e lo sparpagliamento di tutti i soldi
nella notte. Johnny allora si lascia arrestare, ritenendo che non valga più la pena
scappare.99

Da questo breve sunto del plot, il quale “dà solo un’idea pallida del film”100 dato che,

come per tutte le opere di Kubrick quello che conta è “proprio come vi si racconta il

racconto”101, è già posta in evidenza “l’idea che i soggetti siano mossi da forze

decisionali incalcolabili e incoercibili, che vanificano e ridicolizzano i tentativi

dell’uomo di sostituirsi ad esse nella pianificazione dell’esistenza”102.

Si ha “l’illusoria perfezione del congegno messo a punto da Johnny”103 che lo porta a

pianificare il futuro nei minimi dettagli, ma la caduta, la sua impossibilità di controllare

gli eventi sono dietro l’angolo, in questo caso nelle vesti di un cagnolino.

Quindi si tratta di un personaggio agito e non agente.

Perciò “in The Killing il destino è da intendersi non soltanto come «destino» sociale, o

psicologico, ma anche, alla lettera, come fatalità, come intervento di forze superiori.

L’irrazionale che insorge contro il progetto di Johnny (…) comprende una serie di

99
Per più ampi riassunti di questo come degli altri film di Kubrick si rimanda a Norman Kagan, op. cit.
100
Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, L’Unità – Il Castoro, Milano 1995, p. 35
101
Ibidem
102
Ruggero Eugeni, op. cit., p. 33
103
R. Lasagna e S. Zumbo, I film di Stanley Kubrick, Falsopiano, Alessandria 1997, p. 80
35

elementi imponderabili che, per vie misteriose, contraddicono tale progetto e ne

decretano infine il fallimento”104.

Quindi, per sintetizzare, in questo film sono presenti: la divisione in due parti della

storia, costituite da organizzazione del colpo e suo fallimento; l’illusione di Johnny di

aver ideato un piano perfetto e di poter quindi essere artefice del proprio destino;

l’impossibilità da parte di Johnny di fare qualcosa quando il cagnolino Fifì causa il suo

arresto. A questo riguardo è emblematica la risposta che dà alla sua ragazza che l’ha

incoraggiato a scappare: “A che vale ormai”.

Queste tematiche si possono ritrovare, in maniera diversa, anche nel successivo film,

girato in Germania, Paths of Glory (1957).

Durante la prima guerra mondiale, il generale Broulard, dello Stato Maggiore francese,
consiglia (dando in realtà un ordine) al generale Mireau di conquistare il “formicaio”, una
postazione tedesca impossibile da attaccare, pronosticandogli una promozione in caso di
successo. Il generale Mireau va quindi dal colonnello Dax, suo sottoposto al comando
delle truppe in trincea, per ordinargli l’attacco. Benché Dax spieghi al generale l’assurdità
di tale impresa, che comporterebbe numerosissime vittime tra le fila francese, Mireau
resta fermo sulle sue posizioni. L’attacco naturalmente non riesce. Durante la battaglia
Mireau ordina addirittura di sparare contro i suoi stessi soldati per costringerli a
conquistare il “formicaio”. A causa del fallimento dell’impresa il generale Mireau chiede
a Broulard la decimazione della sua truppa per viltà, ma alla fine si “accontenta” di soli
tre uomini. La loro difesa viene affidata a Dax che, però, non può far nulla contro un
tribunale militare già deciso a condannare i tre prima del dibattimento. Anche la scoperta
da parte di Dax e da questi riferita a Broulard, dell’ordine di Mireau contro i propri
soldati, non riesce a salvare i tre militari dall’esecuzione. Comunque Broulard, dopo la
morte dei tre, prevede un’inchiesta per Mireau a causa del suo comportamento durante la
battaglia, e offre a Dax il posto rimasto vagante. Il colonnello rifiuta sdegnosamente.
Infine in un’osteria i soldati della truppa prima deridono una ragazza tedesca che canta e
poi, commossi, seguono in coro il suo canto. Tale comportamento spinge Dax a
procrastinare, di qualche minuto, l’annuncio del ritorno in prima linea.

In questo film ritorna in maniera evidente il tema dell’impossibilità da parte dell’uomo

di poter controllare il proprio destino.

Se tale assunto sembra palese nel personaggio di Dax e dei suoi sottoposti (la disciplina

104
Ivi, p. 81
36

militare impone questo105), lo è, in realtà, anche per il generale Mireau. Infatti Mireau

ritiene di poter pianificare la propria promozione a danno dei soldati ai suoi comandi

(ascesa), ma dopo la mancata conquista del “formicaio” e soprattutto dopo la denuncia

di Dax per il suo operato durante la battaglia, risulta evidente che non solo non sarà

promosso (caduta), ma verrà anche sostituito da qualche altro militare. Mireau pensa

perciò di poter guidare il suo destino, ma il suo progetto non si realizza, rivelandosi

quindi una mera illusione.

Torna quindi opportuna l’osservazione di Kagan: “There are not «paths of glory», all

paths dooms them all, including Mireau himself. Dax, who seems to have walked the

Glory Road, is condemned and hated when he tries to assert the principles he lives

by”106; insomma “Dax can do nothing to help them [the soldiers] or himself, for he is

now one of them, doomed and controlled”107.

Di conseguenza ritornano i tre aspetti descritti all’inizio: la divisioni in due parti del

film, (tentativo da parte di Mireau di guidare la propria promozione e relativo

fallimento); l’illusione di Mireau di controllare, anche con la forza, il proprio destino

(infatti come ultimo colpo di coda fa giustiziare tre presunti codardi); ed infine la sua

incapacità di gestire le situazioni che si trova ad affrontare (durante l’assalto al

“formicaio”, dato che l’attacco sta fallendo, ordina di sparare sui suoi uomini; inoltre

105
A questo riguardo è interessante notare che Kubrick ha affrontato l’universo militare e la guerra in

diversi film: Fear and Desire, Paths of Glory, Dr. Strangelove e Full Metal Jacket. Questa predilezione

non è certo casuale, dato che, come afferma Eugeni, cit., p. 107, “il fine ultimo dell’esercito (…) è il

controllo più assoluto dell’individuo, la sua meccanizzazione”. Di conseguenza il fatto che un militare,

anche del grado di colonnello come Dax, sia impossibilitato a dirigere il proprio destino, ne sembrerebbe

una logica conseguenza.


106
Norman Kagan, op. cit., p. 64
107
Ivi, p. 66
37

non sa fare altro che inveire contro Dax, quando gli viene paventato dal generale

Broulard il pericolo di un’inchiesta militare).

Dal mondo militare Kubrick, dopo l’esperienza di Spartacus, giunse a mettere in scena

un voluminoso romanzo di Vladimir Nabokov, realizzando un’opera che all’epoca

suscitò un grande scalpore: Lolita (1962).

Humbert Humbert, professore di letteratura francese e inglese, cerca casa a pensione in


una cittadina della nuova Inghilterra. Durante la visita alla casa di Charlotte Haze ha una
pessima impressione della donna e starebbe già per andarsene, quando nota la figlia di lei,
Lolita, una ragazzina dodicenne di cui subito si innamora. Humbert allora decide di
stabilirsi presso di loro. Dopo il suo arrivo Charlotte fa all’uomo una corte spietata fino a
quando lui accetta la sua proposta matrimoniale. La sua decisione è dipesa dal fatto che se
non avesse accettato, non avrebbe più rivisto Lolita, partita per il campeggio estivo. La
vita coniugale però, gli risulta subito insopportabile spingendolo quasi ad uccidere
Charlotte. Non avendone il coraggio, al suo posto se ne occupa il destino, nelle sembianze
di un giovane automobilista, che la investe. Humbert, ormai vedovo, raggiunge Lolita al
campeggio e con lei, dopo la loro prima esperienza amorosa, compie un viaggio
attraverso l’America, fino ad una cittadina dove crede di essere al sicuro con la ragazza.
Invece un giorno Lolita, mentre si trova in ospedale, gli viene “rubata” da un fantomatico
zio (in realtà un bizzarro commediografo, Clare Quilty). Dopo quattro anni riceve una
lettera di Lolita. Raggiunta la ragazza, Humbert scopre che ormai è sposata, incinta e
bisognosa di soldi per andare a cercare fortuna in Alaska con il marito. Humbert, ancora
innamorato, dopo essere stato informato da Lolita che fu Quilty ad ingannarlo
ripetutamente e a portarla via da lui, si dirige verso il castello del commediografo e lo
uccide.

Anche in questo film, la tematica strutturale e i due temi risaltano riassunti in maniera

molto evidente.

Infatti il film è divisibile in due metà ben distinte: la prima in cui Humbert desidera

Lolita e cerca ogni occasione per starle vicino, illudendosi di poter controllare e guidare

gli eventi a proprio favore. Infatti ne sposa la madre ottenendo così la possibilità di

rivedere e approfittare di Lolita. Tale parte del film, che ha il suo apice nel rapporto

d’amore tra i due nella camera d’albergo, può essere considerata come l’ascesa di cui

parlava Giuliani, nel senso che Humbert dopo varie traversie riesce ad unirsi a Lolita e

ritiene quindi di poter vivere per sempre con la ragazzina che ama. E’ il momento di

massima felicità per lo scrittore.


38

La caduta, e quindi la seconda metà del film, comincia a questo punto, quando

Humbert, messosi a vivere con Lolita, diventa paranoico e gelosissimo, non riuscendo

più a gestire e a controllare la ragazzina, fino a quando lei scapperà con Quilty.

I due temi sono anch’essi palesi.

Humbert, da una parte, si illude di poter controllare la sua vita e di poter vivere per

sempre con Lolita dopo la morte di Charlotte, ma dall’altra risulta essere solo una

pedina guidata dal caso (Charlotte, infatti, non è uccisa da Humbert, che non ha il

coraggio di spararle, ma muore per una fatalità, un incidente stradale) e da Quilty

(Humbert, non solo viene ripetutamente ingannato da Quilty attraverso proteiformi

travestimenti, ma è anche spinto a compiere azioni alle quali era contrario, come ad

esempio accettare che Lolita partecipi alla recita scolastica).

Comunque anche gli altri due personaggi principali, ossia Lolita e Quilty, che appaiono

in grado di decidere della propria esistenza, non sono invece liberi come sembrano.

Infatti Lolita, che pare dominare Humbert, è a sua volta dominata da Quilty; e lo stesso

Quilty che, in un primo tempo, sembra dirigere tutta la vicenda come un burattinaio

dietro le quinte, alla fine viene ucciso da Humbert, non essendo più in grado di

ingannarlo e controllarlo108.

Il successivo film, girato da Kubrick nel periodo più acuto della guerra fredda (infatti

nel 1961 era stato eretto il muro di Berlino), ripropone ancora una volta le tre tematiche.

Il suo titolo è Dr. Strangelove, or How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb

(1964).

Il generale Ripper, un maniaco depressivo a capo della base strategica americana di


Burpelson, credendo che i Russi siano riusciti ad inquinare le acque americane, dà

108
A questo riguardo appare valevole di nota quanto afferma Norman Kagan, op. cit., p. 108, secondo il

quale “Humbert’s own emotional obsession is always frustrating and degrading, eventually condemning

him to emptiness and death. The sly, scheming Lolita is emotionally enslaved as well. Finally, all Quilty’s

quick intelligence and game playing skill fails to save him in the end”.
39

l’ordine ai suoi B52 di bombardare l’URSS con armi nucleari. Inoltre mette la base in
stato di allerta, facendo credere ai soldati che sia cominciata la guerra con i Russi. Nel
frattempo nella War Room del Pentagono, il presidente degli Stati Uniti, Muffley, dopo
qualche perplessità, comprende il pericolo che si profila: una guerra atomica con l’URSS.
Volendola impedire, contatta il primo segretario russo, anch’egli non intenzionato a
scatenare una guerra, ma pronto, se attaccato, a colpire il territorio americano. Comunque
il pericolo potrebbe essere evitato se si scoprisse il codice segreto per richiamare i
bombardieri, a conoscenza del solo generale Ripper. Allora il presidente Muffley, da un
lato ordina di attaccare la base di Burpelson per riuscire a scoprire il codice di rientro,
dall’altro decide di far abbattere, in accordo con il governo russo, i bombardieri
americani. Nel frattempo nella base di Burpelson il generale Ripper ha preso in ostaggio
il colonnello inglese Mandrake poiché aveva scoperto come non vi fosse alcuna guerra in
atto con i Russi. Ripper si difende allo stremo contro l’attacco alla base ma, vistosi
sconfitto, decide di suicidarsi. Comunque Mandrake, grazie a degli appunti lasciati dal
generale riesce a capire quale sia il codice e, superata l’ostilità dell’ottuso colonnello
Guano (a capo dei soldati americani che hanno conquistato la base), lo comunica alla War
Room. Tuttavia un B52, quello comandato dal maggiore Kong, è stato danneggiato, ma
non abbattuto dai Russi. Il danno, in particolare, riguarda la strumentazione radio; quindi
il bombardiere è isolato e non può ricevere il codice di rientro. Perciò viene sganciata una
bomba atomica sull’URSS, provocando, da parte sovietica, l’innesco automatico della
Bomba Fine del Mondo che annienterà ogni essere umano sulla terra. A questo punto
nella War Room il Dr. Strangelove, grottesca figura di scienziato di origine tedesca
costretto su una sedia a rotelle, pregustando la sopravvivenza in grotte sotterranee di un
nutrito numero di donne con un ristretto gruppo di uomini (tra cui naturalmente tutti i
generali della War Room), conclude esaltato e “miracolato” il suo discorso. Riesce infatti
ad alzarsi in piedi mentre si vedono numerose esplosioni di bombe atomiche.

La situazione di questo film mostra in modo quasi “accademico” la struttura filmico –

narrativa proposta da Giuliani. Si tratterebbe di “programmation et son dérèglement”109.

Infatti, da una parte si ha il tentativo degli uomini all’interno della War Room (ed anche

di Mandrake) di scongiurare il pericolo nucleare della fine del mondo; dall’altra invece,

il ruolo preponderante lo assume il maggiore Kong che, a causa della mancata ricezione

del nuovo ordine, spinge il destino in una direzione non prevista dagli uomini del

presidente americano e del segretario sovietico. D’altronde anche lo stesso Kong, come

militare, è un soggetto passivo, dato che deve sottostare a degli ordini. Per cui risulta

chiaro che i “Kubrick’s characters are driven or passive”110.

Infatti tutti gli uomini, sono sottoposti ad una volontà meccanica, quella del computer

sovietico, che fa esplodere la bomba “fine del mondo”.

109
Giuliani, cit., p. 11
110
Norman Kagan, op. cit. p. 80
40

Il film che comunque più di ogni altro esemplifica questa tematica e quindi, in maniera

lata, la concezione kubrickiana dell’uomo e del suo destino è 2001: A Space Odyssey

(1968).

Nella preistoria umana un gruppo di scimmie vive vicino ad uno stagno d’acqua dove può
dissetarsi. Un giorno questo gruppo viene scacciato da altre scimmie. La mattina dopo il
primo gruppo di scimmie è “visitato” da un monolite nero che emette un suono
ininterrotto. Tale contatto porta il capo della tribù all’invenzione della prima arma, un
osso, col quale guida le scimmie contro il gruppo rivale per la riconquista dello stagno e,
uccidendone il capo, compie il primo delitto della Storia. Nel 2001, con un salto
temporale lunghissimo, si vede il Dr. Floyd che, sulla base spaziale di Clavius, ad un
convegno di scienziati, comunica la notizia della scoperta di un monolite nero su un
cratere lunare. Questa sarebbe la prova dell’esistenza degli extraterrestri. Diciotto mesi
più tardi l’astronave Discovery si sta dirigendo verso Giove dove, probabilmente, si trova
un altro monolite, dato che quello trovato sulla luna emette dei segnali proprio verso
questo pianeta. A bordo della Discovery ci sono Frank Poole, David Bowman, tre membri
dell’equipaggio ibernati e HAL 9000, un computer che gestisce l’intera astronave. Ma
Quando HAL, che non sbaglia mai, commette un errore, Frank e David decidono di
disattivarlo. Tuttavia il computer si accorge delle loro intenzioni e come rappresaglia
uccide Frank e i tre ibernati, prima di essere scollegato da David. Bowman, dopo essere
riuscito a giungere nei pressi di Giove, dove il pianeta, la navicella con lui a bordo e il
monolite si allineano, comincia un viaggio psichedelico che lo porterà in una stanza
settecentesca. Qui passa rapidamente dalla giovinezza alla vecchiaia e, ormai in punto di
morte, indica il monolite apparsogli davanti al letto. Come ultima immagine si vede un
feto luminoso che rinasce dal letto e si dirige verso la Terra.

In quest’opera cinematografica la divisione in due parti è evidente nell’episodio in cui

David e Frank, assieme ad altri astronauti ibernati, si stanno dirigendo verso Giove.

Infatti da una parte si ha l’illusione umana di governare il proprio destino, addirittura

allungando la vita attraverso l’ibernazione; e dall’altra l’impossibilità di farlo (dapprima

a causa di HAL e poi degli extraterrestri che, attraverso il corridoio luminoso,

conducono David in una stanza arredata in stile settecentesco).

Questo “film è da considerare un grande poema epico della Ragione, cioè la

ricostruzione in chiave mitologica e immaginaria della storia della Razionalità

occidentale come strumento propriamente umano di progresso, di civiltà, di ordine, di

pace, di avanzamento nella conoscenza e di dominio del mondo. (…) [Kubrick] smonta

gli assunti dell’ottimismo positivista individuando, dietro il mito della Ragione, la

presenza dialetticamente attiva dei suoi opposti. (…) La storia della civiltà e
41

dell’intelligenza non è autodiretta ma eterodiretta. (…) l’uomo appare così come una

specie di marionetta”111.

Si sono volute mettere in evidenza queste riflessioni dello studioso Eugeni perché siamo

giunti al punto nodale della questione. E’ su questo tema che ruota tutto il cinema di

Kubrick e se “forse è azzardata l’interpretazione che vede la storia della civiltà e

dell’intelligenza (…) come assolutamente eterodiretta anziché autodiretta, (…) è anche

vero che questo punto è forse quello a cui Kubrick sembra tenere maggiormente

soprattutto alla luce di un esame dei film successivi, nei quali la discussione sul libero

arbitrio e sull’importanza della Ragione nello sforzo di autoliberazione dell’uomo,

diventa il più duraturo «messaggio» del suo cinema”112.

Di conseguenza il personaggio kubrickiano risulta essere totalmente agito e non agente,

nel senso che “appare come una specie di marionetta”113.

Questa tematica, che risulta la peculiarità fondamentale del cinema di Kubrick, è posta

in evidenza anche nel film che il regista americano realizzò basandosi sull’omonimo

libro di Burgess: A Clockwork Orange (1971).

In Inghilterra, in un futuro non ben definito, si seguono le avventure teppistiche di Alex e


dei suoi drughi che picchiano un ubriaco, si battono con una banda rivale e violentano la
moglie dello scrittore Alexander nella sua casa. Il giorno dopo Alex partecipa ad un’orgia
con due ragazze incontrate in un negozio di dischi. Sotto casa lo attendono gli altri tre
drughi che vogliono mettere in dubbio la sua leadership. Tuttavia Alex riesce a ristabilire,
con la violenza, il suo comando, ma solo temporaneamente. Infatti la sera stessa, quando,
durante un assalto ad una beauty farm, Alex ne uccide per sbaglio la proprietaria, viene
tradito dai drughi che lo colpiscono con una bottiglia e lo fanno arrestare. Alex, non
riuscendo a sopportare la vita restrittiva del carcere, si offre come cavia per la cura
Ludovico. Tale trattamento ottiene il risultato di farlo star male nel momento in cui vuol
compiere atti di violenza o di sesso e anche, per errore, quando ascolta la Nona Sinfonia
di Beethoven. Tornato libero, subisce le angherie dell’ubriaco, picchiato all’inizio del
film, di due ex drughi diventati poliziotti e dello scrittore Alexander. Infatti quest’ultimo
dopo averlo accolto in casa, non riconoscendo in Alex uno dei teppisti che avevano
violentato sua moglie, morta poco tempo dopo, si rende conto con chi ha a che fare e lo
spinge al suicidio facendogli ascoltare la Nona di Beethoven. Alex, miracolosamente, si
salva e in ospedale scopre di essere guarito dalla cura Ludovico.

111
Ruggero Eugeni, op. cit., pp. 70-1
112
R. Lasagna e S. Zumbo, op. cit., p. 126
113
Ruggero Eugeni, op. cit., p. 70
42

Questo film è suddivisibile in due parti simmetriche, l’ascesa, in cui Alex, da teppista,

compie le sue “bravate” e la caduta, costituita dall’incontro, dopo la cura Ludovico, con

le stesse persone che Alex aveva maltrattato nella prima parte114.

Inoltre anche in quest’opera “riaffiora (…) il pessimismo di Kubrick circa l’impossibile

autodeterminazione dell’uomo nei confronti del proprio scegliere e del proprio agire”115.

Infatti il regista americano ha costruito una “macchina narrativa [che] sembra deridere

le pretese del libero arbitrio”116.

Quindi da un lato c’è l’illusione di Alex (nella prima parte) di poter controllare il

proprio destino e dall’altra l’obiettiva incapacità a farlo (nella seconda).

Questa riflessione sembra venir meno nel finale dove si profila, inaspettatamente, una

vittoria di Alex, un suo trionfo.117 In realtà, analizzando a fondo la questione, si scopre

che il protagonista non ha fatto nulla, assolutamente nulla, per orientare il proprio

destino, oltre che, naturalmente tentare il suicidio. Anzi, il suo tentativo di governare la

sua vita, togliendosela, viene impedito dal caso. Infatti Alex non muore dopo essersi

gettato dalla finestra. La conclusione positiva del film è in verità un’illusione, come

tutto il cinema di Kubrick.

La libertà che gli viene riconcessa è appunto qualcosa che “piove dal cielo”.

114
Tra i tanti contributi ci sembra interessante riportare che cosa dice lo stesso Kubrick in Michel Ciment,

Intervista a Stanley Kubrick, L’Express, 17-23 aprile 1972, citato in Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick.

L’Arancia Meccanica, Lindau, Torino 1996, p. 97, “L’intreccio [di A Clockwork Orange] tiene più conto

dei racconti di fate o della mitologia che non della fiction realista. Esso poggia su una serie di coincidenze

inconcepibili in un film realista. In un film realista non si potrebbe avere questa simmetria di situazioni

fra la prima e la seconda parte”.


115
Ruggero Eugeni, op. cit., p. 84
116
R. Lasagna e S. Zumbo, op. cit., p. 212
117
Come lo definisce Ghezzi, op. cit., p. 100
43

Il protagonista si salva per il volere del caso, che lo libera anche dalla cura Ludovico, e

per volontà del governo gli viene resa la possibilità di scegliere e di decidere il suo

futuro, lui non ha potere di controllo su nulla.

Va anche sottolineato il fatto che “Alex che gioisce, alla fine del film, fonda la sua

temporanea esaltazione sopra un destino ancora tutto da scrivere e che per adesso

appare fortemente legato alla mancanza di una reale libertà”118.

Quindi Alex, che non era libero durante la cura Ludovico, non lo sarà neanche dopo,

perché tale libertà non l’ha ottenuta con le proprie forze, ma gli è stata offerta dal

Governo. In realtà Alex non era stato libero neanche prima della cura, perché

“narrativamente parlando, il giovane Alex non ha scelte. Non è [affatto] padrone del

mondo come sogna di essere, ma [è] un oggetto in mano alla sua logica lucida e

spietata”119.

Se dunque in A Clockwork Orange si cerca di “controllare e modificare il protagonista

Alex, in Barry Lyndon (1975) il protagonista tenta inutilmente di controllare il suo

passaggio attraverso la Storia e i casi della vita”120. Vediamo come.

Durante la metà del settecento, in Irlanda, Redmond Barry perde il padre in un duello.
Qualche anno più tardi anche Barry partecipa ad un duello ma, pur uscendone vincitore,
deve scappare dal paese. Infatti ha ucciso (in realtà solo virtualmente, dato che il duello
era solo una messa in scena per allontanarlo) il capitano Quin, che aveva chiesto la mano
di Nora, il primo grande amore di Barry. Poco dopo essere partito, Barry viene derubato
e, senza soldi, ha come unica soluzione quella di arruolarsi nell’esercito inglese. Partecipa
alla guerra dei Sette Anni (1756-1763), ma dopo la morte del suo amico, il capitano
Grogan, decide di disertare. Fingendosi un ufficiale in possesso di lasciapassare, scappa
dall’esercito inglese ma viene smascherato dal capitano prussiano Potzdorf e costretto ad
arruolarsi nel suo esercito nazionale. Dopo un suo atto di eroismo, Barry è scelto per
spiare il cavaliere di Balibari, un giocatore d’azzardo professionista e baro, ritenuto a
ragione una spia. Tuttavia Barry e Balibari diventano amici e dopo aver beffato i soldati
prussiani, percorrono l’Europa come soci in affari al tavolo da gioco. A Spa Redmond
conosce Lady Lyndon, una nobile sposata con Sir Charles Lyndon. Dopo la morte del
marito di lei, Barry la sposa ma, passato poco tempo, comincia a tradirla con molte
donne. Tale atteggiamento gli procura l’astio del figlioccio, Lord Bullingdon. In ogni
modo questi tradimenti cessano con la nascita di Bryan, il loro primo ed unico figlio.

118
R. Lasagna e S. Zumbo, op. cit., p. 214
119
Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick. L’Arancia Meccanica, cit., p. 75
120
Enrico Ghezzi, op. cit., p. 96
44

Dopo la morte di Bryan, dovuta ad una caduta da cavallo, Barry cade in uno stato di totale
apatia, dalla quale non si sottrae neanche quando viene sfidato a duello da Lord
Bullingdon, che vuole allontanarlo per sempre dalla madre. Infatti non colpisce
volontariamente il figlioccio e viene ferito ad una gamba che gli viene amputata. L’ultima
immagine mostra Lady Lyndon che firma, malinconica, l’assegno del vitalizio per Barry.

L’avvertenza più utile che va messa in risalto per comprendere questo film mi sembra

quella del semiotico Eugeni, il quale sottolinea come “i personaggi del film sembrino

automi e bambole meccaniche”121. Infatti tutti i personaggi del film, soprattutto nella

seconda parte, offrono un’impressione di autentica spersonalizzazione, di totale

meccanizzazione dei movimenti e dei gesti, oltre che dei comportamenti, come fossero

privi di una qualsivoglia anima.

L’unico personaggio che sembra non essere automa è Barry, ma in realtà “non è mai

l’inventore o lo scopritore della situazione. (…) La situazione, l’avvenimento, vengono

presentati sempre come qualcosa che gli si para davanti, come una scena teatrale già

pronta per il suo ingresso o per le sue determinate battute”122.

Quindi anche il protagonista del film appare come un oggetto di un volere superiore,

con l’illusione, soprattutto nella prima parte, di poter guidare il suo destino. Ma la sua

“incapacità (…) di controllare e determinare programmaticamente la sua vita”123 si

palesa in maniera evidente nella seconda parte, benché ce ne fossero stati accenni non

troppo nascosti già prima, ad esempio la rapina nel bosco o l’incontro con il compatriota

che sono da definire come “appuntamenti già predisposti (da un secolo)”124.

121
Ruggero Eugeni, op. cit., p. 90
122
Enrico Ghezzi, op. cit., p. 120
123
Ivi, p. 123
124
Ivi, p. 120
45

Insomma “i personaggi di contorno ed il protagonista restano figurini vuoti, manichini

meccanici che si muovono, lentamente, negli ingranaggi della società del tempo”125.

Il tema costante del controllo si evidenzia quindi anche in Barry Lyndon, in maniera

forse un po’ più nascosta, ma comunque riscontrabile. Dove invece non viene celato

dietro un velo rappresentativo, ma si pone in primissimo piano è in The Shining (1980).

Jack Torrance, uno scrittore senza ispirazione, accetta il lavoro di guardiano


dell’Overlook Hotel per il periodo invernale. Vi abiterà con Wendy, sua moglie e Danny,
il loro figlio, dotato dello shining, un potere che gli permette di “vedere” gli avvenimenti
già accaduti o che accadranno. Il cuoco dell’albergo, Halloran, anche lui dotato della
luccicanza, prima di andarsene vieta a Danny di entrare nella camera 237. Infatti,
l’Overlook Hotel, costruito sopra un cimitero indiano, ha fama di albergo maledetto,
soprattutto dopo che Grady, un guardiano come Jack, ha ucciso la moglie e le due figlie e
poi si è ammazzato. I primi tempi sembrano scorrere tranquillamente per la famiglia
Torrance. Ma è solo un’apparenza. Infatti Jack sta cominciando ad impazzire e Danny,
durante i suoi giri, in triciclo, per l’albergo, vede le figlie di Grady fatte a pezzi. Un
giorno Danny entra nella camera 237 e torna da Wendy in stato di shock, con evidenti
segni di strangolamento sul collo. La madre accusa Jack che, imbestialito poiché si sente
innocente, va nel salone da ballo dell’albergo. Lì fa la conoscenza del barman, un
fantasma, che gli offre da bere. Successivamente Jack, discolpato da Wendy che ritiene ci
sia una persona nella camera 237, viene convinto dalla moglie a controllare
quell’appartamento. Nella camera Jack trova una bella donna nuda che, mentre lo sta
baciando, si trasforma in una vecchia in putrefazione. Dell’accaduto Jack non riferisce
nulla a Wendy, ma tornato nel salone incontra il fantasma di Grady che gli consiglia di
uccidere Wendy e Danny. Ormai totalmente pazzo Jack cerca di attuare il piano. Nel
frattempo Danny ha “chiamato” telepaticamente Halloran che, appena messo piede
nell’Hotel viene ucciso da Jack. Dopo aver compiuto questo omicidio Jack insegue
Danny nel giardino labirinto che si trova vicino all’albergo. Ma perdendosi, vi muore
congelato, mentre Danny e Wendy riescono a scappare. L’ultima immagine è costituita da
un carrello verso una vecchia foto scattata ad una festa del 4 luglio 1921. In primo piano
si vede Jack Torrance.

Questo film, come gli altri di Kubrick è scomponibile in due parti: la prima in cui Jack

pensa di potersi controllare, di essere in grado di gestite le forze sovrannaturali

dell’albergo; e la seconda in cui, non essendo più padrone di sé stesso, impazzisce e

cerca di uccidere Danny e Wendy.

Inoltre The Shining, “secondo la poetica del regista, mostra ancora una volta, come

l’uomo finisce per essere sconfitto, subire uno scacco storico”126 e, soprattutto in questo

125
Francesca Dosi, La sospensione pittorica del tempo in Barry Lyndon, in Primo Giroldini (a cura di), A

proposito di Stanley. Il cinema di Kubrick, Effetto Notte Media, Parma 1988, p. 28


46

caso, come non possa governare la propria vita. Infatti “Jack parla al figlio di

cannibalismo e beve, secondo «onnipotenti ordini superiori» dati dal barman

dell’albergo”127.

Non viene chiarito da chi provengano questi ordini; ma è in questo film che risulta in

maniera più evidente la concezione kubrickiana dell’uomo come essere guidato nel

proprio destino da qualcosa o qualcuno di “altro”, al di fuori del mondo umano (forse

gli extraterrestri di 2001?)128.

Quindi, da una parte l’illusione di poter gestire la propria vita (ad esempio Jack è

convinto di riuscire a scrivere il suo libro; Wendy a trascorrere un piacevole inverno;

Danny, ma soprattutto il suo amico Tony sono certi che le apparizioni nell’albergo non

possono fare male perché sono solo immagini virtuali); dall’altra, invece, si ha

l’incapacità di controllare il proprio destino, guidato da forze “superiori” e quindi si

evidenzia il fallimento delle loro aspettative.

Infatti risulta chiaro che “i soggetti in campo (Jack, il figlio, la moglie, il negro)

falliscono tutti, non sono assolutamente padroni di se stessi, non possono fare

affidamento neppure sulle loro qualità e capacità”129.

Inoltre Danny, che alla fine sembra risultare artefice della propria salvezza (ingannando

il padre all’interno del labirinto), in realtà sarà sempre succube dello shining, che gli

farà apparire immagini, passate o future, sulle quali lui non potrà intervenire.

126
Maurizio Del Ministro, «Shining » di Kubrick in Id., Cinema tra Immaginario e Utopia, Dedalo, Bari

1984, pp. 101-2


127
Ivi, p. 107
128
Cfr. le pagine precedenti dedicare a 2001: A Space Odyssey, dove si riporta la riflessione dello

studioso Eugeni sull’eterodirezione


129
Enrico Ghezzi, op. cit., p. 139
47

Evidenziando ancora la tematica dell’impossibilità da parte dell’individuo di controllare

la propria esistenza e trattando di nuovo il mondo militare e la guerra, Kubrick ha

realizzato nel 1987 Full Metal Jacket.

Campo di addestramento dei Marines di Parris Island, Virginia. Un gruppo di reclute Nel
campo dei marines di Parris Island un gruppo di reclute viene duramente addestrato sia da
un punto di vista fisico che mentale dal sergente istruttore Hartmann. Nella massa
indistinta dei giovani militari, gli unici personaggi che emergono sono Jocker, un giovane
ironico, e Palla di Lardo, un imbranato preso di mira da Hartmann. A causa del durissimo
addestramento e delle angherie di Hartmann, Palla di Lardo impazzisce e l’ultima notte a
Parris Island, dopo essere diventato marine con tutte le altre reclute, uccide Hartmann e si
uccide. La scena si sposta quindi in Vietnam dove ritroviamo Jocker nelle retrovie,
impiegato come giornalista. Dopo l’offensiva del Tet è spedito assieme a Rafterman in
prima linea per fare dei servizi giornalistici e lì si aggregano alla truppa di Cowboy, un
suo compagno al corso di Parris Island. I soldati, dopo una piccola e breve battaglia
riescono a liberare una città, ma in una nuova missione perdono l’orientamento e cadono
sotto il tiro di un cecchino. Lo stesso Cowboy viene ucciso. Dopo aver capito dove si
trova il tiratore, riescono ad aggirarlo e scoprono che si tratta di una minuta ragazza.
Questa viene colpita da Rafterman e Jocker è spinto dagli altri marines ad ucciderla, dato
che la ragazza è ormai agonizzante. I marines si allontanano nella notte cantando l’inno di
Topolino.

Anche in quest’opera cinematografica risaltano le tre peculiarità esposte all’inizio di

questo sottoparagrafo.

Innanzitutto si ha una netta divisione in due parti del film: la prima costituita

dall’addestramento a Parris Island, in cui le reclute vengono costrette da Hartmann a

comportarsi, di volta in volta, secondo regole precise, a diventare, insomma, delle

semplici “macchine per uccidere” (chiarificatore è il discorso di “benvenuto” Hartmann

avvisa gli aspiranti marines che da quel momento fino a quando non saranno diventati

marines, non verranno più considerati uomini ma solo “shit”); e la seconda in cui

vengono seguite le vicende di Jocker e Rafterman in Vietnam.

In secondo luogo è presente l’illusione da parte dei personaggi di guidare il proprio

destino (anche se, per quanto già detto a proposito di Paths of Glory, i militari sono

naturalmente controllati, dato che devono sempre obbedire ad ordini, insomma sono dei

“soldati-macchina, (…) nuova forma di «arancia meccanica», [che] possiedono riflessi


48

condizionati e programmati”130). Tale illusione si evidenzia soprattutto nel personaggio

del sergente Hartmann. Lui ritiene infatti di avere un totale controllo sulle reclute e

questo lo dimostra chiaramente nella scena in cui scopre Palla di Lardo, in bagno, con

un mitra.

La sua reazione è quella di aggredirlo, di stabilire il suo potere, al di là del fatto che

Palla di Lardo abbia un mitra col colpo in canna.

Infine si ha l’incapacità da parte dell’uomo di controllare il suo destino. Se ne ha la

prova, osservando il finale della scena appena descritta. Infatti Hartmann non è più in

grado di attuare un controllo su Palla di Lardo. Ormai la recluta è impazzita e non

risponde più ai comandi e quindi uccide il sergente.

Perciò i soldati, in quanto sottomessi ad ordini, non possiedono controllo di loro stessi.

Anche coloro che questi ordini li danno, però, vivono nell’illusione del controllo.

In conclusione dopo questa analisi della filmografia131 di Stanley Kubrick,

risulterebbero evidenziati sia la tematica strutturale, cioè la divisione in due parti, sia i

due temi, illusione del controllo e incapacità obiettiva di attuare tale controllo.

Logicamente se la prima si mostra più legata alla struttura narrativa dei singoli film, è

essenzialmente dai due temi che sembrerebbe apparire in modo palese la convinzione di

Stanley Kubrick, secondo cui “il mondo in cui viviamo è un corpo vivente labirintico,

opprimente e angoscioso, in cui ci sforziamo inutilmente di affermare la nostra

individualità. Percorrendo questo corpo/labirinto, ad ogni svolta l’uomo si trova di

130
Ruggero Eugeni, op. cit., p. 107
131
Per quanto riguarda Eyes Wide Shut, pur conoscendo la vicenda del romanzo di Schnitzler,

Traumnovelle, da cui Kubrick ha tratto il suo film, non riteniamo proficuo parlarne dato che sembra che il

regista americano l’abbia modificato in molte parti. Del resto l’uscita del film in Italia è avvenuta quando

questo lavoro di ricerca era ormai concluso.


49

fronte ad uno specchio che duplica una, due, tre volte, fino all’infinito, l’immagine della

prigionia e della sconfitta”132.

Da questa considerazione risulterebbe che i personaggi nei film di Kubrick, “nel

momento in cui si illudono di controllare la rete di cause e conseguenze collegate alle

proprie azioni non si accorgono di innescare il proprio fallimento”133 riducendosi “a

marionette agite più che a soggetti agenti”134.

Perciò “l’intera macchina testuale dei film diviene (…) una grande metafora della

condizione umana spersonalizzata, vissuta all’interno di un disegno incomprensibile

mosso da un Autore di cui il personaggio non conosce le intenzioni”135.

In sostanza “Kubrick riconferma che scrivere i personaggi equivale ad ingabbiarli in un

rigido sistema di segni autosufficienti e senza via d’uscita”136.

Questo sistema “chiuso” in cui Kubrick pone i suoi personaggi ha quindi le

caratteristiche di un labirinto che “è la forma sensibile che esprime la perdita di

controllo del soggetto sul tempo e sullo spazio: il soggetto non riesce più a controllare le

strutture spaziali e temporali, né di conseguenza a calcolare le proprie posizioni e i

propri percorsi al loro interno”137.

Per riassumere, il cinema di Kubrick risulterebbe evidenziare come tematica

fondamentale la crisi del modello della ragione occidentale, di cui parlava Eugeni138.

132
Franco Prono, Il corpo dell’attore nel labirinto erotizzato, in AA.VV., Stanley Kubrick, Scriptorium –

Settore università Paravia, Torino 1998, p. 65


133
Ruggero Eugeni, op. cit., p. 121
134
Ibidem
135
Ivi, p. 126
136
Sergio Toffetti, Stanley Kubrick, Moizzi, Milano 1978, p. 40
137
Ruggero Eugeni, op. cit., p. 130
138
Ivi, p. 120
50

Questa crisi, come abbiamo tentato di dimostrare nell’analisi a livello narrativo della

filmografia del regista, si potrebbe biforcare in due ambiti: l’illusione da parte

dell’individuo occidentale di esercitare un controllo sulla propria esistenza; e

l’impossibilità obiettiva di esercitare tale controllo, dovuta al caso, agli eventi, a forze

“superiori”.

L’obiettivo che a questo punto ci poniamo è di trovare un legame stretto tra il livello

narrativo e quello visivo nella filmografia del regista americano. Cercando quindi di

mostrare come le due tematiche sopra esposte siano presenti nelle sue opere

cinematografiche non solo narrativamente ma anche visivamente139.

Infatti Eugeni ha affermato che questo tema (la crisi della ragione occidentale, da noi

scisso in due) è “affrontato da Kubrick non con strumenti concettuali e mediante

verbalizzazioni, ma piuttosto con mezzi esclusivamente cinematografici, visivi e

auditivi”140.

Quindi questo risulta un dato di partenza dal quale non si può prescindere, soprattutto

dato che “Kubrick est un travailleur des formes”141, per cui nel suo cinema la

componente visiva è fondamentale e in un rapporto simbiotico con quella narrativa.

A sostegno di tale constatazione lo studioso francese Giuliani osserva che nella

filmografia kubrickiana “tout concourt à une ontologie du sur-place, de la fatalité et de

l’impuissance. C’est l’ample travail à la grue, les panoramiques, les mouvements

conflictuels des travellings avant – arrière que l’œil enregistre comme signature

139
Ad esempio Michel Ciment nell’introduzione a Michel Ciment (a cura di), Stanley Kubrick, Giorgio

Mondadori – la Biennale di Venezia, Milano 1997, p. VIII, sostiene che “Kubrick, lo si vede, è un adepto

del cinema di idee, distinguendosi in ciò dalla maggioranza dei suoi contemporanei, ma è anche un

cineasta delle immagini. In lui, tuttavia, l’immagine non è, come per tanti altri, un fine in sé e, di fatto,

rinvia sempre all’idea”.


140
Ruggero Eugeni, op. cit., p. 117
141
Pierre Giuliani, op. cit., p. 26
51

kubrickienne, les hauts frontons immobiles, butoirs, qui par larges pans dessinent

l’espace du périple et de ses piétinements”142.

Le signatures visive di cui parla Giuliani, e che sono rapportabili alle due tematiche

sarebbero, secondo noi, la prospettiva centrale rinascimentale e il corridoio143.

Nel senso che la prospettiva, in quanto rappresentazione visiva della concezione

rinascimentale dell’uomo come unico essere vivente in grado di decidere liberamente

del proprio destino, raffigurerebbe l’illusione dell’uomo occidentale di avere il controllo

della sua vita, di poterla dirigere dove vuole senza alcun impedimento o costrizione;

mentre il corridoio, scomponibile in scenico (il corridoio come struttura architettonica)

e fotografico (creato fotograficamente dallo zoom avanti o indietro e dal movimento

della macchina da presa in carrello in avanti o indietro) sarebbe riconducibile

all’impossibilità obiettiva dell’uomo di controllare la sua vita e al fatto di essere, al

contrario, incanalato, costretto in un’unica direzione144.

142
Ivi, pp. 44-5
143
Per la prospettiva vd. Eugeni, op. cit., pp. 145-54; per il corridoio, Ivi, pp.130-6
144
Questa concezione del corridoio è stata analizzata a fondo dal semiotico Eugeni in op. cit. e da Paolo

Cherchi Usai, Kubrick architetto, in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, cit., pp. 269-286
52

II.1 LA PROSPETTIVA

II.1.1 Etimologia

Fino al Quattrocento, il lemma perspectiva (da cui l’italiano prospettiva) indicò “la

scienza ottica che dall’esame dei fenomeni della visione traeva conclusioni geometriche

formulate in leggi e teoremi”1.

Il più importante studioso di ottica dell’antichità fu il greco Claudio Tolomeo (100 ca.-

170 ca.), il quale scrisse un trattato sull’argomento intitolato Optiké.

Circa sei – sette secoli dopo, nel mondo arabo, questa tradizione di studi rifiorì2 grazie

all’opera di al-Kindi3 col suo Kitab fi ’l-manazir e al lavoro di al Farabi4 intitolato Ihsa’

al-‘ulum. Ma fu soprattutto grazie ad al-Haytam5 detto latinamente Alhazeno, con il

trattato Kitab al-manazir, che lo studio sull’ottica raggiunse una delle vette più elevate.

Fu questo il testo che ebbe maggiore diffusione, giungendo fino al mondo occidentale.

Per essere compreso necessitava però di una traduzione in latino, dato che l’arabo non

era, al tempo, una lingua molto conosciuta dagli europei. In particolare il termine arabo

utilizzato per indicare l’ottica era manazir, cioè la visione del mondo. Questo lemma,

nel testo di Alhazeno, venne tradotto in latino con perspectiva.

Quindi la voce perspectiva indicava l’ottica, ossia la scienza della visione.

1
Battaglia Salvatore (a cura di), op. cit., vol. XIV, p. 710
2
Va ricordato che l’Ottica di Tolomeo è conservata soltanto in una versione araba
3
Nato a Baghdad nell’800 e morto nella stessa città nell’873
4
Morto a Damasco nel 950-1
5
Nato a Basra nel 965 e morto al Cairo nel 1038
53

Di tale sinonimia tra i termini perspectiva e ottica si ha un’ulteriore conferma seguendo

un’altra linea di studi.

Alla fine del XII secolo l’Ottica di Tolomeo venne tradotta in latino dall’emiro arabo

Eugenio di Sicilia. Eugenio, che era originariamente di parlata greca, mise in relazione

il termine arabo manazir con il greco optiké, onde il latino optica6.

La traduzione di Eugenio è conservata in dodici manoscritti dei secoli XIV-XVI. Negli

incipit di questi manoscritti si trovano formule del tipo: optica sive perspectiva e

perspectiva sive optica.

Quindi dopo la diffusione dell’ottica araba in occidente, manazir fu tradotto in latino,

sia con optica sia con perspectiva, senza alcuna differenza7.

In altre parole, come ha sostenuto Marisa Dalai, “di fatto per tutta l’Antichità classica e

il Medioevo pare non esistesse alcuna distinzione tra ottica e prospettiva”8.

Questa identità di significato troverebbe la sua origine nell’etimologia del termine

perspectiva.

Infatti il verbo latino perspicere, da cui deriverebbe il lemma perspectiva, risulta

composto dal preverbio per e dal verbo specio9.

6
Cfr. A. Lejeune (edition critique et exégétique par), L’optique de Claude Ptolémée dans la version latine

d’après l’arabe de l’émir Eugène de Sicile, Publications Universitaires, Louvain 1956


7
Gustav Ineichen, La ‘prospettiva’: restituzione di un termine, in Clemens Krause (a cura di), La

Prospettiva Pittorica – Un Convegno, Istituto Svizzero di Roma, Roma 1985, pp. 21-2. Inoltre sulla storia

del termine perspettiva nella lingua italiana, è molto utile lo studio di Alessandro Parronchi, La

perspettiva dantesca, in Id., Studi su la dolce Prospettiva, Aldo Martello Editore, Milano 1964, pp. 3-90
8
Marisa Dalai Emiliani, La questione della prospettiva, in Erwin Panofsky, La Prospettiva come «Forma

Simbolica» e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1984, p. 119


9
F. Calonghi, op. cit., p. 2038
54

Se poi si fa riferimento all’Ernout-Meillet, si scopre che il “preverbio” per è utilizzato

“per indicare il compimento, la perfezione” e in particolare anteposto “ad un verbo

[serve] per rinforzarne il senso”10.

Specio significa “percepire e guardare”; inoltre, dato che si trova solo presso gli autori

arcaici, fu “sostituito nell’epoca classica da composti”. Proseguendo nella lettura, si

giunge alla constatazione, di maggior interesse per questo studio, secondo cui “specio

ha fornito un gran numero di composti a preverbi che suppliscono alla mancanza di

simili composti con video. Nella maggior parte dei casi, il preverbio non fa che

precisare il senso del semplice”11.

Insomma “per-spicere indica proprio il vedere distintamente e completamente”12.

Da questo verbo sarebbe derivato il sostantivo perspectiva che solo con il Rinascimento

assunse il significato che gli attribuiamo noi oggi, cioè di “speculazione teorica che ha

per oggetto la rappresentazione su una superficie piana della tridimensionalità dello

spazio e degli oggetti che in esso si trovano, nonché le rispettive posizioni e proporzioni

di questi; la corrispondente tecnica, che consente di ottenere tale rappresentazione

mediante la proiezione d’immagini secondo precise regole matematiche e secondo i

rapporti e le condizioni che legano l’oggetto, il quadro, l’osservatore”13.

Di fatto, fu nel Quattrocento che il termine perspectiva mutò significato: da scienza

della visione (l’ottica medievale) a scienza della rappresentazione artistica (la

prospettiva rinascimentale).

10
Ernout A. et Meillet A., Dictionnaire Étymologique de la langue latine. Histoire des mots, Klincksieck,

Paris 19854, p. 497


11
Ivi, p. 639
12
Bruno De Marchi, op. cit., p. 224
13
Battaglia Salvatore (a cura di), op. cit., vol. XIV, p. 710
55

Una prova concernente il suo doppio significato la si ritrova nel bisogno sentito da

Leonardo da Vinci di porre una distinzione aggettivale tra l’ottica, chiamata perspectiva

naturalis e basata su una visione mobile e binoculare, e la rappresentazione pittorica,

chiamata perspectiva artificialis e fondata su una visione monoculare ad occhio fisso.

Quindi, il termine prospettiva è stato utilizzato dapprincipio come sinonimo di ottica, e

poi, nel Quattrocento, ha assunto il significato di rappresentazione pittorica regolata

secondo determinate leggi.


56

II.1.2 Cenni storici

La prospettiva, intesa come rappresentazione pittorica della realtà, nel senso di

perspectiva artificialis, venne puntualmente definita nel Quattrocento da Filippo

Brunelleschi che constatò che “le immagini, tramite gli occhi, sono proiettate nella

mente di chi guarda, come se la mente fosse un piano disteso, e sono proiettate in fondo

fino a ridursi a un piccolo punto sull’orizzonte”14. Tracciando quindi linee convergenti

verso quel punto (detto punto di fuga) si sarebbe ottenuta una “piramide visiva”, di cui

quel piano ideale (corrispondente all’immagine che si forma sulla retina o sulla scena da

raffigurare sul quadro) ne avrebbe costituito la base. A questo punto Brunelleschi

applicò a questa “piramide visiva” il teorema delle proporzioni, desumendo le leggi

matematiche in base alle quali le grandezze degradano con la distanza15.

Tali intuizioni furono messe in pratica da Brunelleschi nella realizzazione di due

tavolette: su una riprodusse il Battistero e sull’altra Palazzo Vecchio, entrambi a

Firenze.

Dato che l’artefice della straordinaria cupola di S. Maria del Fiore a Firenze non scrisse

alcun testo per codificare le regole seguite nell’esecuzione delle tavolette, le uniche

notizie le possiamo trarre da Antonio Manetti, suo presunto biografo, in La vita di

Filippo Brunelleschi e da Giorgio Vasari, che attinse da questa per scrivere Le vite de’

più eccellenti pittori, scultori, architettori, cento anni più tardi.

Il testo del Manetti sembra essere molto più di valore rispetto a quello del Vasari,

innanzitutto perché permette di datare all’inizio del Quattrocento la scoperta della

costruzione prospettica, cioè nella prima fase dell’opera di Brunelleschi, ed in secondo

14
Bruno De Marchi, op. cit., p. 224
15
Ibidem
57

luogo rende possibile la comprensione di questa “novità”, in quanto rappresenta l’unica

testimonianza oculare delle famose due tavolette16.

Nella prima tavoletta, la figura del Battistero era stata realizzata su un supporto

probabilmente quadrato di poco inferiore ai 30 cm per lato. La caratteristica del dipinto

era una veduta del Battistero ottagonale come l’aveva osservata Brunelleschi stando

“qualche braccia tre” (1 braccio = 58 cm) all’interno della porta principale del Duomo.

Dopo aver dipinto il nitido disegno degli intarsi marmorei del Battistero in modo “che

non è miniatore che l’avessi fatta meglio” Brunelleschi costruì una specie di visore per

esaltare l’effetto illusionistico. Aveva praticato un foro nella tavoletta in un punto

corrispondente a quello in cui il suo raggio visivo incontrava il Battistero lungo un asse

perpendicolare, in modo che l’osservatore, stando dietro la tavoletta, guardasse

attraverso questo buco uno specchio tenuto in posizione tale da riflettere la superficie

dipinta. Per aumentare l’effetto di tale apparizione magica della realtà egli mise

dell’argento brunito in luogo del cielo così che il vero cielo e le nubi vi si specchiassero,

esaltando notevolmente l’illusione ottica. L’osservatore sarebbe stato obbligato a

guardare il Battistero dipinto da una posizione corrispondente grosso modo a quella da

cui l’artista aveva osservato il vero edificio17.

La seconda tavoletta fu eseguita in scala più grande, e rappresentava il Palazzo della

Signoria (Palazzo Vecchio), visto dall’angolo diagonalmente opposto della piazza. In

questa dimostrazione prospettica Brunelleschi non adottò l’espediente del buco –

Manetti osserva giustamente che la tavoletta era troppo grande e pesante – ma ritagliò la

parte che rappresentava il cielo al di sopra degli edifici. Oltre ad esaltare l’illusione,

16
Kemp Martin, The Science of Art. Optical Themes in Western Art from Brunelleschi to Seurat, Yale

University Press, New Haven and London 1990, tr. it. La Scienza dell’Arte. Prospettiva e percezione

visiva da Brunelleschi a Seurat, Giunti, Firenze 1994, p. 20-1


17
Ivi, p. 21
58

questa tecnica avrebbe anche permesso di confrontare il profilo superiore degli edifici

raffigurati con quello degli edifici reali18.

Va in ogni caso chiarito che Brunelleschi non scoprì la prospettiva “legittima”19 dal

nulla, ma al contrario egli fu abile a sintetizzare le numerosissime soluzioni semi-

prospettiche o quasi prospettiche che si erano avvicendate dall’antichità fino al

Quattrocento.

Infatti l’antichità aveva utilizzato un’organizzazione dello spazio “a spina di pesce”, con

le linee ortogonali convergenti verso più punti disposti lungo una linea retta verticale.

Nel Medioevo, invece, fu molto diffusa la prospettiva “cavaliera”, che si basava sulla

convergenza delle ortogonali in obliquo e con la stessa angolazione verso i punti di una

linea questa volta orizzontale, cioè la linea di orizzonte. Inoltre sono da annotare le

prospettive laterale e bifocale, che erano basate sulla convergenza delle linee verso uno

o due punti di convergenza posti fuori dalla cornice, lateralmente20.

Si arrivò quindi, grazie a Brunelleschi, alla prospettiva legittima che “consiste

nell’avvento di un metodo di costruzione dello spazio tridimensionale del mondo

testuale in quanto riferito a un punto di osservazione unico, determinato, interno

all’immagine”21.

Ad ogni modo dopo la realizzazione delle due tavolette (databili, come si è visto,

all’inizio del XV secolo) ci vollero alcuni anni perché le norme della realizzazione

prospettica prendessero piede nel mondo dell’arte.22.

18
Ivi, p. 21-2
19
La prospettiva legittima era basata su strumenti geometrico-misurativi, e si differenziava dalla

prospettiva abbreviata, sviluppata da Leonardo da Vinci, che si fondava invece su strumenti osservativo-

ricalcativi
20
Ruggero Eugeni, L’analisi semiotica dell’immagine, I.S.U. – Università Cattolica, Milano 1995, p. 260
21
Ivi, p. 262
22
Martin Kemp, op. cit., p. 23
59

Infatti le prime opere, totalmente eseguite secondo i principi della prospettiva, sono

databili solo al 1425 circa23.

Comunque, se da un lato le intuizioni sulla costruzione prospettica si devono a

Brunelleschi, dall’altro la codificazione quattrocentesca delle regole prospettiche furono

opera di quattro artisti-teorici: Leon Battista Alberti, Lorenzo Ghiberti, Piero della

Francesca e Leonardo da Vinci24.

L’Alberti, nel 1435, scrisse un trattato in latino, intitolato De Pictura, di cui nel 1436

redasse la versione in volgare in tre libri con il titolo Della Pittura, con dedica a

Brunelleschi.

Benché la prospettiva fosse solo argomento del primo dei tre libri, in realtà risultò

fondamentale nello sviluppo dell’intera opera, dato che Alberti considerava la

costruzione geometrica dello spazio come la premessa fondamentale per dipingere in

modo corretto25, per cui la “pictura non altro [era] che intersegazione26 della pirramide

visiva secondo data distantia, posto il centro e costituiti i lumi in una certa superficie

con linee et colori artificioso rappresentata”27.

23
Il bassorilievo bronzeo Il Banchetto di Erode, del fonte battesimale nel battistero di Siena, 1423-27, ad

opera di Donatello e l’affresco La Trinità, in Santa Maria Novella a Firenze, 1426 ca., di Masaccio.
24
Si deve premettere che questi quattro autori verranno trattati solo in maniera schematica, dato che

l’analisi delle loro opere non è il fine di questo saggio. Si rimanda in particolare a AA.VV., Enciclopedia

Universale dell’Arte, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1981, Leon Battista Alberti, vol. I, pp. 191-

218, Lorenzo Ghiberti, vol. VI, pp. 16-24, Piero della Francesca, vol. X, pp. 589-602, Leonardo da

Vinci, vol. VIII, pp. 562-591


25
Martin Kemp, op. cit., pp. 30-1
26
Il termine intersegare viene definito da Decio Gioseffi in Perspectiva Artificialis. Per la storia della

prospettiva. Spigolature e Appunti, Università degli studi di Trieste, Istituto di Storia dell’Arte Antica e

Moderna, n° 7, Trieste 1957, p. 85, “tagliare perpendicolarmente all’asse, mediante il piano del quadro, la

piramide visiva che si estende dall’occhio agli oggetti”


27
Leon Battista Alberti, Della Pittura, Sansoni, Firenze 1950, p. 65
60

In altre parole Alberti, attraverso l’intersegazione, “suggeriva di interporre tra

osservatore/pittore e scena, e oggetti da ritrarre un velo reticolato”28, in modo tale da

osservare il mondo con maggiore precisione e dipingerlo di conseguenza.

Infatti riteneva, desumendolo da Brunelleschi, che il rapporto tra l’occhio

dell’osservatore e l’oggetto guardato si potesse rappresentare con un sistema di linee

rette che partono da tutti i punti della superficie frontale dell’oggetto e si incontrano

nell’occhio: ne risultava una “piramide visiva” o un cono col vertice nell’occhio. Se

questa piramide di raggi luminosi fosse stata intersecata da un piano di vetro

perpendicolare alla linea della vista, l’immagine sul vetro sarebbe risultata una

proiezione dell’oggetto come lo si sarebbe visto dal punto di osservazione29.

In definitiva, tramite l’umanista genovese “la riflessione prospettica (…) lasciava il

terreno dell’ottica, della visibilità comune, per rivolgere tutta l’attenzione alla

realizzazione pittorica”30.

Se Alberti codificò le intuizioni di Brunelleschi, Lorenzo Ghiberti, invece, diede un

grande contributo alla conoscenza delle più avanzate teorie ottiche che furono alla base

della scoperta della prospettiva.

Infatti la terza e ultima parte dei suoi Commentari, cominciati nel 1447 ed interrotti al

terzo libro per la morte dell’autore, consistevano in un’antologia di brani tradotti dalle

opere dei maggiori autori allora disponibili per lo studio dell’ottica31, cioè il filosofo

28
Bruno De Marchi, op. cit., p. 225
29
Arnheim Rudolf, Art and Visual Perception: a Psychology of the creative Eye, Regents of the

University of California, Berkeley – Los Angeles 1954, 1974, tr. it. Arte e Percezione Visiva. Nuova

Versione, Feltrinelli, Milano 19772, p. 232


30
Giusta Nicco Fasola, Svolgimento del pensiero prospettico nei trattati da Euclide a Piero della

Francesca, in Le Arti, anno V, n° 2, Roma 29/12/1942, p. 67


31
Martin Kemp, op. cit., p. 35
61

arabo Alhazen, attivo tra il X e l’XI secolo, i francescani inglesi del XIII secolo,

Ruggero Bacone e John Peckham e il loro contemporaneo polacco Witelio32.

Se Ghiberti approfondì lo studio delle “implicazioni ottiche presenti nel trattato

albertiano”33, al contrario Piero della Francesca fu “colui che di quel trattato elaborò le

implicazioni geometriche, particolarmente nei loro aspetti euclidei”34.

Infatti nel suo saggio, il De Prospectiva Pingendi, databile intorno al 1474, egli si

interessò maggiormente ad analizzare le proprietà e le conseguenze geometriche della

piramide visiva, di cui dava per scontata l’effettiva esistenza, compiendo una ricerca

sulla natura delle relazioni proporzionali, problema lasciato insoluto dalla geometria

euclidea35.

Il suo testo era un vero e proprio manuale di insegnamento, “un trattato scritto da pittore

pei pittori, che proponeva una serie di teoremi prospettici con crescenti difficoltà in

modo da rendere il lettore capace di risolvere dopo questi qualunque altro problema”36.

Quindi il De Prospectiva Pingendi risultò un testo “difficile”, adatto a persone (i pittori)

che solo con un preciso bagaglio di conoscenze potevano capirlo fino in fondo.

Al contrario il trattato di Alberti, dato che era scritto da un letterato e non da un pittore

come Piero, risultava di più facile lettura, soprattutto perché il suo fine era quello di

32
Per una specifica analisi di questi autori si rimanda a Giusta Nicco Fasola, Lo svolgimento…, cit.
33
Martin Kemp, op. cit., p. 37
34
Ibidem. Cfr. Giusta Nicco Fasola, Lo svolgimento…, cit., p. 59 dove afferma che “Euclide, portando sul

vedere comune la riflessione matematica, ne ricavò delle leggi e pose alcuni principi che rimangono

tuttora fondamentali”.
35
Martin Kemp, op. cit., pp. 37-8
36
Giusta Nicco Fasola, Lo svolgimento…, cit., p. 71
62

codificare, e quindi di rendere più comprensibili e chiare, le regole della costruzione

prospettica, che Brunelleschi aveva solo intuito37.

Infine, l’ultimo dei quattro teorici quattrocenteschi delle norme prospettiche fu

Leonardo da Vinci, il quale non scrisse alcun trattato sistematico sulla pittura e sulla

prospettiva, ma lasciò solo un numero vastissimo di appunti sull’argomento, databili

verso la fine del XV secolo e disposti in una struttura lineare da Francesco Melzi, suo

allievo.

Nei suoi scritti, Leonardo manifestò un indirizzo di pensiero diverso da quello di Piero.

Infatti, se da una parte l’autore de La Flagellazione, puro geometra e prospettico, aveva

dato vita ad una prospettiva basata su strumenti geometrico-misurativi, non

preoccupandosi della corrispondenza tra realtà e regole della scienza prospettica,

dall’altra Leonardo, partendo dall’osservazione diretta della realtà naturale e ponendo

l’esperienza come prima condizione della regola, riuscì invece a sviluppare una

costruzione prospettica basata su strumenti osservativo-ricalcativi 38.

Precisamente Leonardo giunse a “considerare, accanto ad una prospettiva lineare la

necessità di una ‘prospettiva aerea’, che tenesse conto degli effetti atmosferici, delle

sfocature e dell’inazzurrarsi dei colori con l’aumentare della distanza”39.

37
A questo riguardo è molto interessante quello che afferma Giusta Nicco Fasola nell’Introduzione a

Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi, Sansoni, Firenze 1942, p. 34 “La composizione di un

quadro è per lui [Piero] composizione prospettica; lo sconfinamento dell’Alberti dalla composizione dei

piani all’invenzione retorica, che lascia perplesso il lettore del Della Pittura fin dove per bocca

dell’Alberti parla il letterato e fin dove il pittore, non si lascia qui nemmeno supporre. Di modo che

proprio il De Prospectiva pingendi che pone come base la necessità e quasi la identificazione della

prospettiva con la pittura ci può essere testimonio della metafisica geometrica del Quattrocento, per cui

senso del mondo è mensurabilità e proporzione”.


38
Giusta Nicco Fasola, Introduzione…, cit., p. 26-7
39
F. Padovani, Cinema. Alla ricerca degli antenati, Pilotto, Feltre 1995, p. 25
63

Da questa differenza derivarono due “anime” della prospettiva: quella geometrica,

astratta e costruttivista nel primo caso, e quella osservativa, concreta e riproduttivistica

del secondo40.

Per cui con Leonardo da Vinci si segnava la fine della prospettiva astratta del

Quattrocento. Cessando di essere la chiave dell’universo41 fu sostituita da una

concezione empirica-fenomenica42, punto di partenza da cui derivò la sua distinzione tra

perspectiva artificialis e naturalis.

In definitiva, attraverso Leonardo, si attuò “il passaggio da una concezione dello spazio

chiuso, (la prospettiva astratta), cioè basata sulla costruzione di uno spazio misurabile43,

regolato da precise leggi geometriche e astratto dalla vita reale; ad una visione

universale che tutto comprende (la prospettiva empirico-fenomenica), fondata su uno

spazio, sempre regolato da norme geometriche, ma che riproduce la realtà naturale”,

contribuendo al trapasso “dalla concezione geometrica chiusa dell’universo (…) a

quella dinamica, illimitata”44.

40
Ruggero Eugeni, Analisi…, cit., p. 263-4
41
Di questo concetto e quindi del significato della prospettiva nella filosofia quattrocentesca si tratterà nel

sottoparagrafo successivo
42
Giusta Nicco Fasola, La nuova spazialità, in AA.VV., Leonardo. Saggi e Ricerche, Istituto Poligrafico

dello Stato, Roma 1954, p. 301


43
La cosiddetta scatola cubica di cui parlano Ernst H. Gombrich, in The Image and the Eye. Further

studies in the psychology of pictorial representation, Phaidon Press Limited, Oxford 1982, tr. it.

L’Immagine e l’Occhio. Altri studi sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Einaudi, Torino

1985, p. 246 (scatola d’osservazione), e Pierre Francastel, in Peinture et Société. Naissance et destruction

d’un espace plastique de la Renaissance au Cubisme, Audin Editeur, Lyon 1951, tr. it. Lo spazio

figurativo dal Rinascimento al Cubismo, Einaudi, Torino 1978, pp. 58-9 (spazio cubico)
44
Giusta Nicco Fasola, La nuova spazialità…, cit., p. 298. Per questo punto vd. il sottoparagrafo II.1.4,

dove si tratta la distinzione tra prospettiva quattrocentesca e settecentesca


64

Prima di passare ad analizzare il significato che assunse la costruzione prospettica nella

filosofia quattrocentesca, si deve affrontare una questione che è stata dibattuta

nell’ultima metà del secolo XIX: la conoscenza o meno della prospettica lineare da

parte degli antichi greci e latini e, di conseguenza, se Filippo Brunelleschi l’abbia

ideata, portando a compimento scoperte frammentarie precedenti, o, invece, abbia

soltanto ridato luce a conoscenze già acquisite fin dall’antichità.

Tale dibattito45 ha diviso gli studiosi di prospettiva in due linee di pensiero: da un lato

Erwin Panofsky, seguito da A.M.G. Little, Miriam Schild Bunim, Pierre Francastel e

John White46, fautori della non conoscenza e della differenza fra visione reale e visione

prospettica; dall’altro H.G. Beyen e Decio Gioseffi47.

Secondo Gioseffi, che aveva preso le mosse da un saggio del Beyen del 193948, la

prospettiva lineare sarebbe stata conosciuta già al tempo dei greci e degli antichi

romani49. Tale tesi era basata su due passi contenuti nel De architectura del famoso

45
Per un approfondimento maggiore si rimanda a Marisa Dalai Emiliani, La questione…, cit.
46
Erwin Panofsky, Die Perspektive als «Simbolische Form», B.G. Teubner, Leipzig – Berlin 1927, tr. it.

La Prospettiva come «Forma Simbolica» e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1984; A.M.G. Little,

Perspective and Scene Painting, in The Art Bulletin, XIX, 1937, pp. 486-95; Miriam Schild Bunim, Space

in Mediaeval Painting and the Forerunners of Perspective, Columbia University, New York 1940 (Tesi

di Laurea); Pierre Francastel, op. cit.; John White, The Birth and Rebirth of Pictorial Space, London

1957, tr, it. Nascita e rinascita dello spazio pittorico, Il Saggiatore, Milano 1971
47
Una linea intermedia tra queste due “fazioni” è rappresentata da Ernst H. Gombrich con il suo principio

del testimone oculare che espone nel testo L’immagine e l’occhio…, cit. pp. 302-7, secondo il quale “ogni

oggetto è rappresentato come se lo si osservasse dallo stesso punto di vista”.


48
H.G. Beyen, Die Antike Zentralperspektive, in Archäol. Anzeiger des Jahrbuch des deutschen archäol.

Instituts, 1939, pp. 47-72


49
Decio Gioseffi, p. 46 “le nostre conclusioni sono pertanto quelle del Beyen: in pratica come in teoria gli

Antichi conobbero la prospettiva: la nostra prospettiva. La dissero i Greci «ottica scenografica» e


65

architetto romano Vitruvio50 che, secondo lo studioso, erano da considerare la migliore

e più esatta definizione della prospettiva centrale che mai fosse stata data51.

Inoltre Gioseffi, attraverso un’analisi storica della costruzione prospettica dai greci fino

ai cubisti, ritenne di aver dimostrato come “la visione delle immagini prospettiche fosse

teoricamente identica alla visione della corrispondente realtà”52.

Non è obiettivo di questa ricerca evidenziare errori o ipotesi valide, data la mancanza di

specifiche competenze; ma risulta molto suggestivo riportare la riflessione di Marisa

Dalai che conclude il suo saggio sulla storia degli studiosi della prospettiva del XIX e

XX secolo: “Ma utile ci sembra citarne [riguardo al testo di Gioseffi] (…) l’assioma

fondamentale: quadro prospettico e visione naturale di un oggetto coincidono, dando

luogo ad una medesima immagine retinica – purché, s’intende, in entrambi i casi vi sia

visione monoculare e a occhio immobile e dalla giusta distanza53.

Il senso di tutte le indagini e le ricerche sin qui ricordate, il senso soprattutto della

sottile analisi condotta dal Panofsky sulla specificità dello spazio prospettico e sul

Vitruvio, più brevemente «scenografia». Cfr. Decio Gioseffi, Continuità della Prospettiva da Democrito

a Brunelleschi, in Clemens Krause (a cura di), cit.


50
I.II.2: “Scenographia est frontis et laterum abscendentium adumbratio ad circinique centrum omnium

linearum responsus”. VII, praef. 11: “Namque primum Agatharcus Athenis Aeschylo docente

tragoediam scaenam fecit et de ea commentarium reliquit. Ex eo moniti Democritus et Anaxagoras de

eadem re scripserunt, quemadmodum oporteat ad aciem oculorum radiorumque extentionem certo loco

centro constituto lineas ratione naturali respondere, uti de incerta re certae imagines aedificiorum in

scenarum picturis redderent speciem, et quae in directis planisque frontibus sint figurata, alia

abscendentia alia prominentia esse videantur”


51
Gioseffi, op. cit., pp. 20-1
52
Ivi, p. 125
53
Ivi, p. 8
66

concetto di spazio che vi trova espressione, stanno precisamente al di là di questo

purché”54.

54
Marisa Dalai Emiliani, La questione…, cit., pp. 132-3. Inoltre sul rapporto tra visione monoculare e

visione binoculare si rimanda a Gregory Richard L., Eye and Brain. The Psychology of Seeing, Fourth

Edition, Weidenfeld and Nicolson, London 1990, tr. it. Occhio e Cervello. La Psicologia del Vedere,

Raffaello Cortina, Milano 1991, pp. 187-208; ed anche a Merleau-Ponty M., Phénoménologie de la

Perception, Gallimard, Paris 1945, pp. 270-302


67

II.1.3 L’uomo, il mondo.

La prospettiva, come abbiamo visto nel sottoparagrafo precedente, è un sistema di

rappresentazione della realtà, attraverso la quale lo spazio che vi viene raffigurato è

regolato secondo linee convergenti verso il punto di fuga. In tal modo ogni elemento

all’interno del quadro risulterebbe regolabile secondo il volere dell’artista.

Quindi la prospettiva rappresenterebbe il “trionfo dell’uomo che si costruisce il proprio

mondo, con la sua mente chiara e l’azione precisa”55.

Tale caratteristica, propria della prospettiva, potrebbe essere assimilabile alla

concezione dell’uomo, propria della filosofia rinascimentale, che è espressa nel

famosissimo testo di Pico della Mirandola, De hominis dignitate.

In questo testo il filosofo modenese, ideando il discorso tra Dio ed Adamo, scrisse: “Tu

[uomo], non costretto (…) da nessun limite, te lo porrai secondo la libera volontà che io

ti conferisco. Ti posi al centro del mondo, perché tu potessi, da qui, più facilmente

osservare intorno a te tutto ciò che vi è in esso. Non ti creammo né celeste né terrestre,

né mortale né immortale, affinché tu, quasi figulo od artefice libero ed indipendente di

te stesso, ti possa dare quella forma che tu ti sarai scelta”56.

55
Giusta Nicco Fasola, La nuova…, cit., p. 294. Inoltre è interessante riportare quanto afferma Giorgio

Bucciarelli in Rappresentazione e misura dello spazio nel metodo della prospettiva, in Clemens Krause (a

cura di), op. cit., p. 80, secondo il quale “l’uso dello strumento prospettico come modello simbolico di

rappresentazione della realtà e come verifica indispensabile dell’unificazione dello spazio, caratterizza

(…) l’Umanesimo italiano”.


56
Citazione tratta da Ernst Cassirer, Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, (G.B.)

Teubner, Leipzig 1927, tr. it. Individuo e Cosmo nella filosofia del Rinascimento, La Nuova Italia,

Bologna 1967, p. 138


68

Dal discorso di Pico, risulterebbe che “l’uomo, (…) unico fra le creature, è stato posto

al confine di due mondi [bestiale e divino57] e con una natura non predeterminata, ma

costituita in modo tale che fosse lui stesso a plasmarsi e scolpirsi secondo la forma

prescelta. E così, l’uomo può elevarsi alla vita della pura intelligenza ed essere come gli

angeli, e addirittura può salire ancora più in alto. La grandezza e il miracolo dell’uomo

sta, dunque, nell’essere artefice di se medesimo, auto – costruttore”58.

Si potrebbe riallacciare questa definizione alla prospettiva che “ha permesso e

simboleggiato la libertà dell’uomo di affrontare vaste distanze, la liberazione

dall’interpretazione teologica dello spazio. (…) Per fare questo ha scoperto la

omogeneità dello spazio59, che è diventato veramente universalissima categoria, al di

sopra degli oggetti e delle differenti realizzazioni”60.

57
Ibidem
58
Giovanni Reale e Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, La Scuola, Brescia

1987, p. 56
59
Che cosa sia lo spazio omogeneo viene chiarito da Erwin Panofsky, op. cit. p. 40, dove afferma che

“l’omogeneità dello spazio geometrico si fonda (…) sul fatto che tutti i suoi elementi, i ‘punti’ che si

raccolgono in esso, non sono altro che contrassegni di posizione i quali tuttavia, al di fuori di questa

relazione, della ‘posizione’ in cui si trovano gli uni rispetto agli altri, non possiedono un contenuto

autonomo. Il loro essere si risolve nel loro rapporto reciproco: è un essere puramente funzionale e non

sostanziale”. Inoltre è utile riportare una riflessione di Chastel, cit., in Marisa Dalai Emiliani (a cura di),

op. cit., p. 55, dove viene affermato che “la notion de l’espace continu, homogène et isotrope, défini

négativement par rapport à l’étendue concrète, est indispensable pour élaborer la vue dite perspective”.

Per maggiore completezza cfr. anche Giusta Nicco Fasola, Lo svolgimento..., cit., pp. 60-2
60
Giusta Nicco Fasola, La nuova…, cit., p. 294
69

Il pensiero di Pico della Mirandola non era comunque isolato ma si inseriva al termine e

quasi come conclusione della riflessione filosofica sviluppatasi durante tutto il XV

secolo61.

Questa riflessione ebbe come primo grande artefice Niccolò Cusano che, attraverso il

passaggio da una concezione della struttura dell’universo metafisica ad una matematica,

permise di arrivare proprio allo spazio omogeneo, condizione della prospettiva lineare.62

Infatti Cusano rappresentò lo spartiacque tra la filosofia medievale, che fondava la sua

speculazione su una netta divisione tra mondo divino e mondo terrestre, e la filosofia

rinascimentale, che non fece più sua questa separazione, ma riteneva anzi che “ciascun

essere riassume l’universo intero e Dio”63.

Tale conquista della filosofia rinascimentale portò Cusano alla formulazione della

concezione dell’uomo come microcosmo, cioè “l’uomo considerato nella sua essenza,

include in sé la totalità delle cose. In lui in quanto microcosmo, concorrono tutte le fila

del macrocosmo”64. Quindi “se l’uomo, quale microcosmo, comprende in sé la natura di

tutte le cose, allora la sua redenzione, il suo elevarsi alla divinità include l’elevarsi di

tutte le cose”65.

61
Dato che non è obiettivo di questo lavoro l’affrontare in maniera esaustiva la filosofia rinascimentale,

ma soltanto trovare dei nessi tra questa e la prospettiva, per un’analisi più approfondita di questo periodo

si rimanda ai testi di Cassirer, cit., e a Eugenio Garin, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari 1954 che

qui verranno utilizzati, ed inoltre a K. Burdach, Reformation, Renaissance, Humanismus, tr. it. Riforma,

Rinascimento, Umanesimo, Sansoni, Firenze 1935 e a C. Vasoli, Umanesimo e Rinascimento, Palumbo,

Palermo 1977
62
Giusta Nicco Fasola, Introduzione…, p. 30
63
G. Reale e D. Antiseri, op. cit., p. 44
64
E. Cassirer, op. cit., p. 68
65
Ivi, p. 69
70

Senza approfondire la riflessione di Cusano, da questi brevi accenni appare come

l’abissale distanza che separava l’uomo medievale da Dio, fosse stata finalmente

colmata, dato che “fra il principio creatore e il creato, fra Dio e la creatura sta lo spirito

dell’umanità, humanitas, che è ad un tempo creatore e creatura”66.

Di conseguenza “c’è un passaggio dalla visione dell’essere conchiuso nella sua realtà

all’uomo poeta, che vuol dire creatore. All’uomo che non ha da contemplare un ordine

dato, da attuare un’essenza eterna, ma che ha dinanzi infinite possibilità; che è infinite

possibilità. Il mondo, lungi dall’essere fisso entro forme cristallizzate, è plasmabile in

guise sempre nuove, e non c’è necessità che non s’incrini [come nell’epoca medievale],

non forma che non si trasformi; e libertà d’uomo indica un essere il cui volto non è mai

definito”67.

Appurato che una grande scoperta del pensiero rinascimentale sia stata la libertà

concessa all’uomo e di conseguenza la sua creatività68, va però precisato che questo

sviluppo non avvenne in alternativa o addirittura contro Dio, tutt’altro. Infatti solo

“mediante la libertà (…) l’uomo può assimilarsi a Dio, può diventare il ricettacolo di

Dio”69, per cui “Dio è l’artefice che conia le monete, ma lo spirito umano ne determina

il valore”70.

Le riflessioni di Cusano, quindi, riuscirono a vincere lo spirito ascetico medievale e

portarono alla scomparsa della sfiducia nel mondo. Anzi, lo spirito umano, solo quando

si rapporta senza prevenzione al mondo, può conquistare sé stesso e la misura delle

66
Ibidem
67
Eugenio Garin, La crisi del pensiero medievale, in Id., Medioevo e Rinascimento, cit., p. 38
68
A questo riguardo è molto significativa un’affermazione di Garin in Interpretazioni del Rinascimento,

in Id., cit., p. 93, dove definisce la metafisica dell’uomo creatore come la parola più profonda di tutto il

Rinascimento
69
E. Cassirer, op. cit., p. 74
70
Ivi, p. 75
71

proprie forze. Quindi la natura sensibile e la conoscenza sensibile non sono più qualcosa

di basso, ma rappresentano il primo stimolo di ogni attività dell’intelletto71.

Questo è, grosso modo, il grande insegnamento di Niccolò Cusano che rappresentò per

l’epoca e per la filosofia italiana un risultato non fissato e stabile, ma ispirò nuove

tendenze ed impulsi, in poche parole un nuovo orientamento.

Verso questa nuova direzione di pensiero si diresse Marsilio Ficino, il quale mostrò

notevoli punti di contatto con il filosofo di Cues.

Infatti, se per Cusano la redenzione degli uomini non aveva solo il significato di una

liberazione dell’uomo dal mondo, ma si estendeva invece a tutte le cose (in quanto

l’uomo è microcosmo), similmente Marsilio Ficino riteneva l’anima come il «centro»

spirituale del mondo, come il terzo «regno» tra il mondo intelligibile e quello del

sensibile. In tal maniera l’anima risultava contenere il superiore senza abbandonare

l’inferiore, così da essere rivolta a tutte quanti le parti che compongono il macrocosmo,

senza esaurirsi o irrigidirsi esclusivamente in una sola di tali direzioni72.

Quindi la libertà, in qualunque direzione si volga, è comunque garantita, infatti l’anima

“non viene né prostrata nel sensibile, per opera di un fato che la sopraffaccia, di una

pura violenza della natura; né viene elevata al soprasensibile per opera della grazia

divina, ch’essa deve accogliere solo passivamente”73.

Anche su questo punto Ficino era molto vicino a Cusano che riteneva che “nella libertà

dell’uomo è posta la scelta di volere o non volere essere se stesso; e solo quando egli si

decida autonomamente nel primo caso, Dio gli si concede. La scelta, l’ultima istanza è

posta nell’uomo”74.

71
Ibidem
72
E. Cassirer, op. cit. p. 107
73
Ivi, p. 108
74
Ibidem
72

Partendo da questo concetto Ficino sviluppò tutto il suo discorso.

Innanzitutto, l’uomo prenderebbe coscienza della propria grandezza quando supera la

diffidenza verso la propria natura; così facendo scompare anche la diffidenza verso il

mondo. Di conseguenza l’autoaffermazione dell’uomo diverrebbe anche affermazione

del mondo. Qui interviene l’artista. Il mondo sensibile non è più da disprezzare, ma

viene accolto per la sua bellezza che non nasce dal mondo sensibile stesso, ma è fondata

sul fatto che il mondo diventa sia il medio sul quale si esercita la libera forza creativa

dell’uomo, sia il medio nel quale questa si riconosce tale75.

Quindi, rispetto all’uomo medievale “puro contemplante, che deve estenuare la sua

carne e la sua passione, e farsi cieco ad ogni seduzione di vita, (…) si leva l’esaltazione

dell’ideale ermetico ove la volontà, l’opera, l’atto, produce e dissolve le forme, crea e si

ricrea, si muove liberamente proteso nel futuro in un infinito di possibilità, in

un’apertura senza confini”76.

Perciò l’uomo possiede una totale libertà, ma la fortuna, il destino che influenza hanno?

L’uomo riesce a guidare anche loro, procedendo sulla strada da lui stesso segnata,

attraverso “la fortezza, [cioè] la forza della virilità in genere, la forza della volontà

umana, che diviene la soggiogatrice del destino, la «domatrice della Fortuna»”77.

A questo riguardo, è molto significativa la visione dell’iconografia rinascimentale dove

la Fortuna, che in epoca medievale era rappresentata come una ruota che ora innalza

l’uomo e ora lo sprofonda nell’abisso, assume invece l’immagine di una vela, dove è

l’uomo a reggere il remo della barca78.

75
Ivi, pp. 109-10
76
E. Garin, Magia e Astrologia nel Rinascimento, in Id., op. cit., p. 168
77
E. Cassirer, op. cit., p. 122
78
Ivi, p. 125
73

Tale capacità umana, presente nell’iconografia dell’epoca, si può riscontrare anche

sfogliando alcuni testi letterari.

Ad esempio Machiavelli nella sua opera Il Principe, afferma come “la fortuna sia

arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o

presso, a noi”79. Tuttavia l’uomo può dirigere a suo favore anche la metà del destino che

non ha nelle proprie mani, dato che “la fortuna è donna, ed è necessario, volendola

tenere sotto, batterla e urtarla”80.

Ed anche per Leon Battista Alberti “il torrente della Fortuna non trascina colui che,

affidandosi alle proprie forze, si apre in questo, come abile nuotatore, la sua via”81.

In particolare le forze di cui parla Alberti si riferiscono alla greca areté, ossia

“quell’attività peculiare dell’uomo che lo perfeziona e ne garantisce la supremazia sulle

cose”82, la quale, “se considerata ed esercitata in modo realistico e non in modo

velleitario, la vince sulla fortuna”83.

Se poi si torna a leggere Pico della Mirandola, si trova l’esaltazione delle capacità

dell’uomo contro ogni tipo di destino; infatti afferma che “i miracoli dello spirito sono

più grandi del cielo [il destino]… Sulla terra non vi è nulla di grande tranne l’uomo, e

niente vi è di grande nell’uomo fuorché la sua mente e il suo spirito. Se tu ti innalzi ad

essi, tu ti elevi al di là del cielo”84.

Quindi anche da questi riscontri letterari, oltre che dalle precedenti riflessioni

filosofiche risulta come l’uomo rinascimentale, o meglio, la concezione dell’uomo nel

79
Niccolò Machiavelli, Il Principe, Feltrinelli, Milano 1989, p. 130
80
Ivi, p. 133
81
E. Cassirer, op. cit., p. 125
82
G. Reale e D. Antiseri, op. cit., p. 33
83
Ibidem
84
Pico della Mirandola, In astrologiam, Lib. III, cap. 27, in E. Cassirer, op. cit., p. 126
74

Rinascimento fosse fondata su tre capisaldi. Innanzitutto la libertà assoluta di cui

dispone, cioè il suo “essere una possibilità, un’apertura attraverso la quale si celebra

l’inesausta ricchezza dell’essere”85. Poi la capacità di dirigere la propria vita senza

essere avvolto nelle spire del destino. Infine la creatività, il poter modificare la forma

del mondo sensibile, per cui “il fuoco della vita spirituale viene posto, in certo qual

modo, là dove «l’idea» si incorpora, là dove la forma non sensibile, che è presente alla

mente dell’artista, irrompe nel mondo visibile e si realizza in esso”86.

L’uomo rinascimentale, così equipaggiato, si volse verso il mondo che lo circondava,

ma “fintanto che, per opera della matematica e del nuovo strumento che questa forniva

al pensiero, non furono istituiti determinati criteri della esperienza, mancavano

all’empirismo della rinascenza ogni misura oggettiva di valore e ogni principio di scelta

per le osservazioni che si moltiplicavano”87.

La possibilità veniva fornita all’uomo da Cusano, come si è visto, attraverso la

concezione matematica dell’universo, permettendo “di ricondurre la massa incerta dei

fenomeni ad una misura determinata e ad una regola fissa, e questo grazie al continuo

rapporto tra esperienza e matematica; e di trasformare il casuale empirico in un

necessario regolato da leggi”88.

Questa trasformazione, cioè la riduzione dello spazio fisiologico allo spazio

matematico,89 risultò permessa dalla prospettiva che “è una di quelle forme simboliche

85
E. Garin, Magia…, in Id., op. cit., p. 157
86
E. Cassirer, op. cit., p. 111
87
Ivi, p. 239
88
Ivi, p. 245
89
Hauser Arnold, Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C.H. Beck, München 1955, tr. it. Storia

sociale dell’Arte, Einaudi, Torino 1982, vol. I, p. 304


75

[di cui parla Ernst Cassirer] attraverso le quali «un particolare contenuto spirituale viene

connesso a un concreto segno sensibile e intimamente identificato con questo»”90.

Che la prospettiva fosse non un elemento relativo al solo campo dell’arte, ma anche alla

riflessione sull’uomo e sul mondo propria del Quattrocento, è spiegato chiaramente da

Giusta Nicco Fasola quando afferma che “la codificazione geometrica della visione vuol

portare all’assolutamente esatto, all’oggettivo, togliendo le irregolarità, le incertezze di

una veduta casuale, alla buona.

Per altra parte la costruzione prospettica ha un senso soltanto in relazione al punto di

vista; la posizione dell’osservatore varia del tutto le misure, l’aspetto della

rappresentazione e in questo senso la prospettiva del Rinascimento è una conquista del

soggettivo, anzi non tanto una presa di possesso del mondo esterno, quanto una

estensione in esso dell’efficacia umana, una determinazione individuale nei rapporti tra

mondo e coscienza. (…) Diremo col Panofsky che nel Rinascimento lo spazio psico-

fisiologico fu ridotto in spazio matematico, onde la oggettivazione del soggettivo. (…)

Nel Quattrocento essa [la prospettiva] è indissolubile, non dalla pratica o dalla scienza,

ma dalla visione dell’universo geometricamente idealizzato che si traduce in rapporti di

necessità, volti a ricostruire nel sistema del quadro la divina perfezione del cosmo.”91

Si può considerare, di conseguenza, la prospettiva “ad un tempo come un trionfo del

senso della realtà distanziante e obiettivante, oppure come un trionfo della volontà di

potenza dell’uomo che tende ad annullare ogni distanza; sia come un consolidamento e

una sistematizzazione del mondo esterno, sia come un ampliamento della sfera

dell’io”92.

90
E. Panofsky, op. cit., p. 50
91
G. Nicco Fasola, Introduzione…, cit., pp. 29-30
92
E. Panofsky, op. cit., p. 72
76

Perciò, la prospettiva si inserirebbe nella filosofia rinascimentale, fondata sulla libertà

dell’uomo di decidere liberamente del proprio destino, come la capacità umana di

razionalizzare lo spazio, cioè di oggettivare la soggettività del proprio sguardo mediante

artifici grafici93 e, quindi, di controllare lo spazio da lui stesso scelto come

rappresentazione della realtà.

Nell’ambito del pensiero rinascimentale va comunque sottolineata l’importanza che

assunse la magia. Questa venne ad assumere una posizione centrale tra le attività umane

“in quanto proprio in essa si esprime in modo quasi esemplare quella divina potenza

dell’uomo (…). L’uomo centro del cosmo è appunto l’uomo che, afferrato il ritmo

segreto delle cose, si fa sublime poeta, ma, come un Dio, non si limita a scrivere parole

d’inchiostro su carte caduche, bensì inscrivere cose reali nel grande e vivente libro

dell’universo”94.

In sostanza l’uomo, attraverso l’opera magica, diveniva “signore non solo della propria

forma, ma (…) di tutto il mondo delle forme, che [poteva] combinare, trasformare,

rinnovare”95.

Comunque, la magia per l’uomo rinascimentale aveva connotati di individualità, di

segretezza, di improvvisa illuminazione.

Francesco Bacone96, uno dei traghettatori del pensiero cinque – seicentesco dalla magia

rinascimentale alla scienza moderna, combatté aspramente queste caratteristiche della

magia che, secondo il filosofo inglese, aveva in comune con la scienza solo il tentativo

da parte dell’uomo di rendersi padrone della natura e di trasformarla dalle fondamenta,

ma della quale andava rifiutato l’ideale umano legato a questo tentativo, cioè ogni

93
Ruggero Eugeni, L’analisi…, cit., p. 269
94
E. Garin, Magia…, cit., in Id., op. cit., p. 151
95
E. Garin, Interpretazioni…, cit., in Id., op. cit., p. 100
96
Cfr. Francesco Bacone, Scritti filosofici, trad. it. a cura di P. Rossi, UTET, Torino 1975
77

atteggiamento rivolto a sostituire le «illuminazioni» di un singolo allo sforzo

organizzato dell’intero genere umano e tendente quindi a porre la scienza a servizio di

un singolo invece che a servizio della specie umana97.

In breve la scienza per Bacone “non era una serie di pensieri annotati, ma pensiero

metodico e sistematico; (…) non era semplice appello all’esperienza, non era solo

rigetto delle autorità, non era solo osservazione anche se dettagliata; (…) non era

intuizione di un genio singolo e solitario, ma era ricerca collettiva e

istituzionalizzazione della ricerca in forme (…) specifiche. E soprattutto il sapere

scientifico non era opera di illuminati o di eccezionali sapienti, ma era prodotto e opera

umana che tende a migliorare il modo di pensare e le condizioni di vita dell’intero

genere umano”98.

Si è voluto mettere in evidenza il rapporto tra magia e scienza moderna per far meglio

cogliere la differenza che esiste fra l’uomo rinascimentale, che si riteneva padrone del

mondo anche con l’ausilio della magia, e l’uomo illuministico che si considerava

sempre in grado di governare il mondo, ma attraverso la tecnica, derivante dal metodo

scientifico sviluppato da Bacone ed in seguito da Cartesio.

Nella lingua italiana il termine magia indica “l’arte o la scienza occulta che suppone di

trarre dalle forze naturali effetti straordinari mediante tecniche misteriose e segrete, atte

anche a dominare forze superumane o demoniache”99; invece il lemma tecnica100

rappresenta il complesso delle norme da seguire nel praticare un’arte, un mestiere, una

97
Rossi Paolo, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, Laterza, Bari 1957, p. 104
98
Ivi, p. 112-3
99
Salvatore Battaglia (a cura di), op. cit., vol. IX, p. 442
100
A causa della non ancora avvenuta uscita del volume del Battaglia relativo alla lettera T, siamo

costretti ad utilizzare un altro dizionario


78

scienza; in particolare viene descritta come l’applicazione nel dominio pratico della

realtà della scienza101.

Tale differenza risulta molto interessante se riferita alla filmografia kubrickiana.

In particolare, come suggeritomi dal semiotico Eugeni, i personaggi kubrickiani

sarebbero molto più illuministici che rinascimentali, ritengono cioè di poter governare il

loro destino non tanto attraverso la magia quanto mediante la tecnica.

Infatti, analizzando i film del regista americano da un punto di vista narrativo si avrebbe

conferma che nessun personaggio fa ricorso alla magia o a mezzi soprannaturali per

raggiungere i propri scopi, ma segue delle regole ben precise.

Lo stesso Jack, in The Shining (il film più “magico” di Kubrick), viene sì spinto da

forze sovrannaturali a uccidere Wendy e Danny, ma il compimento di tale azione viene

lasciato alle sue capacità individuali: deve infatti scegliere lui la tecnica da seguire.

Inoltre Danny, all’interno del labirinto, riesce a sfuggire a Jack, non attraverso l’aiuto di

incantesimi (la magia), dato che lo shining che possiede non gli fornisce tali poteri, ma

grazie all’abilità di lasciare le sue impronte camminando all’indietro (la tecnica).

Se però si analizza l’impianto visivo del suo cinema si potrebbero notare delle

differenze rispetto alla struttura narrativa.

Questo dipenderebbe da uno stilema visivo peculiare nel suo cinema: la prospettiva.102

Infatti il tipo di costruzione prospettica utilizzato da Kubrick sarebbe assimilabile molto

più a quello rinascimentale che a quello illuministico103.

101
Fernando Palazzi, op. cit., vol. II, p. 922
102
A riprova di tale affermazione, nel paragrafo II.2 verranno forniti numerosi esempi
103
A questo riguardo è utile fare riferimento ad una riflessione di Sandro Bernardi, op. cit., p. 35, dove

sostiene, riferendosi in particolar modo al film Barry Lyndon (1975), che la costruzione di uno spazio

statico, prospettico, “corrisponde in un certo senso alla visione extratemporale rinascimentale. Quello

della pittura italiana, secondo Simmel [Il volto e il ritratto, saggi sull’arte, Bologna 1975, p. 142], era
79

Si cercherà quindi di evidenziare cosa differenzia queste due costruzioni, per poi

soffermarci sul tipo di prospettiva presente nel cinema di Kubrick.

infatti un «realismo concettuale», garantito non dall’analogia, ma dalla proporzione geometrica. Un

realismo quindi elaborato e costruito simbolicamente, secondo calcoli proporzionali”.


80

II.1.4 Dissimili prospettive

Una chiarificazione preliminare delle caratteristiche dello spazio rinascimentale creato

dalla prospettiva si ha se si legge quanto scrive Francastel al riguardo: “Nel pensiero

matematico del principio del Quattrocento v’era un inconsapevole conflitto tra l’idea

dello spazio chiuso, cubico, e quella dello spazio aperto che comprende egualmente gli

oggetti prossimi e distanti ed esclude ogni riproduzione identica per riduzione di scala o

eliminazione del piano retrostante. Non è vero che nella pittura del quattrocento le due

tendenze si siano ravvicinate: la prima tendenza ha trionfato”104.

Quindi lo spazio del rinascimento appare situabile in una struttura chiusa, cubica,

regolata e matematicamente strutturata secondo un ordine di precisione, controllo,

armonia e proporzione, dato che la “proporzione metrica fu il principio guida

dell’ordine [rinascimentale]”105.

Insomma “la prospettiva rinascimentale è un metodo per rappresentare, controllare ed

eventualmente modificare lo spazio fisico, (…) serve ad unificare, in una trama di

riferimenti geometrici oggettivi, i vari sistemi di rappresentazione e di controllo

dell’ambiente fisico, utilizzando i trattati di ottica della seconda metà del Trecento ma

generalizzandoli e rendendoli applicabili all’esperienza concreta”106.

Tralasciando altre suggestioni soffermiamo ora la nostra attenzione sul Settecento e

sulla prospettiva utilizzata all’epoca, sapendo che ormai il metodo scientifico, e l’uomo

“tecnico” erano già entrati nella dimora della civiltà.

104
Pierre Francastel, Lo spazio figurativo…, cit., p. 59. Cfr. anche Giusta Nicco Fasola, La nuova

spazialità, cit., p. 298, ed anche nota n° 201 di questo saggio


105
Wittkower Rudolf, Architectural Priciples in the Age of Humanism, Academy Editions, London 1962,

tr. it. Principi Architettonici nell’Età dell’Umanesimo, Einaudi, Torino 1996


106
Leonardo Benevolo, La cattura dell’infinito, Laterza, Bari 1991, p. 7
81

Innanzitutto va notato che con la costruzione geometrica della prospettiva centrale,

Alberti e Brunelleschi introdussero l’infinito in pittura, con la particolarità che tale

costruzione rappresentava l’infinitamente grande mediante l’infinitamente piccolo, e

causava la conversione più che l’espansione del mondo107.

Solo più tardi la pittura tentò di trasmettere l’esperienza di uno spazio senza limite108 e

precisamente quando “dalla fine del secolo XVI alla fine del XVII cambiò l’idea del

mondo, e cambiò senso la parola «infinito»: da limite del mondo, metafisico o religioso,

divenne una parte del mondo, esplorabile dalla ricerca scientifica e virtualmente

praticabile”109.

Questo mutamento di pensiero è confrontabile con un episodio della storia

dell’architettura, per cui “fra la metà del secolo XVII e la metà del XVIII [si palesò] il

tentativo di rappresentare fisicamente l’infinito coi mezzi della prospettiva; di inoltrarsi,

coi mezzi visivi tradizionali, nel campo ancora inesplorato della grande dimensione e di

dilatare la rappresentazione prospettica fino alla massima misura percepibile”110.

Un piccolo passo indietro è utile per meglio comprendere questo tipo di evoluzione.

La concezione dello spazio111, dal Rinascimento in poi, perse via via le sue

caratteristiche di corporeità, di legame con la realtà fisica, fino a giungere, alla fine del

107
Rudolf Arnheim, Visual Thinking, Regents of the University of California, Berkeley – Los Angeles

1969, tr. it. Il Pensiero Visivo, Einaudi, Torino 1974, p. 338


108
Ibidem
109
L. Benevolo, op. cit., p. 3. Inoltre cfr. Martin Kemp, op. cit., p. 106, dove viene spiegata la nuova

funzione della prospettiva all’interno della “rivoluzione scientifica”


110
L. Benevolo, op. cit., p. 3
111
Per una magistrale e più esauriente analisi concernente lo sviluppo della concezione dello spazio e dei

suoi limiti si rimanda a Alexandre Koyré, From the closed world to the infinite universe, John Hopkins

University Press, Baltimore 1957, tr. fr. Du monde clos à l’univers infini, Presses Universitaires de

France, Vendôme 1962


82

Cinquecento, ad essere privato di ogni connotazione corporea. Questo compimento

finale del pensiero venne sancito da Cartesio, nei Principia Philosophiae del 1644, con

la famosa definizione del mondo come res extensa, contrapposto alla mente umana

considerata res cogitans112.

Questa distinzione cartesiana tra il pensiero e la materia estesa aprì la “possibilità di un

rapporto diverso con Dio, non mediato attraverso il mondo fisico, (…) la quale partiva

da un impegno interiore e imparava a fare a meno di ogni garanzia esterna”113.

Questa trasformazione provocò un’ampia modifica nella cultura visiva, soprattutto per

quanto riguardava la prospettiva. Infatti questa “restò la forma mentale connaturata agli

artisti e ai tecnici di questo periodo, ma perse la funzione di inquadramento [e di

controllo] delle figure visibili nel sistema gerarchico tradizionale, e divenne una

costruzione geometrica neutrale, che si svolgeva nel nuovo spazio indifferenziato e

poteva esser descritta in termini puramente matematici”114.

Ne derivò che “il punto di fuga da riferimento strutturale divenne un traguardo

accessibile in linea di principio, che poteva essere avvicinato ed esplorato coi mezzi

disponibili. Era un’impresa contraddittoria, perché inseguiva un traguardo

irraggiungibile, ma l’esplorazione razionale del mondo aveva trovato una nuova sede

nella ricerca scientifica, e l’esperienza artistica (…) coltivava insieme a molte altre

follie il tentativo di catturare l’infinito”115.

112
R. Benevolo, op. cit., p. 25
113
Ivi, pp. 27-8
114
Ivi, p. 28
115
Ibidem
83

Questa nuova sfida fu rappresentata nel mondo europeo, nei secoli XVII e XVIII, dalla

progettazione dei giardini116, basata sulla prospettiva rinascimentale, ma resa possibile

dall’unificazione del campo prospettico fino all’infinito117, attraverso la quale “la

cultura artistica non cercava (…) di rappresentare i risultati di quella scientifica, ma

correva dietro al dibattito in corso restando nel suo campo: lasciava cadere le limitazioni

metriche ereditate dalla tradizione, e tentava l’avventura di saggiare sperimentalmente i

suoi limiti costituzionali, dilatando gli allestimenti fisici fin dove lo permettevano le

capacità umane di percezione e di movimento”118.

Questa immensa sfida umana si interruppe intorno alla metà del XVIII secolo, quando

“la corsa verso la grande dimensione proseguì, ma perse il contatto con la percezione

visiva su cui si fondava la cultura prospettica, e si svolse nel mondo astratto della

rappresentazione mentale”119.

In conclusione, la prospettiva che si evidenzia nel periodo illuminista, con la

costruzione di immensi giardini, sembrerebbe porsi su un piano diverso rispetto a quella

rinascimentale.

Nel Rinascimento il punto di fuga della prospettiva era un elemento che serviva alla

costruzione geometrica di uno spazio chiuso, cubico, entro il quale creare e controllare

un mondo e farvi svolgere una determinata vicenda.

Nel Settecento, invece, il punto di fuga veniva ormai considerato come l’infinito da

raggiungere attraverso, ad esempio, giardini sconfinati, in cui era sì presente la volontà

116
Ivi, p. 4. Questi giardini sono, ad esempio, quelli di Versailles, Chantilly, Badminton, Nymphenburg,

Kassel, Torino, Caserta


117
L. Benevolo, op. cit., pp. 60-1
118
Ivi, p. 28-9
119
Ivi, p. 73
84

dell’uomo di controllare lo spazio, ma d’altra parte era anche evidente la sua inevitabile

impossibilità di riuscire nell’impresa, data la vastità di ciò che gli si presentava di

fronte.

Preme sottolineare come nel cinema di Kubrick, gli spazi che vengono mostrati non

siano mai talmente vasti da non poter essere controllati, o quanto meno gestiti

dall’occhio umano. Quindi la prospettiva utilizzata da Kubrick parrebbe evidenziare

caratteristiche che sono riconducibili alla prospettiva rinascimentale120.

In realtà nella filmografia kubrickiana sono presenti anche alcune scene riprese in

prospettiva settecentesca, soprattutto in Barry Lyndon (1975), ma sono minime rispetto

al numero di sequenze in cui la strutturazione dello spazio cinematografico pare

riconducibile al modello della prospettiva quattrocentesca.

120
A questo riguardo sembra di particolare rilievo quanto sostenuto relativamente al film A Clockwork

Orange da Ruggero Eugeni in Invito…, cit., p. 118, “Prima dell’arrivo dei giovani teppisti i due ambienti

[la casa dello scrittore Alexander e la clinica dimagrante della signora Weathers] vengono rappresentati

mediante inquadrature statiche, centrate, simmetriche, cioè secondo i principi della prospettiva centrale

cinquecentesca; gli spazi delle due case sono raffigurati come vere e proprie scatole prospettiche

rinascimentali”. Si rimanda anche alla nota a piè di pagina n° 103 di questo capitolo dove è riportata la

riflessione dello studioso Sandro Bernardi. Cfr. inoltre in questa ricerca il sottoparagrafo concernente i

cenni storici sulla prospettiva ed in particolare l’ultima parte.


85

II.2 PERSPICERE KUBRICK (da The Killing a Full Metal Jacket)

Con la finalità di provare come il regista americano abbia creato nella sua filmografia

uno spazio riconducibile alla prospettiva quattrocentesca, e quindi alla concezione

filosofica che questa comporta121, si analizzeranno ora i film di Stanley Kubrick.

Sottolineando come proprio il gran numero di esempi faccia pensare non ad una

casualità (d’altra parte aliena da Kubrick, estremo perfezionista e curatore di ogni

minimo dettaglio), ma ad una voluta concezione stilistica, si ritiene di dover precisare

che l’analisi delle principali scene elencate di seguito verrà effettuata nel quarto capitolo

di questo lavoro, in correlazione con le scene in cui è presente una costruzione

assimilabile al corridoio (descritte nel terzo capitolo).

Benché, a detta dello stesso regista, il primo “vero” film kubrickiano risulti essere The

Killing, tuttavia già nel “pretty idiotic” Killer’s Kiss è possibile ritrovare “a few very

good bits”, cioè immagini in cui è presente lo stilema visivo esaminato122.

- Davy Gordon, nel suo appartamento, si sta asciugando le mani e attraverso la finestra posta a

lato, si vede Gloria Price, nell’appartamento parallelo al suo;

- Davy Gordon e Gloria Price scendono le scale del condominio;

- Davy Gordon scende nella stazione della metropolitana e la strada di superficie si estende in

profondità in parallelo ad essa;

121
A questo riguardo è interessante che nel testo di Roberto Lasagna e Saverio Zumbo, op. cit., p. 117, si

sottolinei la presenza nei film di Kubrick della “pretesa [dell’uomo] di essere la regione centrale

dell’universo”
122
Sia per questo film, come per gli altri di Stanley Kubrick, le indicazioni generali su dove possa essere

ritrovata una costruzione prospettica, sono proposte secondo lo sviluppo narrativo delle singole opere

cinematografiche.
86

- Gloria Price, vista da Davy Gordon, dopo l’incontro di boxe, attraverso le due finestre dei due

appartamenti;

- Nell’ufficio di Vincent Rapallo, questo a destra dell’inquadratura, Gloria Price a sinistra e in

punto di fuga la luce di una lampada;

- Albert, il manager di Davy, che, in palestra, risponde al telefono e dietro di lui, in profondità, ci

sono i pugili che si allenano;

- Gloria che, ripresa dall’alto, sale le scale del dancing;

- Due killer che, scambiando Albert per Davy, lo portano in un vicolo;

- Ripresa della polizia nell’appartamento di Davy, da lui vista attraverso la finestra

dell’appartamento di Gloria;

- Davy, dopo essere stato catturato dagli uomini di Vincent Rapallo mentre cercava di liberare

Gloria, scappa saltando dalla finestra e corre lungo un vicolo;

- Ripresa della lotta tra Vincent e Davy;

- Gloria che scende le scale della stazione per andare ad abbracciare Davy.

The Killing:

- Mike O’Reilly e Martin Unger al bancone del bar, con il piano del bancone che si spinge in

profondità e due clienti in punto di fuga;

- Johnny Clay parla con la sua ragazza che si sta allacciando la cintura;

- Martin entra nell’appartamento di Johnny, mentre lui e la sua ragazza si stanno baciando.

Struttura geometrico – prospettica divisa su tre piani: Johnny-ragazza / Martin / esterno

dell’appartamento visto dalla porta aperta;

- George Peatty e Sherry nel loro appartamento. Lei va verso una luce da comodino mentre lui si

sposta di fianco a lei. Punto di fuga rappresentato dalla finestra con tende, sullo sfondo;

- Sherry con Val, il suo amante. La finestra con tende sullo sfondo in punto di fuga;

- Val ripreso tra due lampade;


87

- Johnny seduto ad un tavolo con gli altri della banda per organizzare il colpo. Lui a destra e

George sulla linea del punto di fuga;

- George, picchiato da Mike, Kennan e Johnny, ripreso attraverso la ringhiera del letto;

- Johnny, dopo che George è stato portato via dalla stanza, si trova in prospettiva centrale con la

finestra come punto di fuga;

- L’automobile con sopra Mike, Kennan e George che parte sulla strada;

- George parla con Sherry, nel loro appartamento, con finestra con tende in punto di fuga;

- Sherry si arrabbia con George e va verso il letto. Ripresa della stanza con la televisione sul

punto di fuga;

- Nel club scacchistico, Maurice Oboukhoff, criticando un giocatore che ha sbagliato una mossa,

si trova sulla linea del punto di fuga;

- Johnny scende dalla sua macchina e chiede ad un gestore di un motel delle informazioni. In

punto di fuga la vetrina di un negozio;

- Johnny entra ed esce dalla camera del motel;

- Lungo bancone all’aeroporto, con a sinistra gli inservienti e a destra Johnny che compra un

biglietto aereo;

- Mike parla con la moglie e la luce di una lampada in punto di fuga;

- Nello spogliatoio per i dipendenti dell’ippodromo, Mike a sinistra, un suo collega a destra e

sulla linea del punto di fuga un terzo lavoratore;

- Martin ubriaco al bancone del bar e due ragazze sul punto di fuga;

- Mike a destra e Maurice a sinistra, il bancone del bar al centro che si spinge in profondità e un

cliente sul fondo in punto di fuga;

- Nel salone dove si trovano sia gli sportelli per le giocate, sia il bancone del bar, sono ripresi a

destra Maurice, a sinistra Kennan e Johnny in punto di fuga davanti ad una porta;

- Nikki, il killer, in attesa dell’arrivo dei cavalli, con davanti a sé l’ippodromo (questa

inquadratura è ripetuta identica con l’aggiunta del guardiano del parcheggio, a destra della

macchina);

- La partenza dei cavalli, ripresi da dietro;


88

- Un poliziotto riceve notizia della rissa al bar. In prospettiva centrale con un altro poliziotto;

- Durante la rapina effettuata da Johnny: i quattro addetti agli incassi, uscendo dalla stanza si

trovano, a sinistra, sul punto di fuga, Johnny su un lato e il sacco pieno di soldi al centro;

- Mike, Martin, George, Kennan, in un appartamento, nell’attesa che arrivi Johnny;

- Dopo che nell’appartamento sono entrati Val ed un suo complice, Mike, Martin e Kennan con le

mani in alto, con Mike sul punto di fuga;

- Johnny, ripreso di spalle, in automobile con i soldi della rapina, con un'altra automobile

posteggiata in punto di fuga;

- In prospettiva centrale gli inservienti dell’aeroporto a sinistra, al centro il bancone che si spinge

in profondità sulla destra la signora con il cagnolino Fifì;

- Johnny e la sua ragazza, fuori dell’aeroporto, dopo aver superato la porta a vetri.

Paths of Glory:

- Sulla scritta in sovrimpressione 1917, ripresa in prospettiva centrale di una truppa che sta

facendo delle manovre;

- Nel castello. Broulard e Mireau al tavolino e poi in piedi con punto di fuga rappresentato prima

dal finestrone sul fondo e poi, quando i due si muovono, dal quadro posto sopra il camino;

- Mireau in punto di fuga mentre colpisce un soldato in preda da shock da esplosione;

- Rifugio in trincea del colonnello Dax, con lui che si sta lavando;

- Durante il dialogo tra Dax e Mireau, vari punti in prospettiva centrale;

- Esterno nella trincea. Dax in punto di fuga tra il generale ed il suo aiutante;

- Il caporale Paris, il soldato Lejeune e il tenente Roget, i tre che dovranno andare in

perlustrazione, nel rifugio in trincea di Roget, con le spalle di quest’ultimo sul punto di fuga;

- Stesso ambiente. Tenente al centro e una candela e una bottiglia ai lati;

- I tre in perlustrazione si fermano dietro un riparo di terra;

- Caporale Paris nel rifugio di Roget con quest’ultimo. Paris a destra, Roget a sinistra e luce (poi

colonna di legni) al centro;


89

- Arrivo di Dax. Lui in punto di fuga tra i due;

- Generale Mireau, che guarda col binocolo il campo di battaglia, al centro e i suoi due aiutanti ai

lati;

- Il capitano al telefono di campo, mentre trasmette all’artiglieria le coordinate per colpire gli

stessi soldati francesi che non escono dalle trincee durante l’attacco, con la porta sul fondo, in

punto di fuga;

- Nel castello. Dax con Broulard e Mireau con in punto di fuga o finestre o quadri sul fondo.

Broulard di spalle con finestra sullo sfondo e ai lati Dax e Mireau.

- I tre si alzano. Dax al centro con il camino dietro di lui in punto di fuga e i due generali ai lati;

- Dax fuori della prigione dove si trovano i tre “codardi”. Lui al centro con sidecar sulla destra in

punto di fuga;

- In cella. Dax a sinistra, caporale Paris a destra e finestra al centro, in punto di fuga. Quindi si

sposta nella cella, con gli altri due carcerati, Arnaud e Ferol: altra finestra sul fondo in punto di

fuga;

- Processo123. Gli imputati si siedono. Prospettiva centrale con finestra sul fondo;

- Ferol davanti alla giuria con finestre in punto di fuga;

- Mezzo busto di Ferol e sul fondo tre strutture ad arco. Ad ogni arco corrisponde un imputato a

sedere (questa struttura simmetrica si ripete anche per la deposizione di Arnaud e Paris);

- Quando Dax si ferma, durante la sua arringa finale;

- I tre condannati mangiano il loro ultimo pasto;

- I tre, quando entra il prete, sono al centro, in prospettiva centrale;

- Confessione del caporale Paris al prete;

- Dax, nella sua stanza, mentre parla con il tenente Roget è sul letto e si toglie gli stivali:

prospettiva centrale con sua ombra in punto di fuga;

- Quando Broulard riceve una notizia da parte di un soldato, si trova sul punto di fuga della

prospettiva creata dalle coppie di danzatori di valzer;

- Dax parla con Broulard e tavolino sul fondo in punto di fuga;

123
Cfr. Ruggero Eugeni, Invito…, cit., pp. 48-9
90

- I due si dirigono verso la porta per uscire e questa si trova in punto di fuga sul fondo;

- Broulard, mentre cammina verso porta, si ferma e si gira a guardare Dax;

- Entrata nella cella, in prospettiva centrale, di alcuni soldati per portare davanti al plotone

d’esecuzione i tre condannati;

- Il caporale Paris parla con il comandante del plotone d’esecuzione: finestra al centro in punto di

fuga;

- Il plotone d’esecuzione, ripreso dal davanti, con il castello in punto di fuga;

- Il lettore del motivo dell’esecuzione;

- Ripresa dell’esecuzione dalle spalle del plotone;

- Nel castello. Dialogo Mireau e Broulard con due finestre sul fondo.

- Sulla sinistra generale Broulard, al centro Dax e in punto di fuga un quadro;

- Dax a sinistra, Broulard a destra e porta sul fondo;

- Gestore della taverna che presenta la ragazza tedesca e arrivo di quest’ultima;

- Dax, fuori della taverna, riceve notizia di dover tornare al fronte con i suoi soldati.

Spartacus124:

- Sentinella romana a sinistra e poi staccionata, mentre in punto di fuga si vedono le montagne;

124
Per quanto riguardava la fabula del film, Stanley Kubrick fu costretto da Kirk Douglas (l’ideatore e il

produttore) e da Dalton Trumbo (lo sceneggiatore) ad essere un semplice esecutore delle loro decisioni,

senza possibilità di modificare alcunché. Un esempio di tale impossibilità di intervenire sulla storia lo

testimoniò Alexander Singer, amico di Kubrick che, durante le riprese del film, venne a sapere dallo

stesso regista che “each morning he [Kubrick] was barely aware of what he was to shoot that day. Dalton

Trumbo was furiously rewriting the script, and Kubrick did not have the total command his psyche

required” [da Vincent LoBrutto, Stanley Kubrick. A Biography, Faber and Faber Limited, London 1998

(Ed or.: Donald I. Fine, New York 1997), p. 182]. Al contrario Kubrick ebbe maggiore libertà, anche se

non totale, nella costruzione dell’impianto visivo, come quando, ad esempio, poté tranquillamente
91

- Arrivo di Lentulo Batiato, con schiavi al seguito, nella scuola di gladiatori;

- Mezzo busto di Spartaco e in punto di fuga Lentulo Batiato che tiene il discorso ai nuovi

arrivati;

- Quando Marcello dà a Spartaco una spada per combattere, il primo si trova a sinistra, il secondo

a destra, entrambi sono di profilo, con alcuni allievi gladiatori posti in diagonale e altri sulla

linea del punto di fuga;

- I gladiatori si lavano ed al centro, sul fondo, una colonna di pietra;

- Arrivo delle donne nell’androne delle celle degli schiavi;

- Lavinia vista da Spartaco, mentre lei versa del cibo in un cesto;

- Spartaco nella sua cella dopo che Marcello ha allontanato Lavinia che stava per entrarvi;

- Una schiava mentre riempie di cibo le scodelle tenute in mano da Lavinia e in punto di fuga si

vedono alcuni schiavi;

- Lavinia mentre passa a versare l’acqua nelle tazze degli schiavi;

- Quasi al centro dell’immagine Crasso, di profilo, più a sinistra Lentulo Batiato, mentre a destra

due nobili romane e Glabro, in punto di fuga una tenda;

- Ripresa dall’alto con la cancellata di ferro e dietro a questa i quattro gladiatori scelti per il

combattimento;

- Crasso che scopre da un velo la statua di Gracco e in punto di fuga una porta;

- Costruzione di legno in cui aspettano i gladiatori prima di entrare nell’arena e, quando si apre la

porta, in punto di fuga, Marcello;

- Draba appeso a testa in giù, in alto a destra, quando gli schiavi tornano nell’androne delle celle;

- Ripresa, attraverso un rettangolo della rete di ferro, di una guardia romana che scappa per

avvertire della rivolta degli schiavi;

- Schiavi che con un peso sfondano la rete;

- All’interno del senato romano. Cesare e Gracco di spalle con la scalinata in punto di fuga;

- Uscita di Glabro dal senato;

rifiutare di girare in studio la scena in cui veniva mostrato l’esito dello scontro tra romani e schiavi,

semplicemente perché non gli piaceva: “I don’t like it, I want to do it outside.” [idem, p. 180]
92

- Crasso che, nella sua villa, tra diversi schiavi sceglie Antonino;

- Villa di Crasso. Questi a destra, Glabro a sinistra e colonna bianca ed arancione in punto di

fuga;

- Quando Spartaco torna nella sua cella della scuola per gladiatori dopo la rivolta;

- Lentulo Batiato che mangia, a sinistra, Gracco a destra e in punto di fuga una colonna;

- Antonino e Crasso, quando il primo asciuga il secondo uscito dalla piscina;

- Ripresa di Roma attraverso due colonne della villa di Crasso, ed in punto di fuga le montagne;

- Spartaco con Antonino a sinistra, che gli legge notizie riguardanti il Metaponto, prima che arrivi

il pirata cilicio;

- A Metaponto, Spartaco a tavola, al centro, che versa da bere agli altri commensali posti ai lati

del tavolo, dopo che ha toccato il “pancione” a Lavinia;

- Crasso che, nelle terme, parla con Cesare, ed in punto di fuga un arco della costruzione;

- Nelle terme. Crasso a sinistra e Cesare e Gracco a destra, sul punto di fuga altri uomini delle

terme;

- Abitazione di Gracco. Cesare a destra, Gracco a sinistra e in punto di fuga una guardia davanti

alla porta;

- Arrivo a cavallo di Crasso presso Antonino e Spartaco incatenati;

- Gracco che, in casa sua, si dirige dietro una tenda per uccidersi;

- Lentulo Batiato a destra dell’immagine, mentre Lavinia, in secondo piano, sempre a destra,

saluta Spartaco crocifisso ed in punto di fuga la fila di croci con gli schiavi;

- Fila di croci ai lati e il carretto, con sopra Lentulo Batiato, Lavinia e figlio, che procede verso il

punto di fuga.

Lolita:

- Casa di Quilty. Questo a destra, su una poltrona, sotto un lenzuolo, Humbert a sinistra e in punto

di fuga una porta con tavolino da ping-pong che disegna la prospettiva;

- Humbert e Quilty giocano a ping-pong e in punto di fuga due quadri;


93

- Quilty si mette i guantoni e sul punto di fuga Humbert;

- Charlotte Haze mostra il bagno ad Humbert;

- Charlotte e Humbert giocano a scacchi. Lolita dà loro la buonanotte. Una porta sul fondo in

punto di fuga;

- Sala da ballo. Humbert mentre beve un cocktail parla con Jean Farlow e sul punto di fuga lo

striscione della festa;

- Sala da ballo. Humbert su una balconata, attorniato dai coniugi Farlow e da Charlotte e in punto

di fuga i ragazzi che ballano;

- Casa Charlotte. Lei accenna delle mosse di danza e Humbert in piedi, la finestra aperta sul

fondo in punto di fuga (stessa inquadratura quando lui mangia delle noccioline dopo l’arrivo di

Lolita);

- Lolita mangia un panino in primo piano, su un secondo livello spaziale Charlotte e Humbert

posto sulla linea disegnata dal muro;

- Charlotte prepara la colazione a Lolita;

- Ripresa dall’alto di Charlotte ai piedi della scala con la ringhiera a destra;

- Humbert con porta dietro le spalle sul punto di fuga, dopo che Lolita l’ha salutato dovendo

partire per il campeggio;

- In prospettiva centrale sia Charlotte fuori dal bagno sia Humbert nel bagno che sta scrivendo;

- Pistola in primo piano, Humbert in secondo e Charlotte in terzo, Finestra in fondo sul punto di

fuga;

- Porta del bagno aperta da Humbert e in fondo vasca da bagno;

- Humbert che, in casa, corre verso la porta d’uscita, con la scala alla sua sinistra (dopo che al

telefono gli è stato riferito che Charlotte è morta);

- Humbert, ripreso di lato nella vasca da bagno, a destra, i coniugi Farlow, in secondo piano, a

sinistra, il padre del ragazzo che ha investito Charlotte, a destra, sullo stesso piano dei coniugi e

in punto di fuga la porta del bagno e l’esterno di questo;

- Quilty parla con il portiere dell’albergo ed in punto di fuga si vedono i vari clienti;

- Quilty sulla destra e Humbert con Lolita sulla linea del punto di fuga;
94

- Quilty, a sinistra e in primo piano che legge i fumetti, mentre al centro e sulla linea del punto di

fuga si trova Humbert;

- Veranda dell’albergo. Quilty a sinistra dell’inquadratura in primo piano e Humbert a destra in

secondo piano, vicino alla linea del punto di fuga;

- Corridoio dell’albergo fuori della stanza di Humbert, con sulla sinistra il cameriere che ha

portato il letto;

- Dopo che Lolita ha chiesto ad Humbert di poter partecipare alla recita della scuola, si vedono i

due di profilo ed in punto di fuga la lampada vicino alla finestra;

- Ripresa di Quilty (travestito da psicologo della scuola) sulla sinistra e Humbert a destra con sul

punto di fuga o un tavolino con sopra lampada e sveglia o la finestra,

- Dopo la recita scolastica, dietro le quinte, Humbert a destra che parla con l’insegnate di

pianoforte di Lolita, e a sinistra, che si spinge in profondità, la fila degli attori che ricevono gli

applausi;

- In automobile. Con Humbert a destra al volante e Lolita a sinistra sul sedile posteriore, ripresa,

attraverso il finestrino posteriore della macchina, di un’altra macchina sulla linea del punto di

fuga;

- Camera d’albergo di Humbert quando squilla il telefono di notte;

- Lolita a sinistra, Humbert sul letto e, oltre la finestra sul punto di fuga, il marito di Lolita con un

suo amico, alle prese con un lavoro nel giardino;

- Il marito di Lolita davanti al frigo, Humbert a destra ed in fondo, sulla linea del punto di fuga,

Lolita con l’amico del marito;

- Humbert che scappa dalla casa di Lolita, con la file delle case sulla sinistra.

Dr. Strangelove:

- Ripresa del generale Ripper con in bocca un sigaro e sul fondo una finestra;

- Lo stesso nella sua stanza;


95

- Bombardiere. Primo piano del maggiore T.J. “King” Kong con la carlinga che si spinge in

profondità dietro a lui. Ripresa degli altri membri dell’equipaggio sull’aereo;

- Segretaria del generale Turgidson che risponde al telefono in una stanza, ricca di specchi, che

creano una profondità apparente;

- Varie scene della base dello Strategic Air Command, in rapido montaggio, quando il generale

Ripper arringa i suoi soldati per infondere loro coraggio riguardo all’imminente guerra;

- Ripresa del capitano Mandrake che porta la radiolina che trasmette musica rock per la base in

direzione dell’ufficio del generale Ripper;

- Ufficio del generale Ripper. Questo di spalle e Mandrake davanti a lui;

- Ripresa del presidente Muffley, con uomini attorno, quando gli viene riferito del lancio delle

bombe atomiche;

- Stessa situazione. Ripresa del generale Turgidson con alcuni uomini alle sue spalle;

- Il generale Turgidson che parla, al telefono, con la sua segretaria;

- Ripresa del presidente Muffley, al centro tra due uomini, di spalle;

- Entrata dell’ambasciatore sovietico nella War Room, con schermo sul fondo in punto di fuga;

- Ripresa delle scene di battaglia in semi-soggettiva dal punto di vista di una mitragliatrice;

- Generale Turgidson, al centro, con ai lati due uomini di cui si vedono solo le spalle, mentre

ascolta la conversazione tra il presidente Muffley e il segretario sovietico;

- Mandrake e Ripper sul divano, nell’ufficio di quest’ultimo;

- War Room. Prospettiva centrale con ambasciatore russo sulla sinistra, il presidente Muffley a

destra e al centro il generale Turgidson;

- Dottor Stranamore, sulla carrozzina, al centro e due uomini, in piedi, ai suoi lati;

- Presidente sulla sinistra, ambasciatore sulla destra e di spalle, e dottor Stranamore ( di spalle e

di cui si vedono solo i capelli) in primo piano e al centro;

- Ripresa di Ripper e Mandrake di lato, durante la battaglia, con finestra in punto di fuga;

- Entrata del colonnello Guano nell’ufficio del generale Ripper, dopo che questo si è suicidato;

- Primo piano del fucile, tenuto in mano dal colonnello Guano e Mandrake, davanti, con le mani

alzate;
96

- War Room. Al buio, ripresa del presidente Muffley di schiena e cartina luminosa del mondo

davanti a sé;

- Presidente Muffley che parla al telefono con il segretario russo;

- Interno bombardiere, dove si trovano le bombe. Il maggiore T.J. “King” Kong vi entra con una

luce portatile per riuscire a far sganciare la bomba atomica;

- Ripresa del generale Turgidson e del presidente Muffley che ascoltano il discorso del dottor

Stranamore;

- Ambasciatore russo che, mentre si allontana dalla War Room, si mette in ginocchio e scatta

delle foto “spionistiche” con una piccolissima macchina fotografia.

2001: A Space Odyssey:

- Ripresa da lontano delle scimmie che stanno bevendo attorno allo stagno;

- Arrivo delle scimmie “rivali” con le scimmie del primo gruppo sul punto di fuga;

- Scimmie che mangiano i resti di un animale ucciso;

- Dottor Floyd che dorme e prospettiva centrale del corridoio dell’astronave;

- Dottor Floyd che incontra un assistente;

- Salone con poltrone rosse dove incontra gli scienziati russi;

- Idem. Floyd al centro e in punto di fuga parete bianca;

- Hostess che porta il pranzo al dottor Floyd;

- Atterraggio della piccola astronave che “entra” nella base di Clavius;

- Sala riunione da dietro le spalle di Floyd;

- Idem. Floyd parla agli altri scienziati e si trova sulla linea del punto di fuga;

- Astronave che, in direzione del monolite, passa attraverso un canyon;

- Atterraggio dell’astronave, ripreso attraverso un finestrone posto all’interno della base spaziale;

- Luogo dove si trova il monolite illuminato da luci artificiali;

- Controcampo. Ripresa da dietro il monolite degli astronauti che si avvicinano a piedi;


97

- Prima della foto ricordo, prospettiva centrale davanti al monolite con luci artificiali in punto di

fuga;

- «Occhio» di Hal, prima al centro fra quattro schermi, poi, da solo, in primo piano;

- Frank che ascolta gli auguri di compleanno da parte dei suoi genitori;

- David davanti ai monitor e all’«occhio» di Hal;

- David e Frank, mentre fanno controlli dopo il guasto segnalato da Hal;

- Ripresa in grandangolo, in soggettiva dall’occhio di Hal, dei due astronauti che controllano una

scatola di circuiti, presunta guasta;

- Idem. Ripresa stessa scena, con le due capsule di salvataggio ai lati;

- I due che ascoltano di spalle Hal;

- I due dentro una capsula, uno di fronte all’altro, con «occhio» di Hal in punto di fuga;

- Ripresa, attraverso il vetro di una capsula, di Frank, che vaga morto nello spazio, trovandosi sul

punto di fuga;

- La capsula, con a bordo David, in attesa di rientrare nell’astronave;

- La capsula, di spalle, da cui si sta per espellere David per rientrare nell’astronave attraverso un

condotto;

- David dentro la “mente” rossa di Hal;

- Ripresa del messaggio visivo registrato da Floyd in punto di fuga;

- David che, nella stanza settecentesca, vede sé stesso di spalle che sta mangiando ad un tavolino

bianco;

- David invecchiato che torna al tavolino dove stava mangiando;

- David molto vecchio, sul letto di morte, ripreso di lato;

- Il monolite in prospettiva centrale davanti al letto con sopra David, ripreso da dietro l’uomo,

con due statue sul fondo;

- Idem, ma senza che David entri nell’inquadratura.


98

A Clockwork Orange:

- I quattro drughi quando arrivano nei pressi del vecchio ubriacone che si trova a terra a sinistra;

- Il palcoscenico del teatro dove i drughi si picchiano con una banda rivale;

- La casa dello scrittore Alexander. Moglie sulla poltrona a destra e una porta aperta sul punto di

fuga;

- Alexander di lato, con macchina da scrivere davanti a sé ed in punto di fuga un muro bianco;

- Alex che balla, tirando calci allo scrittore a terra a destra, e luci sul fondo;

- Casa di Alex. Lui che, in bagno, fa la pipì;

- Ripresa di lato della madre che bussa alla porta della camera di Alex;

- Camera di Alex con lui a letto sulla destra e, sul punto di fuga, un’immagine di Beethoven;

- Cucina con i genitori di Alex che fanno colazione;

- Stanza in cui si trova a sedere l’assistente sociale Deltoid;

- Negozio di dischi. Ripresa di Alex con le due ragazze a sinistra, lui a destra e, sul punto di fuga,

una luce rossa;

- Stanza di Alex quando questi si porta a letto le due ragazze;

- Ripresa dei tre drughi che attendono Alex nell’androne di casa sua;

- I quattro drughi che camminano al limitare del fiume;

- I quattro in una taverna;

- Stanza dove la signora Weathers fa ginnastica e poi telefona alla polizia;

- Atrio della porta d’ingresso dove la signora chiede chi abbia suonato;

- Ripresa dal punto di vista di Alex, con pene che si muove alla sua destra, la signora Weathers in

secondo piano e una tenda verde sul punto di fuga;

- Carcere. Alex che, ripreso di spalle arriva davanti alla scrivania dove dovrà consegnare i suoi

oggetti personali;

- Alex ripreso al centro in secondo piano, ed in primo, di schiena, due poliziotti posti ai due lati

dell’immagine;
99

- Prete del carcere che tiene una predica, con sul punto di fuga una vetrata e Alex posto in su

questa linea visiva;

- Biblioteca. Alex, di lato, mentre legge la Bibbia e sul punto di fuga il prete che cammina in

direzione di questo;

- Alex al centro, con la biblioteca che si spinge in profondità;

- Quando Alex e il prete parlano della cura Ludovico tra due ali di libri;

- Carcerati posti in cerchio nel cortile della prigione;

- Stanza di Alex visitata dal ministro con poliziotti, fuori di essa, in punto di fuga;

- Carcerati, posti in diagonale, osservati dal ministro che dal punto di fuga sale verso Alex;

- Ufficio del direttore con questi e Alex di lato alla scrivania e finestra con tendine sul punto di

fuga;

- Cinema in cui Alex vede i film di violenza con, sulla linea del punto di fuga, i dottori;

- Ripresa di lato del pubblico a destra e della pedana a sinistra, con sul punto di fuga la porta da

cui escono il ministro e Alex;

- Ministro che parla al pubblico con, in secondo piano e a sinistra Alex, ed in punto di fuga la sua

ombra;

- Casa Alex. Camera sua quando torna a casa;

- Stanza con padre a sinistra, madre e Joe a destra, e a destra Alex. In punto di fuga il forno;

- Stanza da bagno. Alex nella vasca con, sulla linea del punto di fuga, l’immagine del lavandino

riflessa dallo specchio;

- Alex che mangia sul tavolo di vetro con porta aperta sul punto di fuga;

- Alexander che versa del vino ad Alex, ripreso di lato, e, nell’angolo a destra dell’immagine, il

braccio di Julian;

- Ripresa delle cinque persone al tavolino (Alex, Julian, Alexander e due amici di quest’ultimo;

- Alex che, ascoltando la musica di Beethoven, non sopporta più il disgusto e si dirige verso la

finestra per suicidarsi;

- Ospedale. Alex sulla sinistra, a letto e quasi completamente ingessato, e sulla linea del punto di

fuga una colonna bianca;


100

- Alex a letto, i genitori alla sua destra e sul fondo delle finestre;

- Al centro Ministro che imbocca Alex, questi a sedere sul letto e, sul fondo, finestra con tende;

- Alex, tra due file di spettatori, che fa l’amore con una ragazza che sta sopra di lui.

Barry Lyndon:

- Barry, di lato, mentre guarda la cugina Nora ballare con il capitano Quin, con dei danzatori sul

punto di fuga;

- La tavolata con lo zio di Barry che tiene un discorso per le nozze di Nora con Quin;

- Barry al centro, zio a sinistra e capitano Quin a destra;

- Quando Barry si allontana, a cavallo, dalla tavolata assieme al capitano Grogan;

- Arrivo a cavallo di Barry alla locanda;

- Nel bosco quando viene derubato. Barry di schiena, il capitano Freny al centro e il secondo

bandito a destra;

- Reclutatore dell’esercito ripreso di lato con vari ascoltatori in punto di fuga;

- Barry, al centro, che ascolta il reclutatore, con questi a destra, e sul fondo, alle sue spalle un

arco architettonico in pietra;

- A sinistra passaggio di una truppa di soldati inglesi verso il punto di fuga e a destra, Barry,

fermo assieme ad altri soldati, posti in diagonale;

- Quando il capitano Grogan viene ferito e Barry lo soccorre i soldati inglesi che li superano per

andare contro i francesi, si dirigono verso il punto di fuga;

- Barry incontra Lischen sul sentiero;

- Ripresa della tavola con Barry al centro, con candele davanti a lui e Lischen a destra;

- Barry parla con il capitano Potzdorf e dietro di loro il sentiero in punto di fuga;

- Dopo l’esplosione, Barry a terra sulla destra e le fiamme sul punto di fuga;

- Quando riceve la medaglia al valore Barry a destra, a sinistra i tre militari che gli conferiscono il

riconoscimento ed in punto di fuga alcuni soldati;

- Barry mentre ascolta le indicazioni di Potzdorf e del ministro su come comportarsi con Balibari;
101

- Sulla carrozza che viaggia. Potzdorf a sinistra, Barry a destra e al centro un vetro che apre la

vista sul punto di fuga;

- Quando Barry va da Balibari, e questi si trova a sinistra, al tavolo da pranzo;

- Al tavolo da gioco. Balibari a sinistra, al centro un grosso lampadario e a destra un nobile ed un

contabile;

- Uscita dalla stanza del nobile con il contabile con Barry sul punto di fuga;

- Ripresa del duello per la riscossione del pagamento;

- Al tavolo da gioco. Lampadario al centro. Alcuni giocatori a sinistra e a destra Barry e Balibari;

- Giardino. Balibari a sinistra e Barry a destra, seduti ad un tavolino, con una statua di marmo sul

punto di fuga;

- In carrozza in viaggio. Bullingdon a sinistra, cappellano Runt a destra e vetro al centro che apre

sul punto di fuga;

- Quando Barry ha intenzione di diventare pari d’Inghilterra. Mentre giocano a carte lui a destra e

Lord Adam a sinistra;

- Quando il re parla con i nobili inglesi posti in diagonale e il re avanza dal punto di fuga verso

Barry;

- Sala dei conti. Lady Lyndon a sinistra, il contabile Graham a destra e due finestre sul fondo;

- Gustavo Adolfo al tavolo del ristorante, Barry ad un altro tavolo a sinistra e una porta sul punto

di fuga;

- Dopo che Barry ha acquistato il cavallo per Bryan, ripresa della sala da pranzo con una porta sul

punto di fuga;

- Sala dei conti. Madre di Barry di spalle e al centro, e il cappellano Runt a destra;

- Cascina in cui vengono preparate le pistole per il duello e sul fondo si notano quattro fessure di

cui due a croce;

- Quando l’arbitro del duello indica a Barry il punto in cui dovrà stare e sul fondo si notano

cinque fessure, due verticali, due a croce e una quinta sopra le altre;

- Ripresa dalle spalle di Bullingdon di spalle, con arbitri e padrini a sinistra e Barry in fondo,

dopo che questi ha sparato a terra;


102

- Stanza di una taverna. Ripresa di lato di Barry, a destra, sdraiato sul letto, a sinistra il dottore,

sul fondo due personaggi e dietro di loro una finestra che apre lo sguardo sul punto di fuga

costituito da delle nuvole;

- Ripresa della sala dei conti dove Lady Lyndon che firma assegni.

The Shining:

- Ufficio di Ullman, con questi sulla linea del punto di fuga, Jack a destra e Bill a sinistra;

- Salone dell’albergo. Bill in secondo piano, Ullman a sinistra e Jack a destra, quando i primi due

stanno per far visitare l’albergo al futuro guardiano;

- Ripresa della dispensa quando Halloran illustra a Wendy quali viveri vi siano contenuti;

- Salone con al centro la scrivania e la macchina da scrivere, sul fondo la scalinata e in fondo a

destra Jack che lancia la palla;

- Jack quando guarda il modellino del labirinto;

- Salone. Jack di spalle, seduto alla scrivania, e Wendy che va via, verso la scalinata sul fondo,

dopo che Jack le ha detto che non deve disturbarlo;

- Stanza dove Wendy cerca di telefonare;

- Ufficio di Ullman dove si trova la radiotrasmittente e Wendy si mette in contatto con la locale

guardia forestale;

- Stanza della guardia forestale dove un agente parla con Wendy;

- Corridoio, visto in soggettiva da Danny, dove appaiono le figlie di Grady, prima vive, poi

morte;

- Appartamento dei Torrance. Jack, seduto su un lato del letto visto in soggettiva da Danny con la

finestra del bagno nel punto di fuga;

- Idem, ma immagine più vicina con Danny seduto sulle gambe di Jack;

- Quando Jack accende le luci del salone da ballo;

- Jack, a sinistra, seduto al bancone del bar, con questo che si spinge verso il punto di fuga;
103

- Camera 237. Stanza da bagno con sul fondo una vasca da bagno, con una tenda tirata a metà, da

cui esce una donna tutta nuda;

- Fuori della camera 237. Jack, che dopo aver chiuso la porta della camera, scappa lungo il

corridoio;

- Halloran che prova a telefonare all’Overlook Hotel, con la lampada del comodino nel punto di

fuga;

- Jack e Wendy in camera da letto;

- Nel Salone. Jack sulla sinistra, barman a destra e al centro il bancone del bar che si spinge verso

il punto di fuga;

- Bagno in cui Grady pulisce la giacca di Jack;

- Ufficio di Ullman, quando Jack va a spaccarvi la radiotrasmittente;

- Quando Wendy, con la mazza da baseball, si dirige verso la scrivania di Jack e si ha la scalinata

sul fondo;

- Jack vicino alla scrivania, con sullo sfondo la finestra resa luminosa dalla luce del giorno, dopo

che ha scoperto Wendy a leggere i suoi fogli;

- Jack chiuso nella dispensa.

Full Metal Jacket:

- Ripresa della camerata quando Jocker dice la battuta su John Wayne e tutte le altre reclute

davanti ai letti;

- Quando Hartmann dà una bella strigliata a Jocker;

- Palla di Lardo, che viene “rimproverato” da Hartmann, ha dietro di sé, in punto di fuga, una

finestra;

- I soldati che superano gli ostacoli del percorso di guerra;

- Quando Palla di Lardo sbaglia ad imbracciare il fucile, si ha in punto di fuga e a destra lo

stradone, a sinistra le reclute e al centro Hartmann che lo insulta;


104

- Discorso da parte di Hartmann, fatto all’interno della camerata, sull’importanza del fucile per un

marine;

- Prospettiva centrale del piano sottostante (poi soprastante) dei letti a castello, dove si trovano

sdraiate le reclute;

- Jocker insegna a Palla di Lardo a montare il fucile con in punto di fuga dei soldati che si

addestrano;

- Jocker insegna a Palla di Lardo a mettere le stringhe agli stivali;

- Palla di Lardo mangia il suo dolce, mentre le altre reclute fanno flessioni;

- Jocker sistema la camicia a Palla di Lardo;

- Le reclute che fanno esercizi con il fucile e Hartmann che cammina dando loro ordini;

- Hartmann che parla alle reclute che sono sedute su una tribuna;

- Jocker con Cowboy mentre puliscono i bagni;

- Hartmann che dice ai soldati in camerata che finalmente sono diventati marines;

- Palla di Lardo nel bagno, si alza dal water e fa gli esercizi con il fucile;

- Hartmann esce dalla sua camera e si dirige nei bagni con la camerata che si spinge in

profondità;

- Quando Palla di Lardo uccide Hartmann;

- Vietnam. Jocker sdraiato sul letto, a sinistra, la camerata che si spinge in profondità al centro e

le luci di questa in alto a destra;

- Opposta inquadratura con un altro giornalista militare sdraiato sul letto e luci in alto a sinistra;

- Ripresa di lato di Jocker che, all’interno di un rifugio e con una mitragliatrice, spara ai vietcong

con in punto di fuga gli altri marines che sparano;

- Tenente Lockart al centro, Jocker e Rafterman a sinistra, quando loro due vengono spediti in

prima linea;

- Jocker e Rafterman sull’elicottero con in punto di fuga il fondo di questo;

- A sinistra, verso la macchina da presa, camminano i marines, al centro scorre un piccolo fiume,

e a destra camminano, allontanandosi dalla macchina da presa, i vietnamiti del sud;


105

- Jocker a sinistra, il colonnello a destra e dietro di loro, spingendosi in profondità, la fossa con i

cadaveri dei vietnamiti del sud uccisi dai vietcong;

- Jocker, dopo aver ritrovato Cowboy, parla con Animal Mother e Rafterman è sul punto di fuga;

- I soldati del gruppo di Cowboy sdraiati in una costruzione rettangolare;

- Touchdown ucciso e ripresa da dietro il carro armato;

- Ripresa dall’alto di Hand Job e Touchdown morti a terra;

- Interviste effettuate ai marines con rovine o fiamme in punto di fuga;

- Prostituta a sinistra, soldati a sedere a destra e la strada che si spinge in profondità sul lato

opposto della macchina da presa;

- Crazy Earl viene colpito dal cecchino e mentre un soldato gli pratica la respirazione bocca a

bocca, si vede Jocker dietro di loro, al centro e in punto di fuga una casa in fiamme;

- Vari momenti in cui i soldati avanzano verso l’edificio dove si trova il cecchino;

- Cowboy che dà ordini e dietro a lui si vedono gli altri marines;

- I due marines morti, con in punto di fuga le fiamme di un edificio;

- Cowboy, ferito, viene aiutato da alcuni marines e in punto di fuga si vede una ciminiera che

fuma;

- Marines fermi, mentre cercano di prendere alle spalle il cecchino;

- Jocker, nell’edificio dove si trova il cecchino, avanza al centro dell’inquadratura;

- Prospettiva centrale con Jocker, a destra, che canta con gli altri marines posti in diagonale sulla

linea del punto di fuga.

Attraverso questa lunga rassegna comparativa si è cercato di mostrare come il tipo di

costruzione prospettica messo in scena da Stanley Kubrick nella sua filmografia sia

riconducibile più ad una concezione rinascimentale, chiusa e quindi direttamente

gestibile e controllabile dall’occhio umano, che non ad una concezione illuministica,

dove l’occhio dell’uomo non è in grado di percepire la totalità della visione.


106

III.1 IL CORRIDOIO

III.1.1 Etimologia

Il lemma corridoio viene definito dal Battaglia come “ambiente stretto e di forma

allungata, destinato a dare accesso a una semplice o doppia fila di locali (…), o a servire

di passaggio tra un locale e un altro, all’interno di un edificio”1.

Se la prima caratteristica del corridoio è rappresentata dalla forma, stretta ed allungata,

la seconda è costituita dalla sua funzione di disimpegno, cioè di passaggio tra diversi

locali.

A questo proposito il Cortelazzo/Zolli ci informa che il sostantivo passaggio deriva dal

verbo passare che vuol dire “percorrere il tratto o lo spazio che separa due luoghi,

andando dall’uno all’altro”2.

Quindi il corridoio indicherebbe uno spazio che serve per andare da un luogo ad un

altro, in poche parole, come già detto, un passaggio.

E’ d’altronde curioso notare che nella lingua inglese, (quindi non neo-latina come

l’italiano) il sostantivo italiano corridoio è tradotto con il termine passage3. Anche nella

lingua tedesca, appartenente al medesimo ceppo linguistico dell’inglese, si ritrova la

1
Salvatore Battaglia (a cura di), op. cit., vol. III, p. 829. Inoltre il corridoio è assimilato, per estensione, a

“un passaggio, via o sentiero che si inoltra a modo di galleria” ed anche al “cunicolo di una trincea”.
2
M. Cortelazzo e P. Zolli, op. cit., vol. IV p. 887
3
Giuseppe Ragazzini, Dizionario inglese-italiano / italiano-inglese, Zanichelli, Bologna 1967, p. 1119
107

stessa situazione. Infatti la voce corridoio è tradotta con der Gang4, termine che

propriamente indica l’andatura, il movimento, l’andamento5.

Comunque l’elemento che sembrerebbe risultare perspicuo nel termine

passaggio/passare è l’andare, il muoversi da un punto ad un altro. Quindi la

caratteristica fondamentale del lemma passaggio parrebbe essere il movimento.

Dato che il corridoio assume la funzione di passaggio, sembrerebbe logico affermare

che anche il termine corridoio implichi l’idea di movimento.

Infatti la voce corridoio deriva da correre6, che vuol dire andare con gran velocità.

Tale significato deriva direttamente dal verbo latino currere che significa, appunto,

courir7. Inoltre questa idea di movimento si può ritrovare anche nella lingua greca

antica, dove il termine corridoio era indicato con la parola drómos, cioè il luogo dove si

corre8.

L’andare a gran velocità, il correre, non indicano forse movimento? E se il corridoio è il

luogo dove si corre, questo non implicherà forse l’idea del movimento?

Perciò sembrerebbe che il corridoio sia uno spazio in cui ci si muove per andare nella

direzione opposta da quella da cui si è venuti.

D’altronde, il movimento che caratterizza il corridoio, non è del corridoio, il quale ha

solo una funzione di passaggio, ma è o di persone o di oggetti che si muovono al suo

interno.

4
Emilio Bidoli e Guido Cosciani, Dizionario Italiano-Tedesco/Tedesco Italiano, G. B. Paravia & C.,

Torino 1965-6, vol. I, p. 192


5
Ivi, vol. II, p. 358
6
Fernando Palazzi, op. cit., vol. I, p. 236. Anche M. Cortelazzo e P. Zolli, op. cit., vol. I, p. 287, dove il

sostantivo corridoio viene spiegato come un derivato dal verbo correre


7
Ernout A. et Meillet A., op. cit., p. 160
8
Lorenzo Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, Dante Alighieri, Firenze 1987, p. 509. Inoltre cfr. Platone,

Euthydemus, Schneider, p. 273


108

III.1.2 Currere storico

Il corridoio, inteso come struttura architettonica con funzione distributiva di disimpegno

per altri ambienti vicini, è stato utilizzato in maniera sistematica solo dall’Ottocento e

propriamente nell’edilizia civile9.

E’ possibile comunque ritrovare qualche esempio di corridoio nell’architettura antica,

soprattutto tombale, la cui funzione era quella di passaggio dal mondo esterno a quello

dei defunti.

Si sa infatti che in Egitto, durante il Medio Regno (2000 a.C.), per preservare

l’inviolabilità della tomba si fece ricorso a tombe a corridoio, cioè tipi di tomba «ad

abitazione» ove il defunto era sepolto con tutte le sue suppellettili, in una vera e propria

camera mortuaria10.

In Grecia, in epoca micenea, si utilizzarono corridoi, anche lunghi, nella tomba a

thólos, costituita da un edificio circolare, a camera, con copertura a pseudocupola, il cui

più famoso modello è rappresentato dalla “Tomba di Agamennone” o “Tesoro di

Atreo”, situata a Micene e databile ai secoli XIV-XIII a.C.11

9
AA.VV., Enciclopedia dell’Architettura, Garzanti, Milano 1996, p. 222. Per quanto riguarda i prodromi

del corridoio sembra interessante riportare quanto sostiene Paolo Cherchi Usai in Kubrick architetto, cit.,

p. 280, “Nell’architettura ionica i colonnati interni e gli ambulacri occupavano a volte oltre un terzo

dell’intera superficie del tempio; antecedenti del corridoio, sconosciuto in quanto organismo legato alle

planimetrie delle abitazioni civili tardo-secentesche, si trovano anche nello schema basilicale

protocristiano, caratterizzato da un ampio spazio percorribile solo nel senso frontale rispetto al luogo del

sacrificio del corpo e della conquista dell’eternità”.


10
Pevsner Nikolaus, Fleming John, Honour Hugh, A Dictionary of Architecture, Penguin Books Ltd,

London 1966, tr. it. Dizionario di Architettura, Einaudi, Torino 1997, p. 658
11
Ivi, p. 656; ed anche AA.VV., Enciclopedia dell’Architettura, cit., pp. 879-80
109

In Italia, presso la civiltà etrusca, ci si servì del corridoio (drómos) all’interno di tombe

a camera, poste in grotte o scavate nella roccia, spesso consistenti di varie camere

(celle) e raggruppate in vaste necropoli12.

Inoltre sempre in Italia, durante l’impero romano, tra il II e il IV secolo d.C., si fece

ricorso ai corridoi nella costruzione delle catacombe, che erano veri e propri cimiteri

sotterranei13.

Un utilizzo del corridoio nell’ambito dell’edilizia civile, prima dell’Ottocento, lo si può

stabilmente ritrovare solo in Giappone.

Infatti nel periodo Heian (794-1185), nelle residenze della nobiltà (shinden-zukuri)

erano presenti corridoi (watadono) che conducevano dal corpo principale (shinden) a

quello della servitù (tai-no-ya), a padiglioni in riva a laghetti artificiali e a tettoie14.

In Occidente, invece, è solo a partire dall’Ottocento che l’uso del corridoio si è

affermato e precisamente quando, abbandonando lo schema a enfilade15, l’edilizia civile

optò per un’organizzazione distributiva dello spazio più razionale16.

Lo schema a enfilade, impiegato fino ad allora, era costituito da una struttura

distributiva basata sulla successione degli ambienti senza elementi di disimpegno. Tale

struttura prevedeva porte di comunicazione tra le stanze, poste tutte sul medesimo

asse17.

12
Pevsner, Fleming, Hugh, Dizionario…, cit., p. 658
13
Ivi, pp. 127-8; ed anche AA.VV., Enciclopedia dell’Architettura, cit., p. 163. Inoltre Lionella De Santis

e Giuseppe Biamonte, Le catacombe di Roma, Newton, Roma 1995, p. 8


14
Pevsner,…, op. cit., p. 269
15
Temine francese che in AA.VV., Il Nuovo Dizionario Francese, Garzanti, Milano 1984, a p. 671, viene

definito: infilata, fila


16
AA.VV., Enciclopedia dell’Architettura, cit., p. 222
17
Ivi, p. 284
110

L’enfilade era uno schema tipico dei palazzi seicenteschi e settecenteschi, la cui palese

assenza di corridoi si può notare osservando, ad esempio, le planimetrie di due dimore

inglesi dell’inizio del XVI secolo: la Hardwick Hall, nel Derbyshire, progettata tra gli

anni 1591 e 1597 da Robert Smythson (definito l’unico architetto dell’epoca

elisabettiana degno di nota18) per la contessa di Shrewsbury; e la Charlton House, fatta

costruire a Greeenwich, attorno al 1607, da Adam Newton, tutore e segretario di Henry,

principe di Wale19.

Tale assenza di corridoi è riscontrabile anche dalla planimetria del castello di Versailles,

che fu fatto costruire da Luigi XIV a partire dal 1661.

18
Pevsner,…, op. cit., p. 609
19
Carlo De Montemayor, Grandi dimore inglesi e famosi giardini dall’epoca dello stile Tudor (XVI sec.)

all’epoca del Neoclassicismo (XVIII sec.), Allinea, Firenze 1995, pp. 23-30. Inoltre AA.VV.,

Enciclopedia Universale dell’Arte, cit., vol. XI, pp. 537-41


111
112
113

Esempio di enfilade nel castello di Versailles


114

III.1.3 Corridoio, unico movimento

La struttura spaziale del corridoio, a differenza della costruzione prospettica, non è stata

affatto all’attenzione degli studi sia storici che filosofici.

In maniera non specifica è stata analizzata da Walter Benjamin in un saggio intitolato

Parigi capitale del XIX secolo. I “Passages” di Parigi20, lavoro incompiuto e non

organizzato in una struttura logica, ma costituito da un novero di riflessioni su vari

aspetti della capitale francese nell’Ottocento.

D’altronde tale saggio, tra i tanti argomenti trattati, non si occupa propriamente del

corridoio, ma dei passages parigini che, comunque, sono riconducibili alla struttura

spaziale del corridoio stesso.

Difatti i passages vengono definiti “corridoi ricoperti di vetro e dalle pareti intarsiate di

marmo, che attraversano interi caseggiati, i cui proprietari si sono uniti per queste

speculazioni. Sui due lati di questi corridoi, che ricevono luce dall’alto, si succedono i

più eleganti negozi, sicché un passaggio del genere è una città, anzi un mondo in

miniatura”21.

Si tratta quindi di veri e propri corridoi in cui la gente passeggiava e faceva acquisti.

Inoltre i passages vengono definiti da Benjamin come deambulatori22. Tale termine

deriva dal verbo deambulare che, come si sa, vuol dire passeggiare23.

20
Benjamin Walter, Das Passagen – werk, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955 tr. it. Parigi,

capitale del XIX secolo. I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino 1986


21
Ivi, p. 3
22
Ivi, p. 537
23
F. Palazzi, op. cit., vol. I, p. 253
115

Di conseguenza, partendo da queste riflessioni di Benjamin, si troverebbe conferma

della concezione del corridoio come luogo di passaggio, che non ha un compito

specifico, ma che assume una funzione solo nel momento in cui viene percorso.

Infatti, per fare qualche esempio casalingo, la cucina è il luogo dove viene preparato il

cibo, la camera da letto rappresenta l’ambiente dove si dorme, il salotto è la zona

usufruibile per guardare la televisione, leggere un libro, pranzare, ecc.24 A differenza di

tutti gli altri luoghi di una casa, che, come visto, hanno una determinata funzione, il

corridoio non possiede invece alcuno scopo specifico, se non quello di essere

attraversato per passare da una stanza ad un’altra.

In sostanza “il corridoio è uno degli elementi architettonici più superflui sul piano della

funzione (non vi si abita, non vi si svolge alcuna attività)”25.

Quindi, secondo questo punto di vista, il corridoio assumerebbe la stessa caratteristica

che Benveniste attribuiva alla lingua, quella cioè di essere resa funzionante solo

24
Sulla funzione e il valore simbolico assunto dai vari ambienti casalinghi, si rimanda a AA.VV.,

Enciclopedia universale dell’Arte, cit., vol. VII., pp. 582-3


25
Paolo Cherchi Usai, Kubrick architetto, in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, cit., p. 280. A

questo riguardo parrebbero utili alcune riflessioni di Richard Sennett, The Conscience of the Eye. The

Design and Social Life of Cities, Alfred A. Knopf, New York 1990 tr. it. La coscienza dell’occhio.

Progetto e vita sociale nelle città, Feltrinelli, Milano 1992, secondo il quale (p. 39) “L’interno domestico

che divenne caratteristico della New York industriale, il cosiddetto railroad apartment o appartamento a

vagone ferroviario tipico dei grandi condomini, illustra bene questa logica di divisione. Le stanze sono

disposte una dopo l’altra, con le porte che danno tutte su un lungo corridoio. Ogni stanza è chiaramente

destinata a un’attività specifica: il soggiorno, seguito dalla sala da pranzo, seguita da una o più camere

da letto, e in fondo la cucina”. Inoltre in un altro punto del suo saggio (p. 212) Sennett sostiene che “negli

spazi lineari la forma è determinata dalla funzione”. Il corridoio, spazio lineare, parrebbe propriamente

determinato dalla funzione di passaggio. Su questo punto cfr. anche il sottoparagrafo III.1.1
116

attraverso il suo utilizzo26. Ma contrariamente alla lingua che, quando viene adoperata,

offre infinite possibilità di impiego (le letterature mondiali ne sono una valida

testimonianza), nel momento in cui ci si serve del corridoio questo fornisce un’unica

possibilità, quella di attraversarlo.

Comunque, questa differenza tra lingua non utilizzata (corridoio non percorso da

alcuno) e lingua utilizzata (corridoio percorso da qualcuno) potrebbe essere accostata

alla distinzione fra espace e lieu proposta da de Certeau, secondo il quale “l’espace

serait au lieu ce que devient le mot quand il est parlé, c’est-à-dire quand il est saisi dans

l’ambiguité d’une effectuation, mué en un terme relevant de multiples conventions, posé

comme l’acte d’un présent (ou d’un temps), et modifié par les transformations dues à

des voisinages successifs. A la différence du lieu, il n’a donc ni l’univocité ni la stabilité

d’un propre. En somme, l’espace est un lieu pratiqué. Ainsi la rue géometriquement

définie par un urbanisme est transformée en espace par des marcheurs. De même, la

lecture est l'espace produit par la pratique du lieu que constitue un système de signes –

un écrit”27.

Quindi secondo de Certeau lo spazio assumerebbe il significato di luogo praticato, di

incrocio di ‘mobilità’28. Il luogo sarebbe infatti l’insieme di elementi coesistenti in un

determinato ordine, mentre lo spazio indicherebbe l’animazione di questi luoghi causata

dalla mobilità29.

26
E. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, vol. II, Gallimard, Paris 1971, tr. it. Problemi di

linguistica generale, vol. II, Il Saggiatore, Milano 1985, p. 97. Facendo un parallelo si potrebbe quindi

affermare che passare attraverso un corridoio è assimilabile all’enunciazione linguistica.


27
Michel de Certeau, L’invention du quotidien, Gallimard, Paris 1990, p. 173
28
Ibidem
29
Marc Augé, Non-Lieux, Seuil, Paris 1992, tr. it. Nonluoghi, Elèuthera, Milano 1993, p. 75
117

Perciò il corridoio non utilizzato potrebbe essere considerato luogo, mentre quando

viene percorso diverrebbe spazio.

Questa distinzione fra luogo e spazio è stata sviluppata e approfondita da un altro

studioso francese, Marc Augé. Innanzitutto ha precisato come il termine «spazio» sia in

sé più astratto di quello di «luogo». Infatti, mentre la voce luogo definisce con

precisione il «che cosa» e il «dove», il lemma spazio si applica indifferentemente a una

estensione, a una distanza fra due cose o due punti (si lascia uno “spazio” di due metri

fra ogni palo di un recinto) o a una grandezza temporale (“nello spazio di una

settimana”)30. Dato che, come aveva scritto de Certeau, il luogo è stabilità, mentre lo

spazio è mobilità, allora, sostiene Augé, praticare lo spazio significherebbe viaggiare,

nel senso di attraversamento e organizzazione dei luoghi31.

Quindi, diversamente da de Certeau, lo spazio non sarebbe più la pratica di un singolo

luogo, ma la pratica dei luoghi, cioè il viaggio. Di tali luoghi, però, il viaggiatore ha

sempre delle visioni parziali, sommate alla rinfusa nella sua memoria. Perciò “lo spazio

del viaggiatore sarebbe l’archetipo del nonluogo”32.

Il termine nonluogo indica “due realtà complementari ma distinte: quegli spazi costituiti

in rapporto a certi fini (trasporto, transito, commercio, tempo libero) e il rapporto che gli

individui intrattengono con questi spazi”33.

Di conseguenza il corridoio, che etimologicamente possiede la matrice del movimento e

che, come si è visto, assume una funzione precisa solo nel momento in cui viene

attraversato, cioè percorso “da qualcuno”, potrebbe essere propriamente considerato un

nonluogo di transito.

30
Ivi, p. 77
31
Ivi, p. 78. Inoltre de Certeau, op. cit., p. 171
32
Augé, op. cit., pp. 80-81
33
Ivi, p. 87
118

All’inizio di questo capitolo (III.1.1) si è visto che il corridoio oltre a possedere la

caratteristica del movimento, ha anche una forma stretta e allungata.

Questa sua peculiarità sembrerebbe portare alla riflessione che il corridoio, non solo

implica il movimento, ma lo guida anche. Infatti se, ad esempio, in un salone si ha la

possibilità di muoversi dove si vuole, al contrario all’interno di un corridoio si ha

un’unica direzione in cui andare (avanti o indietro).

Quindi la strada percorsa all’interno di un corridoio, data anche la sua forma lunga e

stretta, assumerebbe le caratteristiche di una direzione obbligata.

Si potrebbe perciò dire del corridoio quello che Zanini ha scritto a proposito del recinto,

cioè che “funziona proprio perché sottrae spazio al movimento, lo organizza in maniera

rigida, lo incanala lungo direzioni determinate a priori” 34. Quindi la struttura spaziale

del corridoio incanalerebbe le persone che si muovono al suo interno verso una

direzione obbligata.

Ma questa funzione sembrerebbe molto simile a quella del labirinto, che è definito da

Borges come “un edificio costruito per confondere gli uomini; la [cui] architettura, ricca

di simmetrie, è subordinata a tale fine”35.

Inoltre il labirinto sia “che sia un unico e tortuoso corridoio da seguire fino al suo

centro oppure un intrico di passaggi e incroci volutamente confondenti o, al contrario,

assomigli ad un deserto con la sua apertura assoluta, si manifesta solo nel

movimento”36.

34
Piero Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali. Bruno Mondadori, Milano 1998,

p. 77
35
J. L. Borges, L’immortale, in L’Aleph, Feltrinelli, Milano 1993, p. 13
36
P. Zanini, op. cit., p. 124
119

Perciò, secondo Zanini, il labirinto sarebbe rappresentabile anche attraverso il

corridoio37.

Ma anche Borges, nel suo racconto La morte e la bussola, fa dire al personaggio di

Lönnrat che esiste un labirinto che è una linea unica, retta, incessante38.

Inoltre, la peculiarità del labirinto risulta essere il movimento che, come si è visto in

precedenza, caratterizza anche il corridoio.

Di conseguenza, sembrerebbe possibile considerare la struttura spaziale del corridoio

come una specie di labirinto che costringe chi si muove al suo interno a dirigersi in un

unico verso, obbligato e prefissato. Sarebbe anche assimilabile ai labirinti in cui

vengono poste la cavie da laboratorio per studiarne le reazioni a determinati stimoli.

In conclusione il corridoio, come nonluogo di transito, sarebbe caratterizzato dal

movimento di chi lo attraversa, mentre come sorta di labirinto, connotato dalla forma

stretta e allungata, costringerebbe chi passa al suo interno in un’unica direzione.

37
A questo riguardo è utile la definizione che Salvatore Battaglia (a cura di), op. cit., vol. VIII, p. 657,

offre del termine labirinto: “leggendario edificio costruito su una pianta così complessa e intricata che chi

vi entrava non riusciva ad orientarsi e a trovare la via d’uscita. Per estensione: dedalo di strade e di

sentieri; luogo, edificio o complesso di edifici in cui è difficile orientarsi, districarsi, trovare una via

d’uscita”. Cfr. anche F. Palazzi, op. cit., vol. I, p. 468, dove il lemma labirinto viene spiegato in questi

termini: “edificio con un complesso di stanze e corridoi così intricati, che chi v’entra non trova modo

d’uscirne”. Il rapporto corridoio – labirinto verrà ampliato nel quarto capitolo di questa ricerca.
38
Jorge Luis Borges, La morte e la bussola, in Finzioni, Einaudi, Torino 1982, p. 131
120
121
122

III.2 KUBRICK NEL CORRIDOIO (da The Killing a Full Metal

Jacket)

Nel primo capitolo di questo lavoro si è cercato di dimostrare che, a livello narrativo, le

assi portanti della filmografia kubrickiana, sembrerebbero essere l’illusione umana di

poter dirigere il proprio destino e l’impossibilità obiettiva di attuare tale controllo.

Anche a livello visivo, tale dualità sembrerebbe ripetersi: infatti la presenza della

costruzione prospettica sembrerebbe richiamare l’illusione di libertà, mentre la struttura

del corridoio sarebbe assimilabile ad un’immagine di “costrizione” in un’unica

direzione, da cui l’uomo non sarebbe in grado di uscire.

Nel quarto capitolo si tenterà di provare tale ipotesi.

Come nel secondo capitolo abbiamo cercato di evidenziare la presenza “non casuale”

della costruzione prospettica nelle opere di Kubrick, si cercherà ora di mostrare che la

figura architettonica del corridoio, scomponibile in due aspetti: scenico (il corridoio

come struttura architettonica) e fotografico (creato fotograficamente dallo zoom avanti

o indietro e dal movimento della macchina da presa in carrello in avanti o indietro), è

“largamente presente nell’opera di Kubrick”39 e parrebbe sempre caratterizzato dal

movimento, che sottolineerebbe la “costrizione” di cui si parlava sopra.

39
R. Eugeni, Invito…, cit., p. 131, dove, come esempi di corridoi, vengono ricordati “l’astronave

Discovery di 2001: A Space Odyssey, strutturata come un lungo corridoio (…), la fuga di stanze in Barry

Lyndon, l’area in cui corrono i cavalli di The Killing, quelli della casa di Lolita, ecc.”. Inoltre anche Paolo

Cherchi Usai, Kubrick architetto…, cit., p. 279, ha sostenuto che nella filmografia di Kubrick una

“costante, quasi ossessiva presenza architettonica è il corridoio: onnipresente nel suo cinema, da Paths of

Glory al film in cui il concetto di casa, materialmente assente, è sostituito dalla gigantesca mole

dell’astronave di 2001: A Space Odyssey. Tutte le strutture materiali dell’avventura umana nella luce sono

ridotte all’essenziale, un corridoio”. Inoltre cfr. Sergio Toffetti, op. cit., p. 57, dove lo studioso ha

elencato alcuni corridoi kubrickiani “Il boxeur Davy si lancia nel dormiveglia in una corsa sfrenata lungo
123

Infatti, per quanto riguarda il corridoio scenico, il movimento40 è rappresentato dai

personaggi che si muovono al suo interno. Per quanto concerne il corridoio fotografico,

il movimento è prodotto dalla macchina da presa attraverso carrelli oppure zoom

(definito carrello ottico)41 di avvicinamento o di allontanamento dai personaggi.

Inoltre, in numerose scene dei film di Kubrick, al corridoio scenico si somma il

corridoio fotografico, nel senso che al movimento dei personaggi all’interno di un

corridoio si somma il movimento della macchina da presa.

In questa analisi sulla presenza, scenica o fotografica, del corridoio nel cinema di

Kubrick, risulta utile porre in rilievo anche tre scene tratte da Killer’s Kiss. In

particolare la prima, l’incubo, in cui il personaggio viene come «risucchiato», e che è

definita da Eugeni un’anticipatrice dei vari corridoi dei film di Kubrick, che ricorda

esplicitamente quello di David Bowman nella parte finale di 2001: A Space Odyssey42.

- Incubo di Davy. Ripresa in carrello in avanti, in soggettiva, di strade urbane deserte (scena

sviluppata da Kubrick in negativo);

le strade di New York (Killer’s Kiss)¸ il colonnello Dax avanza attraverso il budello dei trinceramenti, il

suo corpo (e la cinepresa insieme a lui), si fa largo a fatica (…) dentro uno spazio così aderente (Paths of

Glory); David Bowman precipita in un corridoio di luce oltre l’infinito verso la morte – rinascita (2001);

il tragitto di Alex e i suoi drughi verso la casa degli Alexander a bordo della supermacchina Durango 95,

viene filmato ricorrendo ad un’impressionante composizione «a corridoio», con spettrali alberi bianchi

che retrocedono velocemente ai bordi di un’oscura strada di campagna (A Clockwork Orange)… e le

citazioni potrebbero questa volta continuare a piacere”.


40
Per un’analisi più approfondita sulla presenza del movimento (ed anche sul significato della

costrizione) nei corridoi kubrickiani si rimanda al sottoparagrafo IV.2.2 di questa ricerca


41
Mario Bernardo, L’immagine …, cit., pp. 181-3. Cfr. anche Eugeni, Invito…, cit., p. 153, dove definisce

gli zoom di Barry Lyndon come “carrellate ottiche”


42
Ivi, p. 27
124

- Scala del dancing di Rapallo percorsa da Gloria43;

- Fuga di Davy, tra vicoli e viali, inseguito da Vincent Rapallo.

Premesso questo si può cominciare a muovere il nostro travelling sulle orme

kubrickiane.

The Killing44:

- Mike in casa con la moglie ammalata. Dopo averle asciugato la fronte si dirige verso la finestra.

Carrello a seguire;

- George torna a casa apre la porta d’ingresso e percorre un breve corridoio. Azione ripresa in

carrello a precedere;

- Johnny entra nel club scacchistico. Carrello a precedere;

- Johnny parla con Nikki e carrello all’indietro superando, da sopra, le sagome – bersaglio;

- Ragazzo che porta l’acqua percorrendo il corridoio fuori delle stalle dei cavalli. Carrello a

precedere;

- Johnny, dopo aver comprato i biglietti aerei, si allontana in un corridoio creato a destra dal muro

e a sinistra dal bancone dell’aeroporto;

- Martin e Johnny si salutano, a casa del primo, per l’ultima volta. Carrello verso Martin;

- Johnny si dirige verso il suo appartamento nel motel, per prendere il fucile. Carrello a

precedere;

43
Definita da Sergio Toffetti, op. cit., p. 14, “il primo corridoio attraverso cui si snoda l’itinerario filmico

di Kubrick”. Anche Ghezzi, op. cit., p. 30, afferma che “la scala d’ingresso alla sala da gioco [è] ripresa

dall’alto come un tunnel luminoso”.


44
Come per la prospettiva, anche in questa sezione d’analisi, le indicazioni generali su dove possa essere

ritrovata una costruzione riconducibile al corridoio, sono proposte secondo lo sviluppo narrativo delle

singole opere cinematografiche


125

- Johnny entra nella stazione degli autobus per mettere il fucile in una cassetta di sicurezza.

Carrello a precedere;

- Breve carrello a precedere il movimento di Mike verso la moglie, a letto, malata;

- Mike entra nella stazione degli autobus per prendere il fucile. Stesso carrello a precedere della

scena precedente;

- Breve corridoio fuori dello spogliatoio dell’ippodromo, percorso da Mike, con il fucile in una

scatola di fiori. Carrello a precedere;

- Breve carrello verso Mike che si trova al bancone del bar;

- Corridoio percorso da George che va a prendere qualcosa da bere dopo aver affermato che

Johnny non rispetta l’orario quando va diviso il bottino;

- Nastro su cui viene trasportata la valigia, nell’aeroporto, dopo che è stato impedito a Johnny di

portarla direttamente sull’aereo.

Paths of Glory:

- Castello. Carrello a seguire Mireau e Broulard con camino al centro;

- Trincea. Carrello all’indietro dalla feritoia.

- Carrello a precedere l’avanzare del generale Mireau e del suo aiutante nella trincea, quando il

generale fa visita alle truppe;

- Carrello a seguire i due dopo che il generale ha colpito un soldato in preda a shock da

esplosione;

- Carrello a precedere, all’interno della trincea, il percorso compiuto dal caporale Paris e dal

soldato Lejeune, quando vanno dal tenente Roget;

- Breve carrello a precedere i due quando entrano nel rifugio, in trincea, del tenente;

- Dax, prima della battaglia, passa in trincea a vedere i suoi uomini. Carrello in avanti, in

soggettiva, tra le due ali di soldati. Carrello a seguire il movimento di Dax;

- Breve carrello a precedere di Dax, dopo che è uscito dalla stanza dove ha parlato con Mireau e

Broulard del fallito attacco al “Formicaio”;


126

- Uscita dalla stessa stanza dei due generali ripresi in carrello a precedere;

- Ripresa di Mireau, con un corridoio in punto di fuga, che sale lo scalone e con Dax fermo su un

gradino di questo;

- Sidecar con sopra Dax che esce da un palazzo e passa attraverso due file di soldati (scena che si

ripete simile poco dopo);

- Il capitano del plotone d’esecuzione cammina davanti a questo ripreso in carrello a seguire e a

precedere;

- I tre condannati camminano tra due ali di soldati nel dirigersi verso l’esecuzione. Carrello a

precedere ed anche carrello in avanti, in soggettiva;

- Dax si allontana dalla taverna, dove la ragazza tedesca sta cantando, ripreso in carrello a

precedere.

Spartacus45:

- Breve carrello all’indietro da Spartaco che spacca le pietre sulla montagna;

- Carrello a precedere, poi carrello in avanti in soggettiva, quando Lentulo Batiato arriva per

scegliere gli schiavi da far diventare gladiatori;

- Carrello all’indietro dal luogo dove passano le schiave a Spartaco (questo movimento passa

attraverso una grata della rete)

- Carrello di avvicinamento sul volto di Lavinia, dopo che Spartaco ha dovuto combattere con

Draba;

- Carrello di avvicinamento su uno schiavo nella sua cella dopo che Draba, morto, è stato appeso

a testa in giù;

- Ripresa in carrello a precedere di Spartaco che prende la sua scodella di cibo e vede che Lavinia

viene portata via dalla scuola per gladiatori;

- Ripresa in carrello a precedere delle guardie romane che corrono sul luogo della rivolta;

45
Cfr. nota su questo film, contenuta nel precedente capitolo
127

- Ripresa in carrello a precedere di Cesare e Gracco dopo che quest’ultimo ha acquistato una

gallina fuori del senato;

- Ripresa in carrello a precedere di Crasso che si dirige sul balcone della sua villa per far vedere

Roma ad Antonino;

- Villa Crasso. Ripresa in carrello a precedere di Crasso e di Glabro, dopo che quest’ultimo ha

appena ottenuto dal senato l’incarico di contrastare Spartaco;

- Breve carrello a precedere l’arrivo di Crasso nell’accampamento romano;

- Crasso che, dopo la battaglia vinta, si allontana tra due file degli schiavi che si erano ribellati;

- Carrello a precedere Crasso e Cesare a cavallo, dopo che Spartaco e Antonino hanno dovuto

combattere tra loro fino alla morte;

- Carrello a seguire il carretto con sopra Lentulo Batiato, Lavinia e suo figlio, con questa che si

volta per salutare Spartaco crocifisso.

Lolita:

- Carrello a seguire, della macchina di Humbert che procede su una strada, in mezzo alla nebbia;

- Humbert che cammina nel castello di Quilty ripreso in carrello a precedere;

- Ripresa dall’alto dello scalone con Humbert, ai suoi piedi, che carica la pistola e poi sale;

- Dopo che Quilty si è nascosto dietro al quadro, carrello di avvicinamento sui colpi di pistola

sparati da Humbert;

- Macchina con sopra Humbert (quando sta andando a vedere la casa di Charlotte), che percorre

un viale tra gli alberi, ripresa in carrello a seguire;

- Zoom indietro dal primo piano di Humbert che guarda Lolita, quando Charlotte lo fotografa;

- Zoom indietro da Lolita che balla alla festa fino a Humbert che la sta guardando;

- Strada che scorre (in carrello a precedere) dietro alla macchina dove si trovano Humbert e

Lolita, dopo che sono stati a letto insieme;

- Carrello di avvicinamento al volto di Humbert, mentre sente Lolita piangere dopo che le ha

detto che sua madre è morta;


128

- Carrello a precedere il movimento di Lolita che dal suo letto passa su quello di Humbert;

- Carrello a seguire la macchina, con sopra Humbert e Lolita, che procede lungo la strada;

- Carrello a seguire da Lolita che dice l’ultima battuta nella recita scolastica a Humbert che sta

salendo sul palco per applaudirla e congratularsi con lei;

- Ripresa, sia in carrello a precedere che a seguire (anche al suo interno con la strada che scorre

dietro) dell’automobile che viaggia su varie strade;

- Corridoio dell’ospedale, quando Humbert, venuto a sapere che Lolita è già stata dimessa nel

pomeriggio, ha una crisi isterica;

- Ripresa in carrello a seguire di Humbert che, percorrendo un corridoio, abbandona l’ospedale

dopo che ha scoperto che Lolita è stata dimessa nel pomeriggio.

Dr. Strangelove:

- Carrello a seguire il volo del bombardiere;

- Zoom all’indietro dal contagiri sul bombardiere;

- Carrello a seguire del bombardiere che vola tra le montagne;

- Zoom indietro dal piccolo dizionario di termini russi, tenuto in mano da un membro

dell’equipaggio del bombardiere;

- Ripresa in carrello a precedere dell’ambasciatore russo che descrive la bomba fine del mondo;

- Zoom sui comandi bruciati nella cabina di pilotaggio del bombardiere;

- Ripresa in carrello in avanti, in soggettiva, del bombardiere che è stato colpito (stessa immagine

ripetuta anche in seguito);

- Corridoio, fuori dell’ufficio di Ripper in cui Guano porta Mandrake. Da qui carrello a precedere

il movimento dei due lungo il corridoio;

- Ripresa in semi-soggettiva, dal punto di vista dei due piloti (di spalle), dell’avanzata del

bombardiere nei cieli;

- Carrello a seguire la caduta di T.J. “King” Kong a cavallo della bomba atomica.
129

2001: A Space Odyssey:

- Zoom indietro dal buio dell’universo all’interno della stazione orbitante di Clavius dove sta

atterrando l’astronave con a bordo il dottor Floyd;

- Ripresa in carrello in avanti dell’avvicinamento dell’astronave all’ingresso della stazione

orbitante;

- Sulla piccola navetta spaziale che trasporta Floyd da Clavius al luogo dove si trova il monolite,

carrello a precedere un astronauta che porta a Floyd e ad un altro astronauta una cassetta con

dentro dei panini;

- Discovery. Ripresa in carrello a precedere e a seguire Frank che si allena correndo;

- Carrello a precedere David dopo che questo ha finito un disegno e si sta dirigendo davanti

all’occhio di Hal per mostrarglielo;

- Breve zoom indietro da Frank e David che fanno vari controlli alle apparecchiature elettroniche;

- David e Frank entrano in un piccolo tunnel bianco ed in fondo un’uscita a centrifuga;

- Carrello a seguire David che, con la tenuta da astronauta, dopo aver attraversato un breve

tunnel, entra in una capsula;

- David sale le scale in un condotto per andare da Hal;

- Carrello in avanti, in soggettiva, che riprende il viaggio di David nel corridoio luminoso.

A Clockwork Orange:

- Carrello indietro dagli occhi di Alex a un piano totale del Korova Milk Bar;

- Zoom indietro dal vecchio ubriacone che sta cantando sotto il ponte;

- Zoom indietro dal vaso dipinto sul frontone del palcoscenico del teatro al piano totale del teatro

dove i drughi si battono con una banda rivale;

- Drughi in automobile. Ripresa della strada che scorre veloce dietro di loro e carrello in avanti,

in soggettiva, della strada davanti a loro;


130

- Corridoio di specchi davanti alla porta d’ingresso dove la moglie si reca dopo che i drughi

hanno suonato il campanello;

- Dopo lo stupro, entrata dei drughi nel Korova ripresa in carrello a precedere;

- Zoom su una donna che, nel bar, comincia a cantare Beethoven;

- Carrello a seguire e poi a precedere il movimento di Alex che, appena alzato, cammina nel

corridoio di casa sua;

- Carrello a precedere il movimento di Alex nel lungo corridoio del negozio di dischi;

- Zoom indietro dalla bottiglia di latte con cui i drughi stanno per colpire Alex che ha appena

ucciso la signora Weathers;

- Zoom indietro dal volto di Alex che, nel suo sogno biblico, sta mangiando dell’uva;

- Biblioteca. Carrello a precedere la camminata di Alex e del cappellano del carcere fra due ali di

libri, prima che si mettano a parlare della cura Ludovico;

- Corridoio bianco del carcere in cui il ministro avanza verso la cella di Alex;

- Carrello a seguire Alex che, scortato da due poliziotti, lascia il carcere e si dirige verso

l’ospedale per la cura Ludovico;

- Corridoio bianco attraverso cui passa la dottoressa per andare nella camera di Alex;

- Alex sul ponte dopo che è stato cacciato di casa. Zoom verso il suo volto e zoom verso l’acqua

del fiume;

- Ripresa in carrello all’indietro di Alex che viene portato sotto il ponte dal vagabondo picchiato

dai drughi nelle prime scene del film;

- Carrello a seguire Alex che, costretto da due ex drughi, viene trascinato verso una fontana

isolata nel bosco;

- Corridoio ricoperto di specchi nell’atrio della casa dello scrittore Alexander, quando Julian

soccorre Alex;

- Zoom indietro dal volto di Alex che, soffrendo e urlando, è costretto dallo scrittore Alexander ad

ascoltare la nona sinfonia di Beethoven


131

- Zoom indietro dal volto soddisfatto per la vendetta dello scrittore Alexander ad un piano totale

che mostra il suddetto al centro, con sulla destra un uomo che tira una palla sul biliardo e sul

fondo a sinistra una donna e a destra Julian;

- Zoom sul volto di Alex poco prima che si butti dalla finestra;

- Zoom indietro dal volto di Alex e del ministro dopo lo scandalo della “cura inumana”;

- Ripresa in carrello a precedere un’infermiera che, tra i corridoi dell’ospedale, si dirige verso il

letto di Alex per fargli un test;

- Ripresa, in soggettiva da Alex, dell’arrivo del ministro dal punto di fuga verso di lui.

Barry Lyndon:

- Zoom indietro da una piccola statua ad un piano totale dove Nora e Barry stanno giocando a

carte;

- Zoom indietro da una truppa dell’esercito inglese che marcia ad un piano totale dove Barry, al

centro della scena, guarda la parata;

- Zoom di avvicinamento su Barry che osserva la marcia dei soldati;

- Nel bosco Barry e Nora che avanzano verso la macchina da presa;

- Zoom indietro da Barry che sta tagliando la legna;

- Zoom indietro da Nora e il capitano Quin in cortese conversazione;

- Zoom indietro dalle pistole che vengono caricate per il duello tra Barry e il capitano Quin;

- Carrello a precedere e carrello in avanti, in semi-soggettiva, di Barry che, nel bosco, avanza

verso il capitano Freny;

- Zoom indietro dal cartello della locanda “Health to the Bartley now” al reclutatore dell’esercito

inglese che legge il suo appello;

- Zoom indietro dall’esercito inglese che marcia, dopo che Barry ha vinto, a pugni, un suo

commilitone;

- Carrello di avvicinamento a Barry, di lato davanti al fuoco, dopo che il capitano Grogan è

morto in battaglia;
132

- Zoom in avanti, in semi-soggettiva, da Barry con due secchi in mano a due soldati inglesi in

acqua nel fiume;

- Zoom di avvicinamento sul volto di Barry dopo aver visto i due militari;

- Zoom indietro da Barry, a cavallo su un sentiero, che sta per incontrare Lischen;

- Barry saluta Lischen ed entra in un tunnel fatto di piante;

- Una locanda. Carrello indietro da Barry seduto ad un tavolino, al centro, con una candela

davanti a lui e sulla destra il capitano Potzdorf;

- Carrello in avanti, in semi-soggettiva, di un soldato che attraverso una finestra, spara contro i

nemici;

- Ripresa in carrello a precedere il movimento di Potzdorf all’interno della palazzina dove Barry

sta sparando;

- Carrello a seguire Barry che porta il capitano ferito fuori della palazzina;

- Giardino. Zoom in avanti da Balibari e Barry a Lady Lyndon e Lord Lyndon;

- Zoom indietro da Lady Lyndon con figlio Bryan e Barry;

- Zoom indietro da Barry che sta “divertendosi” con due donne;

- Zoom indietro da Lady Lyndon con Bullingdon e Bryan;

- Zoom verso Barry che bacia una donna ed è visto da Lady Lyndon, Bullingdon e il cappellano

Runt;

- Zoom indietro da Lady Lyndon nella vasca da bagno;

- Zoom indietro da Bullingdon, ai piedi di Lady Lyndon, mentre guarda lo spettacolo di un

prestigiatore in occasione del compleanno di Bryan;

- Zoom indietro da Lady Lyndon, seduta su di una barca in mezzo ad un fiume, al campo

lunghissimo della stessa scena;

- Zoom indietro da Gustavo Adolfo con un bicchiere in mano;

- Zoom indietro da Gustavo Adolfo che sta raccontando una simpatica storia, a sinistra, Lady

Lyndon, al centro e Barry sulla destra;

- Carrello all’indietro quando Barry sta scegliendo dei quadri;


133

- Ripresa in carrello a precedere di Bullingdon e Bryan che entrano, tra due file di ascoltatori,

nella sala in cui si sta suonando della musica;

- Zoom indietro da Barry appoggiato ad un parapetto di un ponte, dopo che ha picchiato

Bullingdon;

- Zoom indietro da Barry e Bryan che, in barca, sono intenti a pescare;

- Zoom indietro da Bryan che sta imparando dal padre ad usare il fioretto;

- Carrello a precedere il funerale di Bryan;

- Zoom indietro dai fogli dei conti che la madre di Barry sta controllando assieme al contabile

Graham;

- Carrello a precedere il movimento di Bullingdon, attraverso le stanze, in direzione di Barry;

- Zoom indietro dalla madre di Barry nella stanza della locanda con il figlio a destra, sdraiato sul

letto senza una gamba;

- Zoom sul foglio per la rendita di Barry e, quindi, sulla firma apposta da Lady Lyndon.

The Shining:

- Movimento della macchina da presa in carrello in avanti, in soggettiva (ma non corrisponde a

nessun personaggio), tra rocce di un canyon con, sotto, un lago;

- Albergo. Carrello a seguire Jack che entra nell’ufficio di Ullman per il colloquio di lavoro;

- Abitazione dei Torrance. Carrello in avanti, attraverso un piccolo corridoio, verso Danny che si

trova in bagno;

- Idem. Zoom sul volto di Danny che si sta riflettendo nello specchio del bagno;

- Albergo. Zoom indietro da Danny che tira delle freccette su un bersaglio;

- Ripresa in carrello all’indietro di Ullman che mostra a Wendy e a Jack il loro appartamento

nell’albergo;

- Carrello a precedere il movimento di Halloran che si sta dirigendo con Wendy e Danny verso la

cella frigorifero;
134

- Interno cella frigorifero. Carrello in avanti su Halloran che enumera a Wendy tutti i tipi di carne

che vi sono contenuti;

- Dispensa. Zoom sul volto di Danny. Zoom sul volto di Halloran mentre sta mostrando a Wendy

tutti i tipi di cibo che vi si possono trovare;

- Carrello a precedere Ullman che illustra a Jack e a Wendy le varie parti dell’albergo;

- Carrello a seguire Danny che, sul triciclo, percorre i corridoi dell’albergo;

- Appartamento Torrance. Zoom indietro dal volto di Jack che sta dormendo sul letto;

- Idem. Zoom sul volto di Jack che sta mangiando la colazione portatagli da Wendy;

- Zoom indietro dalla macchina per scrivere posta nel salone;

- Carrello a precedere e a seguire il movimento di Danny e Wendy all’interno del labirinto;

- Zoom sul modello (realtà?) del labirinto con due figure che si muovono al suo centro;

- Danny ripreso in carrello a precedere che, sul triciclo, si dirige verso la camera 237;

- Carrello in avanti verso il volto di Jack che sta scrivendo nel salone;

- Zoom sul volto di Jack “folle”;

- Carrello a seguire movimento di Wendy che si dirige verso l’ufficio di Ullman, dove si trova la

radiotrasmittente;

- Ripresa di Danny che, sul triciclo, mentre sta percorrendo i corridoi dell’albergo, ha

l’apparizione delle due figlie di Grady;

- Zoom indietro da Danny che gioca, a terra, con delle macchinine. Quindi si alza e, in carrello in

avanti, in soggettiva, si dirige verso la camera 237;

- Carrello a seguire Wendy che corre verso il salone dove Jack sta gridando;

- Ripresa in carrello a seguire Danny che, con un dito in bocca, arriva nel salone dove Jack sta

raccontando a Wendy l’incubo che ha appena avuto;

- Carrello a precedere Jack che, alla ricerca di liquori, si dirige verso il salone da ballo;

- Carrello a precedere Wendy che, con una mazza da baseball, si dirige nel salone da ballo dove

si trova Jack;

- Zoom indietro dalle immagini trasmesse in televisione ad Halloran sdraiato sul letto;

- Zoom sul suo volto quando “vede”, attraverso lo shining, Jack che entra nella camera 237;
135

- Zoom sul volto di Danny che “vede” la scritta redrum;

- Carrello a precedere Jack che, dopo aver litigato con Wendy, si dirige verso il salone da ballo;

- Idem. Corridoio, pieno di palloncini, fuori del salone da ballo;

- Zoom indietro da Halloran a sedere su un aereo di linea;

- Carrello a precedere il movimento all’indietro di Wendy che con una mazza da baseball prima

tiene lontano Jack che la vuole uccidere e poi lo colpisce;

- Zoom indietro da Jack che dorme nella dispensa;

- Carrello a precedere il movimento di Danny che scappa da Jack e si nasconde nelle cucine;

- Carrello a seguire Jack che si dirige verso Halloran;

- Halloran, ripreso in carrello a seguire, avanza alcuni passi e poi viene ucciso da Jack;

- In carrello in avanti, in soggettiva, Jack insegue Danny attraverso i corridoi dell’albergo;

- Interno del labirinto. In carrello a precedere e a seguire, ripresa di Danny che scappa e di Jack

che lo insegue;

- Wendy che si muove nei corridoi dell’albergo, in carrello a seguire, e ha delle apparizioni di

alcuni fantasmi;

- Carrello in avanti su una foto di una festa avvenuta nell’Overlook Hotel nel 1921, dove appare

in primo piano il volto di Jack.

Full Metal Jacket:

- Carrello a precedere il sergente Hartmann che dà il “benvenuto” alle reclute, nel piano-

sequenza iniziale;

- Carrello a precedere la corsa delle reclute per i viali della caserma;

- Breve corridoio percorso da Hartmann dopo aver spento la luce della camerata;

- Idem quando dà la sveglia;

- Carrello a precedere dei soldati e di Hartmann che, in camerata, marciano tenendosi gli

attributi;
136

- Carrello a precedere e a seguire di Palla di Lardo che, punito da Hartmann, viene fatto correre

per i viali della caserma;

- Zoom indietro dai bersagli del poligono di tiro ad Hartmann che spiega alle reclute che cosa sia

un marine;

- Corsa, per i viali della caserma, dei soldati che cantano “Crepi Ho Chi Minh, Viva il corpo dei

Marines”, ripresi in carrello a precedere;

- Carrello in avanti verso Hartmann che, tra due file di reclute in piedi sulle loro cassette di effetti

personali, compie un’ispezione;

- Idem. Carrello a precedere e a seguire Hartmann dopo che ha scoperto il dolce di Palla di

Lardo;

- Zoom sul volto “folle” di Palla di Lardo dopo che è stato punito dai compagni;

- Zoom su Palla di Lardo, a sedere su una tribuna, con lo sguardo “folle”, mentre Hartmann parla

di Lee Oswald;

- Carrello a seguire e a precedere il movimento di Hartmann, all’interno della camerata, tra le due

file di soldati;

- Carrello a seguire il movimento all’indietro di Jocker e di Cowboy mentre puliscono i bagni;

- Carrello a precedere la corsa dei soldati per il viale dopo che palla di Lardo si è dimostrato un

ottimo tiratore;

- Carrello a precedere l’ispezione notturna di Jocker;

- Carrello a precedere il movimento di Rafterman e Jocker che incontrano Touchdown e

chiedono dove sia Cowboy;

- Zoom indietro dal volto di Jocker a una semi-soggettiva dei morti sud vietnamiti nella fossa;

- Carrello in avanti, attraverso un cerchio, verso Cowboy con Jocker e Rafterman che stanno

avvicinandosi;

- Carrello a seguire, in macchina da presa a mano, dei soldati che si avvicinano alla città, dopo

che Touchdown è stato ucciso;

- Zoom dalla semi-soggettiva del cecchino a Eightball;

- Zoom dalla semi-soggettiva del cecchino ad un altro marine che sta aiutando il nero;
137

- Carrello a seguire i marines che si muovono verso i due Marines colpiti per “stanare” il

cecchino;

- Zoom dalla semi-soggettiva del cecchino a Cowboy;

- Zoom da Cowboy che cade colpito al cecchino ad una finestra;

- Carrello a seguire il movimento dei marines che cercano di aggirare il cecchino;

- Carrello a seguire l’avanzata dei marines attraverso il fumo.


138

IV.1 L’OCCIDENTE PROSPETTICO

Nel secondo capitolo si è visto che la prospettiva centrale, rappresentazione pittorica

che dà l’illusione della tridimensionalità, fu ideata2 nel Quattrocento a Firenze.

Come ha annotato Rudolf Arnheim “per le caratteristiche visuali della prospettiva

centrale è significativo che essa sia stata scoperta in un momento e in un luogo solo di

tutta la storia dell’umanità. I procedimenti più elementari per la rappresentazione dello

spazio pittorico, il metodo bidimensionale «egiziano» come la prospettiva isometrica,

furono e sono tuttora scoperti indipendentemente in tutto il mondo ai livelli iniziali della

concezione visuale. La prospettiva centrale invece è una deformazione così violenta e

così complicata della forma normale delle cose che dovette apparire come risultato

finale di una lunga ricerca e in risposta a necessità culturali molto particolari.

Paradossalmente, la prospettiva centrale è allo stesso tempo anche il modo di gran lunga

più realistico di rendere lo spazio ottico, e si penserebbe quindi che non fosse una

1
Ci rifacciamo alla definizione «forma simbolica» coniata da Ernst Cassirer per indicare una forma

attraverso la quale “un particolare contenuto spirituale viene connesso a un concreto segno sensibile e

intimamente identificato con questo” (citazione contenuta in Erwin Panofsky, La Prospettiva…, cit., p.

50).
2
Cfr. il sottoparagrafo II.1.2 della presente ricerca
139

raffinatezza esoterica, riservata a pochi privilegiati, ma il metodo offerto a tutti nel

modo più naturale dall’evidenza dell’esperienza visiva”3.

Comunque, nella sua forma primitiva la prospettiva, come “metodo di tracciare

immagini fedeli su una superficie trasparente, sarebbe certo stata accessibile a qualsiasi

civiltà di livello discretamente avanzato: se ciò nonostante non ne resta altro indizio se

non, poniamo, il ricalco del profilo di teste umane nei dipinti degli aborigeni australiani

e di altri artisti arcaici, la ragione è certo che non vi fu l’esigenza di tale precisione

meccanica”4. In sostanza “la prospettiva centrale si generò come un aspetto della più

vasta ricerca di una descrizione oggettivamente corretta della natura fisica: ricerca che

nacque durante il Rinascimento dal rinnovato interesse per le meraviglie del mondo

sensoriale e che si realizzò sia nei grandi viaggi di esplorazione come nello sviluppo

della ricerca sperimentale e dei criteri scientifici di esattezza e di verità”5.

Perciò, conclude Arnheim, fu una necessità esclusivamente occidentale quella di trovare

uno strumento che permettesse di ottenere una costruzione oggettivamente corretta della

natura fisica, e la prospettiva colmò questo bisogno6.

Inoltre la prospettiva, essendo un dispositivo proprio dell’uomo occidentale,

sembrerebbe non essere comprensibile da tutte le popolazioni. Un esempio di tale

assunto è stato fornito dallo studioso d’arte John Ruskin, il quale nell’Ottocento, nel suo

voluminoso testo Modern Painters, ha affermato che i cinesi ritenevano falso un

3
Rudolf Arnheim, Art and Visual Perception: a Psychology of the Creative Eye, Regents of the

University of California, Berkeley – Los Angeles 1954, 1974, tr. it. Arte e Percezione Visiva. Nuova

Versione, Feltrinelli, Milano 19772, p. 231


4
Ivi, pp. 232-3
5
Rudolf Arnheim, Arte e Percezione…, cit., p. 232. Cfr. Ernst H. Gombrich, L’Immagine e l’Occhio…,

cit., pp. 219-220


6
Rudolf Arnheim, Arte e percezione…, cit., p. 232
140

disegno fatto con prospettiva centrale, così come gli occidentali consideravano piatti i

loro disegni7.

Quindi l’illusione della prospettiva, cioè l’illusione di dare l’idea di tridimensionalità a

oggetti che in realtà sono solamente bidimensionali, sarebbe stata creata, ma soprattutto

risulterebbe visivamente comprensibile, solo dagli uomini occidentali, educati secondo

un certo preciso modo di vedere, fondato sul mondo in cui vivono8. Infatti il mondo

occidentale appare ricco di angoli, di linee, di prospettive: le stanze delle abitazioni

sono quasi sempre rettangolari, e molti oggetti, come ad esempio le scatole, hanno degli

angoli retti. Ne risulta che l’ambiente è ricco di elementi prospettici che danno il senso

della profondità spaziale9.

A questo punto, seguendo il ragionamento di Gregory, sembrerebbe logico domandarsi

se le persone che vivono in paesi dove la civiltà e le tradizioni sono diverse dalle nostre,

e dove quindi l’ambiente fornisce elementi diversi ai processi della visione, siano

soggette alle stesse illusioni ottiche che noi consideriamo legate alle caratteristiche

prospettiche della figura10.

7
Citazione tratta da John Ruskin, Modern Painters, vol. I, parte II, sez. I, cap. II, che è contenuta in Ernst

H. Gombrich, Art and Illusion. A Study in the Psychology of Pictorial Representation, The Trustees of the

National Gallery of Art, Washington D.C. 1959, tr. it. Arte e Illusione. Studio sulla psicologia della

rappresentazione pittorica, Einaudi, Torino 1972, p. 324


8
Richard L. Gregory, Eye and Brain. The Psychology of Seeing, Fourth Edition, Weidenfeld and

Nicolson, London 1990, tr. it. Occhio e Cervello. La psicologia del vedere, Raffaello Cortina, Milano

1991, p. 183
9
Ibidem
10
Ivi, p. 183-4
141

Un popolo che vive in un ambiente privo di elementi prospettici è, ad esempio, quello

degli zulu11, il cui mondo è descrivibile come una “civiltà circolare”, dal momento che

le capanne e le porte sono rotonde ed inoltre i loro campi sono arati con solchi curvilinei

e raramente i loro oggetti sono strutturati in rette o angoli12.

Jan Deregowski13 ha scoperto che gli zulù percepiscono poco, o addirittura per nulla, la

profondità in figure che invece producono un’impressione di profondità prospettica nei

soggetti occidentali. Inoltre sono state eseguite ricerche anche su popolazioni che

vivono nelle foreste e che non hanno esperienza della distanza, perché la ricca

vegetazione impedisce il passaggio della luce ed ostacola la visibilità. Quando sono

condotti fuori dall’ambiente abituale questi individui vedono gli oggetti lontani come se

fossero di piccole dimensioni e non si rendono conto che invece sono solo distanti14.

11
Gli zulu in AA.VV., Grande Dizionario Enciclopedico, Utet, Torino 1973, vol. XIX, p. 864, vengono

definiti “una popolazione appartenente alla famiglia linguistica bantu, stanziata prevalentemente nello

Zululand, territorio autonomo della provincia del Natal. Gli zulu derivano dalla fusione di varie tribù

originarie degli altopiani dell’Africa equatoriale orientale, scese verso Sud nei secoli XVII e XVIII e

riunite in un solo organismo per opera del capo Shaka nel primo periodo del secolo XIX. Gli zulu, che

sono divisi in clan, vivono in gruppi di capanne disposte in circolo (Kraal), che formano la residenza di

una famiglia patriarcale”. Cfr. anche AA.VV., Enciclopedia Universale dell’Arte, cit., vol. II, pp. 302-46

e vol. VII, tav. 355


12
Richard L. Gregory, op. cit., p. 184
13
J.B. Deregowski, Illusion and culture, in R.L. Gregory ed Ernst H. Gombrich, Illusion in Nature and

Art, Duckworth, 1974, pp. 74-93. L’assenza di illusioni visive nei popoli primitivi è trattata anche in

M.H. Segall, T.D. Campbell, M.J. Herskovitz, The Influence of Culture on Visual Perception, Bobbs

Merrill, New York 1966. Come ulteriore esempio della mancanza innata nell’uomo della visione

prospettica si rimanda anche ad Anselm Von Feuerbach, Kaspar Hauser, Beispiel eines Verbrechens am

Seelenleben des Menschen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt Am Main 1989 tr. it. Kaspar Hauser. Un delitto

esemplare contro l’anima, Adelphi, Milano 1996, pp. 68-73


14
R.L. Gregory, Occhio e…, cit. p. 185
142

Sembrerebbe dunque che le abitudini di vita influiscano in modo determinante sul

sistema che controlla la visione degli oggetti lontani e di conseguenza sembrerebbe

provata, nelle illusioni prospettiche, la presenza di fattori culturali relativi agli indizi di

distanza disponibili nell’ambiente15.

In conclusione, se per l’uomo occidentale la visione di un quadro strutturato secondo la

rigida griglia della prospettiva centrale risulta immediatamente comprensibile, per un

uomo vissuto al di fuori della civiltà occidentale l’intelligenza delle proporzioni e delle

distanze di ciò che è raffigurato in prospettiva si rivelerebbe distorta.

15
Ibidem
143

IV.2 STANLEY KUBRICK, CREATORE DI CONTROLLO

IV.2.1 Movimento

Si è visto nel terzo capitolo di questa ricerca che la struttura spaziale del corridoio

potrebbe essere considerata come un nonluogo di transito connotato dal movimento.

Tale movimento parrebbe essere inerente anche ai numerosi corridoi kubrickiani, siano

essi scenici o fotografici.

Infatti, con il termine corridoio abbiamo abbinato due aspetti: il corridoio scenico,

intendendo cioè il corridoio come struttura architettonica, ed il corridoio fotografico,

comprendendo con questa definizione quel tipo di corridoio creato dal carrello in avanti

o all’indietro e dallo zoom in avanti o all’indietro.

Nel cinema di Stanley Kubrick entrambi i due tipi di corridoio sembrerebbero

evidenziare come primaria peculiarità quella del movimento. Infatti per quanto riguarda

il corridoio scenico il movimento sarebbe rappresentato dai personaggi che si muovono

al suo interno16. Per quanto concerne invece il corridoio fotografico questo verrebbe

prodotto dalla macchina da presa attraverso carrelli o zoom in avanti o indietro17.

Esiste anche il caso, abbastanza frequente a dir la verità, in cui al corridoio scenico si

assocerebbe quello fotografico. Infatti “la marca espressiva tipica di Kubrick (…) sono i

carrelli in avanti o all’indietro che accompagnano lo spostamento del personaggio in un

corridoio-tunnel. Questi carrelli compaiono nell’opera di Kubrick già a partire da

Killer’s Kiss (la sequenza dell’incubo di Davy Gordon: un carrello su strade urbane

deserte che anticipa il viaggio psichedelico finale di David Bowman in 2001: A Space

Odyssey), e poi soprattutto da Paths of Glory in poi: si pensi alle sequenze

16
Ad esempio, in A Clockwork Orange, il corridoio del carcere che viene attraversato dal ministro
17
A questo riguardo basti pensare ai carrelli in The Shining e agli zoom in Barry Lyndon
144

dell’ispezione delle trincee in Paths of Glory, al già citato corridoio spaziale in 2001, ai

percorsi di Alex nel negozio di dischi e del ministro in carcere in A Clockwork

Orange18, al vagare di Danny nei corridoi dell’albergo deserto e nel labirinto di piante

in Shining, ai percorsi dei marines in Full Metal Jacket”19.

Da quanto sostenuto dallo studioso Eugeni sembrerebbero emergere due elementi: da un

lato la presenza nella filmografia kubrickiana di corridoi-tunnel20, che

corrisponderebbero a quelli che abbiamo definito corridoi scenici, e dall’altro l’uso

frequente (la marca espressiva tipica) di movimenti della macchina da presa in carrello

in avanti o indietro, ossia i nostri corridoi fotografici.

Per i corridoi scenici sembrerebbe valevole di nota la riflessione di Sandro Bernardi, per

il quale in tutti i film del regista americano la “scenografia [si caratterizza] come

destino, dove tutti i percorsi sono predeterminati”21. Perciò il corridoio scenico (cioè

inerente alla scenografia) parrebbe corrispondere anche alla definizione datane dallo

studioso Paolo Cherchi Usai, secondo il quale “il corridoio guida il movimento

dell’uomo”22.

18
In realtà, osservando il film, ci si accorge che il tragitto che il ministro compie attraverso il corridoio

del carcere è ripreso in macchina da presa fissa, senza carrelli né zoom.


19
R. Eugeni, Invito…, cit., p. 134
20
Si rimanda, come modelli basilari ma non unici, ai corridoi di The Shining e alle trincee di Paths of

Glory
21
Sandro Bernardi, op. cit., p. 165. Della stessa idea è Charles Tesson che nell’articolo, Seul contre lui, in

AA.VV., Kubrick, l’homme du contrôle absolu, in Cahiers du Cinema, Avril 1999, n° 534, p. 23, sostiene

che “Le décor conditionne l’homme, programme son destin”


22
Paolo Cherchi Usai, Kubrick architetto…, cit., p. 276 Va sottolineato che il saggio di Cherchi Usai

analizza la figura del corridoio in The Shining per poi ampliare tale discorso a tutto il cinema kubrickiano.
145

Per quanto riguarda il movimento della macchina da presa in carrello in avanti o

all’indietro, cioè il nostro corridoio fotografico, va sottolineato come esso sembri creare

“una sorta di «voracità» spaziale, una volontà di risucchiare la persona umana”23.

In altri termini attraverso il movimento dei “travellings avant [et] arrière (…) qui tracent

les dimensions du cosmos kubrickien”24 lo spazio sembrerebbe assumere la “forma di

inghiottitoio, di realtà che risucchia materialmente i protagonisti senza mai dar loro la

sensazione di prevedere quale possa essere il punto di arrivo”25.

Come corollario relativo esclusivamente al carrello in avanti legato alla soggettiva di un

personaggio parrebbe ricco di suggestioni quanto sostenuto da Christian Metz. Lo

studioso francese ritiene che tale movimento di macchina provocherebbe un effetto

paraocchi, una vera e propria forzatura dello sguardo, dal momento che lo spettatore sa

che non ci saranno stacchi né spostamenti laterali e che l’inquadratura (che può

eventualmente procedere anche a zig-zag se l’itinerario dell’osservatore lo richiede) sarà

sempre e soltanto frontale. Quindi non potremo [noi spettatori ma anche il personaggio

che osserva in soggettiva] prepararci al pericolo anticipandolo mentalmente grazie ad

una sua materializzazione nell’immagine; quel pericolo ci sorgerà di fronte, come

un’implosione che succederà bruscamente all’eccessivo vuoto precedente26.

23
R. Eugeni, Invito…, cit., p. 134
24
Giuliani, op. cit., p. 88
25
Gian Piero Brunetta, Stanley Kubrick: Odissea…, cit., p. 21
26
Christian Metz, L’énonciation impersonnelle, ou le site du film, Klincksieck, Paris 1991, tr. it.

L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1995, p. 148. In

particolare Metz si rifà a Marc Vernet, Figures de l’Absence, Éditions de l’Étoile, Paris 1988, pp. 42 sgg.
146

In conclusione, per tornare al cinema di Kubrick, sia il corridoio scenico che quello

fotografico sembrerebbero creare “uno spazio da corridoio costretto, claustrofobico27,

labirintico, che sottolinea il senso di meccanica ineluttabilità dello svolgersi degli

eventi”28.

Nella nostra analisi del corridoio fotografico restano infine da chiarire gli zoom in

avanti o all’indietro.

Innanzitutto va precisato che gli zoom sono propriamente dei carrelli ottici29, si ha cioè

un aumento o una riduzione progressiva della lunghezza focale della lente

dell’obiettivo, piuttosto che lo spostamento fisico della macchina da presa, come

avviene nei carrelli in avanti o indietro30.

In secondo luogo andrebbe posta una differenza tra i carrelli (normali o ottici che siano)

sia in avanti che all’indietro i quali, come abbiamo visto precedentemente,

“accompagnano lo spostamento del personaggio in un corridoio-tunnel”31 e creano uno

27
A questo riguardo pare interessante riportare una riflessione di Gian Piero Brunetta, Stanley Kubrick:

Odissea…, cit., p. 21, secondo il quale “ossessione claustrofobica e ricerca del punto di fuga sono i

sentimenti che guidano il movimento dei personaggi kubrickiani nello spazio”.


28
Eugeni, Invito…, cit., p. 47
29
Cfr. Mario Bernardo, L’immagine…, cit., pp. 181-3. Inoltre, per quanto riguarda la stretta “parentela”

tra zoom e carrello, è interessante notare ad esempio come anche Sandro Bernardi, op. cit., p. 199, si

confonda definendo “l’inquadratura finale [di Shining] (…) uno zoom lentissimo verso una fotografia”,

quando in realtà si tratta di “un carrello in avanti” (Eugeni, Invito…, p. 97). Inoltre, a riprova di ciò, lo

stesso John Alcott, direttore della fotografia del film, ha dichiarato che “l’obiettivo da 18mm è stato

spesso usato in Shining. [In questo film] abbiamo utilizzato tutta la gamma degli obiettivi Zeiss, dal 18

mm all’85mm. Invece non abbiamo mai usato lo zoom” (Michel Ciment, Kubrick, Calmann-Lévy, Paris

1980 tr. it. Kubrick, Milano Libri, Milano 1981, p. 222).


30
Eugeni, Invito…, cit., p. 136
31
Ivi, p. 134
147

spazio da inghiottitoio32, risucchiante33, e il carrello o lo zoom all’indietro34 che

partendo da un primo piano di un personaggio lo isola via via all’interno di un

ambiente.

Su questo punto parrebbe molto esplicativo quanto ha sostenuto il semiotico Ruggero

Eugeni, secondo il quale “l’elemento espressivo interessante (…) è dato dall’uso che

Kubrick fa dei campi lunghi e lunghissimi, che isolano i soggetti in uno spazio ampio e

ne mostrano l’annichilimento: i soldati nel castello di Paths of Glory, i gladiatori in

Spartacus, Danny e la madre Wendy visti dall’alto all’interno del labirinto di Shining, i

soldati nel campo di addestramento in Full Metal Jacket. Si tratta quasi di uno sguardo

da entomologo alle prese con insetti o elementi monomolecolari, osservati con distacco,

dall’alto o al microscopio. Oppure dello sguardo del giocatore di scacchi sui suoi pezzi:

pezzi costretti a mosse determinate all’interno di quella curiosa forma di labirinto in

perenne ristrutturazione ma senza possibilità di uscita che è la scacchiera. Questo

procedimento espressivo assume un andamento particolare nel caso del carrello

all’indietro, che parte da un primo piano del personaggio per poi isolarlo lentamente

all’interno di un ambiente: esemplare quello che apre A Clockwork Orange, a partire

dall’occhio di Alex fino a un piano totale del Korova Milk Bar. Si osservi la differenza

rispetto al carrello all’indietro (…) a proposito dello spazio risucchiante: in quel caso il

carrello (o la steadicam) seguiva il personaggio in movimento, qui invece lo abbandona

alla sua immobilità. Ugualmente esemplari i numerosi carrelli all’indietro ottici (…) in

Barry Lyndon”35.

32
Gian Piero Brunetta, Stanley Kubrick: Odissea…, cit., p. 21
33
Eugeni, Invito…, cit., p. 136
34
Secondo Sandro Bernardi, op. cit., p. 38, “Lo zoom oppure il carrello all’indietro (…) è la costante

stilistica del cinema di Kubrick”.


35
Eugeni, Invito…, cit., p. 136
148

Da questa lunga riflessione sembrerebbe derivare che attraverso questo tipo particolare

di carrello o zoom all’indietro i personaggi assumano, come afferma Eugeni, le fattezze

di pezzi di una scacchiera, privi di libertà di movimento e di scelta. Ma in realtà

abbiamo mostrato in precedenza come anche ogni tipo di carrello o zoom sembrerebbe

creare quello “spazio da corridoio costretto, claustrofobico, labirintico, che sottolinea il

senso di meccanica ineluttabilità dello svolgersi degli eventi”36, di cui parla Eugeni, in

cui i personaggi non hanno “la sensazione di prevedere quale possa essere il punto di

arrivo”37 e, di conseguenza, sono inevitabilmente diretti in una direzione prefissata.

Quindi il corridoio fotografico sia del primo tipo, che trasforma i personaggi in pedine

di una scacchiera38 che li contiene, sia del secondo, che crea uno spazio in cui gli eventi

sembrano già scritti per i personaggi e che li rende ugualmente pedine, risulterebbe

assimilabile al corridoio scenico che “guida il movimento dell’uomo”39 su percorsi

obbligati40 e predeterminati41, esaminato in precedenza.

In altre parole, in base a queste considerazioni, si avrebbe conferma di quanto sostenuto

da Ruggero Eugeni, secondo il quale “i personaggi [di Kubrick] (…) hanno l’illusione

di dominare visivamente42 una porzione conchiusa di realtà, [ma] non si rendono conto

che essi stessi sono mossi, che la loro stessa realtà è, come in un gioco sinistro di scatole

36
Ivi, p. 47
37
Gian Piero Brunetta, Stanley Kubrick: Odissea…, cit., p. 21
38
Per questa definizione si rimanda anche al sottoparagrafo successivo
39
Paolo Cherchi Usai, Kubrick architetto…, cit., p. 276
40
Sergio Toffetti, op. cit., p. 57
41
Sandro Bernardi, op. cit., p. 165
42
Cfr. R. Eugeni, Invito…, cit., p. 121, dove appunto afferma che “la prospettiva esprimerebbe proprio

una volontà e una fiducia di dominio”


149

cinesi, osservata e guidata dall’alto”43. Essi appaiono “ingabbiati, nonostante il loro

agitarsi, all’interno di schemi e situazioni già definite, già disegnate. Tutti i personaggi

del cinema di Kubrick sembrano piccoli esseri che appartengono a qualcosa di

infinitamente più grande, che li guarda, li osserva e ne condiziona il comportamento”44.

Per questa ragione “il mondo [kubrickiano] appare così un teatro di ombre, il frutto di

una rappresentazione mossa e osservata da spiriti eternamente fuori campo, come

avviene in termini espliciti in 2001: A Space Odyssey e in Shining”45.

43
R. Eugeni, Invito…, cit., p. 99. A questo riguardo è interessante la definizione che Kent Jones,

nell’articolo Un conteur métaphysique, in AA.VV., Kubrick, l’homme du contrôle absolu, cit., p. 26, dà

dei film di Kubrick, considerandoli “des planètes enchâssées dans des globes de cristal et exposées à la

contemplation d’une entité céleste qui les étudie avec un terrifiant détachement”.
44
Primo Giroldini, L’occhio e il cervello. Il cerchio e il labirinto, in Primo Giroldini (a cura di), A

proposito di Stanley. Il cinema di Kubrick, cit., p. 36


45
Eugeni, Invito…, cit. p. 126
150

IV.2.2 Labirintica scacchiera

Le riflessioni conclusive del sottoparagrafo precedente parrebbero accostabili ad un

testo poetico di Jorge Luis Borges: Scacchi46.

I
Nel loro angolo grave, i giocatori
governano i lenti pezzi. La scacchiera
li trattiene fino all’alba nel suo severo
ambito in cui si odiano due colori.

Dentro irraggiano magici rigori


le forme: torre omerica, svelto
cavallo, armata regina, re ultimo,
obliquo alfiere e pedoni aggressori.

Quando i giocatori se ne saranno andati,


quando il tempo li avrà consumati,
certamente ne sarà cessato il rito.

Nell’Oriente si accese questa guerra


il cui anfiteatro è oggi tutta la terra.
Come l’altro, questo gioco è infinito.

II
Tenue re, sghembo alfiere, accanita
regina, torre diritta e pedone scaltro
sopra il nero e il bianco del sentiero
cercano e combattono il loro scontro armato.

Non sanno che la mano designata


del giocatore comanda il loro fato,
non sanno che un rigore adamantino
regge il loro arbitrio e il loro viaggio.

E pure il giocatore è prigioniero


(la sentenza è di Omar) di un’altra scacchiera
di nere notti e di bianchi giorni.

Dio muove il giocatore, e questi, il pezzo.


Quale Dio dietro Dio dà inizio alla trama
di polvere e tempo e sogno e agonie?

46
Jorge Luis Borges, Obra poética, Emecé Editores, Buenos Aires 1977, tr. it. Poesie (1923-1976), Bur,

Milano 1982, pp. 100-103.


151

Il poeta argentino, sotto la velata metafora della scacchiera, parrebbe sostenere che

“l’uomo è pedina di un gioco le cui regole e le cui mosse non dipendono da lui: in

questa allegoria filosofica vi è una scoperta negazione del libero arbitrio”47.

Senza voler approfondire il pensiero di Borges, dato che non è questo l’obiettivo della

nostra ricerca, ci sembra comunque interessante notare come gli stessi concetti da noi

espressi nelle pagine precedenti sul valore dei personaggi kubrickiani trovino il loro

corrispettivo poetico nel significato assunto dagli scacchi borghesiani: né gli uni né gli

altri hanno alcuna libertà di scelta ed inoltre sono ignari della loro condizione.

Infatti, come si è cercato di evidenziare nel sottoparagrafo IV.2.1, l’immagine dei pezzi

di una scacchiera e l’idea di mancanza di libertà ad essa collegata, parrebbe essere

presente nell’opera di Stanley Kubrick attraverso l’impiego visivo del corridoio (sia

scenico che fotografico). In tal modo, infatti, si manifesterebbe la creazione da parte del

regista newyorchese di uno spazio che “è una scacchiera entro cui far muovere (…) i

suoi personaggi-pedine secondo direttrici obbligate”48.

Quindi la mancanza di libero arbitrio, l’impossibilità di scegliere ed intervenire

liberamente sul proprio destino, che si è vista essere la caratteristica dei personaggi

kubrickiani a livello narrativo49, troverebbe la sua conferma anche a livello visivo dove

47
Roberto Paoli, commento in nota alla poesia in Ivi, p. 101. Va in ogni caso rilevato che ci si serve di

questa poesia solo per dare sostegno alla tematica della mancanza del libero arbitrio e, di conseguenza,

non si ha interesse ad approfondire l’idea borghesiana di un Dio che muove l’uomo, ma al tempo stesso è

pedina di una scacchiera di un altro Dio a lui sovrastante (ibidem).


48
Gian Piero Brunetta, En attendant Kubrick, in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, cit., p. 11
49
Oltre a rinviare al primo capitolo di questo lavoro, ci sembra interessante riportare la riflessione di

Giorgio Cremonini, in Stanley Kubrick. Shining, cit., p. 57, dove sostiene che “il cagnolino all’aeroporto

di The Killing e il cavallo imbizzarrito di Barry Lyndon sono gli esempi più trasparenti di questa

attivazione casuale di un destino pre-scritto, di quella logica dell’ineluttabilità che è stata propria del noir

negli anni ’40 e ’50 e che Kubrick continua a fare sua: non finge nemmeno per un momento che i suoi
152

“sia che si tratti delle trincee di Paths of Glory, sia che si tratti del viaggio di Alex dal

bar Korova alla casa in cui vive o alla casa di campagna [A Clockwork Orange], sia che

si consideri il percorso dell’automobilina in Shining, dove i corridoi si spalancano e si

succedono uno dopo l’altro aumentando il senso dell’attesa e dell’incubo, lo spazio non

è mai il luogo della socializzazione, dell’equilibrio e dell’esistenza di rapporti

interdividuali paritetici e normalizzati. I personaggi sono imprigionati nei loro spazi, nei

loro ruoli; lo spazio è anche, prevedibilmente una scacchiera nella quale le regole del

gioco impongono movimenti obbligati e funzionali a una risoluzione o a una

scadenza”50.

In sostanza perciò, i personaggi kubrickiani sarebbero semplici pedine di un gioco più

grande di loro, posti all’interno di uno spazio concepito dal regista americano come un

“politopo, una scacchiera-labirinto51, uno spazio privo di punti di riferimento, di punti

cardinali, in cui le bussole non costituiscono sistemi di orientamento e in cui i

personaggi si muovono alla cieca”52.

personaggi vivano di una loro libertà di scelta, ma li costringe all’interno di una gabbia che non lascia

scampo”
50
Gian Piero Brunetta, Stanley Kubrick: Odissea nel cinema, in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley

Kubrick, cit., p. 21-22


51
A questo riguardo è esplicativo il fatto che sempre Gian Piero Brunetta, En attendant Kubrick, in G.P.

Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, cit., p. 10, affermi che “labirinto e scacchiera (…) sono forme per

eccellenza del cinema di Kubrick”. Inoltre cfr., nello stesso volume, Michel Ciment, Lo spazio e il

tempo…, cit., pp. 28-29


52
G.P. Brunetta, En attendant…, cit., p. 12
153

Se nella filmografia kubrickiana parrebbe esistere un rapporto tra corridoio e

scacchiera53, dalle riflessioni di Gian Piero Brunetta (lo spazio come una scacchiera, ma

anche come labirinto) si desume che sembrerebbe sussistere anche un legame tra il

corridoio e il labirinto54, dato che, secondo Eugeni, “il corridoio privo di decorazioni

individuanti, uniforme, diviene (…) una parte di labirinto: anzi è esso stesso

labirinto”55.

Kubrick, quindi, attraverso la figura stessa del corridoio, darebbe forma e sostanza

all’utopia dello scrittore argentino Jorge Luis Borges di “un labirinto (…) che è una

linea unica retta, incessante”56. Infatti “il corridoio guida il movimento dell’uomo, ma

non stabilisce una relazione univoca con lo spazio che assume perciò forme

incontrollabili, dalle quali sono assenti i punti di riferimento necessari all’individuo per

orientarsi”57.

Questa assenza di punti di riferimento e di decorazioni individuanti, renderebbe perciò il

corridoio kubrickiano uniforme, labirintico58, dal momento che “il labirinto è la forma

53
Lo si è visto nel precedente sottoparagrafo dove si è cercato di evidenziare come la presenza del

corridoio, scenico o fotografico, sembri implicare per i personaggi la condizione di pezzi di una

scacchiera costretti a mosse determinate.


54
Pierre Giuliani, op. cit., p. 68, dove lo studioso francese sostiene che il “labyrinthe est la forme la plus

vaste des fictions kubrickiennes, (…) elle domine l’œvre entière”. Inoltre si ricorda come emblematico il

titolo del seminario tenuto a Milano presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore il 18 novembre 1997 e

coordinato dal professor Ruggero Eugeni, A gaze on the maze. Le forme del visibile nel cinema di Stanley

Kubrick.
55
Eugeni, Invito…, cit., p. 131
56
Ibidem. La citazione è tratta da Jorge Luis Borges, La morte e la bussola, in Finzioni, Einaudi, Torino

1982, p. 131
57
Paolo Cherchi Usai, Kubrick architetto…, cit., p. 276
58
Eugeni, Invito…, p. 131. E’ da evidenziare a questo riguardo una riflessione di Primo Giroldini,

L’occhio e…, cit., p. 37, dove afferma che “nel cinema di Kubrick il labirinto è una costante, dapprima in
154

sensibile che esprime la perdita di controllo59 del soggetto sul tempo e sullo spazio: il

soggetto non riesce più a controllare le strutture spaziali e temporali, né di conseguenza

a calcolare le proprie posizioni e i propri percorsi al suo interno”60.

Inoltre un aspetto dei “labirinti spaziali e temporali in cui i personaggi di Kubrick sono

presi [è che] da essi non si può uscire. (…) Il tratto saliente del labirinto è (…) la

chiusura, l’autoconclusività. Questa impossibilità di fuga è duplice: i personaggi sono

impossibilitati a uscire dal labirinto in orizzontale, muovendosi per così dire in avanti,

indietro o di fianco. Ma sono anche impossibilitati a praticare la direzione verticale, a

innalzarsi sul labirinto e a controllarne in tal modo l’andamento”61.

forme accennate: i lunghi corridoi delle trincee in Paths of Glory, il tunnel di luce in 2001, la sala della

guerra in Dr. Strangelove (…). Poi in forme più definite: il dedalo delle camerate di Parris Island in Full

Metal Jacket o il dedalo della città distrutta dalla guerra nello stesso film. (…). L’Hotel [di Shining] è un

labirinto, saloni uguali l’uno all’altro, lunghi corridoi con una moquette che riporta disegni geometrici che

rimandano ai percorsi (ancora) di un labirinto”. Anche Pierre Giuliani, op. cit., pp. 42-3, rileva tale

rapporto: “Le labyrinthe trace son chemin entre le cercle et la droite, le contour «objectif» du monde et la

claustrophobie, dans les tranchées (Paths of Glory), les souterrains où Molly Malone et un clochard

d’Irlande, quelque peu céleste donc, se font à moitié lyncher (A Clockwork Orange). Le labyrinthe est

tunnel, associé aux formes les plus douloureuses et les plus angoissantes de l’enfermement (Shining). Il

est errance sans rime ni raisons (Barry Lyndon). Le film lui-même est tunnel de lumière (2001)”
59
Interessante notare che proprio Eugeni, in Invito…, cit., p. 120, afferma come l’aspetto centrale della

ragione occidentale messo in crisi nel cinema di Kubrick, sia proprio il principio di controllo.
60
Eugeni, Invito…, cit., p. 130
61
Ivi, p. 135. Inoltre sulla tematica del labirinto cfr. Thierry Cazals, L’homme labyrinte, in Cahiers du

Cinema, Novembre 1987, n° 401


155

Tali proprietà parrebbero quindi inerenti anche al corridoio kubrickiano che, come

sostiene Eugeni, “è esso stesso labirinto”62, ed è perciò uno spazio che i personaggi non

possono controllare, ma nel quale sono invece costretti secondo direttrici obbligate.

Inoltre il corridoio kubrickiano, in quanto labirintico parrebbe essere infinito63, nel

senso che “in ogni corridoio (e nel labirinto, un corridoio che non porta a nulla se non

alla propria autoperpetuazione) la luce e i suoni si estendono e si rinchiudono in un

circuito (…) infinito”64.

Un altro studioso, Enrico Ghezzi, riferendosi a 2001: A Space Odyssey, è riuscito a

chiosare questa immagine di un circuito infinito in maniera molto chiara: “l’astronauta

corre (…) in un corridoio per tenersi in forma fisica, corre in linea retta e il corridoio

non finisce, benché sia dentro lo spazio limitato dell’astronave, sta percorrendo un

camminamento circolare, la corsa può essere infinita e apparentemente retta”65.

62
Ivi, p. 131. In un certo qual modo si potrebbe forse accostare il labirinto kubrickiano al labirinto

«unicursale» di cui parla Umberto Eco, Introduzione a Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti. Storia di

un mito e di un simbolo, Frassinelli, Milano 1984, p. IX, “A vederlo dall’alto sembra un intrico

indescrivibile e a percorrerlo si è presi dall’angoscia di non poterne mai più uscire, ma in effetti il suo

percorso è generabile con un algoritmo molto semplice, perché esso altro non è che un gomitolo a due

capi, e chi vi entra da una parte non potrà che uscire dall’altra. Questo è il labirinto classico che non

avrebbe bisogno di filo d’Arianna perché è esso stesso il filo d’Arianna di se stesso. (…) Il problema

posto da questo labirinto non è «da quale parte uscirò?» bensì «uscirò», ovvero «uscirò vivo?». Questo

labirinto è immagine di un cosmo difficile da vivere, ma tutto sommato ordinato (c’è una mente [gli

extraterrestri di 2001?] che lo ha concepito)”.


63
Cfr. Ivi, p. 130, dove sostiene che “lo spazio labirintico è (…) uno spazio che si ripete uguale (o

apparentemente uguale) a se stesso all’infinito”.


64
Paolo Cherchi Usai, op. cit., p. 282.
65
E. Ghezzi, op. cit., p. 84. Per quanto riguarda questo aspetto, potrebbe essere valevole di nota quanto

sostenuto da Sergio Toffetti, op. cit., p. 59, per il quale “la corsa di Frank Pool nei corridoi del Discovery
156

IV.2.3 Metafore visive di una crisi

Nel primo capitolo abbiamo notato come, a livello narrativo, il cinema di Kubrick

parrebbe proporre due tematiche fondamentali: da una parte l’illusione dei personaggi di

poter controllare il proprio destino, e dall’altra l’incapacità ad attuare tale controllo dal

momento che gli eventi seguono un altro percorso rispetto a quello stabilito dai

personaggi stessi.

Per quanto riguarda il livello visivo, i film di Kubrick, come si è cercato di mostrare nel

secondo e nel terzo capitolo, sembrerebbero presentare una “costruzione razionale dello

spazio”66 cinematografico, suddivisibile in due sezioni distinte. Da una parte ci sarebbe

la centratura e la simmetria di molte inquadrature che richiamano la prospettiva

rinascimentale, e dall’altra l’utilizzo di corridoi scenici o fotografici.

L’uso della prospettiva, come si è tentato di provare nel secondo capitolo, sembrerebbe

implicare un’idea di libertà, di capacità di controllo sullo spazio, sul mondo e, in ultimo,

anche sul destino67. Inoltre, nel paragrafo IV.1, si è cercato di mostrare come la

prospettiva sia fondamentalmente un frutto della cultura occidentale.

Quindi, come ha sostenuto il semiotico Eugeni, nella filmografia kubrickiana la

prospettiva sarebbe da considerare uno strumento attraverso il quale “la ragione

occidentale ha inteso instaurare un controllo sul mondo, [nel senso che] il modello

può essere presa ad esempio definitivo della struttura circolare di questo itinerario (personaggio –

spettatore – autore), come in 2001 partenza ed arrivo hanno la stessa faccia”.


66
Ruggero Eugeni, Invito …, cit., p. 149. Inoltre, ad esempio, anche Michel Ciment nell’introduzione a

Michel Ciment (a cura di), Stanley Kubrick, Giorgio Mondadori – la Biennale di Venezia, Milano 1997,

p. VIII, sostiene che “il frequente ricorso alla carrellata all’indietro o, al contrario, al piano fisso e alla

profondità di campo, tende sempre a riordinare lo spazio”


67
Cfr. sottoparagrafo II.1.3 di questa ricerca
157

spaziale della prospettiva esprime proprio una volontà e una fiducia di dominio, di

centralizzazione e di geometrizzazione”68.

Al contrario, la struttura del corridoio, argomento affrontato nel terzo capitolo,

comporterebbe una costrizione, nel senso che chi si trova al suo interno sarebbe

costretto, per uscirne, a percorrere un’unica strada. Infatti, come ha affermato Sergio

Toffetti, “nel cinema di Kubrick (…) il viaggio assume spesso la connotazione speciale

di uno spostamento attraverso/in/lungo/dentro un corridoio, il che rende esplicita la

doppia articolazione di un simile itinerario: l’odissea dell’eroe verso la libertà è

contemporaneamente faticoso passaggio dentro la costrizione. (…) [Nel suo cinema] il

corridoio indica assai spesso (…) il percorso obbligato da attraversare per uscire da una

situazione di crisi ma, come negli incubi, anche nei casi in cui questo percorso appare

circoscritto e funzionale, il traguardo è invisibile o rimandato: Dax [Paths of Glory]

resta prigioniero nella trincea così come lo è delle decisioni dell’alto comando,

Mandrake [Dr. Strangelove] non sbuca da nessuna parte proprio perché l’assurda

strategia del terrore è un vicolo senza uscita, Davy [Killer’s Kiss] non si libera del

proprio sogno perché fuori lo attende una realtà ben peggiore”69.

Tornando alla tematica del pensiero occidentale, affrontato poco sopra, Eugeni sostiene

che la filmografia del regista americano esprimerebbe la metafora visiva della crisi

della ragione occidentale, rappresentata dall’utilizzo della macchina da presa a mano70

68
Ruggero Eugeni, Invito…, pp. 120-1
69
Sergio Toffetti, op. cit., pp. 57-8
70
Cfr. Eugeni, Invito…, p. 118. Su questo punto si rimanda anche a Sandro Bernardi, op. cit., p. 36, dove

lui afferma che nella filmografia kubrickiana esistono due tipi di rappresentazione dello spazio, quella

statica e quella in movimento: “mentre la rappresentazione del primo tipo, quella prospettica, genera uno

spazio, la rappresentazione del secondo tipo, quella mobile, distrugge lo spazio che la prima aveva

prodotto”. Inoltre anche Michel Ciment, Kubrick, Calmann-Lévy, Paris 1980, tr. it. Kubrick, Milano

Libri, Milano 1981, p. 113, ritiene che “ciò che domina visivamente i film di Kubrick è (…) la rottura di
158

che trasformerebbe lo spazio centrato71, costruito in precedenza da Kubrick, in spazio

policentrico, in cui sarebbe evidente la perdita di controllo72 del personaggio sullo

spazio della rappresentazione, o meglio, “la crisi del controllo razionale esercitato dal

soggetto”73.

In sostanza, secondo Eugeni la strutturazione dello spazio cinematografico fondata sulle

norme della prospettiva rinascimentale darebbe forma visiva alla volontà e alla fiducia

da parte dei personaggi kubrickiani di poter controllare gli eventi della propria storia74.

Tuttavia tale convinzione si rivelerebbe (visivamente) illusoria “nell’istante in cui, al

centro dei modelli di controllo, si inserisce un elemento imponderabile [la macchina da

presa a mano] che sfugge ai sistemi di vigilanza e porta gradatamente ma

inesorabilmente a un’incontrollabile distruzione dell’intero sistema”75.

Quindi “l’aspetto centrale [della ragione occidentale] messo in crisi [nel cinema di

Stanley Kubrick] è il principio di controllo”76.

un ordine con la violenza (…). Inquadrature armoniose, simmetriche, definite con rigore, vengono

improvvisamente sconvolte, squilibrate dai movimenti della macchina da presa tenuta in mano”. Infine è

da segnalare anche quanto sostenuto da Giorgio Cremonini in Stanley Kubrick. L’arancia meccanica, cit.,

p. 59, secondo il quale (relativamente al film A Clockwork Orange, ma riflessione ampliabile, come si è

visto poco sopra, a tutto il cinema di Stanley Kubrick) è netta “la rottura della geometria e simmetria delle

inquadrature (del loro frontale e statico ordine plastico), attuata dall’intrusione improvvisa del movimento

apparentemente disordinato, incessante, frenetico della macchina da presa”.


71
Sempre Eugeni, in Invito…, cit., p. 53, sostiene che nella filmografia di Kubrick “l’inquadratura

frontale, prospettica, teatrale (…) rivela il potere, proprio della macchina cinematografica, di costruire

uno sguardo sul mondo (precariamente) saldo, razionale, centrale”


72
Eugeni, Invito…, cit., p.154
73
Ivi, p. 121
74
Ibidem
75
Ibidem
76
Ivi, p. 120
159

Seguendo questa linea di analisi, il nostro lavoro si pone come obiettivo di mostrare

(analizzando nel prossimo sottoparagrafo alcune scene delle opere del regista

americano) che, a livello visivo, la crisi della ragione occidentale, e in particolare la

crisi del principio di controllo, verrebbe evidenziata da Kubrick oltre che con l’impiego

della macchina da presa a mano, anche attraverso l’utilizzo di corridoi scenici o

fotografici. Nel senso che, come si è cercato di chiarire nei due sottoparagrafi

precedenti, il personaggio kubrickiano, dall’illusione di poter controllare lo spazio e

quindi il proprio destino (la prospettiva centrale)77, si troverebbe invece nella

condizione di costretto in un’unica direzione predeterminata (il corridoio)78. In altri

termini sia la prospettiva che il corridoio costituirebbero il “correlato oggettivo

visivo”79 delle idee kubrickiane espresse a livello narrativo.

77
Eugeni in Ivi, p. 121 la definisce come un “modello di controllo”. Anche Richard Sennett, op. cit., p.

171, sostiene che, nel Quattrocento, la prospettiva era concepita come “una forma di dominio possessivo”

sullo spazio. In sostanza, p. 172, era presente l’idea che “l’oggetto fosse posseduto attraverso la

prospettiva”.
78
A questo riguardo, ad esempio, Paolo Cherchi Usai, Kubrick architetto, cit., p. 276, sostiene che nel

cinema di Kubrick “il corridoio guida il movimento” e Paolo Lughi, Stanley Kubrick: il prossimamente

come profezia, in Brunetta Gian Piero (a cura di), Stanley Kubrick, cit., p. 263, afferma che “il corridoio

(…) rappresenta da sempre nel cinema di Kubrick il simbolo di un tragitto obbligato verso un futuro

indefinito”.
79
Eugeni, Invito…, cit., p. 24. A questo riguardo cfr. anche R. Lasagna e S. Zumbo, op. cit., p. 184, dove

(analizzando Barry Lyndon) si sostiene che “le ricorrenti prospettive simmetriche (…) sono il correlativo

visivo della rigorizzazione delle pulsioni”. Sul lemma correlato oggettivo o correlativo oggettivo, pare

interessante la spiegazione che viene fornita in AA.VV., Dizionario Enciclopedico Universale, Sansoni e

Corriere della Sera, Milano 1995, vol. I, p. 420, dove il termine correlato viene definito come il participio

passato (e aggettivo) del verbo correlare che significa mettere in correlazione. D’altronde l’aggettivo

correlativo definisce qualcosa “che ha corrispondenza reciproca” ed inoltre “si dice di parole (…) che
160

IV.2.4 L’illusione e il controllo visivi da The Killing a Full Metal Jacket

Giunti a questo punto della nostra ricerca parrebbe essenziale affrontare direttamente la

filmografia kubrickiana, tentando cioè, per ogni opera del regista americano, di capire in

che momento del plot Kubrick faccia ricorso ad una strutturazione dello spazio “il cui

primo riferimento è la rigida griglia della prospettiva centrale”80 e dove, invece, crei uno

spazio, scenico o fotografico, riconducibile alla figura del corridoio.

In poche parole, attraverso alcuni esempi, ci si pone come obiettivo quello di mostrare

come la prospettiva “esprimerebbe proprio una volontà e una fiducia di dominio, di

centralizzazione”81, mentre il corridoio parrebbe guidare82 il movimento83 dei

personaggi lungo un tragitto obbligato84, predeterminato85, come se essi fossero dei

pezzi di una scacchiera costretti a mosse determinate86 da un Autore di cui non

conoscono le intenzioni87.

Del resto “tutto il cinema di Kubrick può essere riletto attraverso una serie di esempi in

cui una particolare rappresentazione del corpo umano tenderebbe a ridimensionare

servono a indicare una correlazione tra due membri di una frase”. Infine il lemma correlazione è spiegato

come un “rapporto di reciproca relazione”.


80
Ruggero Eugeni, Invito.., cit., p. 49
81
Ivi, p. 121
82
Paolo Cherchi Usai, Kubrick architetto…, cit., p. 276
83
Si è già visto nel sottoparagrafo IV.2.1 come lo zoom all’indietro da un personaggio immobile sia un

caso particolare di corridoio e sempre riconducibile all’immagine dei pezzi di una scacchiera
84
Paolo Lughi, Stanley Kubrick: il prossimamente…, cit., p. 263
85
Sandro Bernardi, op. cit., p. 165
86
Eugeni, Invito…, cit., p. 136
87
Ivi, p. 126. A questo proposito sempre Eugeni, Ivi, p. 123, afferma che “per quanto concerne l’agire

cognitivo emerge dai film di Kubrick l’incapacità di comprendere esattamente quanto sta accadendo: i

personaggi si muovono in un universo che sfugge alla loro comprensione”.


161

quella tensione verso la super-potenza in cui spesso l’Uomo stesso è sorpreso a credere

con sicurezza, a vanificare quell’autocelebrazione di sé dovuta alla convinzione di

incarnare una perfezione assoluta”88. Infatti “è costante, nel regista americano, la ricerca

ostinata della contraddizione, dello scontro, del confronto tra due termini opposti, uno

dei quali è l’essere umano, e l’altro è tutto ciò che lo ostacola, lo condiziona, lo

avvilisce”89.

Per i motivi esposti nel primo capitolo di questo saggio90, il film Killer’s Kiss (1955)

verrà affrontato solo di sfuggita. Va comunque sottolineato il fatto che in quest’opera “i

personaggi sembrano spesso svuotati di iniziativa e di capacità di scelta”91 ed “appaiono

non solo personaggi reali nel mondo finzionale che il film costruisce, ma anche,

all’interno di quel mondo, personaggi di un racconto mossi da una volontà esterna”92

avendo, di conseguenza, “un ruolo prevalentemente passivo e comunque

inconsapevole”93. Quindi, alla pari degli altri personaggi kubrickiani parrebbero “ridotti

(…) a marionette agite più che a soggetti agenti”94.

Inoltre, la sequenza che meriterebbe più attenzione sembrerebbe quella in cui il boxeur

Davy, dopo aver perso l’incontro di pugilato, ha un incubo in cui “si lancia (…) in una

corsa sfrenata lungo le strade di New York”95. Infatti si tratta di una scena “che anticipa

88
Mosca Umberto, Finché c’è corpo c’è speranza, in AA.VV., Stanley Kubrick, Scriptorium – Settore

università Paravia, cit., p. 75


89
Franco Prono, Il corpo dell’attore nel labirinto erotizzato, in AA.VV., Stanley Kubrick, Scriptorium…,

cit., p. 57
90
Cfr. il sottoparagrafo I.3.1 di questa ricerca
91
Eugeni, Invito…, cit., p. 28
92
Ivi, p. 29
93
Ibidem
94
Ivi, p. 121
95
Sergio Toffetti, op. cit., p. 57
162

i vari «corridoi» dei film di Kubrick e che ricorda esplicitamente quello di David

Bowman (…) nella parte finale di 2001: A Space Odyssey”96 ed è considerata da Ghezzi

uno dei primi segni “della futura tendenza all’effetto tunnel”97. In poche parole si tratta

di un corridoio fotografico, realizzato attraverso un carrello in avanti, in soggettiva, e

sviluppato in negativo. Risulta interessante notare che l’idea del corridoio come

percorso obbligato98 e predeterminato99 sarebbe suffragata a livello narrativo, dato che

Davy, nel momento in cui si sveglia dall’incubo, sente le grida di Gloria che,

nell’appartamento di fronte al suo, è aggredita da Rapallo. Allora si dirige

nell’abitazione della ragazza e da quel momento in poi i loro destini saranno uniti.

Infine, l’ultima considerazione concerne il possibile parallelo visivo che si crea tra le

strade attraversate da Davy durante l’incubo e le “immagini molto simili [che] sono

viste dal personaggio nella seconda parte del film, quando percorre le strade di Rapallo

all’inseguimento e alla ricerca di Gloria, creando nello spettatore un effetto di déja-

vu”100.

The Killing (1956)

In questo film “le inquadrature (…) scorporano il rigore simmetrico dei movimenti di

macchina, (…) votati alla frontalità della visione d’insieme”101 e, di conseguenza, si

96
Eugeni, Invito…, cit., p. 27. Della stessa opinione, tra gli altri, Kagan, op. cit., p. 165; Lasagna e

Zumbo, op. cit., p. 121; Guido Fink, Senso antiorario, ovvero le due immortalità di Lolita, in Brunetta

Gian Piero (a cura di), Stanley Kubrick, cit., p. 157


97
Ghezzi, op. cit., p. 33
98
Paolo Lughi, Stanley Kubrick: il prossimamente…, cit., p. 263
99
Sandro Bernardi, op. cit., p. 165
100
Eugeni, Invito…, cit., p. 27
101
Sergio Toffetti, op. cit., p. 16
163

nota “la preponderanza di inquadrature fisse, teatrali, arginate da solide pareti che

circoscrivono spazi in cui tutto è dato immediatamente”102, ma allo stesso tempo “tutto

rientra nel gioco che contiene tutte le passioni ma si manifesta nella obbligata rigidità

delle traiettorie103. E ogni gioco ha le sue traiettorie, diverse ma obbligate, (…) ha i suoi

carrelli e i suoi movimenti”104.

Dalle riflessioni appena riportate sembrerebbe emergere la presenza in The Killing di

una struttura visiva scomponibile in visione prospettica (inquadrature fisse, teatrali) e

«corridoi» (le traiettorie obbligate, i carrelli e i movimenti).

In particolare la prospettiva è riscontrabile nei momenti in cui la rapina viene

organizzata e durante la sua esecuzione. Specificamente si ricorda, ad esempio, la

sequenza in cui tutti gli uomini della banda si ritrovano attorno ad un tavolo per chiarire

nei minimi dettagli i vari aspetti della rapina; oppure quella in cui Johnny, l’ideatore

dell’intero piano, si trova nella camera del motel per nascondervi il fucile che servirà

durante il colpo; od anche la scena dove Johnny, all’aeroporto, sta acquistando i biglietti

d’aereo per garantirsi la fuga subito dopo il furto. Inoltre lo spazio prospettico è

presente quando Sherry (la moglie di George) e Val, il suo amante, si mettono

d’accordo per impadronirsi del bottino dopo la rapina. Questi due personaggi sono al di

102
Alessandro Pirolini, Il senso dello stile, in AA.VV., Stanley Kubrick, Scriptorium – Settore università

Paravia, cit., p. 24
103
A questo proposito Lughi, Il prossimamente…, cit., p. 262, ha affermato che in The Killing “si può

notare come (…) i materiali di Kubrick si facciano strada in maniera autonoma, ad esempio con le

immagini di corse e fughe angoscianti verso una meta obbligata ma non voluta, che ritroveremo

successivamente in Kubrick”
104
Ghezzi, op. cit., p. 41. Ampliando poi il suo discorso all’intera filmografia kubrickiana Ghezzi sostiene

inoltre che “potrà essere difficile trovare il nascosto itinerario complessivo dell’opera kubrickiana, ma il

movimento interno dei singoli film è sempre rintracciabile e definito, come l’esattezza dei suoi movimenti

di macchina. (…) il meccanismo kubrickiano prevede lo scacco


164

fuori della banda, ma come gli altri soggetti del film “si illudono di padroneggiare lo

svolgersi degli eventi per mezzo di piani e macchinazioni minuziosamente

organizzati”105. Si tratta, però, solo di un’illusione dato che “il regista è affascinato dal

meccanismo deterministico che conduce i protagonisti alla rovina”106.

Tale rovina prende corpo narrativo nella seconda parte del film, dove si nota una

presenza più consistente di «corridoi». Ad esempio Johnny, quando si dirige verso

l’appartamento del motel per recuperare il fucile e poi entra nella stazione degli autobus

per nascondere l’arma in una cassetta di sicurezza, è ripreso in carrello a precedere.

Anche Mike, il barista con la moglie malata, è ripreso in carrello a precedere quando va

a prendere il fucile nella stazione degli autobus, ed attraversa inoltre un breve corridoio

prima di entrare nello spogliatoio dell’ippodromo.

Inoltre, dopo il buon esito del colpo (che, come si è detto, è ripreso essenzialmente

all’interno di uno spazio cinematografico riconducibile al modello della prospettiva

centrale), si può osservare la sequenza in cui in cui Mike, George, Martin e Randy

stanno aspettando in un appartamento l’arrivo di Johnny con i soldi. Trascorsi pochi

momenti George, abbastanza arrabbiato per l’inspiegabile ritardo di Johnny, si allontana

per andare a prendere qualcosa da bere e, a questo punto, percorre un corridoio

(scenico). Passano alcuni secondi e Val ed un suo complice entrano nell’abitazione

pretendendo i soldi della rapina. In quel momento George torna e, scoprendo che sua

moglie Sherry lo ha tradito con Val, scatena una carneficina. Di conseguenza la gelosia

105
Eugeni, Invito…, cit., p. 33
106
Ibidem. Sempre Eugeni, Ibidem, ha affermato che “in lui [Kubrick] c’è solo distacco, e i suoi

malviventi non giungono a essere né eroi né dannati di una moderna epica urbana. Ritroviamo dunque a

questo proposito un’idea già emersa nei film precedenti [Fear and Desire e Killer’s Kiss, da noi non

analizzati] riguardante la condizione umana in generale: l’idea che i soggetti siano mossi da forze

decisionali incalcolabili e incoercibili, che vanificano e ridicolizzano i tentativi dell’uomo di sostituirsi ad

esse nella pianificazione dell’esistenza”


165

di George parrebbe evidenziare il fatto che “pressioni economiche107 e pulsioni inconsce

(…) guidano gli accadimenti e danno forma alle esistenze dei personaggi cui pare

preclusa ogni possibilità di autodeterminazione. Nessuno, alla fine, avrà realizzato ciò

che perseguiva, e tutti finiranno male. A ciò rimanda pure il senso di chiusura e di

ingabbiamento prodotto con l’incasellamento dei personaggi tramite i muri e le strutture

nell’avampiano”108.

Infine, anche la sequenza che conclude il film presenta un «corridoio»109. Infatti

all’aeroporto, dopo che a Johnny è stato impedito di portare con sé la valigia piena di

soldi, questa viene posta su un nastro trasportatore per essere poi caricata sull’aereo. In

questo caso il nastro trasportatore è ripreso come se fosse un corridoio scenico percorso

dalla valigia e, narrativamente, questa sequenza è seguita da quella determinante in cui

il carrello dei bagagli, che si sta dirigendo verso l’aeroplano, viene fatto sbandare da

“Fifì, il cagnolino che è mosso da una forza incomprensibile e fugge dalle braccia della

padrona provocando così la caduta della valigia con il bottino”110.

Quindi, “i particolari che mettono in crisi quei meccanismi”111 perfetti con i quali, come

si è visto prima, i personaggi si illudono di padroneggiare gli eventi, non sono “dovuti a

errori dei personaggi, ma a puri capricci del destino”112. Destino che “è da intendersi

107
A questo riguardo si ricorda ad esempio che il personaggio di Mike ha notevoli problemi economici a

causa della malattia della moglie. E’ degno di nota il fatto che, all’inizio del plot, il suo movimento verso

la finestra dopo che ha accudito la moglie malata sia ripreso da un carrello a seguire (quindi un corridoio

fotografico).
108
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 79
109
Nel prosieguo di questa ricerca, si vedrà come tale peculiarità sia quasi una costante kubrickiana.
110
Eugeni, Invito…, cit., p. 33
111
Ibidem
112
Ibidem
166

non soltanto come «destino» sociale, o psicologico, ma anche, alla lettera, come fatalità,

come intervento di forze superiori”113.

A questo punto Johnny, rendendosi conto che contro tali forze non può nulla, risponde

alla sua ragazza che lo incita a scappare con una battuta fondamentale: “A che vale

ormai”114.

Paths of Glory (1957)

Anche in quest’opera cinematografica si possono ritrovare gli stilemi visivi

analizzati115.

113
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 81
114
Relativamente a questa affermazione ed al significato di percorso obbligato assunto dal corridoio

kubrickiano, parrebbe ricco di suggestioni un parallelo tra quanto affermato da Johnny e la conclusione

del racconto di Friedrich Dürrenmatt, Der Tunnel, Diogenes Verlag AG, Zürich 1985, tr. it. Friedrich

Dürrenmatt, Il Tunnel, in Racconti, Feltrinelli 1997, pp. 90-98. In questo racconto si narra di uno studente

che viaggia con il solito treno verso Zurigo, per andare all’università. Poco dopo la partenza si accorge

che il treno è entrato in una galleria senza uscita. Il giovane, dovendo respingere come non plausibili tutte

le sue considerazioni e i tentativi di spiegazione degli altri viaggiatori e del personale ferroviario, accetta,

senza panico ma anche senza rassegnazione, che il treno stia viaggiando in una voragine senza fondo. Il

finale è, a questo riguardo, emblematico “Cosa possiamo fare?, gridò il capotreno ancora una volta, e il

ventiquattrenne, senza distogliere lo sguardo dallo spettacolo, e mentre a causa della tremenda corrente

d’aria volavano nell’imbuto [cfr. l’inghiottitoio e lo spazio risucchiante di cui parlano Eugeni e Brunetta a

proposito del corridoio kubrickiano] su di lui i batuffoli d’ovatta, rispose con una spettrale serenità:

Niente” (p. 98).


115
A questo riguardo Gian Piero Brunetta, Stanley Kubrick: Odissea nel cinema, cit., p. 21, ritiene che “in

Paths of Glory, anche se sopravvive questo modo di guardare [la visione frontale], si afferma, in maniera

decisa, una visione in profondità, costruita secondo un procedimento di avanzamento o arretramento della

macchina da presa. In ogni caso tutte le regole prospettiche sono rispettate e le linee partono e

convergono in un punto”
167

Una rappresentazione dello spazio cinematografico riconducibile alla prospettiva

centrale pare essenzialmente riscontrabile quando all’interno dell’inquadratura appare il

generale Broulard nel castello settecentesco, e precisamente: nella prima scena del film,

mentre convince «diplomaticamente» il generale Mireau a compiere l’attacco al

Formicaio; quando Broulard e Mireau, in presenza del colonnello Dax, si accordano sul

numero dei condannati da giustiziare per codardia; ed infine nel momento in cui

Broulard prevede un’inchiesta per Mireau e ne offre la carica a Dax116.

Si nota inoltre una visione prospettica anche quando il generale Mireau osserva col

binocolo la battaglia per la conquista del Formicaio e ordina di sparare sui propri

soldati117.

116
Tali riflessioni troverebbero conferma nello studio di Eugeni, Invito…, cit., pp. 48-9, dove il semiotico

ha affermato che “la costruzione spaziale accompagna e appoggia (…) alcuni assunti tematici e

drammatici della vicenda. C’è però anche un altro modo in base al quale la scrittura kubrickiana

accompagna gli assunti tematici del film. Occorre, infatti, sottolineare la ricerca quasi ossessiva nel film

di un principio di simmetria e specularità. Questo si ritrova anzitutto all’interno di una stessa

inquadratura: i colloqui tra Dax, Mireau e Broulard si concludono con Dax al centro e i due al fianco. (…)

Infine, simmetrie e regolarità sono presenti anche tra sequenze differenti e, per così dire «a distanza» nel

corpo del film. Per esempio i due colloqui tra Dax, Mireau e Broulard (quello in cui Dax cerca di

dissuadere Mireau dalla fucilazione, che si conclude con una sconfitta del colonnello, e quello in cui

Broulard informa Mireau della futura inchiesta su di lui, che sembra implicare una vittoria di Dax)

vengono ripresi con le stesse inquadrature (Mireau da solo, Dax e Broulard assieme) ma modificando

specularmente le posizioni dei generali e dunque l’angolazione delle inquadrature. Simmetrie, regolarità,

ripetizioni. La scrittura di Kubrick mette in luce il potere del cinema di regolarizzare lo spazio di

rinchiuderlo in una struttura forte e definita. (…) Una struttura dello sguardo capace di inquadrare e dar

forma ai dati percettivi a partire da un pattern rigidamente prefissato. E’ una struttura regolare e

simmetrica, il cui primo riferimento è la rigida griglia della prospettiva centrale postrinascimentale”.
117
Ghezzi, op. cit., p. 54, afferma che “questa guerra «separata» [civili e militari], diventa così immagine

perversa, affascinante e odiosa, della vita, di una vita certo separata e in cui i margini di gioco sono
168

Comunque se la prospettiva appare inerente agli ufficiali, il «corridoio», sia scenico che

fotografico, sembra riferirsi ai soldati che combattono in trincea. Infatti “les rapports de

domination, les rapports de classe sont montrés dans des réseaux de surfaces, de plans,

de corridors, d’escaliers qui articulent entre eux la figure du labyrinthe et celle de la

frontière. Juxtapositions que Kubrick rend d’autant plus sensibles que l’opposition

château/tranchées, salon/terrier scande le cours du film”118.

In sostanza, come afferma Maurizio Schiaretti, sono palesi “le distanze tra coloro che la

guerra la fabbricano, vale a dire gli ufficiali, e quelli che invece la devono fare, cioè

subire, vale a dire la truppa: in Paths of Glory questo è chiarissimo: i primi vivono nel

castello (…), i secondi in trincea”119.

Le trincee120, “ces couloirs de mort [qui] joignent l’image (…) de «l’effet-tunnel»” 121,

vengono, ad esempio, attraversate dal soldato Lejeune e dal capitano Paris quando si

dirigono dal tenente Roget. Pare interessante notare che Lejeune morirà durante la

perlustrazione notturna nella terra di nessuno tra le trincee francesi e quelle tedesche e

Paris sarà uno dei tre soldati che verranno giustiziati alla fine del film.

inferiori a quelli sperati, in cui alcuni guardano altri uomini nel freddo spettacolo del binocolo (Mireau

che scruta le trincee), in cui la vita stessa scorre in tunnel spietati”.


118
Giuliani, op. cit., p. 113
119
Maurizio Schiaretti, Stanley va alla guerra, in Primo Giroldini (a cura di) A proposito di Stanley, cit.,

p. 34
120
Andrea Martini, Logica e sacrificio, in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, cit., pp. 153-4 “I

carrelli, figura privilegiata di gran parte del film – quelli delle trincee largamente notati, che evidenziano

il percorso labirintico (…) – iscrivono nello spazio e diffondono in tutta la sua complessità l’apparato

militare”
121
Giuliani, op. cit., p. 33
169

Oltre a loro due anche il colonnello Dax passa attraverso questi corridoi scenici (le

trincee), ad esempio prima dell’attacco122. “In queste sequenze la durata delle

inquadrature è piuttosto lunga, quasi dei piani sequenza; la luce è cinerea, spesso

(nell’incedere di Dax) 123 fumo e nebbia impediscono una visuale completa. Ne deriva

uno spazio da corridoio costretto, claustrofobico, labirintico, che sottolinea il senso di

meccanica ineluttabilità dello svolgersi degli eventi”124. A questo punto non parrebbe

superflua la notazione che Dax non riuscirà a salvare dalla fucilazione i tre condannati.

Comunque i corridoi (le trincee) vengono percorsi non solo dai soldati e da Dax ma

anche dal generale Mireau125, quando va a comunicare al colonnello l’ordine di attacco

al Formicaio126. In tale sequenza si osserva una ripresa in carrello all’indietro associata

all’avanzare del generale “mentre passa in rassegna i soldati fermandosi di tanto in tanto

122
Paolo Lughi, Il prossimamente…, cit., p. 262, “il colonnello Dax (…) ispeziona le truppe avanzando in

trincea e infatti (…) il tema figurativo del corridoio si ripeterà ossessivamente nel cinema di Kubrick”.
123
Sergio Toffetti, op. cit., p. 57, “Il colonnello Dax avanza attraverso il budello dei trinceramenti, il suo

corpo (e la cinepresa insieme a lui), si fa largo a fatica (…) dentro uno spazio così aderente”.
124
Eugeni, Invito…, cit., p. 47
125
Su questo punto sempre Eugeni, Ibidem, ha affermato, studiando lo spazio delle trincee che “esse sono

riprese con carrelli all’indietro o in avanti, ad altezza d’uomo, che seguono gli spostamenti forzatamente

lineari dei soggetti (Mireau e Dax) o indicano in soggettiva il procedere di Dax (nella sottosequenza che

precede quella dell’attacco)”.


126
Ghezzi, op. cit., pp. 50-1, sostiene che “il percorso cui si allude [nel titolo, path – sentiero, traiettoria,

orbita] è quello seguito dal lungo e ininterrotto carrello indietro che segue la visita di Mireau alla trincea.

(…) Con evidenza fisica quasi esagerata, il movimento integra la trincea in un’unica prospettiva, in una

situazione quasi simbolica di monotonia cunicolare da talpe; ponendo inoltre il generale come centro

costante dell’inquadratura, mentre i soldati gli «scorrono» ai lati. Puntuale, nella seconda parte del film lo

stesso movimento indietro viene ripetuto sul vialone davanti al Commando. La situazione è esattamente

ribaltata, la m.d.p. segue ora (anticipandoli nel percorso) i tre condannati che si avvicinano al luogo

dell’esecuzione”.
170

con qualcuno fino a trovarne uno sconvolto per l’esplosione di una granata contro cui

inveisce umiliandolo”127. E, narrativamente parlando, si può ricordare che Mireau non

riuscirà ad ottenere la promozione sperata ma sarà addirittura sottoposto ad

un’inchiesta.

Oltre ai «corridoi» creati dallo spazio delle trincee, se ne possono rilevare altri, tra i

quali sembrerebbe avere un certo rilievo quello creato dal “carrello finale nel piazzale

della fucilazione (…) dove la m.d.p. passa tra le file di soldati schierati, che con la loro

formazione perfetta e il loro numero imponente scompongono lo spazio in una

coreografia monotona, solenne maestosa”128. Si tratta della sequenza in cui “in uno

spazio aperto di fronte al castello, i condannati sono condotti al patibolo passando

attraverso un corridoio di commilitoni schierati. In particolare nell’ultima parte della

sequenza la macchina mostra, mediante una serie di campi (i condannati già legati ai

pali del patibolo) e controcampi (i soldati pronti a sparare, dall’alto e sullo sfondo del

castello), la struttura lineare e a tunnel assunta dallo spazio”129.

Per quanto poi riguarda il finale del film si può notare che, come quello di The Killing,

presenta un «corridoio». Si vede infatti Dax che, ripreso in carrello a precedere, si

allontana dalla taverna dove i soldati ai suoi ordini stanno cantando assieme alla ragazza

tedesca. Va sottolineato che il colonnello ha appena ricevuto l’ordine di partire per il

fronte assieme alla sua truppa e che, essendo un militare, non può far altro che obbedire,

dal momento che la “riduzione che l’istituzione militare opera sul sodato, [è quella] di

127
Alessandro Pirolini, Il senso dello stile, in AA.VV., Stanley Kubrick, Scriptorium – Settore università

Paravia, cit., p. 27
128
Sandro Bernardi, op. cit., p. 100
129
Eugeni, Invito…, cit., p. 47
171

annullarne il significato umano e di renderlo un oggetto insignificante e automatico,

privo di diritti e destinato alla sola obbedienza”130.

Spartacus (1960)

Per quanto riguarda Spartacus, come si è già chiarito nel primo e nel secondo capitolo

di questo lavoro, “Kubrick non poté controllare come suo solito l’intero apparato del

film, ma dovette limitarsi a mettere in scena un soggetto e una sceneggiatura già

disposti131, senza avere troppa libertà di rielaborazione. Data questa storia di

lavorazione, la critica americana è solita non considerare neppure il film tra quelli di

Kubrick, questa tendenza viene peraltro incoraggiata dallo stesso regista che in alcuni

interventi ha rigettato una piena paternità dell’opera. A tale opinione si oppone la critica

europea, soprattutto francese, che sottolinea invece le sotterranee parentele che

collegano Spartacus al resto della produzione kubrickiana. A nostro avviso la verità sta

nel mezzo: non si può dire che il film sia a tutti gli effetti un film di Kubrick, ma

neppure che esso sia del tutto estraneo alla sua opera”132. Dello stesso avviso del

semiotico Eugeni, siamo dell’idea che Kubrick, pur non dichiarandosi “responsabile del

130
Alessandro Pirolini, Il senso dello stile, in AA.VV., Stanley Kubrick, Scriptorium – Settore università

Paravia, cit., p. 27
131
A proposito di questo argomento pare utile leggere quanto afferma Kubrick: “Kirk Douglas was the

producer; he and Dalton Trumbo, and his production manager Eddy Lewis, who was working for Kirk,

did whatever they wanted with the screenplay and the choise of actors. I think there are good things in

Spartacus, but the subject was crazy. (…) Dalton Trumbo wrote the screenplay and Kirk Douglas said yes

or no” (Walter Renaud, op. cit., p. 51).


132
Eugeni, Invito…, cit., p. 51
172

«programma» iconografico (…) abbia nondimeno potuto «sovvertire» o «orientare»

quest’ultimo133.

A questo riguardo pare di un certo rilievo osservare che, per quanto riguarda la parte

visiva del film, la strutturazione dello spazio cinematografico riconducibile alla

prospettiva rinascimentale è essenzialmente relativa al personaggio di Crasso, il

vincitore finzionale della vicenda.

Questo stilema visivo si rivela anche durante lo scontro finale tra i romani e gli schiavi

guidati da Spartaco134. In tale sequenza, le cui “prime 55 inquadrature sono tutti piani

fissi, nessuno escluso, e rappresentano (…) una funzione puramente organizzativa,

ferma, sospesa sul suo oggetto”135, è possibile constatare che l’esercito romano, quando

si avvicina alle truppe dei ribelli, si trova all’interno di “un’inquadratura frontale,

teatrale e prospettica, che si afferma con insistenza e ricorre per ben undici volte nel

primo blocco di 55 piani”136.

Oltre ai romani la prospettiva concerne anche il personaggio di Spartaco, ma solo dopo

che ha avuto luogo la rivolta nella scuola di gladiatori. Da quel momento in poi,

Spartaco non attraversa più alcun «corridoio». A questo riguardo va rilevato che i

«corridoi» si riscontrano in modo evidente soprattutto nelle sequenze ambientate nella

scuola per gladiatori. Ad esempio, dopo la scena in cui Spartaco non ha accettato di

unirsi sessualmente con Lavinia, si ha quella in cui le schiave portano da mangiare ai

gladiatori. A questo punto si osserva un carrello all’indietro dal luogo dove stanno

passando le schiave fino a Spartaco. Questo movimento di macchina, che passa

133
Jean Loup Bourget, La storia come repertorio di immagini: iconografia e iconologia di Kubrick, in

Gian Piero Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, cit., pp. 60-1
134
La sequenza della battaglia è stata accuratamente studiata da Sandro Bernardi, op. cit., pp. 179-183
135
Bernardi, op. cit., p. 180
136
Ivi, p. 181
173

attraverso le grate di un’inferriata, sembra rimandare, come in The Killing, ad un “senso

di chiusura e di ingabbiamento prodotto con l’incasellamento dei personaggi tramite

(…) il motivo delle sbarre”137.

Anche pochi attimi prima che scoppi la rivolta è presente un «corridoio». Si osserva

infatti una carrellata a precedere il movimento di Spartaco che prende la sua scodella di

cibo ed in quel momento vede Lavinia che, acquistata da Crasso, viene portata via dalla

scuola dei gladiatori.

Per quanto poi riguarda il finale, è rilevabile la presenza di un ulteriore «corridoio».

Infatti l’ultima sequenza, in cui si narra la morte sulla croce di Spartaco e la fuga di

Lavinia verso un futuro incerto, è costituita da una ripresa in carrello a seguire il

carretto guidato da Lentulo Batiato, sul quale la donna, con in braccio il figlio, si sta

allontanando da Roma.

Lolita (1962)

In quest’opera cinematografica, di nuovo totalmente kubrickiana, si evidenziano con

maggiore chiarezza i due aspetti visivi che stiamo trattando.

Infatti “la struttura regolare e simmetrica, il cui primo riferimento è la rigida griglia

della prospettiva centrale”138 è riscontrabile ad esempio per il personaggio di Humbert

nella sequenza in cui gli sorge l’idea di uccidere Charlotte con la pistola del defunto

marito di lei (la pistola in primo piano, Humbert in secondo e Charlotte in terzo, con la

finestra in fondo, sul punto di fuga). Anche l’esilarante scena in cui Humbert è nella

vasca da bagno e sta bevendo un alcolico è in prospettiva centrale. I coniugi Farlow si

trovano in secondo piano, a sinistra, mentre a destra, sullo stesso piano dei coniugi, il

137
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 79
138
Eugeni, Invito…, cit., p. 49
174

padre del ragazzo che ha ucciso Charlotte e sul punto di fuga la porta aperta del bagno.

Tale stilema visivo corrisponde al momento in cui Humbert si è appena liberato di

Charlotte e può finalmente avere Lolita.

Comunque va rilevato che “circuito da se stesso e da quel suo alter ego che è Quilty

(Peter Sellers), Humbert Humbert (James Mason) si trova ad essere spettatore molto più

che attore nella storia della sua vita”139. Ed infatti Quilty, burattinaio della marionetta

Humbert, viene soprattutto ripreso in prospettiva centrale. Per fare alcuni esempi basta

ricordare la sequenza dell’albergo. In tale sequenza sono tre i momenti di rilievo: il

primo quando Humbert e Lolita si trovano sul punto di fuga dell’inquadratura e Quilty è

sulla destra; il secondo in cui si vede Quilty sulla sinistra in primo piano, mentre legge i

fumetti, e Humbert al centro e sulla linea del punto di fuga; infine il terzo ambientato

sulla veranda dell’albergo. Lì si notano Quilty sulla sinistra in primo piano e Humbert a

destra in secondo piano.

Per quanto poi riguarda, invece, l’altro aspetto visivo che stiamo studiando,

sembrerebbe evidente che sia Humbert che Lolita, in coppia o singolarmente, si trovano

di frequente dentro uno spazio riconducibile al modello del corridoio. Questo è evidente

quando sono assieme in macchina lungo le strade d’America, dopo la morte di

Charlotte.

Per quanto riguarda in particolare Humbert si ricordano ad esempio l’inizio della fabula

(e non l’intreccio, come si chiarirà tra poche righe), che consiste in una ripresa in

carrello a seguire la sua automobile che sta percorrendo un viale alberato. Tale sequenza

si situa, narrativamente, nel momento in cui Humbert, appena arrivato in città, sta

cercando un appartamento dove abitare. Oppure dopo poco che si è stabilito in casa di

Charlotte, è riscontrabile una ripresa in zoom all’indietro dal primo piano di Humbert

139
Sandro Bernardi, Il piccolo teatro di Kubrick, ovvero messe in scena nella messa in scena, in AA.VV.,

Stanley Kubrick, Scriptorium – Settore università Paravia, cit., p. 43


175

che, in giardino, sta guardando Lolita; od anche durante la festa scolastica, dove si nota

uno zoom all’indietro da Lolita, che sta ballando con un amico, fino ad Humbert che la

sta osservando da una terrazza.

Nei riguardi di Lolita, si riscontra un corridoio nel momento in cui la ragazza è venuta a

sapere che sua madre è morta e al mondo non ha più nessuno, se non il suo patrigno –

amante140. Visivamente tale sequenza è realizzata da Kubrick attraverso un carrello a

precedere il movimento di Lolita che dal suo letto si sposta verso quello di Humbert.

Resta da esaminare il finale che, secondo l’intreccio, è posto all’inizio del film, ma che

seguendo la fabula rappresenta la conclusione cronologica della vicenda. Infatti, come

ha sostenuto Guido Fink, “l’inizio di Lolita (…) corrisponde al finale della vicenda141

(…); dopo i titoli di testa (…) lo schermo ci mostra un carrello avanti in soggettiva,

ripreso dall’interno di una macchina attraverso il parabrezza, in una nebbiosa strada di

campagna che viene rapidamente inghiottita dalla camera142: il movimento è in avanti,

verso un punto di fuga al di là del fondo dell’inquadratura, ma lo spettatore lo

percepisce come una vertiginosa fuga all’indietro, com’era già accaduto per il sogno in

negativo di Davy in Killer’s Kiss (1955), e come accadrà per lo sprofondare di David

140
Riguardo a questo nodo narrativo, non pare inutile riportare il dialogo originale, citato in Norman

Kagan, op. cit., p. 93, “Promise me something”, she [Lolita] asks Humbert desperately, still weeping.

“Promise you’ll never leave me… I don’t want to be in one of those horrible places for juvenile

delinquents… I’d rather be with you… You’re a lot better than one of those places”.
141
Guido Fink, Senso antiorario, ovvero le due immortalità di Lolita, in Brunetta Gian Piero (a cura di),

Stanley Kubrick, cit., p. 158, sostiene infatti che “Kubrick (…) non riesce a cominciare il racconto se non

rinviandoci continuamente all’indietro, a qualcosa che è successo prima, e che condiziona l’azione

presente, quella che vediamo, fino al punto di bloccare ogni sviluppo futuro”
142
In sostanza, come afferma Sandro Bernardi, Kubrick e…, cit., p. 154, “L’incipit è segnato da una

spinta potente della macchina da presa, un forte carrello avanti, veloce, nella nebbia”
176

Bowman «verso Giove e oltre l’infinito» in 2001: A Space Odyssey (1968)”143. Questo

corridoio fotografico è cronologicamente situabile subito dopo la sequenza in cui

Humbert ha scoperto che Lolita, al tempo della loro relazione, l’ha tradito ripetute volte

con Quilty, e che il commediografo, attraverso multiformi travestimenti, l’ha sempre

manovrato a suo piacere. A questo punto “a Humbert non resta che (…) recarsi nella

villa-castello di Quilty per ucciderlo”144.

Per concludere, l’immagine della morte di Quilty è resa visivamente da un carrello di

avvicinamento verso il quadro dietro il quale l’uomo è stato colpito. Questo è l’unico

corridoio peculiare per Quilty e corrisponde al momento in cui “all Quilty’s quick

intelligence and game playing skill fails to save him in the end”145.

Dr. Strangelove, or How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (1964)

Va precisato innanzitutto che questo è un film sui militari, i quali, come si è visto a

proposito di Paths of Glory, hanno come unica scelta quella di obbedire a degli ordini.

Va aggiunto inoltre che “la messa in scena di questa commedia è divisa in tre luoghi

principali che si alternano lungo tutto il film”146: la War Room, la base di Burpelson e il

bombardiere B52.

Dato che protagonista è il mondo militare, sembra interessante constatare che la

strutturazione dello spazio cinematografico riconducibile alla prospettiva rinascimentale

è essenzialmente evidente presso la War Room e la base di Burpelson, i due luoghi in

cui gli ordini vengono dati. Infatti nella base strategica si trova il generale Ripper che ha

143
Guido Fink, op. cit. , p. 157
144
Eugeni, Invito…, cit., p. 55
145
Norman Kagan, op. cit., p. 108
146
Bernardi, Kubrick e…, cit., p. 186
177

dato l’ordine ai bombardieri di sganciare le rispettive bombe atomiche sul territorio

dell’URSS, mentre nella War Room il presidente Muffley con uno stuolo di generali al

seguito dà disposizioni affinché le bombe non vengano sganciate.

Al contrario è proprio sul B52, il luogo dove si obbedisce alle direttive dei superiori,

che si nota una presenza evidente di «corridoi». In particolare “ancora prima del titolo

c’è una ripresa aerea che traccia un lunghissimo carrello in avanti sopra un mare di

nuvole lattiginose (…). Il folle volo si rivelerà il tema visivo di tutto il film147, la corsa

allucinata del bombardiere B52, con il suo capitano vestito da cow-boy e con la sua

bomba, che scandisce tutta la narrazione a intervalli regolari, dall’inizio alla fine”148.

Ne deriva che “dall’aereo che passa sopra il mondo intero senza vederlo, senza poterlo

vedere, travolto in una corsa distruttrice149, appaiono paesaggi primitivi e selvaggi che

anticipano il finale di 2001: A Space Odyssey: colline, pianure, vallate, fiordi, laghi,

montagne coperte di neve, promontori sul mare, navi, isole, fiumi, boschi, tundre,

paludi, costruzioni umane non identificabili, (…) fino alla visione finale, l’unica

identificabile, che è la base sovietica da distruggere. (…) Ne troviamo anche un

esempio diverso in A Clockwork Orange, sotto forma di tunnel luminoso, durante la

147
Anche Eugeni, Invito…, cit., p. 69, sostiene che “il film è punteggiato da inaspettate e sorprendenti

riprese di paesaggi dall’alto a volo d’uccello, e da quote sempre più basse, da attribuire al procedere del

B52. Si tratta di «corridoi visivi» simili ai travelling e ai carrelli in avanti già rinvenuti nei film

precedenti”.
148
Bernardi, Kubrick e…, cit., pp. 185-6
149
Su questo punto Ghezzi, op. cit., p. 71, afferma che la cavalcata del B52 è “inquadrata spesso in modo

da rendere visivamente lo scivolamento irresistibile in avanti (l’aereo – inquadrato da sopra – slitta

velocissimo lungo la Terra, schiacciato su di essa dalla m.d.p., destinato dalla mancanza di carburante a

incontrarsi meccanicamente con essa) e da provocare il coinvolgimento più fisico che emotivo dato dalla

rapida penetrazione dello spazio dello schermo (operata qui non dalla m.d.p. come in Paths of Glory, ma

dallo stesso oggetto ripreso come una diligenza che solca la prateria western)”.
178

corsa in macchina di Alex e dei suoi drughi: il paesaggio si risolve anche qui in una

fantasmagoria di luci, in un bagliore indefinito, un luccicare di stimoli senza forma. Per

non parlare della volata finale di 2001: A Space Odyssey, un percorso che non ha nulla

di spaziale, ed è ridotto a pura ottica”150.

Quindi in questo film si assiste ad una “perdita di controllo. Per un verso (come era già

accaduto per il piano di The Killing) la macchina cibernetica rivela, dietro la sua

complessa maestosità, una radicale delicatezza e una costitutiva fragilità: è sufficiente

l’uso improprio di uno dei suoi meccanismi più macroscopici per innescare un

automatismo distruttivo. In particolare, Kubrick sottolinea come sia sufficiente

interrompere determinati circuiti comunicativi all’interno della macchina cibernetica,

rompere alcune sinapsi nervose, per far collassare l’intero sistema, o meglio per farne

realizzare le potenzialità negative in modo incontrollabile”151.

Queste “potenzialità negative” innescate da un “automatismo distruttivo” sono,

logicamente, la Bomba Fine del Mondo che, una volta attivata non può essere più

fermata. Come dice Enrico Ghezzi, “in Dr. Strangelove sono molti gli individui che

perseguono uno scopo: da chi vuole interrompere l’attacco, a chi vuole sfruttarlo, ma

chi vince è solo la bomba fine del mondo, la pura negazione distruttiva”152.

Kubrick sembrerebbe evidenziare visivamente l’automatismo distruttivo di cui parlava

Eugeni in due momenti. Il primo è quando il diplomatico russo, all’interno della War

Room, spiega che non appena il suo territorio verrà colpito, un computer, sul quale non

si può intervenire, farà scoppiare la Bomba Fine del Mondo. Ebbene, l’unico corridoio

all’interno della War Room, consistente in un carrello a precedere l’ambasciatore russo,

riguarda proprio questo momento e questo personaggio.

150
Bernardi, Kubrick e…, cit., pp. 186-8
151
Eugeni, Invito…, cit., pp. 65-6
152
Ghezzi, op. cit., p. 99
179

Il secondo si presenta nel finale del film, quando T.J. “King” Kong riesce a sganciare la

bomba atomica. In questo caso “l’avvicinamento, lo schiantarsi a terra del binomio

uomo – bomba sono realizzati con uno zoom violentissimo, ingoiante”153.

In sostanza “persino in Dr. Strangelove non ci sono vie di fuga, ogni scelta è chiusa

nella mossa che dà origine alla storia – e Kubrick sembra quasi divertirsi a osservare i

confusi batter d’ali di uomini stupidi alle prese con le mostruose creature che essi stessi

hanno creato o, meglio, che essi stessi sono”154.

2001: A Space Odyssey (1968)

Il mondo kubrickiano appare “il frutto di una rappresentazione mossa e osservata da

spiriti eternamente fuori campo, come avviene in termini espliciti in 2001: A Space

Odyssey”155.

Questo film, come si è cercato di chiarire nel primo capitolo, parrebbe assumere i

connotati dell’opera cardine della filmografia kubrickiana. Infatti in essa si paleserebbe

la convinzione del regista americano che “la storia della civiltà e dell’intelligenza non è

autodiretta ma eterodiretta. (…) l’uomo appare così come una specie di marionetta”156.

A livello visivo il film si presenta, del resto, simile ai film precedenti.

“Si comincia con una prospettiva lineare, tradizionale, rinascimentale”157, quando le

scimmie vengono in contatto con il monolite ed anche in seguito “l’uomo è spesso al

centro dell’inquadratura. Anzi, ossessivamente, Kubrick cerca di porlo in tale

153
Ghezzi, op. cit., p. 71
154
Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick. Shining, cit., p. 57
155
Eugeni, Invito…, cit. p. 126
156
Ivi, pp. 70-1
157
Calabrese Omar, I «mondi possibili» in Kubrick. Ovvero: la poetica delle porte, in Brunetta Gian Piero

(a cura di), Stanley Kubrick, cit., p. 39


180

centro”158. Come ad esempio quando Floyd parla con gli scienziati russi, oppure quando

presiede la riunione di scienziati per informarli del sensazionale ritrovamento di un

monolite, di origine non umana, all’interno di un cratere lunare. Inoltre sulla Discovery

“HAL stesso più volte prende il posto dell’uomo al centro dell’immagine – fotogramma.

(…) Il calcolatore, monumento dell’intelletto formalizzato, della ragion pura, che in un

ambito di rivoluzione copernicana kantiana occupa il centro con ugual diritto del corpo

umano”159. Infine, si ricorda come paradigmatica la sequenza, sempre sulla Discovery,

in cui “la m.d.p. inquadra prima l’occhio rosso del computer, poi le labbra umane che si

muovono in silenzio (…), e si ha infine una stupenda inquadratura «sintetica»,

composta in assoluta simmetria: in primo piano i due uomini che si parlano

fronteggiandosi (uno sulla destra l’altro sulla sinistra della composizione), al centro il

perfetto ovale dell’oblò e incorniciato in esso, in profondità di campo, l’occhio del

ciclope nel «centro del centro»”160.

A questo riguardo preme sottolineare come la seconda parte del film, in cui la

Discovery si dirige verso Giove, seguendo il percorso indicato dal monolite posto sul

pianeta, si denoti una maggiore ricchezza di «corridoi».

158
Ghezzi, op. cit., p. 84
159
Ivi, p. 85
160
Ivi, p. 86. Sul personaggio di HAL Norman Kagan, op. cit., p. 165, ha affermato che “in terms of

Kubrick’s previous work, A Space Odyssey occasionally seems a «cannibalization» of earlier images and

ideas. HAL, for example, has the dedication to duty of a General Ripper, the glib ability to rationalize of a

Claire Quilty, the fierce pride and arrogance of a General Mireau”. A questo riguardo parrebbe

interessante notare che questi quattro personaggi sono essenzialmente ripresi in prospettiva centrale.
181

Innanzitutto “l’astronave Discovery di 2001: A Space Odyssey, [è] strutturata come un

lungo corridoio”161; inoltre si ricordano, a titolo di esempio, il corridoio infinito162

percorso da Frank mentre si tiene in allenamento correndo, oppure il carrello a

precedere il movimento di David dopo che questi ha fatto i ritratti degli astronauti

ibernati, od infine il piccolo tunnel bianco che viene attraversato da David e Frank dopo

che HAL ha segnalato la presenza di un guasto.

D’altronde il corridoio per antonomasia di tutto il cinema di Kubrick resta quello finale,

in cui “il corpo di Bowman è non libero, soggetto ad «altro», che decide il suo

percorso. (…) Il movimento è finalmente in avanti, sprofondato in un tunnel di colori e

di sagome, a volte puro caleidoscopio, a tratti linee riconoscibili di paesaggi che si

formano in modo improvviso. (…) la fuga in avanti nel tunnel di sensazioni visivo –

sonore è (…) crisi totale delle precedenti esperienze della ragione”163.

Perciò in questo viaggio oltre l’infinito, in questo corridoio definito da Paolo Lughi

“galattico”164, sarebbe da leggersi il “simbolo di un tragitto obbligato verso un futuro

indefinito”165.

161
Eugeni, Invito…, cit., p. 131. Anche Paolo Cherchi Usai, Kubrick architetto…, cit., p. 279, afferma che

la Discovery è essa stessa “un gigantesco, multiforme corridoio”. Inoltre lo studioso, Ibidem, sostiene che

“tutte le strutture materiali dell’avventura umana nella luce sono ridotte all’essenziale, un corridoio”
162
Cfr. Ghezzi, op. cit., p. 84
163
Ghezzi, op. cit., p. 89. Su tale sequenza Norman Kagan, op. cit., p. 165, si esprime in questi termini

“The final plunge through the star gate to the green and white room includes the rushing walls of the

nightmare in Killer’s Kiss, the hurtling at tree-top height over blazing wild terrain of the final moments of

Dr. Strangelove”. Dello stesso avviso sono Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 121, i quali sostengono che “il

viaggio oltre l’infinito è in realtà una corsa cosmica attraverso la soggettiva di Bowman delegata allo

spettatore il quale ha così modo di essere coinvolto e risucchiato nel più celebre tra i corridoi visivi che

Kubrick lascia esplodere a sorpresa sullo schermo sin da Killer’s Kiss”. Inoltre Sergio Toffetti, op. cit., p.

57, afferma che “David Bowman precipita in un corridoio di luce oltre l’infinito”.
164
Paolo Lughi, Il prossimamente…, cit., p. 263
182

A Clockwork Orange (1971)

Questo è un film in cui, come si è visto nel primo capitolo, nulla “sembra sostenere

l’idea che la persona possa raggiungere l’uso del libero arbitrio, come auspica il

personaggio dell’Assistente spirituale del carcere contestando la cura Ludovico e come

sottolinea anche Kubrick in alcune interviste rilasciate all’epoca. La scelta è dunque

«forzata», tra una repressione istituzionale e una reazione vitalistica dell’individuo, ma

in ogni caso il soggetto è privato della capacità di autodeterminazione e di una vera e

propria libertà. Al fondo delle tematiche del film riaffiora quindi il pessimismo di

Kubrick circa l’impossibile autodeterminazione dell’uomo nei confronti del proprio

scegliere e del proprio agire”166.

Anche in quest’opera cinematografica dove “la macchina narrativa di Kubrick sembra,

in primo luogo, deridere la pretesa del libero arbitrio”167, i due stilemi visivi (prospettiva

centrale e corridoio) «segnano»168 profondamente le immagini.

Per quanto riguarda la prospettiva centrale, la si può ritrovare, ad esempio, all’interno

della casa degli Alexander, prima della violenza portata dai Drughi. E’ un’immagine

statica, tranquilla dove vengono mostrati lo scrittore Alexander alla macchina da

scrivere e la moglie intenta a leggere all’interno di una poltrona futuristica. In altri

termini, prima dell’arrivo dei teppisti la casa dello scrittore Alexander viene

“rappresentata mediante inquadrature statiche, centrate, simmetriche, cioè secondo i

165
Ibidem
166
Eugeni, Invito…, cit., p. 84
167
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 212
168
Si mutua questo termine dal lemma francese “signature” utilizzato da Pierre Giuliani, op. cit., p. 45,

per indicare le peculiarità visive presenti nella filmografia di Stanley Kubrick


183

principi della prospettiva centrale cinquecentesca; gli spazi delle due case sono

raffigurati come vere e proprie scatole prospettiche rinascimentali”169

Inoltre si ricorda anche la sequenza in cui Alex, dopo essere riuscito a farsi scegliere dal

ministro come cavia per la cura Ludovico firma i documenti per poter lasciare il carcere

all’interno di uno spazio prospettico. Narrativamente parlando è un momento in cui il

protagonista non conosce ancora gli effetti della cura che si tradurrà “in una repressione

dell’istinto violento che ne determina in maniera meccanicistica e prevedibile i

comportamenti e le reazioni”170.

Infine si annota che la strutturazione dello spazio è essenzialmente prospettico (le

scatole di cui sopra) quando, dopo la cura, Alex torna per caso nella casa di Alexander.

In questa situazione Alex, benché sorpreso della coincidenza, si mostra comunque

sicuro perché si rende conto di non essere stato riconosciuto dallo scrittore come

l’autore delle violenze perpetrate anni prima. Prova di questa sicurezza è il fatto che

canta tranquillamente mentre si fa il bagno.

Per quanto riguarda invece la strutturazione dello spazio cinematografico riconducibile

al corridoio, scenico o fotografico che sia, questa si ritrova, ad esempio, nell’incipit del

film, quando “la macchina da presa inizia una lunga carrellata indietro, scoprendo prima

il gruppo dei Droogs, tutti vestiti di bianco e con bombetta blu, seduti contro uno sfondo

nero, poi, ai lati, due bianche sculture-manichini raffiguranti donne nude e adibite a

tavolini. Via via che la carrellata indietro prosegue, scopriamo che quei tavolini

compongono una doppia serie, perfettamente allineata, al centro della quale, sul fondo,

rimane il gruppo dei Droogs”171. “la carrellata indietro e l’azzeramento dei personaggi a

sfondo sono il massimo dell’oggettivazione. (…) Lo stesso movimento indietro con

169
Eugeni, Invito…, cit., p. 118
170
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 213
171
Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick. L’arancia meccanica, cit., p. 34
184

ampliamento progressivo dello sguardo su cui si apre il film caratterizza le due

sequenze successive: il passaggio dalla bottiglia in mano al barbone al totale del

sottopassaggio; il passaggio dall’affresco sul frontone del teatro abbandonato al totale

del palcoscenico, dove si sta consumando la prima recita-rituale di violenza, quella della

banda di Billy Boy”172.

Non sembrerebbe privo di utilità ricordare quanto ha sostenuto Eugeni nei riguardi di

questi zoom o carrelli all’indietro che, secondo il semiotico trasformerebbero i

personaggi in “ pezzi costretti a mosse determinate all’interno di quella curiosa forma

di labirinto in perenne ristrutturazione ma senza possibilità di uscita che è la

scacchiera. Questo procedimento espressivo assume un andamento particolare nel caso

del carrello all’indietro, che parte da un primo piano del personaggio per poi isolarlo

lentamente all’interno di un ambiente: esemplare quello che apre A Clockwork

Orange”173.

La sequenza della lotta nel teatro fra la banda di Alex e quella di Billy Boy, è seguita

dalla corsa pazza di Alex e dei suoi drughi verso la casa degli Alexander a bordo della

supermacchina Durango 95, tragitto che “viene filmato ricorrendo ad un’impressionante

composizione «a corridoio», con spettrali alberi bianchi che retrocedono velocemente ai

bordi di un’oscura strada di campagna”174.

172
Ivi, p. 48. Anche Sandro Bernardi, Kubrick e…, cit., pp. 83-4 “La macchina indietreggia con uno zoom

lento e senza fine, scoprendo intorno a lui gli altri compagni, i drughi debosciati sulla panca nera del

Korova Milk Bar, immersi nei loro sogni paurosi, e indietreggia ancora fino a scoprire tutto lo spazio del

locale, che è (…) un grande parallelepipedo nero, inquadrato in prospettiva frontale. Sui lati alcuni gruppi

oziosi, abbandonati su altre panche, sorseggiano il latte drogato distribuito a gettoni dalle ragazze nude
172
statuette pop, che si stendono anch’esse parallele lungo i lati” .
173
Eugeni, Invito…, cit., p. 136
174
S. Toffetti, op. cit., p. 57
185

Un’altra annotazione riguardo agli Alexander non sembra, a questo punto, priva di

interesse. Infatti, se prima abbiamo messo in rilievo come lo scrittore e sua moglie

stessero trascorrendo una tranquilla serata all’interno di uno spazio prospettico, non

appena Alex e i suoi Drughi suonano alla porta dell’abitazione “la donna [Mrs.

Alexander] sale quattro gradini che portano a un corridoio [scenico] e si allontana verso

il fondo, mentre il campanello continua a suonare. (…) Un corridoio con parete di

destra e soffitto in legno chiaro, parete di sinistra a specchio e pavimento a scacchi

bianchi e neri”175.

Inoltre, nel film, sono presenti altri «corridoi», ad esempio quando il ministro, in visita

al carcere dove si trova Alex, attraversa un corridoio bianco e “casualmente”, tra tutte le

celle, entra in quella del protagonista. Oppure si ricorda anche il corridoio fotografico

che viene creato dalla ripresa in carrello a seguire il movimento dei due ex drughi,

ormai divenuti poliziotti, che costringono con la forza Alex a percorrere un sentiero in

mezzo ad un bosco per poterlo picchiare in tranquillità, senza che nessuno li disturbi.

Il finale risulta, ancora una volta, di particolare rilievo.

Alex si trova in ospedale, totalmente ingessato a seguito del tentato suicidio. Poco dopo

il suo risveglio dal coma, viene sottoposto ad un esame psichiatrico che paleserà il

ritorno del ragazzo alla condizione precedente la cura. E’ interessante a questo punto

leggere che cosa dice lo studioso Brunetta: “Di fatto la realtà rappresentata è tale per cui

l’individuo non ha più alcuna possibilità di scelta: è condizionato a tutti i livelli della

sua esistenza, e il desiderio di diventare buono di Alex non significa libera possibilità di

assumere un ruolo diverso nella società, ma soltanto accettare di essere schiacciato da

tutti, di assumere il ruolo di vittima. Alex sceglie nel film da che parte stare, ma in

realtà è un certo meccanismo che si impadronisce di lui e ne fa uno strumento

all’interno di un piano preciso. Così le risposte che Alex dà ai tests psicologici che la

175
Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick. L’arancia meccanica, cit., p. 36
186

psichiatra gli sottopone nell’ospedale non provano la libertà di Alex, ma semplicemente

il suo collocarsi nuovamente dalla parte di chi aggredisce gli altri”176.

Quindi, mancanza di libertà anche dopo la guarigione dalla cura (i tests, come si è visto,

chiariscono tale condizione), perché Alex appare solo come uno “strumento” di

qualcosa più grande di lui. E, visivamente, Kubrick realizza la sequenza, in cui la

psichiatra porta i tests ad Alex, attraverso una ripresa in carrello a precedere, lungo i

corridoi dell’ospedale.

In definitiva “si tratta di una realtà che sfugge al controllo del soggetto (…) e finisce per

essere incomprensibile nei suoi sviluppi e nelle sue diramazioni, malgrado la pretesa

«stranamoresca» dei protagonisti di predeterminare ogni avvenimento del futuro”177.

Barry Lyndon (1975)

Come si è visto fino a questo momento, la filmografia kubrickiana sembra presentare

un’iconografia costante, ed anche questo film non esce dai canoni tracciati.

Infatti, si può ad esempio osservare che quando “Barry giunge nella capitale prussiana,

Potsdam, basta a Kubrick una sola inquadratura per mostrarci la città. E’ una veduta

prospettica centrale, a campo totale con un grande viale in fuga fino all’orizzonte, lungo

il quale scorrono le carrozze, immagine talmente rigorosa da diventare prontamente un

concetto, l’idea della città, come nei disegni di un Serlio, o nelle tavole prospettiche di

Berlino o di Urbino, che rappresentano la scena teatrale cittadina del Quattrocento”178.

176
G.P. Brunetta, L’arancia meccanica o la perdita dell’utopia, in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley

Kubrick, cit., p. 201


177
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 199. E’ d’altronde interessante notare che in nota si legga “sul tema

pregnante della perdita di controllo dell’individuo, si confronti con Ruggero Eugeni, Invito al cinema di

Kubrick, Mursia, Milano 1995”.


178
Bernardi, op. cit., pp. 81-2
187

E’ da rilevare che a questo punto del plot Barry, sotto le mentite spoglie di ambasciatore

inglese, pensa di poter ingannare il capitano prussiano Potzdorf raccontandogli un

numero imprecisato di fandonie sulla propria biografia.

Lo stesso stilema visivo si ritrova anche quando “in una stanza del più rarefatto

Settecento, costruzione intellettuale se alcuna mai, essenza dello stile di un’epoca,

inquadrata secondo una prospettiva frontale fissa, un nobiluomo appare seduto di spalle,

a un tavolo da colazione signorilmente apparecchiato. La sala è un perfetto

parallelepipedo di colore grigio – azzurro, con una luce che si diffrange dalle grandi

finestre a sinistra, il silenzio scandisce e stacca i piccoli suoni delle posate d’argento, e

il gentiluomo immobile, che ha una parrucca bianca, ci è già stato presentato come lo

Chevalier de Balibari, o Chevalier borgne, così chiamato, nel romanzo, per la benda che

porta sull’occhio e che gli conferisce una visione prospettica centrale, monoculare”179.

A livello narrativo questo è il momento in cui Barry si presenta a Balibari fingendosi un

servitore prussiano per scoprire se lo stesso è una spia.

Per quanto riguarda invece la presenza di corridoi appare imprescindibile la

constatazione che “il procedimento dello zoom all’indietro è ripetuto in diverse

sequenze e costituisce una sorta di cifra stilistica del film”180. In altri termini “la formula

dello zoom indietro, scoperta in A Clockwork Orange, diventa la chiave di volta dello

stile in Barry Lyndon”181. Infatti “dominano per buona parte del film le scene di esterno

e i totali di paesaggio, oppure (elemento stilisticamente caratterizzante) lo zoom

all’indietro che, partendo da un particolare centrale della scena, conduce a un

179
Ivi, pp. 32-3
180
Eugeni, Invito…, p. 136. Inoltre si fa presente che lo stesso professor Eugeni, via e-mail, ha suggerito

che “forse non sarebbe male un riferimento all’uso dello zoom in Barry Lyndon come costruzione di un

corridoio visivo in luogo di quello architettonico”


181
Bernardi, Kubrick e…, cit., p. 85
188

ampliamento del quadro fino a raggiungere il totale del paesaggio in un lungo piano

sequenza”182. Logicamente il significato di questo elemento stilisticamente

caratterizzante è già stato evidenziato nel sottoparagrafo precedente ed anche riguardo

ad A Clockwork Orange, per cui non lo discuteremo ulteriormente.

Comunque per trattarlo in maniera più particolareggiata è bene richiamare alla memoria

alcune sequenze. Ad esempio quella in cui “Nora, la cugina di Barry, e il capitano Quin

sono nel parco in amorosa conversazione: partendo da un particolare delle loro mani la

macchina regredisce fino a un totale e scopre lentamente una meravigliosa vallata, con

tanto di fiume e bosco”183. Oppure quella in cui Barry, poco dopo l’inizio del film,

osserva la parata dei soldati inglesi che “sebbene si muovano, non si avvicinano affatto,

anzi si allontanano, perché a poco a poco la macchina retrocede, allargando il quadro,

fino a scoprire (…) alcune persone che stanno guardando la parata. Fra queste figure

viste di spalle riconosciamo un ragazzo, il giovane Redmond”184. Non pare inutile

ricordare che, narrativamente, l’esercito riveste un’importanza fondamentale nella vita

di Barry185.

C’è un altro corridoio fotografico “quando il «destino» offre a Barry l’occasione di

disertare, rubando cavallo e divisa a un ufficiale”186. A questo punto “la m.d.p. compie

uno dei movimenti più forti e più arditi di tutto il film. Egli è in alto sulla proda del

fiume, nascosto dietro un grosso albero. La macchina passa accanto a lui veloce, lo

lascia fuori campo, con uno zoom a volo radente scende, cade quasi sull’acqua (…) per

182
Eugeni, Invito…, cit., p. 91
183
Bernardi, Kubrick e…, cit., pp. 45-6
184
Ivi, p. 48
185
Per fare un breve sunto basta dire che: si arruola nell’esercito inglese, diserta, viene scoperto e

costretto ad arruolarsi nell’esercito prussiano, salva il capitano Potzdorf, viene premiato e gli viene

assegnato l’incarico di spiare Balibari tramite il quale sposerà Lady Lyndon.


186
Bernardi, Kubrick e…, cit., p. 131
189

mostrare due omosessuali che fanno il bagno, in una luce verdastra”187. Quindi appare

evidente, secondo Ghezzi, che Barry “non è mai l’inventore o lo scopritore della

situazione. (…) La situazione, l’avvenimento, vengono presentati sempre come

qualcosa che gli si para davanti, come una scena teatrale già pronta per il suo ingresso o

per le sue determinate battute. Non c’è foga o incertezza, il suo movimento tipico è il

caracollare lento verso gli appuntamenti già predisposti (da un secolo), come la rapina

nel bosco annunciata nella scena precedente con gli «attori» che lo aspettano quasi

annoiati fuori dall’osteria vedendolo arrivare”188. Riguardo alla sequenza della rapina si

ricorda che l’avvicinarsi di Barry ai due banditi nel bosco, viene ripreso in carrello a

seguire e a precedere, quindi secondo le modalità di un corridoio fotografico.

Comunque da queste riflessioni parrebbe palesarsi anche per Barry, come per gli altri

personaggi kubrickiani, “l’incapacità (…) di controllare e determinare

programmaticamente la sua vita”189.

Infine ci sono ancora tre sequenze che paiono di un certo rilievo. La prima è quella che

precede il duello tra Barry e Lord Bullingdon e come dice Sandro Bernardi, “siamo alla

fine del film. Bullingdon, il legittimo erede, ormai cresciuto, si reca al club dei libertini

per sfidare Barry a duello e vendicare così le frustate ricevute nell’infanzia. Qui c’è un

lungo carrello indietro che lo guarda nel suo percorso. Una camminata serpentina, nella

luce verdastra e livida delle sale dedicate al vizio; il personaggio rimane sempre di

fronte alla macchina da presa, è il corridoio che sembra scorrere, scivolare lentamente

alle sue spalle, nel passato. Come è stato già osservato, questo carrello indietro riprende

il precedente carrello di A Clockwork Orange, centrato su Alex che cammina nel

negozio di chincaglierie e dischi, succhiandosi un lecca-lecca feticcio, alla Lolita. Le

187
Ibidem
188
Enrico Ghezzi, op. cit., p. 120
189
Ivi, p. 123
190

figure di Kubrick sono insistenti e ricorrenti, talché studiare un suo film equivale a

studiarli stilisticamente tutti. Lo spazio si imbudella190 lungo uno stretto cunicolo

buio”191.

La seconda sequenza riguarda la punizione inflitta ai soldati prussiani. Si tratta del

“terribile corridoio (the gantlope, immagine truculenta di tutti i «vicoli ciechi» del

cinema di Kubrick), nel quale il colpevole è costretto a passare attraverso due file di

fustigatori, mentre una lama di baionetta puntata sotto il collo gli impedisce la fuga in

avanti”192.

La terza e ultima sequenza concerne propriamente l’immagine finale del film che è

costituita da uno zoom sul foglio per la rendita di Barry e, poi, sulla firma apposta da

Lady Lyndon. Tale ripresa sembrerebbe suggellare la tematica kubrickiana di “un altro

destino che viene incanalato”193.

The Shining (1980)

Secondo Ruggero Eugeni “il mondo [kubrickiano] appare (…) un teatro di ombre, il

frutto di una rappresentazione mossa e osservata da spiriti eternamente fuori campo,

190
Su questo punto, cfr. Eugeni, Invito…, cit., p. 134; Brunetta, Stanley Kubrick: Odissea…, cit., p. 21;

oltre che il sottoparagrafo IV.2.1 di questa ricerca


191
Bernardi, op. cit., p. 40
192
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 179. Anche S. Bernardi, op. cit., pp. 88-9 descrive il gantlope in termini

simili: “in questa punizione il colpevole, come vediamo nel film, deve passare attraverso due file di

fustigatori, e camminare con una punta di baionetta puntata addosso, per evitare che possa abbreviare la

pena correndo”. Inoltre per quanto riguarda le informazioni relative al “corridoio” punitivo utilizzato

nell’esercito inglese nel XVIII secolo si rimanda a Sir John Fortescue, A History of the British Army, 13

voll., London 1910-1935, in part. vol. II, pp. 559 sgg.


193
Paolo Lughi, Il prossimamente…, cit., p. 265
191

come avviene in termini espliciti in 2001: A Space Odyssey e in Shining”194. Infatti se in

2001 erano gli extraterrestri a guidare Bowman attraverso il corridoio “galattico” fino

alla camera settecentesca, in Shining sono le presenze dell’albergo che impongono il

loro volere a Jack secondo “onnipotenti ordini superiori”195.

Aggiunge Eugeni che “in particolare questo film presenta la possibilità di focalizzare

con chiarezza la perdita di controllo sul tempo e lo spazio propria dei personaggi

kubrickiani”196.

A questo riguardo occorre allora evidenziare come The Shining sia il film kubrickiano

che presenta il maggior numero di corridoi, sia scenici che fotografici197.

Anche in questo film è presente una “costruzione razionale dello spazio”198. Infatti,

Giorgio Cremonini osserva che “la m.d.p. è al centro dei corridoi in cui si muove o del

labirinto oppure inquadra frontalmente, dal fondo, l’ampio salone in cui Jack lavora; è

al centro del bagno in cui Delbert Grady ripulisce Jack; e via dicendo. (…) A questa

astrazione geometrica quasi ossessiva, a questa gelida teatralità si oppongono le

immagini in continuo movimento della steadicam. (…). Tuttavia la fluidità dei suoi

movimenti non rompe mai la simmetria e la staticità delle immagini; al contrario anche

la steadicam, pur imprimendo alla scena una dinamica quasi ossessiva, continua a

prediligere una scansione simmetrica e la posizione centrata dei personaggi”199.

194
Eugeni, Invito…, cit. p. 126
195
Del Ministro, op. cit., p. 107
196
Eugeni, Invito…, cit., p. 129
197
Ivi, p. 98, “i corridoi labirintici dell’hotel”. Michel Ciment nell’introduzione a Michel Ciment (a cura

di), Stanley Kubrick, Giorgio Mondadori – la Biennale di Venezia, Milano 1997, p. VIII, “Corridoi senza

fine di Shining”. Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 144, “i corridoi inesorabili del giardino-labirinto innevato”
198
Eugeni, Invito…, cit., p. 149
199
Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick. Shining, cit., pp. 91-2
192

Per quanto riguarda lo stilema visivo della prospettiva centrale, ci sembra che rivesta un

particolare valore la sequenza, situabile un mese dopo che la famiglia Torrance si è

stabilita nell’albergo, in cui Jack osserva il modellino del labirinto, mentre,

contemporaneamente, il figlio Danny e la moglie Wendy stanno giocando nel “vero”

labirinto200. Gli studiosi Roberto Lasagna e Saverio Zumbo, riguardo a questa scena,

hanno sostenuto che “è l’apparente dominio umano sulla realtà che si dimostra soltanto

una pretesa, come l’onnipotenza psicotica di Jack Torrance spinge lo scrittore a

dominare nella soggettiva dall’alto il modello di labirinto che si rivela poi il vero

labirinto”201, pretesa di dominio che sarebbe resa visivamente dalla prospettiva centrale.

Pare interessante notare che l’inizio del film presenta invece una ricca serie di

«corridoi»202 (in questo caso fotografici). Tale sequenza è stata dettagliatamente

analizzata da Giorgio Cremonini in questi termini “1. Carrellata a bassa quota e in

avanti: fra le pareti di un fiume «un’isola, apparentemente nel mezzo di un lago o di un

fiume, sembra come spostarsi verso di noi, galleggiare sulla superficie (…). E’ un

effetto ottico: infatti il lago è così immobile che il movimento della m.d.p. verso l’isola

fa sembrare l’isola stessa in movimento. Quest’immagine inquietante dà il tono a tutto

200
Sul labirinto di siepi è interessante leggere quanto afferma Paolo Santarcangeli, op. cit., p. 199, sui

labirinti – giardino, secondo il quale “si presentano con tre forme principali: disegno tracciato a fior di

terra, con aiuole, fiori ed erbe; tracciato di poca altezza, costituito da cespugli bassi; percorso costruito

con veri e propri muri vegetali, con corridoi di alberi d’alto fusto, superanti la statura di un uomo che si

aggira tra i viali”. Il labirinto in The Shining parrebbe chiaramente appartenere all’ultima categoria.
201
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 199
202
Va sottolineato che la seconda parte del film, dopo che i fantasmi dell’albergo sono apparsi a Jack per

indurlo a compiere il duplice omicidio (di Danny e Wendy), evidenzia un numero di «corridoi» superiore

alla prima
193

il film»203. Dissolvenza incrociata a: 2. Plongée aerea con carrellata a seguire un’auto

che corre lungo una strada sinuosa tra i boschi. 3. L’automobile seguita dalla carrellata

aerea in avanti; sul fondo una grande montagna innevata. 4. La carrellata aerea in

avanti prosegue sull’automobile lungo la strada a mezza costa”204.

Si notano altri «corridoi» nel prosieguo del film, e precisamente quando Jack telefona a

Wendy dall’albergo, per comunicarle che ha accettato il lavoro di guardiano,. Infatti

mentre la madre sta parlando al telefono, la macchina da presa si avvicina a Danny, che

si trova in bagno, prima in carrello in avanti e poi con uno zoom. A questo punto Danny

ha una “visione” su quello che succederà nell’albergo e, come annota Lughi, “sono le

immagini del futuro atroce già previsto dal bambino, un futuro ancora una volta

ineludibile verso il quale il bambino stesso sembra dirigersi pedalando nel lungo

corridoio dell’hotel (…). Un altro corridoio dunque che torna nel cinema (…) di

Kubrick a incanalare il destino dei suoi protagonisti e a profetizzare un pericoloso

percorso obbligato”205.

Sono naturalmente da ricordare, non solo i corridoi attraversati da Danny, ma anche

quelli percorsi dal protagonista Jack che “è in realtà la prima preda del labirinto206, una

marionetta in balia della curvatura spazio-temporale del luogo. (…) Un corpo

203
Paul Mayersberg, L’Overlook Hotel, in Sight and Sound, vol. 50, n° 1, Inverno 1980-81, ora in Michel

Ciment (a cura di), Stanley Kubrick, Giorgio Mondadori – la Biennale di Venezia, cit., p. 283
204
Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick. Shining, cit., pp. 39-40
205
Paolo Lughi, Il prossimamente…, cit., p. 265
206
Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick. Shining, cit., p. 50, ha sostenuto a questo riguardo che lo stesso

film “è un viaggio nella psiche e il labirinto è il suo centro. Tutto sembra uguale, geometrico e ordinato,

ma in realtà non si sa mai bene dove ci si trova e che cosa e quando succede. Al tempo stesso è il luogo di

un viaggio in cui nulla cambia”. Inoltre Gian Piero Brunetta in En attendant Kubrick, in G.P. Brunetta (a

cura di), Stanley Kubrick, cit., p. 10, definisce come labirintico “lo spazio (…) dei corridoi dell’Overlook

Hotel di Shining”.
194

totalmente assoggettato ad una forza che lo fa muovere per i corridoi”207. In tal senso

troverebbe sostanza quanto sostenuto da Eugeni, secondo cui “i personaggi di Kubrick

sembrano spesso mancare di un centro propulsore o coordinatore delle proprie azioni,

ridotti così a marionette agite più che a soggetti agenti”208.

L’ultima annotazione riguarda la sequenza finale che è costituita un corridoio

fotografico. Infatti “al primo piano di Jack incrostato di ghiaccio segue una carrellata in

avanti all’interno dell’albergo fino a inquadrare una parete cui sono appese alcune

fotografie: in una di queste (una festa del 4 luglio 1921) riconosciamo, al centro di un

gruppo, il viso di Jack Torrance”209. Come sostiene Cremonini, “tutto è scritto, dunque,

e nessuno può sottrarsi al proprio destino. Riaffiora qui tutta la cultura noir del primo

Kubrick: storie di personaggi condannati a rivivere soltanto la propria vita fatta di

sconfitte. L’immortalità di Torrance ha il sapore beffardo di una reincarnazione in se

stesso come born loser, della tappa di un disegno temporale immodificabile e perverso,

guidato dallo stesso Overlook Hotel o da chi per esso. Non facciamo che vivere la

stessa vita e subire la stessa condanna, cristallizzati in un blocco di ghiaccio che ogni

tanto, a distanza di qualche decennio, si scioglie e ci restituisce temporaneamente e

beffardamente ad una vita da zombies”210.

207
Enrico Ghezzi, op. cit., p. 140
208
Eugeni, Invito…, cit., p. 121
209
Cremonini, Stanley Kubrick. Shining…, cit., p. 37
210
Ivi, p. 83. Un’altra riflessione degna di nota, sempre di Cremonini, Ivi, p. 50
195

Full Metal Jacket (1987)

Full Metal Jacket, come Paths of Glory e Dr. Strangelove, è un film sul mondo dei

militari, il cui ultimo fine, lo si ricorda ancora una volta, “non è tanto la distruzione,

quanto il controllo più assoluto dell’individuo, la sua meccanizzazione”211.

In un certo senso il mondo militare assume le fattezze di “un cervello che si arroga la

capacità di plasmare ogni azione ad una logica distruttrice, non influenzabile da istinti e

sentimenti quali la paura o l’eccitazione sessuale”212.

Quindi se in The Shining Jack obbediva agli ordini superiori dei fantasmi, in Full Metal

Jacket i soldati sono costretti ad obbedire alle direttive dei loro superiori.

Inoltre, come in tutti i film di Kubrick, anche quest’opera presenta una strutturazione

regolare, simmetrica e razionale dello spazio cinematografico. In particolare “la prima

parte del film, sigillata nel campo di Parris Island, ha una struttura chiusa e ordinata,

con una netta predominanza di riprese simmetriche e frontali, di primi piani statici e

carrellate regolari, mentre la narrazione antepone linearmente gli spazi claustrofobici

dell’addestramento psicologico a quelli esterni dell’addestramento fisico”213.

Per quanto poi riguarda le sequenze in cui visivamente è riscontrabile una costruzione a

prospettiva centrale, di maggior rilevanza sembrerebbe essere quella relativa all’ultima

notte a Parris Island, quando esplode la pazzia di Palla di Lardo, il quale prima uccide il

sergente Hartmann e poi si ammazza. Appare interessante il fatto che all’interno di

questo spazio, Hartmann non mostri alcun segno di paura di fronte al mitra, caricato con

211
Eugeni, Invito…, cit., p. 107
212
Marangi Michele, Full Metal Jacket, l’opera al nero, in AA.VV., Stanley Kubrick, Scriptorium –

Settore università Paravia, cit., p. 127


213
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 196
196

proiettili full metal jacket, che Palla di Lardo gli sta puntando contro. Continua anzi ad

urlare ordini alla recluta ormai divenuta marine.

In merito invece ai «corridoi» ve ne sono diversi che paiono assumere le fattezze di

“elementi stilisticamente caratterizzanti”214. “Prendiamo ad esempio una figura

kubrickiana per eccellenza come quella della carrellata all’indietro associata alla

camminata in avanti di un personaggio che viene lasciato quasi immobile al centro

dell’inquadratura: Kubrick utilizza tale espediente per (…) il sergente Hartmann, che

ispeziona le nuove reclute sbraitando e fermandosi di tanto in tanto di fronte ai singoli

soldati”215. Kubrick fa dunque ricorso ad un “espediente formale (carrellata indietro con

ispettore che cammina in posizione frontale) per esprimere un [chiaro] concetto (quello

della riduzione che l’istituzione militare opera sul soldato, annullandone il significato

umano e rendendolo un oggetto insignificante e automatico, privo di diritti e destinato

alla sola obbedienza)”216.

Appare degno di nota anche il fatto che questo annullamento del soldato, “questo

disordine psico-linguistico [venga] indottrinato alle reclute attraverso il tunnel

simmetrico e maniacale dell’addestramento di Parris Island”217.

Da questo punto di vista parrebbero di un certo rilievo, oltre ai numerosi carrelli a

precedere il movimento delle reclute quando queste corrono lungo i viali della caserma,

anche “gli zoom218 che isolano i primissimi piani di Palla di Lardo quando inizia a non

214
Eugeni, op. cit., p. 91
215
Alessandro Pirolini, Il senso dello stile, in AA.VV., Stanley Kubrick, Scriptorium – Settore università

Paravia, cit., pp. 27


216
Ibidem
217
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 195
218
Situabili cronologicamente subito dopo la notte in cui Palla di Lardo, a letto, viene colpito a turno da

tutte le reclute della sua camerata.


197

ripetere le frasi che tutti urlano”219. Questi corridoi fotografici farebbero perciò

presupporre che il personaggio di Palla di Lardo sia “in un certo senso predestinato a

essere preda della violenza e della follia distruttrice”220.

Sono anche da menzionare i «corridoi», essenzialmente fotografici che si notano nella

seconda parte del film, che si svolge in Vietnam. In particolare si evidenzia il carrello a

seguire l’avvicinamento dei marines verso la città, dopo che il tenente Touchdown è

stato ucciso. Narrativamente parlando tale movimento di macchina si situa come resa

visiva dell’esecuzione dell’ordine di conquista della città nemica.

Nella parte finale del film, quando i marines vengono sorpresi da un cecchino

vietnamita, sono palesi i corridoi fotografici, creati dagli zoom in semi-soggettiva dal

cecchino verso quei singoli marines che verranno colpiti. Tali carrelli ottici, che

seguono la direzione del proiettile, sembrano sottolineare visivamente, come in The

Shining, che “tutto è scritto (…) e nessuno può sottrarsi al proprio destino”221.

219
Marangi Michele, Full Metal Jacket, l’opera al nero, in AA.VV., Stanley Kubrick, Scriptorium –

Settore università Paravia, cit., p. 126


220
Eugeni, Invito…, cit., p. 108
221
Ivi, p. 83
198

Il cinema come arte della visione. Questo è stato il primo aspetto che abbiamo cercato

di approfondire, tentando di mostrare come la settima arte sia legata indissolubilmente

al senso della vista.

Riscontrata tale proprietà abbiamo notato che il cinema non può riprendere l’intero

spazio visivo della realtà, ma deve operare una scelta selettiva dovuta alle dimensioni

del quadro di ripresa, quadro di ripresa che, secondo Jean Mitry, rappresenta il referente

assoluto1 del cinema, cioè l’elemento a cui tutte le componenti cinematografiche

devono fare riferimento.

Nel corso della nostra dissertazione si è inoltre tentato di mostrare come lo spazio

cinematografico, pur trovandosi su un supporto bidimensionale, presenti l’illusione

della terza dimensione grazie a tre fattori: la prospettiva (di derivazione rinascimentale),

la profondità di campo (di derivazione fotografica) ed il movimento (proprio del

cinema).

Lo spettatore cinematografico, nel vedere il film, ha quindi l’illusione di trovarsi di

fronte un mondo a tre dimensioni, un mondo altro da quello della realtà. Questo mondo

“interno” allo spazio cinematografico deve essere organizzato, come ha scritto

Rohmer2, secondo tre ambiti: pittorico, architettonico e filmico. Il primo concerne il tipo

di riprese che un regista vuole effettuare; il secondo riguarda le forme architettoniche e

scenografiche in cui si svolge l’azione; ed il terzo è costituito sia dalla recitazione degli

attori all’interno dello spazio architettonico, sia dal montaggio, dove le singole riprese

vengono unite secondo una sequenza logica.

1
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 172
2
Eric Rohmer, L’organizzazione dello spazio…, cit., p. 19
199

Più avanti si è cercato di evidenziare come sia caratteristica di ogni autentico “autore”

cinematografico lasciare nei suoi film una propria impronta, ben riconoscibile. Infatti

egli organizza lo spazio cinematografico, cioè l’aspetto visivo del film, secondo il suo

volere e, di conseguenza, marca ogni sua opera secondo un proprio stile personale che è,

come sostiene Giorgio Cremonini, “un insieme di procedimenti fedeli a se stessi

nell’impostazione generale, ma capaci di adattarsi con precisione al senso delle singole

opere: perché le storie cambiano, ma l’autore è sempre lo stesso”3.

Seguendo tale linea d’analisi ci siamo quindi occupati del cinema di Kubrick: prima da

un punto di vista narrativo e poi, nei successivi tre capitoli, soffermando la nostra

attenzione sull’aspetto visivo. Infatti il nostro obiettivo era innanzitutto quello di

mostrare come nella filmografia del regista americano vi fosse un rapporto molto stretto

tra la fabula e l’iconografia.

Inoltre, dal momento che su tre film (Fear and Desire [1953], Killer’s Kiss [1955] e

Spartacus [1960]) Kubrick non ebbe il controllo assoluto, si è deciso di escluderli

dall’analisi narrativa e di toccare brevemente gli ultimi due solo in merito a quella

visiva.

Si è comunque notato come nei restanti film siano sempre presenti una tematica

strutturale, cioè la divisione in due parti ben distinte (une ascension et une chute / une

répétition générale et un échec / une programmation et son dérèglement4) e due temi

narrativi veri e propri: da un lato l’illusione da parte del protagonista di controllare il

proprio destino e dall’altro la sua incapacità di guidare la propria vita secondo la propria

volontà, dovuta al suo essere in balìa degli eventi, del caso, di un volere superiore.

In The Killing (1956), si è rilevato come Johnny (ed assieme a lui i suoi complici)

organizzi la rapina all’ippodromo in tutti i particolari, credendo così di diventare ricco

3
Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick. Shining, Lindau, Torino 1999, pp. 85-6
4
Pierre Giuliani, Stanley Kubrick, Rivages, Paris 1990, p. 11
200

senza eccessive difficoltà. Ma il «caso»lo porterà ad essere arrestato all’aeroporto,

proprio nel momento in cui sta per scappare con il malloppo5.

In Paths of Glory (1957) si è visto come i due personaggi che risultano antagonisti nella

vicenda, il generale Mireau e il colonnello Dax, abbiano un destino comune. Il generale

crede di poter ottenere la promozione cercando di far conquistare ai suoi soldati un

fortino tedesco inespugnabile, ma a causa dell’ordine dato in battaglia di sparare contro

i propri uomini, non solo non otterrà l’avanzamento di grado, ma sarà anche sottoposto

ad un’inchiesta. Il colonnello, essendo un subalterno nella gerarchia militare, e quindi

“destinato alla sola obbedienza”6 deve esclusivamente eseguire degli ordini. Tale

condizione si palesa nel momento in cui crede di poter salvare i tre condannati alla

fucilazione denunciando Mireau. Il suo tentativo fallirà.

Anche in Lolita (1962), Humbert si illude di poter vivere per sempre con la ragazzina,

per la quale prova una perversa attrazione, ma la sua si rivelerà una mera illusione, visto

che lei scapperà con Quilty. Si è inoltre visto come anche i personaggi di Lolita e Quilty

in realtà non siano liberi di decidere della propria vita. Infatti, la ragazzina è dominata

psicologicamente da Quilty ed il commediografo, malgrado la sua abilità nel

condizionare gli altri, nel momento in cui sarà in gioco la sua vita, non sarà più in grado

di ingannare Humbert e verrà da lui ucciso7.

5
Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick. Shining, cit., p. 57, a questo proposito ha sostenuto che “il

cagnolino all’aeroporto di The Killing ed il cavallo imbizzarrito di Barry Lyndon sono gli esempi più

trasparenti di questa attivazione casuale di un destino pre-scritto, di quella logica dell’ineluttabilità che è

stata propria del noir negli anni 40’ e 50’ e che Kubrick continua a fare sua”.
6
Alessandro Pirolini, Il senso dello stile, in AA.VV., Stanley Kubrick, Scriptorium – Settore università

Paravia, cit., p. 27
7
A questo riguardo appare valevole di nota quanto afferma Norman Kagan, op. cit., p. 108, secondo il

quale “Humbert’s own emotional obsession is always frustrating and degrading, eventually condemning
201

In Dr. Strangelove, or How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (1964), gli

uomini della War Room sono convinti di riuscire, prima o poi, a scongiurare il pericolo

nucleare della fine del mondo Questo non sarà possibile, si sa, perché un guasto a

“determinati circuiti comunicativi”8 impedirà loro di fermare il bombardiere del

maggiore Kong. Lo stesso Kong, soggetto passivo in quanto militare, quando sgancia la

bomba nucleare obbedisce all’ordine di cui, per un caso fortuito, non ha ricevuto la

revoca.

In 2001: A Space Odyssey (1968) gli esseri umani (in particolare gli scienziati)

ritengono di poter controllare il monolito e di poterlo utilizzare ai loro scopi. Questa si

rivelerà un’illusione, visto che saranno gli extraterrestri a guidare David verso un punto

ben preciso: la camera settecentesca.

In A Clockwork Orange (1971) Alex, il protagonista, sembrerebbe poter fare quello che

vuole sia della sua vita che di quella degli altri, grazie alla sua prepotenza e alla sua

violenza. In realtà, risulterà non essere per nulla padrone del proprio destino e alla fine

non riuscirà neanche a suicidarsi salvandosi per miracolo. Per cui la sua vita futura sarà

incanalata su un percorso deciso dagli uomini del governo. “Di fatto”, come ha

sostenuto Gian Piero Brunetta, “la realtà rappresentata è tale per cui l’individuo non ha

più alcuna possibilità di scelta”9.

Si è visto come anche Barry Lyndon (1975) riproponga in maniera evidente i due temi

narrativi ricorrenti nel cinema di Kubrick. Infatti Barry, convinto di poter dirigere la

him to emptiness and death. The sly, scheming Lolita is emotionally enslaved as well. Finally, all Quilty’s

quick intelligence and game playing skill fails to save him in the end”.
8
Eugeni, Invito…, cit., p. 66
9
G.P. Brunetta, L’arancia meccanica o…, cit., p. 201
202

propria vita, riesce a sposare la nobile Lady Lyndon. Tuttavia il caso10, la fatalità ed

anche la sua incapacità11 lo porteranno però a perdere tutto quello che era riuscito ad

ottenere.

The Shining (1980) parrebbe comunicarci come il personaggio di Jack, a differenza di

quanto crede all’inizio del plot, sia in realtà impossibilitato ad agire liberamente; infatti

anche lui viene guidato da “onnipotenti ordini superiori”12.

Infine per quanto riguarda Full Metal Jacket (1987), in cui si racconta come vengano

creati, attraverso l’addestramento, dei “soldati-macchina, (…) nuova forma di «arancia

meccanica», [che] possiedono riflessi condizionati e programmati”13, si è visto come

Hartmann, l’unico personaggio che sembrerebbe invece in grado di controllare gli

eventi della propria esistenza e di quella altrui14, perda in realtà tale potere e venga

ucciso da Palla di Lardo ormai impazzito.

Quindi, dopo aver fatto questa brevissima passeggiata nella narrativa kubrickiana e

dopo aver cercato di evidenziare che i personaggi delle sue opere “nel momento in cui si

illudono di controllare la rete di cause e conseguenze collegate alle proprie azioni non si

accorgono di innescare il proprio fallimento”15 riducendosi così “a marionette agite più

che a soggetti agenti”16, ci siamo posti l’obiettivo di mostrare come tali temi narrativi

paiano trovare un puntuale e preciso riscontro visivo nella filmografia del regista

americano, dove si palesano due stilemi visivi: la prospettiva centrale rinascimentale ed

10
Come episodio si ricorda, ad esempio, la morte del figlio Bryan, causata da un cavallo imbizzarrito, a

cui ha fatto riferimento Cremonini, Stanley Kubrick. Shining…, cit., p. 57


11
Dopo esserne venuto in possesso, non riesce a gestire le favolose ricchezze dei Lyndon
12
Del Ministro, op. cit., p. 107
13
Ruggero Eugeni, Invito…, cit., p. 107
14
In particolare ci riferiamo al controllo che attua sulle reclute
15
Eugeni, Invito…, cit., p. 121
16
Ibidem
203

il corridoio, scomponibile in scenico (il corridoio come struttura architettonica) e

fotografico (creato fotograficamente dallo zoom avanti o indietro e dal movimento della

macchina da presa in carrello in avanti o indietro).

Nel secondo capitolo della nostra dissertazione ci siamo soffermati ad analizzare la

prospettiva. Si è innanzitutto studiata la prospettiva a livello etimologico, scoprendo che

fino al Quattrocento indicava la scienza della visione (l’ottica medievale) mutando poi

significato e assumendo il valore di scienza della rappresentazione artistica (la

prospettiva rinascimentale).

In seguito, il nostro interesse si è volto verso il lato storico della prospettiva. In tale

ambito si è messa in evidenza l’importanza di cinque artisti che posero le basi teoriche e

pratiche della costruzione prospettica nel Quattrocento, e precisamente: Filippo

Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Lorenzo Ghiberti, Piero della Francesca e Leonardo

da Vinci.

Si è quindi fatto un breve accenno alla dibattuta questione sulla conoscenza o meno

della prospettiva lineare da parte degli antichi greci e latini e, di conseguenza, se Filippo

Brunelleschi l’abbia ideata, portando a compimento scoperte frammentarie precedenti,

o, invece, abbia soltanto ridato luce a conoscenze già acquisite fin dall’antichità.

A questo punto la nostra attenzione si è appuntata al pensiero rinascimentale e al

collegamento che parrebbe riscontrabile tra questo e la prospettiva, una prospettiva

intesa come il “trionfo dell’uomo che si costruisce il proprio mondo, con la sua mente

chiara e l’azione precisa”17. In particolare si è cercato tale rapporto esaminando il

pensiero di alcuni tra i più autorevoli filosofi rinascimentali, Pico della Mirandola,

Niccolò Cusano e Marsilio Ficino.

17
Giusta Nicco Fasola, La nuova…, cit., p. 294
204

Questi studi ci hanno portato ad affermare, come sostenuto da Ernst Cassirer18, che la

concezione dell’uomo nel Rinascimento era fondata su tre capisaldi. Il primo è la libertà

assoluta di cui dispone, cioè il suo “essere una possibilità, un’apertura attraverso la

quale si celebra l’inesausta ricchezza dell’essere”19. Il secondo caposaldo è la capacità

di dirigere la propria vita senza essere avvolto nelle spire del destino. Il terzo, infine, è

la creatività, il poter modificare la forma del mondo sensibile, per cui “il fuoco della

vita spirituale viene posto, in certo qual modo, là dove «l’idea» si incorpora, là dove la

forma non sensibile, che è presente alla mente dell’artista, irrompe nel mondo visibile e

si realizza in esso”20.

Quindi il pensiero rinascimentale, fondato, come si è visto, sulla libertà dell’uomo di

decidere liberamente del proprio destino, parrebbe evidenziare legami con la prospettiva

che, intesa “come un consolidamento e una sistematizzazione del mondo esterno”21

mediante artifici grafici22, “esprime proprio una volontà e una fiducia di dominio, di

centralizzazione e di geometrizzazione”23.

A questo punto della nostra ricerca ci siamo permessi una breve divagazione,

sottolineando la differenza tra l’uomo rinascimentale, che si riteneva padrone del

mondo anche con l’ausilio della magia, e l’uomo illuministico che si considerava in

grado di governare il mondo, ma attraverso la tecnica. Questa precisazione ci è servita

per mostrare come, narrativamente, il cinema di Kubrick metta in scena personaggi che

paiono accostabili più alla concezione illuministica dell’uomo che non a quella

18
E. Cassirer, op. cit., p. 111
19
E. Garin, Magia…, cit., p. 157
20
E. Cassirer, op. cit., p. 111
21
E. Panofsky, op. cit., p. 72
22
Ruggero Eugeni, L’analisi…, cit., p. 269
23
Ruggero Eugeni, Invito…, cit., p.121
205

rinascimentale. Infatti il loro tentativo di guidare il proprio destino non si fonda tanto

sulla magia quanto sulla tecnica24. A titolo di esempio si ricorda che in The Shining, il

film più “magico” di Kubrick, il personaggio di Jack viene sì spinto da forze

sovrannaturali a uccidere Wendy e Danny, ma il compimento di tale azione viene

lasciato alle sue capacità individuali: deve infatti scegliere lui la tecnica da seguire.

Inoltre Danny, all’interno del labirinto, riesce a sfuggire a Jack, non attraverso l’aiuto di

incantesimi (la magia), dato che lo shining che possiede non gli fornisce tali poteri, ma

grazie all’abilità di lasciare le sue impronte camminando all’indietro (la tecnica).

Atteso che questo sia vero a livello narrativo, si è cercato di mostrare come invece, a

livello visivo, il tipo di costruzione prospettica utilizzata da Kubrick sia riconducibile

più ad un modello rinascimentale che non illuministico. Con parole povere, nella

filmografia del regista americano sarebbe presente in maniera costante un tipo di

prospettiva chiusa, cubica e quindi propriamente rinascimentale25, piuttosto che una

prospettiva illuministica, fondata cioè sul tentativo di raggiungere l’infinito attraverso,

ad esempio, giardini lunghi anche tre o quattro chilometri26.

A riprova di quanto affermato è stato fornito, per ogni film studiato, un adeguato

numero di esempi della presenza di una strutturazione dello spazio cinematografico

riconducibile alla prospettiva rinascimentale.

24
Tale precisazione ci è stata suggerita dal professor Eugeni
25
A questo riguardo sembra di particolare rilievo quanto sostenuto relativamente al film A Clockwork

Orange da Ruggero Eugeni in Invito…, cit., p. 118, “Prima dell’arrivo dei giovani teppisti i due ambienti

[la casa dello scrittore Alexander e la clinica dimagrante della signora Weathers] vengono rappresentati

mediante inquadrature statiche, centrate, simmetriche, cioè secondo i principi della prospettiva centrale

cinquecentesca; gli spazi delle due case sono raffigurati come vere e proprie scatole prospettiche

rinascimentali”.
26
R. Benevolo, op. cit., p. 116
206

Nel terzo capitolo della nostra ricerca ci siamo soffermati ad analizzare l’altro stilema

visivo presente nel cinema di Kubrick, e cioè il corridoio.

Anche per questo elemento si è dapprima studiata l’etimologia. Da tale analisi si è

ricavato che il lemma corridoio implica un’idea di movimento, di passaggio, per andare

da un punto ad un altro.

Si è quindi affrontato il corridoio sotto il profilo architettonico e storico, constatando

che nell’architettura antica è possibile trovarne qualche esempio, soprattutto tombale,

come nell’antico Egitto, in Grecia, in Italia sotto gli Etruschi e sotto la dominazione

romana, mentre un utilizzo sistematico del corridoio, propriamente nell’edilizia civile,

parrebbe presente solo a partire dall’Ottocento27. Prima dell’Ottocento era invece molto

in voga lo schema ad enfilade, cioè una struttura distributiva degli ambienti basata sulla

successione degli stessi senza elementi di disimpegno.

Dopo questo excursus storico, il nostro interesse si è rivolto all’utilizzo del corridoio e,

quindi, alla sua funzione. A questo riguardo si è notato come l’unico uso del corridoio

sembrerebbe quello di essere attraversato, dal momento che “è uno degli elementi

architettonici più superflui sul piano della funzione (non vi si abita, non vi si svolge

alcuna attività)”28.

Il corridoio verrebbe quindi reso attivo solo attraverso il suo utilizzo. Perciò, seguendo

le riflessioni di de Certeau, secondo cui il luogo sarebbe l’insieme di elementi

27
AA.VV., Enciclopedia dell’Architettura, cit., p. 222
28
Paolo Cherchi Usai, Kubrick architetto, in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, cit., p. 280. A

questo riguardo parrebbero utili alcune riflessioni di Richard Sennett, La coscienza dell’occhio..., cit., p.

39, secondo il quale “l’interno domestico che divenne caratteristico della New York industriale, il

cosiddetto railroad apartment o appartamento a vagone ferroviario tipico dei grandi condomini, illustra

bene questa logica di divisione. Le stanze sono disposte una dopo l’altra, con le porte che danno tutte su

un lungo corridoio. Ogni stanza è chiaramente destinata a un’attività specifica: il soggiorno, seguito

dalla sala da pranzo, seguita da una o più camere da letto, e in fondo la cucina”.
207

coesistenti in un determinato ordine, mentre lo spazio indicherebbe l’animazione di

questi luoghi causata dalla mobilità29, abbiamo avanzato l’ipotesi che il corridoio non

utilizzato potrebbe essere considerato luogo, mentre nel momento in cui viene percorso

diverrebbe spazio.

Abbiamo visto come la differenza sottolineata da de Certeau tra luogo come stabilità e

spazio come mobilità sia stata sviluppata da Marc Augé, secondo il quale praticare lo

spazio significherebbe viaggiare, attraversare e organizzare luoghi. Quindi, lo spazio

non sarebbe più la pratica di un singolo luogo, ma la pratica dei luoghi. Perciò “lo

spazio del viaggiatore sarebbe l’archetipo del nonluogo”30. Di conseguenza il corridoio,

che etimologicamente possiede la matrice del movimento e che, come si è visto, assume

una funzione precisa solo nel momento in cui viene attraversato, cioè percorso “da

qualcuno”, potrebbe essere propriamente considerato un nonluogo di transito.

Dopo aver fatto questa prima riflessione, la nostra attenzione si é spostata sulla forma

del corridoio (lunga e stretta) che guida chi lo attraverso in un’unica direzione

obbligata, dal momento che al suo interno non si ha la possibilità di muoversi dove si

vuole. Inoltre, dal momento che questa funzione di incanalamento potrebbe essere

assimilata a quella propria del labirinto31, che è un edificio ricco di simmetrie costruito

per confondere gli uomini e che si manifesta solo nel movimento, abbiamo congetturato

che la struttura spaziale del corridoio potrebbe essere considerata una specie di labirinto

che costringe chi si muove al suo interno a dirigersi in un unico verso obbligato32.

29
Michel de Certeau, op. cit., p. 173
30
Augé, op. cit., pp. 80-81
31
P. Zanini, op. cit., p. 124
32
Cfr. Paolo Cherchi Usai, Kubrick architetto…, cit., p. 276, dove lo studioso ha affermato che “il

corridoio guida il movimento dell’uomo”.


208

Archiviate queste riflessioni, abbiamo fornito numerosi esempi della presenza di

corridoi nella filmografia di Stanley Kubrick.

Nel quarto capitolo abbiamo innanzitutto tentato di verificare che la prospettiva sarebbe

essenzialmente da considerare un frutto della cultura occidentale. Infatti abbiamo visto

che esistono popolazioni di altre parti del mondo, come ad esempio gli zulù, che non

riescono a percepire la tridimensionalità di un’immagine strutturata in prospettiva.

La nostra ricerca si è quindi orientata sul corridoio kubrickiano. Con il termine

corridoio abbiamo contemplato sia il corridoio scenico, intendendo cioè il corridoio

come struttura architettonica, sia il corridoio fotografico, comprendendo in questa

definizione quel tipo di «corridoio» creato dal carrello in avanti o all’indietro e dallo

zoom in avanti o all’indietro.

Abbiamo notato che tale stilema visivo parrebbe creare uno spazio “costretto,

claustrofobico, labirintico, che sottolinea il senso di meccanica ineluttabilità dello

svolgersi degli eventi”33, in cui i personaggi non sembrerebbero liberi ma, appunto,

costretti a muoversi in una direzione obbligata, divenendo così dei “pezzi costretti a

mosse determinate all’interno di quella curiosa forma di labirinto in perenne

ristrutturazione ma senza possibilità di uscita che è la scacchiera”34.

Infatti Kubrick, attraverso l’impiego visivo del corridoio, sembrerebbe creare uno

spazio che “è una scacchiera entro cui far muovere (…) i suoi personaggi-pedine

secondo direttrici obbligate”35. Inoltre si è evidenziato il fatto che questo spazio, oltre

ad una scacchiera, sarebbe riconducibile anche al labirinto. In sostanza Kubrick,

33
Eugeni, Invito…, cit., p. 47
34
Ivi, p. 136
35
Gian Piero Brunetta, En attendant Kubrick, in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, cit., p. 11
209

attraverso il corridoio darebbe “forma e sostanza all’utopia dello scrittore argentino

Jorge Luis Borges di “un labirinto (…) che è una linea unica retta, incessante”36.

A questo punto, abbiamo fatto riferimento a quanto appuntato nei capitoli precedenti

relativamente ai due temi fondamentali (illusione di controllo e incapacità di attuarlo)

presenti a livello narrativo nel cinema di Kubrick e ai due stilemi visivi (prospettiva

centrale e corridoi scenici o fotografici) che parrebbero dar forma ad una “costruzione

razionale dello spazio”37 cinematografico kubrickiano.

Seguendo quindi le indicazioni del semiotico Eugeni, secondo cui il cinema di Kubrick

evidenzierebbe la crisi della ragione occidentale, intesa come principio di controllo38,

abbiamo notato che, nei film del regista americano, tale crisi sarebbe riscontrabile non

solo a livello narrativo, ma anche visivamente.

Infatti, ad uno spazio strutturato secondo il modello della prospettiva centrale, si

opporrebbe uno spazio policentrico, creato dalla macchina da presa a mano39. Abbiamo

allora avanzato l’ipotesi di ricerca che, secondo noi, la crisi della ragione occidentale

sarebbe prodotta anche dalla contrapposizione tra prospettiva e corridoio.

Questo perché la prospettiva, frutto, come abbiamo visto all’inizio del quarto capitolo,

della cultura occidentale, sarebbe da considerare, anche relativamente al cinema di

Kubrick, uno strumento attraverso il quale “la ragione occidentale ha inteso instaurare

un controllo sul mondo, [nel senso che] il modello spaziale della prospettiva

36
Eugeni, Invito…, cit., p. 131. La citazione è tratta da Jorge Luis Borges, La morte e la bussola, in

Finzioni, Einaudi, Torino 1982, p. 131


37
Ruggero Eugeni, Invito …, cit., p. 149. Inoltre, ad esempio, anche Michel Ciment nell’introduzione a

Michel Ciment (a cura di), Stanley Kubrick, Giorgio Mondadori – la Biennale di Venezia, Milano 1997,

p. VIII, sostiene che “il frequente ricorso alla carrellata all’indietro o, al contrario, al piano fisso e alla

profondità di campo, tende sempre a riordinare lo spazio”


38
Eugeni, Invito…, cit., p. 120
39
Ivi, p. 118
210

esprimerebbe proprio una volontà e una fiducia di dominio, di centralizzazione e di

geometrizzazione”40.

Al contrario, la struttura del corridoio comporterebbe una costrizione, nel senso che chi

si trova al suo interno sarebbe costretto, per uscirne, a percorrere un’unica strada.

Infatti, come ha affermato Sergio Toffetti, “nel cinema di Kubrick (…) il viaggio

assume spesso la connotazione speciale di uno spostamento attraverso/in/lungo/dentro

un corridoio, il che renderebbe esplicita la doppia articolazione di un simile itinerario:

l’odissea dell’eroe verso la libertà è contemporaneamente faticoso passaggio dentro la

costrizione. (…) [Nel suo cinema] il corridoio indica assai spesso (…) il percorso

obbligato da attraversare”41.

Partendo da questi supposti teorici si è quindi affrontata la filmografia kubrickiana ed

abbiamo ritrovato nelle opere analizzate un parallelo tra la struttura narrativa e quella

visiva. In sostanza si è notato come sia presente la prospettiva centrale quando il

personaggio si illude di poter decidere della propria vita, mentre, nel momento stesso in

cui il plot narra l’impossibilità di quel personaggio di attuare tale controllo, ma di

trovarsi invece su un percorso obbligato dal quale non può uscire, si può chiaramente

osservare una struttura a «corridoio».

Vengono a proposito alcuni modelli. Ad esempio The Killing (1956), dove la visione

prospettica è riscontrabile nei momenti in cui la rapina viene organizzata e durante la

sua esecuzione, mentre la presenza di corridoi (scenici o fotografici) si ritrova

soprattutto nella seconda parte del film, quando prende corpo narrativo la rovina dei

protagonisti.

Oppure Lolita (1962), in cui la prospettiva centrale concerne soprattutto il personaggio

di Quilty, che nel plot assume le fattezze di burattinaio sia nei confronti di Humbert che

40
Ivi, p.121
41
Sergio Toffetti, op. cit., pp. 57-8
211

di Lolita. Tuttavia, quando il commediografo perde il suo potere e viene ucciso da

Humbert42, si può osservare l’unico corridoio peculiare per Quilty, e cioè un carrello di

avvicinamento verso il quadro dietro il quale l’uomo è stato colpito.

Riguardo a Dr. Strangelove (1964) si ricorda esemplarmente che la War Room, luogo in

cui vengono dati gli ordini per scongiurare il pericolo atomico, è ripresa essenzialmente

in prospettiva centrale. L’unico corridoio all’interno della War Room consiste in un

carrello a precedere l’ambasciatore russo nel momento in cui il diplomatico spiega che,

non appena il suo territorio verrà colpito, un computer, sul quale non si può intervenire,

farà scoppiare la Bomba Fine del Mondo.

A proposito di A Clockwork Orange (1971) è osservabile una visione prospettica, ad

esempio, all’interno della casa degli Alexander prima della violenza portata dai Drughi.

In tale ambiente si notano lo scrittore e sua moglie che stanno trascorrendo una

tranquilla serata, ma non appena Alex e i suoi Drughi suonano alla porta dell’abitazione

“la donna [Mrs. Alexander] sale quattro gradini che portano a un corridoio [scenico] e si

allontana verso il fondo, mentre il campanello continua a suonare. (…) Un corridoio con

parete di destra e soffitto in legno chiaro, parete di sinistra a specchio e pavimento a

scacchi bianchi e neri”43.

The Shining (1980) evidenzia lo stilema visivo della prospettiva quando, ad esempio,

Jack osserva il modellino del labirinto, mentre, contemporaneamente, il figlio Danny e

la moglie Wendy stanno giocando nel “vero” labirinto. Tale scena darebbe forma, come

sostengono Lasagna e Zumbo, “all’apparente dominio umano sulla realtà che si

dimostra soltanto una pretesa ”44. Al contrario, l’altro stilema, il corridoio, sarebbe

visibile quando Jack telefona a Wendy dall’albergo, per comunicarle che ha accettato il

42
Su questo particolare punto cfr. Norman Kagan, op. cit., p. 108
43
Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick. L’arancia meccanica, cit., p. 36
44
Lasagna e Zumbo, op. cit., p. 199
212

lavoro di guardiano. Infatti, mentre la madre sta parlando al telefono, la macchina da

presa si avvicina a Danny, che si trova in bagno, prima in carrello in avanti e poi con

uno zoom. A questo punto Danny ha una “visione” su quello che succederà nell’albergo

e “sono le immagini del futuro atroce già previsto dal bambino, un futuro ancora una

volta ineludibile verso il quale il bambino stesso sembra dirigersi pedalando nel lungo

corridoio dell’hotel (…). Un altro corridoio dunque che torna nel cinema (…) di

Kubrick a incanalare il destino dei suoi protagonisti e a profetizzare un pericoloso

percorso obbligato”45.

Tuttavia l’esempio più significativo sembrerebbe quello di 2001: A Space Odyssey

(1968) in cui, quando narrativamente i personaggi ritengono di poter utilizzare il

monolite per scoprire la storia dell’universo, è riscontrabile la prospettiva centrale

(come durante la conferenza che Lloyd tiene agli altri scienziati), mentre nel momento

in cui gli extraterrestri guidano palesemente David si ritrova un corridoio, un tunnel

luminoso che sarebbe da leggersi come il “simbolo di un tragitto obbligato verso un

futuro indefinito”46.

Parrebbe quindi essere stata accreditata l’ipotesi di ricerca secondo la quale nella

filmografia kubrickiana la prospettiva “esprimerebbe proprio una volontà e una fiducia

di dominio, di centralizzazione”47, mentre il corridoio parrebbe guidare48 il

movimento49 dei personaggi lungo un tragitto50, un percorso obbligato51, come se essi

45
Paolo Lughi, Il prossimamente…, cit., p. 265
46
Ibidem
47
Ruggero Eugeni, Invito…, p. 121
48
Paolo Cherchi Usai, Kubrick architetto…, cit., p. 276
49
Si è già visto nel sottoparagrafo IV.2.1 come lo zoom all’indietro da un personaggio immobile sia un

caso particolare di corridoio e sempre riconducibile all’immagine dei pezzi di una scacchiera
50
Paolo Lughi, Stanley Kubrick: il prossimamente…, cit., p. 263
51
Sergio Toffetti, op. cit., p. 58
213

fossero dei pezzi di una scacchiera costretti a mosse determinate52 da un Autore di cui

essi non conoscono le intenzioni53.

In questa ricerca non è stato affrontato l’ultimo lavoro di Stanley Kubrick, Eyes Wide

Shut, film non ancora presente nelle sale cinematografiche italiane. Un’analisi

approfondita sull’eventuale presenza della prospettiva centrale e soprattutto del

corridoio in quest’opera ultima del regista americano potrebbe essere oggetto di un

futuro studio.

52
Eugeni, Invito…, cit., p. 136
53
Ivi, p. 126. A questo proposito sempre Eugeni, Ivi, p. 123, afferma che “per quanto concerne l’agire

cognitivo emerge dai film di Kubrick l’incapacità di comprendere esattamente quanto sta accadendo: i

personaggi si muovono in un universo che sfugge alla loro comprensione”.


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