H(a costi lirici),
i recedere. Insi-
certo visionato
ihe, quando lo
Vinverosimile),
ato zolfo, a ogni
ise stesso. Ap-
trono sindaco
gnore inghiotti
pitt alta presta-
ccerti versi, una
igente nel falci
mne-setaccio. Mi
che s'aspetti un
itd di uno spet-
un linguageio
19 maggio 1998. Teatro Valle a Roma. Seminario di Carme-
lo Bene sul “verso di d’Annunzio”, partecipazione di Pier-
giorgio Giacché, docente di antropologia dello spettacolo a
Perugia. Tutto esaurito, folla delle peggioni occasioni. Bene
non si era mai pubblicamente diffuso sulla prosodia e sul-
Voralita del verso. Strano. Pochissimi gli attori presenti,
sebbene il tema li riguardasse da vicino.
Un'ora di lezione, spettatori distribuiti a macchia, in platea
ifan ammutoliti, nei palchi gli altri, i molestatori di profes-
sione, i venuti per caso, gli esibizionisti a caccia d’una com-
parsata da Costanzo. La situazione precipita nel momento
esatto in cui parola e microfono vengono consegnati al pub-
blico. Poche battute ed é gid maleducazione cogliona ¢ ru-
morosa da talk show. E un’orda di conclamate frustrazioni
che alza i volumi e scatena la bagarre. d'Annunzio? Chi se
ne frega. Il verso? Bob. Carmelo Bene 6, come sempre, il
nome e il cognome che fa “brillare” il cortocircuito. Ma la
qualita della “materia” esplosa @ in questo caso odiosamen-
te modesta, ignobili le facce, petulanti le voci, irrisori gli ar-
gomenti. “Carmelo Bene, lei ripete sempre le stesse cose’,
“Lei s’inventa una sua filosofia’, “Perché si tinge i capelli,
se non esiste?”. E via degenerando.
Volano basse le mosche stercorarie. Ed 2 un peccato. (C’
sempre bisogno di qualcuno che climbratti di stimolante
merda), I! commiato di C.B.: “Ora voi tornerete a casa e po-
403
a nella reiterata
ché esigerla an-
;venuto “a che
he vedono nontrete raccontare di aver ascoltato me, ma io, che mi raccon-
eee
Anche Carmelo Bene torna a casa, Qualcosa 0 qualcuno che
agonizza l'attende. Non ricordo di averlo mat visto, Carme-
lo, con gli occhi bagnati da qualcosa che é molto simile alla
commozione. Un lutto.
(Lintervento conclusivo, estemporaneo, molto scontroso
di Piergiorgio Giacche, che sospende la bagarre al “Val-
Ie”)
*... Non so che bisogno c’era per alcuni di voi di venire a
poi le domande e i confronti dovevano avvenire su cid che
concretezza, ovviet..
Oggi soltanto Carmelo Bene pud permettersi ¢ permetterci questa
restaurazione € insieme rivoluzione del teatro, anzi pud indicarci il
suo superamento, il suo sfinimento,
Ma @ inutile. Abituati ad attori che inventano non le storie, ma addi-
rittura la Storia pur di consolare le masse, molti pensano che Car-
melo si invent la ‘sua’ filosofia
Pensano che la ‘verticaliti del verso’ sia una trovata che non fa tide-
re oppure, peggio, molto peggio, una scoperta che non si fa capire ¢
dunque un'offesa. In effetti, € una offesa ‘mortale’ per gli imbecill
O almeno io lo spero.
Non fa meraviglia che gli imbecilli si ittitino quando gli sembra di
non capire. Quello che & patetico e pericoloso @ la conta di tutte le
altre volte che, perfino a teatro ¢ non solo davanti alla Tv, credono
di capire e di sapere quello che si dice o si fa
Purché non si esca mai dalla imbecillita del libero e perd logico di
scorso, da quella democrazia culturale che uguaglia e festeggia tutte
le opinioni, dallo schema o dal mercato di una comunicazione pari-
taria o al massimo pedagogica,
Qui invece nessuno insegna a nessuno, ma ~ almeno questo & evi-
dente ~ qualcuno per davvero ‘sa’ un sapere che non si pud banal- ~
mente capire, ma che invece si dovrebbe cercare, per quanto & possi-
bile, di carpire — cioé di ascoltare continuamente e inutilmente inse-
guire
Qui c’é un attore, un Grande attore, che concede a se stesso e 4 noi
di esporsi e mescolarsi ‘in conferenza’, fornendoci le chiavi di un
suo diverso modo di sapere, offrendoci le sintesi o i riferimenti di
una sapienza straordinaria che non pud spiegarsi troppo o tutta in
un linguaggio ordinario che non la contiene e la mortifica. E soprat-
404
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tutto Carmelo Bene non deve spiegarsi perché I'ha git dimostrata in
scena, Iha gil messa in atto, E ancora e sempre @ in grado di ripete-
ree ripeterci questa dimostrazione.
‘Qualcuno infatti — forse il pitt imbecille, ma @ stata una bella gara —
sid lamentato di aver gia sentito Carmelo Bene ripetere e ripetersi le
stesse domande. L’ha gia sentito, ma 'ha mai ascoltato? E. poi. per-
ché ~ dovreste chiedervi - perché un attore di. genio o un genio che
TaJ/attore s ripete le stesse domande?
Provate a chiedervelo, ma per favore non vi rispondete”,
Nauseato, riguadagno in un lampo la solitudine del mio
eremo. M’accingo, stranito, a disfarmi dell'abito. Dalla
moresca occhiuta sul terrazzo dell’orto filtra ultima luce
cerulea della sera attardata. Laria immota. Fermo anche il
fogliame dell ulivo e dell’edera nera. Un trattener vegetale
il fiato, interrotto da un suono sommesso, sincopato ma
r0co, siccome dentellato rumore sordo prodotto da balsa
seghettata. Agehiacciante, Luisa - lei pure ’ha udito - , a
mo’ d’androide, solleva quel sipario traforato: a pochi
metri, tra il gazebo e un gran vaso panciuto d’erbaccia
vizza, sdraiato come un cencio bianco e bigio, se ne sta ill
gatto mio, morente 0 motto, ché adesso anche quel verso
tace. E lui, ne distinguiamo le zampine bianche anteriori,
stiracchiate. “Presto!, una torcia elettrica”. Esamino la
povera bestiola: il corpicino immoto, gli occhi sbarrati,
Pinnocenza beata dei suoi denti smorfiati, Nessuna trac:
cia di ferita. Il pelo e il muso intatti. Imbalsamato. Resu-
scita improvviso, ora che gli sto accanto. ultima contra-
zione, il verso atroce, ultimo, in che per sempre s’acquie-
ta,
Avvelenato? “Se vuole, disponiamo un’autopsia domatti-
na”, mi propone, due ore dopo, un signor “monatto” del
Master Dog (servizio funebre degli animali). “Credo che
non occorra”, lo ringrazio. Mi ritiro. E Luisa a sbrigare il
rituale funereo all’ opo: esibisce i documenti (tra cui l’at-
testato della mia identita) e ne riceve in cambio certificato
del decesso ¢ relativo ufficiale impegno d’incenerimento
della bestiola,
405:Nel cervello sconvolto mi rimbalzano gli echi villani e sto-
lidi del repellente fragore “umano” dei condannati a vita
palchettisti del “Valle”, alternati allindicibile stupore ina
nimato del gatto mio. E di nuovo il berciare flatulento
delle carogne recluse dentro Fignorantissima vanita esibi-
ta oltre ogni costo, commentato e deriso dalla smorfia
eternata cadaverica dei denti felini, ora si, solo un ghigno.
E non trovavo (e non ritrovo) quiete, anche se, disegnata
senza scampo, se ne stava ai miei piedi, come Lombra di-
pinta /a quiete. Senza pitt la minaccia del risveglio.
Questo gatto (una gatta deliziosa che da sempre ho nomi-
nato “gatto”) é stato P'unico amico mio. Da sette.anni. Si
gnore incontrastato del giardino, ha tollerato le mie fre-
quenti assenze, sfoderando un’autonomia straordinaria;
cosi come ha saputo con-dividere questa mia solitudine
spietata, da che ho deciso di non piti soltanto limitarmi
ad aborrire il “prossimo” pitt di me stesso, ma evitame vi-
sione e contagio. Un’attrazione reciproca e affettuosa di
due solitudini stellati. Inespressa. Giocava, rampicava le
“invisibili zanzariere metalliche, rotolava sui tappeti, mi
s'acquattava accanto quand’ero intento a scrivere, a esser
letto. Lui soltanto animava questa defunta immobilita
eremitica. Sempre inquicto il pennacchio della coda, vez-
zeggiata d'anelli quasi neti, emetteva i suoi versi compia-
ciuti: indecifrabile, melodico solfeggio, confuso al bronto-
lio costante armonico, insensato mio “continuo”. Che I'a-
more sia questo? Se tanto me ne duole, non dev'essere
oi cosi lontano. E non ho mai accertato chi di noi due
facesse il verso all'altro. Poco importa. Né umani, né gat-
teschi. Due intelligenze cestinate (natura e grazia), nell’a-
micizia ferrea d’una prosa nelletimo abusata: “beffa”, ap-
punto. A smiagolato dispetto del “discorso”, della “co-
municazione” parolata, dei proclami affettivi, delle “con-
flittualita” linguistiche, dei suoni organizzati
Se — proprieta repellente della clonazione umanoide — noi
due-ci s'intendeva, 2 da ascriversi al fatto che il piacere
della connivenza eludeva l’equivoco miserevole del fra-in-
406
tendiment
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dicevamo
Tu potes
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ché, ahi
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poide — noi
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# del fra-i
tendimento; ¢ la sensazione giocosa, pur qua ¢ Ia travesti:
tensa tudine, teionfava sul soggetto intelligente. Nov:
dicevamo parole umane.
‘Tu potessi sentise, amico mio!, ~ sentire non so dislo -,
Tusnto adesso me ne stia qui, bocea e orecchie murat.
quant a silenzio altrove. Come te, che il silenzio non pid
fastidia.
Le Ganaglia stordente in quel teatro & anch’essa spent
ah Sats dalla sua stessa assordante maleducazione asses,
asfissigta Cijata, Massa umana affogata finalmente nel
stagma del suo vorito di massa. Git, pit! Sepalta viva,
ee Mhime, viva silludeva e appagata; quanto alta da ¢
She, nei meriggi pit assonnati, abbandonato tappetino al
fepore del suolo, tra gli specchietti del solicello inghirlan-
tepore Sgnavi, invoTontario, d’esser morto, qua ¢ [dy nel
paradiso del giardino.. Sai che qualcuno ~ anche ai mor
Para etto che “li animali sono, nelle nostre mani, gl
staggi della Bellezza celeste vinta”?
cite tyaasa tiranna s'addice setollare il brulichio vermino-
‘Ala Toneimat le fosse dei cimiteri. Fosse. Uno sterminio