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1
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976
laghetto baby sitter annoiate incrociano frotte di impiegati in pausa
pranzo, tutti a dar da mangiare ai cigni che allungano spasmodico il
collo sulle rive. So di trovarmi in un quartiere simbolo. Un bizzarro
mix tra la città ideale del rinascimento italiano e une versione
sterilizzata e un po’ kitsch del sogno suburbano americano. È facile
qui sentirsi inseguiti dall’ombra del suo creatore, quel Berlusconi che
tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta confidò ai suoi primi
soci di impresa: «Io farò una città dove c’è tutto, dalla clinica dove si
nasce al cimitero»2.
2
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 9
3
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 58
4
G. Ruggeri, M. Guarino, Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, 1994, p. 46
proposta da meditare, un suggerimento concreto per il futuro della
città». Che a sua volta riprendeva quelli pubblicati nelle inserzioni
sui giornali, come il prestigioso Corriere della sera. Insistenza sulla
novità del progetto, con toni quasi utopici («Milano 2: un nuovo
modo di costruire»; «Una proposta abitativa d’avanguardia»).
Ricorso continuo alla legittimazione fornita dai saperi tecnici
(«Soluzioni urbanistiche veramente inedite»). Abuso della retorica
del fare («Dopo tante parole finalmente un’iniziativa concreta»).
Spudorata capacità di negare ogni evidenza («Un’alternativa
all’espansione edilizia disordinata e parassitaria»). Attenzione alla
sfera di una libertà individuale e quasi ludica («Proposte abitative
per le diverse esigenze», «Il diritto di giocare»). Molto
dell’armamentario comunicativo del futuro “presidente operaio” è già
leggibile in questi frammenti.
Il progetto Milano Due rappresentava, tra la fine dei Sessanta e
l’inizio dei Settanta, nel pieno dell’era della contestazione,
l’affermazione – passo dopo passo – del paradigma dello status
symbol. Non si trattava semplicemente di complessi residenziali,
bensì della manifestazione spaziale di un nuovo stile di vita.
Berlusconi si assicurò che i residenti fossero isolati dagli aspetti
“sgradevoli” della vita cittadina: traffico, criminalità, immigrazione,
operai scioperati, la città stessa. La “nuova Milano” fu creata secondo
una serie di caratteristiche architettoniche innovative. Il quartiere
era separato in modo netto dal resto della città, delimitato da muri,
ponti, strade. Gli edifici erano per la maggiorparte orientati verso
l’interno del complesso e raramente verso il territorio circostante,
circondati da verde e con un laghetto centrale. Un efficiente sistema
di portineria e vigilanza, sia diurna che notturna, completava il
quadro della sicurezza interna. Il caso di Milano Due è
esemplificativo della ridefinizione dei canoni che sono alla base dei
processi di progettazione e costruzione dello spazio urbano, e inoltre
è simbolicamente legato alla profonda trasformazione che
caratterizza la vita culturale italiana dalla fine degli anni Settanta5.
L’eterno profumo di Strapaese si mischia alle luci seducenti della
neotelevisione. La “rivoluzione conservatrice”, ossimoro efficace per
descrivere le trasformazioni politiche che alfine ne matureranno, era
già lì. In tutto ciò, solo agli inizi, l’idea della televisione era
considerata appena un servizio aggiunto, un fringe benefit, qualcosa
di simile al frigobar e allo schermo nelle camere d’albergo, un dippiù
5
E. Bazzaco, N. Origoni, Mia Milano: quale città, in www.eddyburg.it
per incrementare le vendite. «Come gli mettiamo la piscina – è il
ragionamento di Berlusconi – mettiamogli anche la televisione a
circuito chiuso»6.
6
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 47
7
Ibidem, pp. 33-34
aiutandosi coi finanziamenti della piccola banca in cui lavorava il
padre8. Nel 1963, dopo questa modesta partenza, Berlusconi fece un
improvviso e inaspettato salto di qualità con un megacomplesso
residenziale per 4000 persone, il corrispettivo di un paese di discrete
dimensioni, in una posizione non molto promettente fuori Milano,
località Brugherio, dominata da stabilimenti industriali e chimici e
isolata dai negozi e dal resto della popolazione. Il fatto che un gruppo
di investitori fosse disposto ad affidare a un ventisettenne alle prime
armi un progetto di quella portata riflette il clima di boom edilizio
che si respirava nella Milano dei primi anni Sessanta e nel contempo
dice molto delle capacità persuasive di Berlusconi9.
Brugherio fu, per molti versi, il suo primo grande affare e definì lo
schema della sua carriera futura. Per il progetto fu assoldato un
gruppo di architetti giovanissimi, alcuni ancora studenti all’ultimo
anno di università, guidati da Guido Possa, e che in buona parte
ritroveremo nei futuri progetti edili berlusconiani10. Già allora l’idea
era quella di «offrire un ambiente e non semplicemente un
appartamento soleggiato»11. Quando il progetto fu avviato, nel 1964,
il mercato aveva iniziato a cambiare direzione e nel 1965, quando i
primi 140 appartamenti furono completati, era in una fase di stallo.
Per cercare di risollevare le vendite fu lanciata una campagna
pubblicitaria, anche con l’apertura di un punto vendita al centro di
Milano. Gli slogan pubblicitari e la persuasione del cliente, come
raccomandava sempre il capo, erano già metà dell’opera. Per
esempio, uno dei claim del progetto era: «Quando a Milano piove, a
Brugherio c’è sempre il sole!». E fa niente se non era esattamente
vero: a Brugherio c’è lo stesso clima di Milano – nebbioso, grigio e
umido – con l’aggiunta dello smog delle fabbriche 12. Dopo il primo
palazzo rimasto invenduto, i soci volevano chiudere. Berlusconi
insiste. Di fronte allo stallo del mercato e alla carenza di acquirenti
privati è capace di inventarsi anche metodi di persuasione meno
ortodossi. Le sue biografie autorizzate sono ricche di aneddoti in
odore di mito. Come quella volta che, per salvarsi dal fallimento di
Brugherio, decise di puntare sul mercato dei fondi professionali.
8
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 119
9
G. Fiori, Il venditore, 2004, pp. 29-31
10
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 16
11
Ivi
12
A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, pp. 34-35
Così, tra raccomandazioni di vecchi amici e corteggiamenti di
segretarie, si impegnò nel convincere i dirigenti di un importante
fondo pensionistico ad acquistare un blocco di appartamenti,
aiutandosi con un’elaborata messinscena. Per la vista al cantiere di
questi potenziali salvatori dell’affare, egli mise al lavoro tutti i suoi
uomini per ripulire, rassettare e rifinire tutto ciò che potevano, in
modo che quel posto sembrasse il più finito e presentabile possibile.
Per il giorno della visita Berlusconi fece in modo che un nutrito
gruppo di suoi parenti venisse al cantiere, fingendosi clientela
interessata all’acquisto di appartamenti. Il piano sembrava
funzionare quando arrivò «una cugina un po’ scema», secondo le
parole dello stesso Berlusconi, e iniziò a salutare e abbracciare tutti i
parenti. Il volto del dirigente del fondo pensioni si rabbuiò quando
divenne ovvio che era stato raggirato. «Che strano, evidentemente
tutti i vostri clienti non fanno parte di una cerchia molto ampia, visto
che si conoscono tutti». Poi si accese una sigaretta, gettò il pacchetto
nella toilette e disse a Berlusconi: «Caro giovanotto, qui è tutto molto
bello, bucolico ma, vede, ho appena finito le sigarette, quante ore mi
ci vogliono per comprarne un altro pacchetto?»13. La visita, quel
giorno, fu un disastro totale ma Berlusconi si diede da fare per
ribaltare la situazione. Alla fine il fondo di previdenza acquisto un
discreto numero di appartamenti a Brugherio, le banche finanziatrici
concessero nuovi generosi mutui, il mercato immobiliare conobbe
una fase di ripresa. In particolare il costruttore Berlusconi fece tesoro
della lezione del pacchetto di sigarette: era necessario dare appeal
alle zone periferiche, e soprattutto servizi. Così fu anticipata la
realizzazione di alcune strutture utili, come le scuole, il campo giochi,
una manciata di negozi e il mini-market, la cui realizzazione era
prevista soltanto al termine dei lavori. Berlusconi si applicò sulla
commercializzazione dei prodotti, sulla cura dei dettagli, sui rapporti
con i clienti. Non bastava vendere case: bisognava vendere il verde, i
servizi, i negozi, la sicurezza, il divertimento dei bambini, la
signorilità14. «La novità sostanziale stava nel ribaltamento
psicologico imposto da Berlusconi alla mentalità dei suoi clienti. Fino
a quell’epoca, un quartiere periferico sembrava destinato alle fasce
meno abbienti. Lui invece ribattezzò Brugherio con lo slogan: “Un
paradiso per quattromila”. E i proprietari dei suoi mille appartamenti
13
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 24-25
14
Ibidem, pp. 28-32
finirono per crederci, mentre gli urbanisti scuotevano il capo
increduli»15.
15
Ibidem, pp. 31-32
16
G. Fiori, Il venditore, 2004, p. 36
17
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, p. 24
18
A. Balducci, M. Piazza, Dal parco sud al cemento armato, 1981
spandono nell’aria, tutti quei soldi caduti dal cielo, una domanda
ossessiva, «da dove vengono tutti quei soldi?». Ci si ferma lì.
3. Reparto vendite
19
Ibidem
20
E. Bazzaco, N. Origoni, Mia Milano: quale città, in www.eddyburg.it
urbanizzazione primaria e secondaria. Queste opere sono già tutte
previste nei progetti della società perché sono un elemento che
caratterizza il tipo di intervento»21. Alcune peculiarità sembravano
allora distinguere la Edilnord da altri operatori del mercato edilizio:
un’ampia disponibilità di capitale finanziario, una crescente tendenza
verso la diversificazione delle proprie attività e, almeno a Milano
Due, una concentrazione sulle fasi iniziali (organizzazione,
progettazione) e finali (gestione) dell’operazione, delegando a
imprese esterne la fase della costruzione vera e propria22. In fondo,
Berlusconi ci tiene a non essere confuso con un banale palazzinaro.
«Chi è il palazzinaro?» gli chiedono in un’intervista. E lui: «Uno che
improvvisa il cantiere, costruisce uno stabile, ma non pensa
nemmeno al marciapiede, di cui deve incaricarsi il Comune»23.
Gli architetti che progettano Milano Due sono una piccola squadra di
giovani laureati da poco, alcuni già reduci dall’impresa di Brugherio:
Guido Possa, Enrico Hoffer, Giancarlo Ragazzi e un gruppo di esterni
che di volta in volta li affianca. Nella Edilnord, tra una
trasformazione societaria e l’altra, oltre a Silvio Berlusconi ci sono il
fratello Paolo, il suo compagno di liceo Romano Comincioli, il capo
delle relazioni esterne Vittorio Moccagatta, il giornalista Giorgio
Medail, l’eterno braccio destro Fedele Confalonieri. Berlusconi li
imbarca tutti sull’aereo e li porta a vedere le new town del nord
Europa, in Gran Bretagna, in Olanda, in Svezia24. Grazie a interviste
rilasciate dallo stesso Berlusconi, in una vecchia biografia scritta dal
giornalista Giorgio Ferrari, oppure in un lungo colloquio registrato
nel 2000 da Paolo Guzzanti e pubblicato nove anni dopo in un suo
libro, è possibile ricostruire i passi della nascita di questa “nuova
città” direttamente dalla testimonianza del suo creatore. È lui stesso
a spiegare che «preferivo avere a disposizione degli architetti giovani,
con cui stabilire un rapporto di collaborazione fortemente interattivo,
con cui poter progettare e adattare, discutendo i problemi man mano
che affioravano»25.
Uno dei primi problemi da affrontare fu quello della circolazione
stradale. Berlusconi insisteva per avere una città senza auto, o
21
A. Balducci, M. Piazza, Dal parco sud al cemento armato, 1981
22
Ibidem
23
R. Gervaso, La mosca al naso, 1980
24
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 21
25
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 18
almeno una città in cui auto e pedoni non avrebbero mai dovuto
incrociarsi. Per Milano Due il suo team adottò la soluzione di tre
circuiti del tutto indipendenti per vetture, biciclette e pedoni. «Mi
venne l’idea di trattare il traffico automobilistico alla stregua di un
fiume che scorre, cioè abbassato di qualche metro rispetto al livello
delle abitazioni e attraversato da numerosi ponticelli aventi pendenze
minime, in modo da favorire il transito di pedoni e biciclette. In
questo modo diventava possibile accedere a tutti i servizi senza
incontrare neanche un’automobile. Il sogno di chiunque,
insomma»26. Un’altra questione decisiva fu quella dei servizi. Grande
rilievo venne dato alle scuole e ai loro differenti raggi d’affluenza:
brevi per gli asili, uno per ciascuna delle tre unità di Milano Due; più
estesi per le due scuole elementari e per l’unica scuola media.
Numerosi erano i parchi giochi destinati ai ragazzi secondo le diverse
età. Il progetto prevedeva inoltre un edificio religioso, uno Sporting
Club e una piazza centrale che si affacciava su un piccolo lago
artificiale. «Era necessario vivificare il quartiere. Ricordo che per
vendere i negozi decisi di differenziare le locazioni a seconda delle
potenzialità di quel mercato per il singolo negozio, per cui a certi
negozi ho dovuto cedere anche gratuitamente i locali perché era
importante avere certi negozi, anche se non c’era un livello di vendita
da giustificarli. Avrebbe dovuto esserci anche un grande centro
diversificato per le mostre, ma il Comune non me lo lasciò fare»27. Si
decise che le costruzioni fossero di tre tipi: accanto alle costruzioni
basse a schiera, ospitanti al piano terra sotto i “portici” i negozi, ci
sarebbero state palazzine più alte, con la loro forma ad “elle” e a “c”,
poi ci sarebbero state le “torri” con appartamenti più lussuosi, e
infine altri stabili avrebbero ospitato un hotel, un residence, palazzi
di uffici. «Anche il concetto di personalizzazione dell’appartamento –
precisa Berlusconi – venne ampliato: al cliente volevo dare la
possibilità di collocare le pareti divisorie del suo appartamento e di
scegliere i materiali per i rivestimenti interni»28. L’ambiente fu
progettato valorizzando il verde, inteso come tessuto connettivo
dell’intero quartiere e dell’arredo urbano. «Pensando a Milano Due
realizzavo l’idea della “casa di campagna in città”, di una casa che
offriva molte delle comodità proprie di una città, senza doverne
sopportare il caos, lo smog, la penuria di spazio. Ero convinto che
26
Ibidem, pp. 34-35
27
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 96
28
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 35
Milano Due avrebbe attratto abitanti, prima ancora che per
l’accuratezza delle finiture o per le felici soluzioni date agli
appartamenti, per il fatto che soddisfaceva il desiderio di un diverso
stile di vita»29. Milano Due tuttavia non voleva essere una vera e
propria “città-satellite”, ma piuttosto una “città-figlia” della grande
metropoli, capace di svolgere, a differenza dei quartieri costruiti
secondo i criteri dell’edilizia popolare, un ruolo attivo. Sotto il
progetto di Milano Due stava un’ambizione smisurata. Berlusconi
all’epoca disse: «Superato il concetto del quartiere dormitorio (quello
che serve unicamente al pernottamento senza possibilità di
divertimento, di comunicazione, di relazioni sociali) e del quartiere
ghetto (dove esistono attrezzature capaci di favorire la vita
comunitaria embrionale e il divertimento, ma limitatamente alla
piccola comunità residente con tutti gli inconvenienti relativi, e cioè
vita privata sotto controllo, pettegolezzo eccetera), è stato allora
pensato un quartiere “aperto” che, per la sua particolare
conformazione, consenta ai residenti di conservare la privacy nelle
zone residenziali e di instaurare nei luoghi di incontro,
appositamente concepiti, una osmosi vitale e di rinnovamento
continuo con la grande città; un quartiere cioè che, superdotato per
quanto riguarda le attrezzature commerciali, sportive, ricreative e
culturali, funga da polo d’attrazione nei confronti della città stessa,
dando vita a un flusso di scambi sconosciuto ai quartieri fino ad ora
realizzati. Un quartiere pilota che, profittando di questa prerogativa e
di altre particolari caratteristiche ambientali, possa costituire un
teatro ideale per lo sviluppo armonico della vita sociale, familiare,
individuale»30. Un progetto, dunque, che va al di là della pura e
semplice speculazione immobiliare. C’era «la voglia e l’orgoglio di
inventare una nuova formula urbanistica»31. Ma anche quella di
vendere, conquistare clienti. «Devi conoscere ciò che vendi e devi
soprattutto far capire i vantaggi che può dare a chi lo acquista.
Questo valeva soprattutto quando si dovevano vendere le case: io non
dicevo che bella casa, ma illustravo come sarebbe cambiata la vita di
chi ci fosse andato ad abitare»32. Racconterà in seguito Berlusconi:
«Ho cominciato dall’edilizia perché, finita l’università, ho creduto,
guardandomi in giro e con pochi soldi che avevo in tasca guadagnati
29
Ivi
30
Ibidem, p. 36
31
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 98
32
Ibidem, p. 159
quando ero studente, che quello fosse un settore che poteva dare i
profitti più alti: si costruiva a 100 e si vendeva a 200. Sono entrato
nell’edilizia, ma ho cercato di innovare. Le innovazioni sono state
molte, ne cito una per tutte: quando l’edilizia ha cominciato a
perdere i vantaggi dell’avviamento, anziché costruire case sparse
abbiamo costruito dei quartieri. Così, una volta finita la prima parte
del quartiere, c’era la possibilità di vendere anche tutto il resto,
fornendo tra l’altro dei servizi che esulavano dal concetto ristretto di
“casa”. Ed è in questo modo che abbiamo avuto successo»33.
33
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 36-37
34
Ibidem, p. 37
35
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 116
36
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 21
lasso di tempo consentiva a Berlusconi di finanziare le operazioni. I
primi ad acquistare a Milano Due furono dei clienti che avrebbero
voluto metter su casa a Brugherio ma che si erano trovati di fronte al
tutto esaurito. La domanda per la cittadella in costruzione a Segrate
si fece così sostenuta che l’impresa si mise ad adottare il sistema delle
“ricevute provvisorie”, vincolanti solo per il compratore e non per
l’impresa costruttrice, imponendo anche il rogito prima dell’ingresso
nell’appartamento. «Alla media borghesia bisognava dare l’idea di un
salto di qualità, anche se per noi non comportava nessuna spesa in
più. Per questo ho fatto delle case che vendevo molto prima degli
altri e a un prezzo superiore»37. L’anno del boom fu il 1973:
Berlusconi disponeva di 30 accompagnatori e di 13 venditori. Nel
solo mese di maggio il valore degli appartamenti venduti ammontava
a 7 miliardi, di cui 1 miliardo e 700 milioni raccolto in un solo
weekend38. Per quella tipologia immobiliare, d’altronde, si trattava
quasi di un monopolio. Verso la metà degli anni Settanta si impose
però una nuova crisi del mercato. Allora, per vendere case e uffici la
Edilnord decise di ricorrere nuovamente agli investitori istituzionali
(anche di un certo livello, come la Banca d’Italia, la Ras
Assicurazioni, l’Ente Previdenziale Medici) che nei periodi di
recessione erano gli unici a potersi permettere acquisti. Grazie a
queste cessioni arrivarono a Milano Due molte famiglie affittuarie 39.
Nel 1977 il mercato del frazionato riprese vigore. Furono completati il
Centro Direzionale e la piazza che si affaccia sul laghetto artificiale.
Dopo un tentativo di realizzare un piccolo polo fieristico (fu lanciata
la manifestazione “Milano Vende Moda”), la maggiorparte degli spazi
furono acquistati da grandi aziende per i loro uffici, come la Ibm. I
rendiconti di Milano Due parlavano chiaro: quel milione e
quattrocentomila metri cubi di costruzioni su 713mila metri quadrati
di superficie erano diventati un grande business40. Alla fine del 1979,
quando tutto ormai era pressoché costruito, le abitazioni ancora
disponibili raddoppiarono di valore. Un appartamento a Milano Due
era ormai uno status symbol.
Addirittura si parlò di replicare il modello all’estero. A quanto pare,
Berlusconi cominciò a trattare il progetto di una San Paolo Due in
Brasile e perfino quello di una Teheran Due in Iran, su invito della
37
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 159-160
38
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, pp. 38-41
39
Ibidem, p. 50
40
Ibidem, pp. 50-51
sorella dello Scià di Persia allora ancora al potere41. Non se ne fece
nulla, ma in compenso si tentò di replicare più vicino. Berlusconi ci
provò con Milano Tre, nel comune di Basiglio, ben più lontana dalla
vera Milano, che però non sarà affatto la fotocopia del precedente
successo. Risente di un mercato che ondeggia, della nuova legge
urbanistica Bucalossi che stabiliva un aumento degli oneri relativi
all’edificazione dei suoli, dei frequenti cicli negativi nel business
dell’immobiliare. Risente anche di un Cavaliere edilizio già
crepuscolare, quello che annoiato dai vecchi giocattoli ormai guarda
altrove, alla tv, ultima frontiera del nuovo42. Uno strumento cresciuto
proprio, inaspettatamente, sotto i portici di Milano Due. Scriverà un
biografo francese, Eugène Saccomano: «Fa lesto i suoi conti. Tre soli
piccoli minuti di pubblicità televisiva valgono il prezzo d’un
appartamento in un complesso residenziale che ci sono voluti anni a
costruire e che ha richiesto investimenti molto costosi»43.
4. Garden cities
41
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 26
42
Ibidem, pp. 30-34
43
E. Saccomano, Berlusconi: le dossier vérité, 1994, p. 63
44
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1990, p. 38
Abbiamo visto come molti autori, teorici ed empirici, si sono
occupati, in ogni epoca, della città e della sua, diciamo così, “visione
morale”. Mentre nel passato gli studiosi non si erano curati
dell’architettura e dell’estetica del progetto urbano, la crescita delle
maggiori città europee e nordamericane nel XIX secolo fece sorgere
le nuove professioni dell’ingegneria civile e della pianificazione
urbana. Si sa che in passato erano stati fatti molti tentativi di creare
la città perfetta, con pochissimi risultati sul piano pratico. Ma
nell’Ottocento il bisogno forzato di imprimere una pianificazione a
un’espansione delle metropoli che pareva non conoscere sosta
impresse un nuovo impeto alla progettazione urbana utopistica. I
manuali di architettura e sociologia urbana spiegano di due tendenze
concorrenti nella visione utopica della nuova città, entrambe però
concordi sul fatto che, per quanto la moderna metropoli industriale
fosse riuscita a incanalare il commercio e ad organizzare il controllo
politico, lo aveva fatto ad un costo in termini morali, spirituali, etici e
ambientali non più sopportabili45. Nella prima corrente di pensiero
viene incluso quel coro di voci appartenenti all’opinione pubblica
colta che vedeva nel modello di città classico e rinascimentale l’apice
della civiltà moderna, preoccupandosi in particolare dell’impatto che
la rivoluzione industriale poteva avere sulle occupazioni tradizionali
e le comunità locali. Sia i commentatori liberali che quelli
conservatori trovavano che vi fosse qualcosa di negativo nella città
industriale e commerciale, ma ciò che univa queste visioni
“tradizionaliste” o, già all’epoca, “nostalgiche” era la ricerca di quella
che Bruno Zevi chiamava la “città a scala umana”. Si andava così a
invocare, e progettare, un revival delle comunità civiche a bassa
densità, sotto le varie definizioni di new town e garden cities46. La
seconda corrente di pensiero è associata invece alla rivoluzione
estetica e artistica del modernismo, con il suo innamoramento per le
linee minimaliste, pulite e astratte, che doveva diventare la firma
collettiva di una nuova generazione di urbanisti ai quali la città
appariva come un luogo dalle infinite possibilità sperimentali47. Le
Corbusier ne fu il simbolo, attraverso il progetto della “città
funzionale” e con il passaggio dalla scala orizzontale a quella
verticale, espresso in modo particolare nelle unité d’habitation,
45
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, pp. 77-78
46
Ibidem, p. 78
47
Ivi
blocchi di torri geometricamente ordinate che sarebbero poi
diventate emblematiche dei programmi di edilizia popolare che
cominciarono a definire il paesaggio urbano delle città grandi e
piccole di tutto il mondo, a partire dagli anni Cinquanta. D’altronde
fu il suo best-seller Verso un’architettura, pubblicato nel 1923 a
contenere la famosa (o famigerata) affermazione secondo la quale,
come un aereo è una macchina fatta per volare, così «una casa è una
macchina fatta per abitare»48.
Sicuramente ciò che sembra fare al caso nostro è la prima delle due
correnti di pensiero, quella che poi sfocerà nello sviluppo del City
Beautiful Movement, del New Town Movement, del Garden City
Movement. Il suo massimo ispiratore è Ebenezer Howard, un inglese
emigrato negli Stati Uniti a ventuno anni, dove trovò lavoro come
stenografo a Chicago e si appassionò a talune letture di pensatori
spiritualisti alla Withman o utopisti alla Bellamy, e una volta tornato
in Inghilterra divenuto impiegato del tribunale di Londra. di Londra.
Non doveva essere molto indaffarato sul lavoro se nel 1898 trovò il
tempo per illustrare le sue teorie in Tomorrow, a paceful path to
real reform, opuscolo ripubblicato quattro anni dopo col titolo che lo
rese famoso, L’idea delle città giardino. Questo diventò il manifesto
di un nuovo movimento per la pianificazione, la Garden City
Association, che Howard aveva contribuito a fondare e che avrebbe
esercitato un forte influsso sulla pianificazione urbana
contemporanea in tutti i paesi anglosassoni49. Come ogni utopista
che si rispetti, alla base del suo piano c’era una big idea: salvare la
città dal congestionamento e la campagna dall’abbandono. La tesi di
Howard era piuttosto semplice: egli pensava che, tra il risiedere in
città oppure in campagna, ci fosse una terza alternativa «nella quale
tutti i vantaggi della vita cittadina più esuberante e attiva e tutte le
gioie e le bellezze della campagna si ritrovano in una perfetta
combinazione; e la certezza di poter vivere questa vita costituisce la
calamita che darà i risultati per i quali noi tutti stiamo lottando – lo
spontaneo muoversi della popolazione, dalle nostre affollate città
verso il cuore della nostra buona madre terra, fonte, insieme, di vita,
felicità, ricchezza e potere»50. La città giardino da lui immaginata
avrebbe unito i vantaggi della vita urbana ai piaceri della campagna
48
Ibidem, pp. 88-89
49
Ibidem, pp. 79-85
50
E. Howard, L’idea delle città giardino, 1962, p. 5
(uno slogan destinato, insomma, ad avere successo). In un certo
senso Howard – e non è il solo nella storia – non ha fiducia nelle
grandi città, e pensa che queste debbano essere divise in piccole unità
autosufficienti. Per il compianto Bruno Zevi, «come scrittore e
sognatore di nuove comunità, Howard è l’ultimo della lunga schiera
di utopisti del XIX secolo; come statista e realizzatore, è, più che un
profeta, il primo campione dell’urbanistica moderna»51. Non che lui
fosse il tipo autoritario che desiderava «muovere la gente di qua e di
là, come pedine su una scacchiera», ma era convinto che «le città
giardino fossero semplicemente i veicoli di una ricostruzione
progressista della società capitalistica che l’avrebbe resa simile a
un’associazione cooperativa di comunità affini». L’uso della metafora
della calamita voleva proprio mettere l’accento sulla sua convinzione
che, per riuscire ad affermarsi, la città giardino deve vendersi da sé,
deve essere una comunità di elezione invece che obbligatoria52.
L’essenza della città utopistica di Howard è la comunità autonoma
tipica del villaggio feudale, collegata a un limitato sviluppo
industriale e messa in condizione di utilizzare i moderni mezzi di
trasporto per collegare l’uno con l’altro i centri urbani. Caratteristica
importante del progetto è, infatti, che questi “satelliti” fossero
collegati tramite ferrovie a una città centrale, in un insieme urbano
che Howard designava con il termine di “città sociale”. Al fine di
impedire che le città si fondessero l’una con l’altra, vi sarebbe stata,
tra un insediamento e l’altro, una cintura verde di proprietà comune,
formata da «campi, siepi e terreno boschivo»53.
Nel 1902 Howard mise alla prova le sue idee acquistando terreni a
Letchworth, un paesino a circa 35 miglia a nord di Londra e facendo
costruire un prototipo della città giardino. Poiché spesso l’urbanista
ha sentimenti totalitari, la vita nella città fu regolata
minuziosamente. Tutto era organizzato, non solo venne prescritto il
rapporto tra case e giardini, ma si vietò di aprire negozi in locali di
abitazione, si obbligò a cambiare zona agli artigiani che volevano
diventare piccoli industriali, si limitò il numero di professionisti in
ogni quartiere in modo che ognuno potesse avere abbastanza
clientela54. Nonostante tutto, il modello delle garden cities ebbe una
51
B. Zevi, Storia dell’architettura moderna. Dalle origini al 1950, 1961, p. 70
52
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 81
53
Ibidem, p. 82
54
S. Ballinetti, New town, old dream, in “Europa”, 3 aprile 2009
forte influenza sulle politiche urbane di vari governi, specialmente in
Nord Europa e negli Stati Uniti. Soprattutto nell’Inghilterra del
dopoguerra si svilupparono molte new town, che potremmo definire
figlie delle città giardino. Le new town seguono generalmente uno
schema urbanistico definito: al centro si trova un’area
amministrativa-commerciale, circondata interamente da quartieri
residenziali, separati a loro volta da parchi e piccole aree agricole,
caratterizzati da colorate villette a schiera con il tradizionale
giardino55. Così, da un lato le new town sono diventate dei discreti
quartieri residenziali, con gestione e prezzi da classe medio-alta, per
liberi professionisti o manager che lavorano nella vicina metropoli e
non certo per piccoli operai e agricoltori come immaginava
quell’utopista di Howard. Dall’altro verso invece le new town hanno
costituito la premessa per l’isolamento e il degrado di quartieri
periferici destinati a ceti medio-bassi, poveri o immigrati, come
quelle banlieues parigine agitate, agli inizi degli anni Duemila, dai
fuochi di un’esasperata rivolta.
55
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 83
l’erba»56. Negli anni del boom economico per frenare la crescita
incontrollata delle grandi città (Roma, Napoli, Milano, Torino)
vennero proposti faraonici progetti di new town da realizzare anche
in Italia. Si parlò molto della costruzione di due new town, una a
nord e una a sud di Roma, collegate alla capitale tramite due
superstrade, ma poi il progetto cadde nel vuoto57. Allo stesso modo,
negli anni Ottanta, nacque in ambito politico craxiano il progetto di
“MiTo”, presunta new town da insediare tra Milano e Torino, e lo
stesso allora premier Craxi vagheggiava “Mediterranea”, di qua e di
là del Ponte sullo Stretto, pure quello da realizzare58.
56
S. Ballinetti, New town, old dream, in “Europa”, 3 aprile 2009
57
Aa. Vv., New Town, in it.wikipedia.org
58
F. Ceccarelli, Il sistema del mattone, in “La Repubblica”, 9 dicembre 2008
59
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 110
60
R. Yates, Undici solitudini, 2009, p. 10
viene presentata come un’enclave della classe media,
sostanzialmente bianca, progettata per persone con poco più di
trent’anni, dove erano le donne, spesso casalinghe, a mantenere le
relazioni sociali, con un melting pot di religioni che però si arresta di
fronte alla possibile ammissione dei neri, dando adito a sentimenti
che si fondavano «non tanto sull’odio razziale quanto sulle paure di
natura economica e sociale». In questo suo studio degli anni
Cinquanta, intitolato How the New Suburbia Socialises, White
arrivava a una conclusione sul rapporto tra carattere e ambiente per
cui sarebbe il luogo a determinare il carattere di chi ci vive. Scriveva:
«Un tempo la gente odiava ammettere che il proprio comportamento
fosse determinato da qualcosa che non fosse la propria libera
volontà; questo però non vale per quelli che vivono nei sobborghi,
che hanno piena consapevolezza del potere pervasivo esercitato su di
loro dall’ambiente. Questo infatti è uno degli argomenti di cui
preferiscono parlare; e con questa crescente curiosità tutta laica
verso la psicologia, la psichiatria e la sociologia, essi discutono della
loro vita sociale usando una terminologia clinica che ci sorprende.
Ma non la vivono con disagio, perché le cose stanno così, sembra che
dicano, e il trucco non è combatterla ma comprenderla» 61. È questa la
vittoria di una città chiusa, una città che non è una città, e che già
pare anticipare le tendenze future delle gated communities, dei
villaggi monoculturali e semiprivati.
61
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 111
tratta di comunità formate da cittadini sostanzialmente omogenei
per reddito, etnia, cultura, atteggiamenti e attese nei confronti della
vita. Evidentemente non tutto è così semplice come sui depliant
pubblicitari: ci sono dei nemici interni, come la delinquenza
giovanile, e degli agguerriti oppositori esterni che, quando si
ritengono lesi dalla privatizzazione di un bene pubblico (reti stradali,
parchi o servizi pubblici rimasti compresi nelle enclave) fanno causa
e la vincono62. Tutto richiama alle strategie difensive, dalla
militarizzazione dell’architettura degli edifici all’innalzamento di
barriere verso i settori popolati da differenti strati sociali,
dall’introflessione di spazi commerciali e di svago fino alla
trasformazione di abitazioni private in veri castelli fortificati.
62
A. Gazzola, Intorno alla città. Problemi delle periferie in Europa e in Italia, 2008,
p. 54
63
S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, 2006, p. 112
64
G. Ferrari, Il padrone del diavolo, 1990, p. 39
l’Utopia di Thomas Moore è un libro che spesso Berlusconi
raccontava di regalare agli amici. Di più: lo fece direttamente
pubblicare in Italia, in cinquecento copie numerate e rilegate in oro
dalla sua prima casa editrice, nel 1978, in occasione del quinto
centenario della nascita dello scrittore. «Ancora universitario, avuto
tra le mani il libro di Thomas Moore, mi sono innamorato di Utopia e
ho incominciato a sognare di costruire un giorno una città perfetta
che si chiamasse così». Non lo diceva per scherzo. E difatti
l’intervistatore gli chiede: c’è riuscito? «Non ci sono evidentemente
riuscito, ma progettando nuove unità urbane, sia in Italia che in altri
Paesi, ho tentato sempre di avvicinarmi il più possibile a un modello
di città, un mio modello, senza colate di cemento, senza condomini
ad alveare, senza automobili, che potesse essere, per i suoi abitanti, il
teatro ideale per una vita più serena»65.
5. Milano Due
65
S. D’Anna, G. Moncalvo, Berlusconi in concert, 1994, p. 112
«Milano Due: operazione aria pulita». La separazione dei percorsi
pedonali e veicolari era ovviamente presentata come una soluzione
rivoluzionaria, profondamente innovativa. Nessuno ci aveva mai
pensato prima: «Milano Due è il primo esempio di città dotata di un
triplice sistema stradale completamente differenziato»66. Quella della
specializzazione funzionale dello spazio stradale era in realtà da
molto tempo un tema non solo ricorrente, ma persino banale del
dibattito urbanistico. Milano Due ne fa un’operazione sistematica e
vagamente spettacolarizzata, come si conviene alla volgarizzazione di
una soluzione che, ormai slegata da alcuna ricerca disciplinare, serve
soprattutto a costruire un’immagine di qualità, una nuance di
apprezzabile decoro67. Ho l’impressione che questa chiave di lettura
sarà una costante nella mia breve osservazione – diciamo etnografica
– di questa cittadella.
Ai lati della strada di spina, a ogni scalinata che la collega coi percorsi
ciclo-pedonali, accurati cartelli segnalano le residenze e i negozi e le
attività sociali che si trovano nei pressi. Ci sono molte panchine,
qualche cabina telefonica, genere ormai diventato vintage per i
progressi della telefonia mobile, ma qui ancora tenuta in perfetto
stato, e poi delle mappe nello stile delle mappe comunali che nelle
grandi città servono a indirizzare il turista disorientato. Ringhiere,
lampioni, pali, cancelli del quartiere sono tutti di un tipico e
compatto colore rosso, marchio cromatico di identificazione del
quartiere, come una silenziosa linea di demarcazione tra ciò che è
dentro e ciò che è fuori. La fluidificazione e soprattutto
canalizzazione dei percorsi per veicoli motorizzati avviene attraverso
rotonde e strade che innervano il quartiere come vene sottopelle, fino
ai garages posti sotto i palazzi residenziali, sotto i complessi di uffici,
sotto i prati da cui capita, all’improvviso, di vedere aprirsi delle
grandi prese d’aria. Un semiotico si soffermerebbe a riflettere sul
fatto che ogni percorso narrativo viene esplicitato, si tratta di un
ipercodifica, come avrebbe detto Eco trent’anni fa, vale a dire la
predisposizione di sceneggiature e di istruzioni per l’uso, in questo
caso relativamente ai luoghi, come del resto si confà a un posto
creato avendo bene in mente valori sia utopici sia pratici. Più
prosaicamente, mi viene in mente un vecchio monologo comico di
66
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, p. 44
67
F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio
2001
Beppe Grillo, prima della sua trasformazione in guru della
contestazione politica. Raccontava di una volta che era stato a Milano
Due: «Tutto ordinato, pulito, perfetto… Entri e c’è un laghetto con un
cartello con su scritto “laghetto”, poi trovi un ponticello e c’è scritto
“ponticello”. Poi dici: “Mica mi stanno prendendo per il culo?”, e c’è
un cartello che dice “Si, ti stiamo prendendo per il culo”»68.
68
B. Grillo, Tutto il Grillo che conta: dodici anni di monologhi, polemiche, censure,
2006, p. 160
69
F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio
2001
un universo perfetto»70. L’omicidio di quei genitori che avevano
realizzato per loro quella utopia residenziale non rappresentava l’atto
di fondazione di una setta o un gesto rituale, ma la semplice
eliminazione dell’ultimo ostacolo da rimuovere per conquistare la
propria identità.
72
F. De Pieri, P. Scrivano, Milano 2, abitare nel marchio, in “Il Manifesto”, 14 luglio
2001
73
Aa. Vv, Milano 2: una città per vivere, 1976, pp. 32-33
tifo, infine leader del partito di maggioranza relativa e comandante in
capo del loro (e di tutti gli altri) governo.
74
G. D’Imporzano, 2009 Fuga da Milano Due, in “L’Espresso”, 5 dicembre 2009
condominiali e lotte all’ultimo sangue sui decimi catastali, terreno da
sempre minato. Una volta fu lo stesso Berlusconi a ricordare di
quando nella sua Milano Due fu il legislatore delle spese
condominiali, «quindi un’esperienza in cui mi sono formato proprio
in trincea, sentendo da vicino la signora Maria o il commendatore
Giuseppe che protestavano. Quando uno ha fatto la Bicamerale
sembra ridicolo, però erano problemi»75. Secondo Roberto, il vero
problema di Milano Due oggi sono il traffico e i parcheggi. Ma come,
non era la città senza auto? Il fatto, mi spiega, è che il numero dei
possessori di auto è aumentato. E c’è chi teme anche l’avvio di nuovi
progetti edificatori nei terreni circostanti rimasti vuoti. Allo stesso
tempo bisogna fare i conti con presenze ingombranti, come quella del
mega-ospedale San Raffaele, la casa di cura dove un prete
attivissimo, don Verzè, dice che l'immortalità terrena non sarà
peccato76, nel frattempo macinando sempre nuovi lotti di terreno, e
che pure fu provvidenziale per ottenere, negli anni Settanta e con
buoni agganci politici lo spostamento delle rotte dei fastidiosi aerei in
decollo da Linate77.
75
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 117-118
76
S. Rossini, Sono il bisturi di Dio. Intervista a don Luigi Verzé, in “L’Espresso”, 30
aprile 2004
77
A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, pp. 40-41
sembrava poco fa di camminare in un plastico, ma invece gli chiedo
se anche lui ha notato dei cambiamenti negli abitanti e nella
comunità di Milano Due, col passare degli anni. Mi dice che quando
arrivò qui con la famiglia erano contenti, perché dava l’impressione
di un paese. Anche negli aspetti potenzialmente negativi: un posto
dove ci si conosce tutti, e tutti credono di sapere tutto di tutti, con gli
immancabili pettegolezzi. Ricorda le prime riunioni di comprensorio
fatte al bar sotto i portici, oppure allo Sporting Club. Anche lui è
preso dalla nostalgia del “pioniere”, dal non riconoscere più quelli
che sono arrivati dopo e abbandonano i “valori fondanti” della
comunità. Anche lui soffre della nostalgia per “la Milano Due di una
volta”, in questo singolarmente accomunato al ragazzo poco più che
ventenne incontrato prima. «Molti altri, specialmente i nuovi arrivati
o quelli più giovani, non fanno vita di quartiere, non sentono la
comunità. Usano il quartiere come un dormitorio. Questa per me è
una cosa preoccupante: quando non ci saranno più questi comitati di
residenti, questi vecchi dirigenti, che fine farà Milano Due? Non c’è
una seconda leva. Molti si lamentano della troppa calma, ma io dico
che anche in città la sera è lo stesso mortorio». Come per tutti i
residenti di vecchia data, anche nella libreria di Roberto campeggia
una copia del volume della Edilnord, Milano 2: una città per vivere.
All’interno ci sono molte fotografie, di qualità diseguale (tra i
fotografi compare anche Paolo Berlusconi). Testi che saccheggiano il
gergo delle relazioni tecniche degli architetti e degli urbanisti.
Occasionalmente, brevi inserti letterari firmati tra gli altri da Gianni
Brera, Natalia Aspesi, Enzo Siciliano, Isa Vercelloni. Evidenzio
l’ironia del destino di molte firme “di sinistra”, sicuramente avverse
al sistema berlusconiano nei decenni successivi, che si sono ritrovate
a tessere l’elogio dell’idea berlusconiana di Suburbia degli anni
Settanta. Non potevano certo immaginare, mi dice, eppure quello che
lui ha fatto era già allora sotto gli occhi di tutti. In bene, si intende. È
irritato da quelli sono accecati dal pregiudizio politico, da quelli che
quando sentono “vivo a Milano Due” subito ti guardano male perché
odiano Berlusconi, come quelli che quando gli dici “sono di Latina”
subito fanno la faccia brutta e pensano a Mussolini.
Una cosa è chiara: Milano Due non era solo un progetto residenziale,
era una dichiarazione culturale. L’ha ben descritta il giornalista
Alexander Stille: «In un’epoca in cui gli squatter occupavano le case
come gesto di affermazione politica e in cui vi era una forte pressione
sociale perché le persone si dissociassero da tutto ciò che era
borghese, Milano Due era un’oasi di lusso e abbondanza
all’americana, un mondo separato rispetto al centro di Milano, dove i
cortei degli studenti di destra e di sinistra si scontravano e si
lanciavano bottiglie molotov per le strade. Milano Due era un luogo
dove un uomo poteva portare un rolex e una donna indossare una
pelliccia senza timore né vergogna. Naturalmente il denaro più
stagionato di Milano viveva ancora nella riservata eleganza dei
palazzi del centro attorno a via Manzoni o nelle vecchie ville fuori
città, ma Milano Due offriva una vita di consumismo esibizionista a
una nuova classe di manager in ascesa, dirigenti di medio e alto
livello, mediatori finanziari e pubblicitari. Nella cultura sinistrorsa
dell’epoca, Milano Due rappresentava una sorta di contro-
controcultura che anticipava la versione italiana del fenomeno
“yuppie” degli anni Ottanta»78.
80
V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V.
Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, p. 59
81
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, pp. 93-94
82
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 38
proposito, fiorirono emittenti in tutta Italia e Berlusconi iniziò a
costruire il suo impero mediatico. La sua strategia, come ha
osservato Giuseppe Fiori nella biografia Il venditore, prevedeva
quattro fasi tattiche connesse l’una all’altra. Prima fase: la pubblicità.
Berlusconi creò speciali squadre di venditori. La sua televisione
riuniva il mezzo, il messaggio e la centralità della vendita. Come ebbe
a dire, «io non vendo spazi, vendo vendite». I profitti dell’azienda
pubblicitaria di Berlusconi, Publitalia, aumentarono di 73 volte tra il
1980 e il 1984. La tv di Berlusconi «capovolse il nostro modo di
guardare la tv. Invece di interpretarla come una serie di programmi
con interruzioni pubblicitarie, Berlusconi considerava la televisione
“libera” e “privata” come un vasto territorio per la pubblicità, uno
straordinario veicolo di comunicazione commerciale»83. Seconda
fase: i programmi, soprattutto giochi a quiz, telenovelas, telefilm
americani e film, che spesso venivano cambiati secondo il volere
degli sponsor. Lo spettacolo aveva la funzione di attrarre
consumatori. Terza fase: le star, che cominciarono a comparire
personalmente negli annunci pubblicitari. Quarta fase: la sede a
Milano (il logo dell’azienda berlusconiana, il famoso Biscione, era un
simbolo di Milano e della casa automobilistica Alfa Romeo), con la
rapida estensione della copertura a tutto il Paese. TeleMilano iniziò a
trasmettere via etere, fuori dalla cittadella originaria di Milano Due,
nel 1978, in seguito all’installazione di un’antenna sul grattacielo
Pirelli84. Nel 1980 prese il nome di Canale 5, primo tassello
dell’impero Fininvest, poi Mediaset, scalando ascolti e fatturati,
modificando il costume degli italiani, le loro abitudini e i loro
consumi, il linguaggio e i loro sogni. Il negozietto sotto i portici di
Milano Due era stato abbandonato da tempo. Berlusconi e il suo
centro operativo milanese furono in grado di battere qualsiasi forma
di concorrenza, per mezzo di una controversa legislazione e di
importanti appoggi politici, come quello del Partito Socialista di
Craxi allora al governo.
83
F. Colombo, Le tra stagioni, in “Problemi dell’informazione” n. 4, 1990, p. 590
84
G. Fiori, Il venditore, 2004, pp. 91-95
voglia del popolo che ora si fa chiamare pubblico di intrattenersi,
divertirsi, comprare. È il primo – decisivo – avvicinamento tra
Berlusconi e l’immaginario collettivo italiano. Il feedback è palpabile,
le sue tv sono amate e seguite. Non sono mosse da istinti pedagogici,
non educano per forza gli spettatori, non ne censurano i desideri più
profondi, non promuovono ideologie di Stato ma di mercato.
Assecondano l’edonismo emergente della società italiana e il
desiderio di spettacolo85. Berlusconi alimenta quindi il proprio
successo economico insinuandosi nei luoghi, costruendoli e
promuovendoli, lì dove la vita sociale si dispiega e prende una forma.
La città di cemento prima, quella elettronica poi. Come ha scritto
Alberto Abruzzese: «Ha edificato il suo impero, speculando
alacremente e abilmente sul mattone e sull’immagine cinetelevisiva.
Sul più tradizionale strumento di costruzione del territorio fisico e
sul più avanzato strumento di comunicazione immateriale di cui si
serve la civiltà di massa. Due modi selvaggi di arricchire. Ma anche
due forme dell’abitare. Dalla centralità della casa alla centralità della
tv: è la storia della Prima Repubblica»86. È la costruzione di un
popolo. Ciò, nonostante risulti chiaro che «l’impero di Sua Emittenza
è fuorilegge», basato sull’aggiramento e la violazione delle regole87.
Allo stesso tempo egli abbatte il tempo delle morigeratezze statali in
favore di un edonismo privato e individualista. Ancora Abruzzese:
«Le emittenti private, con vecchi film o rozze sceneggiate in studio,
oroscopi o persino dibattiti politici, invadono la notte. Il tempo Rai è
vinto. La città di Stato non regge la domanda di evasione. Il cittadino
(anche se nella dimensione di avanguardia di massa) viene
sequestrato al rapporto equilibrato tra tempo di lavoro e tempo
libero. Gli spazi e gli orari tradizionali non bastano più»88.
85
V. Susca, Berlusconi il barbaro ovvero il primo tra gli ultimi, in A. Abruzzese, V.
Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, pp. 61-62
86
A. Abruzzese, Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto, 1994, p. 50
87
G. Fiori, Il venditore, 2004, p. 105
88
A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, 2001, p. 121
metropolitana e certamente suburbana – erano espressione e
contribuirono a creare gli anni edonisti del secondo boom degli anni
Ottanta. Si tratta del periodo storico in cui l’ascesa dell’economia
dell’immagine coincide con una profonda ristrutturazione del
sistema produttivo. Aumenta la quota economica di terziario e
servizi, vanno in crisi le grandi produzioni industriali, si moltiplicano
le piccole imprese. L’abbandono della politica, il declino dai valori
collettivi, il cosiddetto riflusso nel privato non erano altro che un
riflesso. «I varietà, i telequiz, gli innumerevoli spot pubblicitari, le
fasce orarie sponsorizzate e i telefilm importati sostituivano i vecchi
punti di riferimento in declino: la chiesa, i partiti di sinistra, il
movimento sindacale, i valori di parsimonia e sacrificio»89. Per altri
versi, Carlo Freccero ha osservato: la tv commerciale veniva a dare
un’identità alle periferie, che non trovavano risposta nelle grandi
narrazioni politiche di allora. E ha aggiunto: in una Italia dominata
dall’informazione e dalla politica il pubblico voleva divertirsi. Essere
inizialmente privi di telegiornali era un elemento di forza, non di
debolezza, di quelle televisioni90. Molti dei neoabitanti di Milano Due
furono i protagonisti del boom finanza / pubblicità / moda degli anni
Ottanta, quando Milano si scrollò di dosso la sua fosca immagine di
città industriale. La cittadella di Segrate diventerà sede di molte
aziende del gruppo economico berlusconiano, come Publitalia, e
residenza di molti suoi dipendenti, comprese alcune star delle sue
televisioni. Nel piccolo centro di produzione tv, proprio davanti al
laghetto dei cigni, vengono ancora registrate due trasmissioni
emblematiche del gruppo: il Tg4 di Emilio Fede e il varietà satirico
Striscia la notizia di Antonio Ricci. Passeggiando per il quartiere
inciampo in due ragazzini che tornano da scuola. Indicano col dito lo
studio a vetrata all'angolo della strada e sorridono. Dentro c’è Emilio
Fede e una segretaria che gli spalma del cerone sulla faccia.
89
S. Gundle, S. Parker, The New Italian Republic, 1996, cit. in J. Foot, Milano dopo il
miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 122
90
G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, 2009, p. 134
comprandosi un appartamento con la sua fidanzata. Lo incontro nel
suo ufficio, open space da creativo ma non troppo disordinato,
televisore acceso su un programma pomeridiano di Canale 5 dove
l’onorevole Alessandra Mussolini sbatte per terra un giornale e
strepita che lei coi video hard non c’entra niente. Chiedo a Marco da
dove viene questa attrazione per Milano Due. «Da ragazzino vivevo a
Milano città eppure già mi piaceva frequentare questo posto. All’età
di tredici/quattordici anni avevo una comitiva di amici e il nostro
punto di ritrovo era proprio il laghetto dei cigni». Conta molto, mi
sembra, la prospettiva del sogno: il sogno degli anni Ottanta, il sogno
della tv e della carriera, il sogno di un eden sereno e benestante.
«Milano Due è stata davvero di moda per qualche anno, ora si è
normalizzata, in un certo senso già appartiene al passato. Sebbene un
passato ottimamente mantenuto. L’allure borghese, la classe della
Milano da bere degli anni Ottanta, la tv e la pubblicità rampante,
quello era il mondo di riferimento di Milano Due, quel mondo che io
guardavo con desiderio già da ragazzino». Marco dice di aver scelto
di venire a vivere qui perché puoi avere tutto a portata di mano,
perché c’è silenzio e tranquillità, perché se dovesse avere un figlio c’è
un ambiente sicuro in cui farlo crescere. Le stesse caratteristiche per
cui molte persone, soprattutto giovani, odiano Milano Due. C’è
troppa calma, dicono. Io ho vissuto abbastanza nel caos del centro
città, dice Marco, per apprezzare il contrario. Nonostante ciò lui non
sta tutto il tempo dentro Milano Due. «Vado a Milano almeno due
volte al giorno, per appuntamenti e pranzi di lavoro ma anche perché
mi impongo di non farmi rinchiudere qui, di non assuefarmi. È facile
fossilizzarsi qui. Specialmente per chi, come me, ha la casa e il lavoro
a pochi metri di distanza». Mi ripete più volte questo concetto: «Per
me Milano Due è una specie di Truman Show. Vivi una realtà che
non si realizza altrove, è come stare in una bolla». Il problema è che
Milano Due sta invecchiando, aggiunge. A quanto pare c’è una
chiusura, un tappo generazionale anche qui. I prezzi troppo alti delle
case impediscono ai figli della prima generazione, o a quelli che
potrebbero esserlo, di riuscire a venire a vivere in questo quartiere.
Come se non bastassero i prezzi del mercato immobiliare, solo adesso
in leggero calo per la congiuntura economica, ci sono spese
condominiali altissime. Mi rivela che con la sua fidanzata deve
pagare circa 400 euro al mese per un appartamento di 100 metri
quadri. Gli appartamenti poi sono tutti di taglio grande, pensati per
le famiglie di un tempo, con due o tre figli. Poco adatti per un giovane
single o una coppia.
Insomma, è chiaro: «I giovani oggi non hanno accesso a Milano Due.
Loro, i vecchi residenti, lo hanno bloccato». Marco racconta di essere
l’unico giovane nella residenza dove abita. Si lamenta che è difficile
farsi amici in questo quartiere, creare relazioni di vicinato, quando
lui esce di casa la mattina spesso i vicini di palazzo nemmeno lo
salutano. Resiste un certo congenito snobismo, l’idea di appartenere
a una classe superiore, anche solo per il fatto di vivere qui.
«Comunque da Milano Due sono usciti tanti ragazzi, nati e cresciuti
qui, che ora sono in molti punti chiave della classe dirigente
milanese. Io la chiamo la P2 di M2, passami il gioco di parole. In
fondo quella di Milano Due è anche una lobby. Pensa che al piano di
sopra c’era l’appartamento di Dell’Utri. La prima moglie di Paolo
Berlusconi vive ancora qui. Lo stesso presidente, Silvio, possiede una
torre di appartamenti qui, se li tiene per le diverse esigenze. Le veline
di Striscia, nel loro contratto, hanno un appartamento garantito a
Milano Due. Fede lavora qui e vive nella residenza a nord, vicino al
San Raffaele. Ogni tanto capitava di vedere Vianello giocare sul
campetto di calcio, in fondo la famosissima Casa Vianello del telefilm
esiste nella realtà ed è domiciliata qui a Milano Due». È il mondo del
sogno berlusconiano, pazientemente coltivato, butto lì. Si, mi
risponde, ma fondamentalmente è un mondo invecchiato. «Quella
che si trovava negli anni 80 era davvero una Milano rampante,
“Milano da bere” come diceva la pubblicità, e qui si respirava davvero
l’aria di un Truman Show di bella gente. La cosa è scemata. Oggi è un
po’… bho, forse come Lugano». Come dimostrazione dei meccanismi
sociali di Milano Due, si mette a spiegarmi come funziona lo Sporting
Club, quello dove ci sono palestre, piscina, campi da calcio e da
tennis, sauna, sala per giocare a burraco, insomma il vero fulcro del
bon vivre del quartiere. Ovviamente, all’insegna della vera
esclusività. Non basta iscriversi (pagando un abbonamento di circa
1.500 euro l’anno) ma occorre acquistare una quota, come una
società per azioni, e le quote sono limitate e costano 5.000 euro
cadauna. Nel tempo, dice, si è creato un commercio sottobanco di
quote, a prezzi stratosferici, in un sistema un po’ opaco che a me
ricorda quello delle licenze dei tassisti.
91
J. Berger, Questione di sguardi, 2007, pp. 133-150
92
Ibidem, p. 134
93
Ibidem, pp. 141-142
visione “di sinistra”, di quella media borghesia pseudo-colta, disillusa
dalla politica e in cerca di un’isola di introiezione per dimenticare,
magari un casale in campagna o un agriturismo. Diceva ancora
Berger, chiudendo il cerchio, che «la pubblicità trasforma il consumo
in un surrogato di democrazia»94. Mi viene in mente che nel 1993,
alla vigilia dell’entrata in politica di Berlusconi, in allegato al
settimanale satirico Cuore, uscì una musicassetta intitolata Forza
Italia, nella quale, oltre alle canzoni Voglia di Biscione e Ritmo
politico, era presente un pezzo intitolato La vendetta del Mulino
Bianco. Ne riporto una strofa, a mio avviso particolarmente
significativa: «Il mio mulino non è proprio un mulino / sono due
camere al Tiburtino / e al mattino io mi sveglio affranto / altro che
biscotti mi ci vuole un trapianto / apro la finestra, senti che casino /
sirene, grida e squilli di telefonino / le nove del mattino, sono così
stanco / e questo non succede nel Mulino Bianco».
7. L’architetto di fiducia
94
Ibidem, p. 151
poli urbani stratificati nel tempo, già dotati di una loro identità, di un
loro senso di appartenenza. E se io ho una comunità che non ha
senso di appartenenza quella non è una comunità, è un qualche cosa
di fluttuante, in cerca di un’identità». Il punto nodale lo mette subito
in chiaro: in quell’epoca abitare in centro era da privilegiati e
borghesi, abitare in periferia era da classe operaia o da straccioni.
C’era grande fame di abitazioni e di speranze, ma non c’erano vie di
mezzo, almeno nell’immaginario popolare. «Noi abbiamo detto: ma
se rompiamo col cliché di sviluppo, di saturazione degli isolati, nella
griglia urbana tradizionale… evidentemente si poteva fare qualche
cosa che non si poteva realizzare all’interno della città storica, ormai
saturata nelle sue parti, e questo discorso ha portato all’invenzione di
un’alternativa alla griglia urbana fatta di isole». Si mette a disegnare
su un foglio. Mi spiega il reticolato urbano, il modello tradizionale di
strade e isolati, la soluzione del modello a penisola, con i percorsi
pedonali separati, la strada di spina centrale, i ponti di
sovrapposizione, il modello insomma tanto vantato da Milano Due.
Ma da dove arrivava l’ispirazione, c’erano dei modelli architettonici
cui rifarsi? A leggere il libro promozionale della Edilnord si legge di
un pantheon di riferimenti piuttosto eclettico. Si parla dei
Neighbourdhood Unity nelle new town inglesi, delle Superquadra di
Brasilia, delle unità di vicinato francesi e dei Grand Ensembles, e
perfino dei Superblocchi sovietici. Pare di leggere il primo manifesto
dei valori di Forza Italia, che prendeva riferimenti politici a destra e a
manca, da Einaudi a don Sturzo, da Cattaneo a Gioberti, da Craxi a
Reagan. «Innanzitutto sfatiamo questo mito delle new town. Cioè noi
le new town le abbiamo studiate, abbiamo capito che cosa era stata la
loro idea, da Ebenezer Howard a tutti gli altri, siamo andati a
vederle, ma abbiamo pensato che era una battaglia persa in partenza.
Nel senso che queste città non avevano un’anima, un’identità forte, e
quindi avrebbero fatalmente fatto perno di nuovo per le possibilità di
lavoro su Londra, sulla downtown, vanificando praticamente il
discorso di decentramento. Non era quello che faceva per noi. È
maturato così nella nostra testa il concetto che la città madre è
fondamentale. In questo telaio di città policentrica, abbiamo detto,
c’è spazio anche per dei poli minori, che possono fare da filtro per
quelle esigenze che normalmente gravitavano come risposta sul
centro della città madre, provocando naturalmente tutte le
conseguenze non volute di intasamento, di sovraffollamento durante
il periodo diurno, e scarsa risposta in termini di servizi… Perché
questo succedeva: periferie parassitarie che intasavano città senza
più spazi liberi. Tant’è che poi succedeva che la gente non trovava
posto nelle scuole, negli asili nido, nei servizi…». Chiedo se già
all’epoca non ci fosse un fenomeno di fuga dalla città da parte delle
classi borghesi medio-alte, a cui il loro progetto si rivolgeva.
«Assolutamente no. All’epoca venire ad abitare in periferia voleva
dire una caduta di status symbol, non era assolutamente ricercata.
Infatti noi abbiamo rischiato molto con questa proposta di Milano
Due, perché nessuno era intenzionato ad abitare fuori».
O forse l’idea dello status symbol suburbano già c’era, bastava solo
sapere annusare l’aria, saperla cogliere. «In questo Berlusconi è stato
bravissimo. Lui era un giovane imprenditore con una certa
propensione al rischio, cercava qualcosa di diverso, qualcosa che
potesse rappresentare la sua consacrazione. Io lo conobbi proprio
quando lui vendette uno dei suoi primi appartamenti a mio fratello, e
io gli raccontai un po’ di mie idee sulla città… Ecco, si decise di
puntare tutto su segmenti di mercato che mai avrebbero pensato di
abitare fuori città, con delle proposte concentrate su alcuni elementi
chiave: il recupero di spazi ampi, il verde, la sicurezza… il tutto
presentato come una grande, grandissima conquista».
Sull’architettura di Milano Due i commenti dell’epoca non furono
molto generosi. Spulciando vecchie pubblicazioni d’architettura ho
ritrovato opinioni, come quella di Vercelloni, che tracciano un elogio
del quartiere, definendolo come un progetto innovativo e osservando
finanche influenze di Le Corbusier95, oppure mi sono imbattuto in
vari commenti sprezzanti o critiche affilate, come quella di Squarcina
che parla di un quartiere concepito secondo la filosofia
dell’autosegregazione96. Persino un biografo ufficiale di Berlusconi, in
un libro del 1994 per il resto assai benevolo, non si trattiene da
qualche commento dispregiativo e scrive che «di mattina per i vialetti
deserti di Milano Due ci si sente soli, e vien da rimpiangere le voci e i
rumori della metropoli»97. Ricorda Ragazzi: «Lei si immagina nel
1968, nel 1970, cosa era considerato criminale all’epoca. Era
criminale essere un’impresa privata, era criminale lavorare con le
banche, era criminale anche avere un supermercato con gli espropri
proletari che facevano. Ricordo che anche la facoltà di Architettura
95
V. Vercelloni, La storia del paesaggio urbano di Milano, 1988, p. 143
96
A. Schiavi, E. Squarcina, M. Malvasi, Trasformazioni territoriali in contesto
metropolitano. I casi di Settimo Milanese e di Segrate, 1999, p. 192
97
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 22
era allo sbando: i professori non riuscivano a tenere le proprie
lezioni. Alcuni architetti erano arrivati sulla soglia di abbandonare la
professione, perché in una società come la nostra si sentivano al
servizio del capitale, strumentalizzati. Quanto a noi, gli attacchi a
livello locale erano amplificati dai media che ci avevo messo al centro
dell’attenzione. Su Milano Due furono scritte numerose tesi, perlopiù
fortemente critiche. Per non parlare di certi professionisti che
tentavano di cercare eventuali scheletri nell’armadio per affondare la
barca. Svariate commissioni d’inchiesta furono nominate dalle
segreterie dei partiti. Insomma gli attacchi erano così numerosi che
la mattina aprivamo i giornali per vedere cosa si diceva su di noi quel
giorno». Ma col passare del tempo anche questo fu un test per
stabilire che Milano Due non era un quartiere qualsiasi, ma una vera
e propria comunità. «Anche oggi si verificano attacchi della stampa
per motivi pressoché politici. Ebbene, guardi i vari giornali di
quartiere, veda come di fronte a certi attacchi scatta per primi dagli
stessi abitanti la reazione di difesa. Questo vuole dire che qui c’è un
senso di appartenenza consolidato. In molti altri quartieri la gente
rimarrebbe apatica, non gliene fregherebbe niente di una critica sul
giornale».
98
R. Bagnoli, L’architetto amico che progettò Milano 2: il premier mi ha chiamato, ci
sto lavorando, in “Corriere della sera”, 4 novembre 2002
99
Aa. Vv., Berlusconi: “Tre mie case per gli sfollati”, in www.corriere.it
100
G. Rondinelli, Riparte il piano case. “Faremo le new town”, in “Il Tempo”, 24
gennaio 2009
molto milanese. Non si può prenderla e portarla così com’è a
L’Aquila o altrove».
8. Spot elettorali
Per pranzo vado nel sushi bar appena inaugurato, con visione del
laghetto dei cigni dalla vetrata. Marco, il giovane agente di
comunicazione, mi aveva accennato ai “cinesi di Milano Due”, un
vero business-case di successo: gestiscono ristoranti, comprano case
e locali nel quartiere, fanno ottimi affari. Ora è tutto un via-vai di
signore che si congratulano e personale Publitalia in pausa pranzo. Al
centro della piazza una specie di obelisco, opera dello scultore Filippo
Panseca, celebra il primo decennale della città, con una frase scolpita
alla base: «A perenne ricordo della costruzione di Milano Due, Silvio
Berlusconi pose». Provo a immaginarmi, su quella stessa piazzetta, in
una sera umida dell’estate del 1979, Mike Bongiorno e il Cavalier
Berlusconi, in piedi su una cassetta di legno, che arringano una folla
di pubblicitari e amministratori delegati101. Bongiorno, ingaggiato
con un contratto d’oro, fu la prima star televisiva a lasciare la
televisione di Stato. Colui che aveva lanciato il successo della tv in
Italia, “unificando il Paese più di Garibaldi” disse qualcuno, svolse
ancora un ruolo fondamentale nel passaggio al nuovo sistema,
aderendo entusiasticamente al primato della pubblicità. Anche lui
rimase stregato da Milano Due, come racconterà nella sua biografia.
Lo vide quando era ancora in costruzione e subito nella sua rubrica
sulla Domenica del Corriere scrisse di questo «modernissimo
quartiere» con «architetti lungimiranti» e con la sua «piccola tv via
cavo al servizio della comunità di cittadini»102.
Nei sotterranei poco illuminati del Jolly Hotel c’è ancora, con un
enorme tavolo a ferro di cavallo, la sala Botticelli, dove si tennero le
prime riunioni in gran riserbo sulla nascita di Forza Italia, reclutatori
e agenti Publitalia ogni settimana a rapporto da Marcello Dell’Utri103.
Qui dentro, all’inizio degli anni Novanta, si è studiato e perfezionato
il modo di estrarre da quei sogni degli italiani finora plasmati dalla tv
un elettorato. Da quell’elettorato un partito. Da quel partito un
potere. Da quel potere la sua sopravvivenza. Da quella sopravvivenza
il suo trionfo. Dopo la Città dei Numeri Uno, dopo la Televisione che
vende consumi, ecco che nasce Forza Italia, poi infine Popolo delle
Libertà. Berlusconi entrò ufficialmente in politica agli inizi del 1994,
coi vecchi partiti della Prima Repubblica spazzati via dagli scandali
della corruzione, coi suoi interessi da difendere. “Scese in campo”
con un filmato trasmesso da varie reti televisive in cui prometteva
“un nuovo miracolo italiano”, guidò il suo partito con uno stile
manageriale e manipolò il suo messaggio per adattare e modificare
l’opinione pubblica104. Come hanno scritto Alberto De Bernardi e
101
M. Bongiorno, La versione di Mike, 2007, p. 271
102
Ibidem, p. 258
103
P. Madron, Le gesta del Cavaliere, 1994, p. 213
104
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 122
Luigi Ganapini, il successo di Berlusconi come uomo politico era
anche il riflesso di una serie di cambiamenti epocali nella società
italiana e di norme culturali «in virtù delle quali il manager-
imprenditore si presenta come modello idealizzato di guida e la
società civile è concepita come un insieme di soggetti atomizzati, non
più divisi da discriminanti di classe e portatori di interessi e valori
conflittuali, ma omogeneizzati dal consumo»105. Nella scalata al
potere politico Berlusconi fece un uso specifico della sua immagine
legata a Milano, e naturalmente anche dei suoi vanti da costruttore di
città ideali. Negli opuscoli elettorali sulla vita del Cavaliere – dallo
stile rigorosamente agiografico, sorprendentemente simili a quelli di
vent’anni addietro delle Edilnord che pubblicizzavano gli
appartamenti di Milano Due – si legge di «un nuovo modo di
concepire la città, il sogno di Berlusconi urbanista». Accanto a una
luminosa foto aerea del quartiere Milano Tre si trova una didascalia
alquanto evocativa: «Qui un tempo c’era una palude». Nel maggio
2009, in una prefazione a una riedizione di questi opuscoli allegati a
Libero, il giornalista Vittorio Feltri, all’epoca direttore di quel
quotidiano, se ne esce con una formula perfetta, che potrebbe essere
ironica se non fosse che è serissima: «Dopo Milano Due, ora la
grande scommessa si chiama Italia Due»106.
105
A. De Bernardi, E. Ganapini, Storia d’Italia 1860-1995, 1996, p 511
106
Aa. VV. Berlusconi tale e quale, 2009
107
M. Serra, L’Amaca, in “La Repubblica”, 5 novembre 2002
differenziazione sociale. Il sindaco di Segrate, Alessandro
Alessandrini, giunta di centrodestra, è anche un residente della
prima ora e, intervistato sul blog della parrocchia, dice di vedere il
futuro, oltre che il presente, di Milano Due assolutamente roseo: «Il
quartiere in questi anni si è saputo preservare in maniera
straordinaria. Il suo bello, però, è che non si è mai chiuso a riccio, ma
è sempre stato aperto alle novità anche grazie alla sua vicinanza a
Milano. Rispetto ai tempi d’oro del fortino qualche cambiamento in
peggio c’è stato. Il traffico, per esempio, è aumentato. Ma sono
aumentati anche i servizi. Soprattutto quelli pubblici. Parlo del
Centro civico e degli spazi ricavati per le associazioni. Oggi, poi,
stiamo assistendo a un ripopolamento che ha portato a un aumento
del numero dei bambini piccoli. In tanti fuggono da Milano e
approdano qui. Come biasimarli! Sapete qual è la caratteristica doc di
Milano due? Che ha mantenuto le fattezze di un paese. Le persone si
conoscono tra di loro, si salutano sulle scale e si incontrano fuori.
Non solo i ragazzi formano compagnie, anche gli adulti e gli anziani,
aiutandosi a vicenda»108. Altrettanto positivo (come potrebbe essere
altrimenti?) è il bilancio del creatore del quartiere, Silvio Berlusconi:
«Credo che Milano Due sia venuta fuori praticamente senza difetti.
Tutta la gente che ha preso appartamenti lì è stata felicissima di
viverli, pochissimi hanno lasciato, pochissimi appartamenti sono in
vendita, il prezzo è sempre stato tale da aver fatto fare un
grandissimo affare a chi ha optato per l’acquisto, i figli sono venuti su
molto bene e si sono allontanati da Milano Due soltanto quando sono
arrivati a un livello di scuola che lì non era presente» 109. Emblematico
un suo discorso del 1989 ai giovani appena usciti da un master nelle
sue aziende, con modalità comunicative che abbiamo imparato a
conoscere: «Quando sono giù di morale, mi metto le mani in tasca e
la mattina vado a passeggiare a Milano 2. Ricordo quante persone
avevo contro: li avevo contro tutti, ma proprio tutti. C’era la
macchina politica e burocratica perfetta per impedire, per proibire,
per ritardare, per ostacolare. C’erano i Pretori comunisti, la
Prefettura, i sindacalisti, i Verdi di allora, la signora Bonomi
Bolchini, i giornali della Rizzoli, quelli degli aerei con le loro rotte di
decollo e di atterraggio e il frastuono dei motori. Nonostante tutto
questo, nonostante l’efficienza di questa macchina che avevo contro,
sono riuscito a costruire una città di diecimila abitanti. È stato
108
A. Ferrari, Milano Due, che futuro?, in www.parrocchiadiopadre.it
109
P. Guzzanti, Guzzanti vs Berlusconi, 2009, p. 89
difficile, ma senza abnegazione non si può fare nulla. Bisogna
mettercela proprio tutta»110.
9. Lo Strapaese al governo
117
Ibidem, p. 34
118
J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, 2001, p. 126
per comprendere il successo di Milano Due. Sopra le villette,
l’aspirazione alla tranquillità, sotto “l’orrido garbuglio”, i pasticci, la
solitudine dell’hidalgo-ingegnere Putibutirro»119. Assistiamo, per
dirla con Silverstone, alla «suburbanizzazione della sfera pubblica»,
una dimensione che mette in gioco molto ambiti: la sfera politica, la
sfera collettiva, i mezzi di comunicazione, lo stile di vita. L’ambiente
del suburbio «mette in luce la qualità peculiare della cultura
moderna negando la tradizionale differenza tra natura e cultura,
fondendole». E la televisione, sempre lei, si adatta perfettamente alla
realtà suburbana. Fino alla politica: «la politica nei sobborghi, e dei
sobborghi, è ancora prevalentemente una politica casalinga di
interessi privati, conformismo ed esclusione condotta all’interno di
strutture politiche che sono, in genere, scarsamente riconosciute e
tantomeno contestate»120. Non a caso il successo edilizio di Milano
Due non è centrato tanto sullo scenario metropolitano bensì su
quello suburbano. Ha ragione il sociologo Aldo Bonomi quando dice
che l’anima di Berlusconi, ora che è diventato leader dello
schieramento politico di centrodestra e capo del governo, va ricercata
in quella “città infinita” del Settentrione, rappresentata dal territorio
lombardo e oltre, dove il modello è il capannone, la casa con giardino
e garage e l’immancabile nanetto di Biancaneve. «Basta aver
percorso l’autostrada Torino-Trieste per capire i punti di riferimento
dei nuovi soggetti. Il paesaggio è dato dai capannoni attorniati da
villette con i nanetti nel giardino e la Bmw nel garage sotto casa.
Questo è il modello. Il vero simbolo del berlusconismo non è la
televisione, ma è il capannone e la villetta con i nanetti nel giardino.
Ecco l’anima profonda del berlusconismo»121. Come sosteneva
Tommaso Labranca in un suo volumetto di qualche anno fa
sull’estetica del pecoreccio italiano, «non possiamo non dirci
brianzoli»122, perché la Brianza è prima di tutto un luogo dell’anima,
ebbene, forse parte di questa «comunità immaginaria brianzola» si è
formata grazie (anche) a Berlusconi e al suo “corpo elettronico”,
tradizionale e moderno al tempo stesso123.
119
J. Bufalini, Decoro borghese ossessione milanese, in “L’Unità”, 17 settembre 2009
120
R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, 2000, pp. 90-134
121
A. Bonomi, Il chiunque e la moltitudine, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è
Berlusconi, 2004, p. 247
122
T. Labranca, Estasi del pecoreccio, 1995
123
F. Boni, Il superleader. Fenomenologia mediatica di Silvio Berlusconi, 2008, pp.
43-45
«Agli architetti italiani dell’epoca non piaceva – ha spiegato,
intervistato dall’Unità, Fulvio Irace, storico dell’architettura al
Politecnico di Milano – quell’idea neoconservatrice di anti-città. I
laghetti, la chiesa, il centro sportivo, la selezione forte dei gruppi
sociali e non la condivisione che si crea in un quartiere urbano». È
l’ideale del sobborgo americano dove il capofamiglia la sera si rifugia
e, chiudendo la porta, si lascia alle spalle lo stress, il traffico, ma
anche la vitalità, i rumori, le attività del mondo urbano. E trova la
moglie ad aspettarlo, con i bambini stanchi ma felici. L’idea di
Milano Due e Milano Tre è esattamente la stessa, secondo Irace,
«solo che Berlusconi la interpreta a un livello più popolare, ma
progettata da buoni architetti»124. Un’incarnazione, tra tante, del
sogno borghese. Ma pure un’espressione azzeccata della mutazione
dei tempi, della capacità di sentire l’aria che tira. Quando alcuni
ricercatori dell’università di Los Angeles iniziarono nell’anno 1968 ad
intervistare le matricole, gli studenti indicarono l’«acquisire una
filosofia di vita» come la priorità numero uno della propria
istruzione, mentre «ottenere un buon posto di lavoro e fare soldi» si
trova sul fondo della classifica. Nei venticinque anni seguenti quei
valori furono letteralmente invertiti: «fare soldi» schizzò in vetta e
«acquisire una filosofia di vita» sprofondò negli abissi della
classifica. Inoltre i ricercatori furono sorpresi dalla scoperta di una
forte correlazione tra la quantità di televisione che gli studenti
guardavano e l’espressione di priorità materialistiche125.
124
J. Bufalini, Decoro borghese ossessione milanese, in “L’Unità”, 17 settembre 2009
125
A. Stille, Citizen Berlusconi, 2006, p. 406
126
G. Ruggeri, M. Guarino, Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, 1994
Certamente c’è qualcosa che richiama l’ideologia politica del
berlusconismo, ma anche del leghismo degli ultimi anni.
Innanzitutto il non vergognarsi più del proprio decoro borghese, il
non dissimulare più quel sentimento di diffidenza che fa alzare gli
steccati. Riemerge così la dicotomia tra fuori e dentro, tra amici e
nemici. Come nel discorso politico: da una parte si propone
l’immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente
pacificata, dove non esistono conflitti né di classe né di interessi, con
una sfera pubblico-sociale anestetizzata; dall’altro lato si propaganda
una visione della politica come combattimento contro estranei o
nemici, come energia che emana da un popolo in rapporto diretto col
suo leader, senza intrusioni di poteri terzi127. Ma non basta.
Certamente c’è il collegamento complesso con la retorica anti-urbana
e le creazioni di città e borghi nel ventennio fascista, in un contesto
del tutto diverso ma con la simile ambizione di voler assecondare la
propaganda e plasmare nuovi soggetti sociali attraverso la creazione
di un territorio. Volendo azzardare un parallelo: lì uno Stato che si fa
Impresa, qui un’Impresa che si fa Stato. Forse riassumibile
nell’opinione che «a differenza di Mussolini, Berlusconi non ha mai
preteso di trasformare gli italiani, lui ha aderito agli italiani, e
aderendo a noi ci ha cambiati più di quanto abbia potuto
l’indottrinamento del regime»128. Ma ancora non basta. Certamente
c’è il cerchio del pensiero antiurbano che sempre avvolge l’Italia,
l’idea di base di un ritorno alla cultura campagnola e contadina, il
rilancio del genius loci, insomma lo Strapaese riveduto e corretto
che, paradossalmente, unisce l’estetica berlusconiana di Milano Due
con la retorica di regime dei borghi dell’Agro Pontino, con il padano
premoderno Celentano cresciuto nella via Gluck, con l’abuso del
ruralismo populista e decadente di Pasolini. È tanto, ma non
abbastanza. Perché alla fine anche Milano Due è un pezzo di città,
che riflette solo in parte le logiche di chi l’ha promossa e finisce per
portare le tracce di una stratificazione complessa di culture,
aspirazioni, vissuti.
127
C. Galli, Volontà di potenza, in “La Repubblica”, 17 ottobre 2009
128
A. Cazzullo, L’Italia de noantri, 2009, p. 124