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Una città italiana privata della sua identità culturale

di Michael Kimmelman

Testo originale: “New York Times” del 23 dicembre 2009

http://www.nytimes.com/2009/12/24/arts/24abroad.html?_r=1&ref=design

L'AQUILA - Le città richiedono secoli per crescere, ma


possono morire in un batter d'occhio.

Dopo che in aprile un terremoto ha ucciso centinaia di


persone e ne ha lasciate decine di migliaia senza tetto, nel
territorio di questa città medioevale e barocca, a circa 70
miglia a nord-est di Roma, gli sforzi profusi per i soccorsi di
emergenza sono stati straordinari. Volontari da ogni parte
d'Italia sono accorsi per offrire aiuto. Sono state
rapidamente allestite tendopoli fuori dalla zona pericolosa.
Sono stati organizzati concerti allo scopo di offrire
continuità e speranza, mentre lavoratori edili hanno
rapidamente eretto decine di complessi residenziali nei
dintorni della città.

Ma ora che il governatore della regione ed il Ministro dei


beni culturali si preparano a subentrare al Dipartimento per
la protezione civile al fine di procedere alla ricostruzione, il
futuro a lungo termine de L'Aquila è in bilico. Assenza di
fondi, di coinvolgimento politico, di buon senso
architettonico e di attenzione internazionale – unite alla
predilezione tutta italiana per chi pensa di possedere la
bacchetta magica – minacciano di fare quello che non ha
fatto il terremoto.

Non sarebbe la prima città italiana a non riprendersi più da


un terremoto. Dopo il sisma che colpì la Sicilia negli anni
'60 i centri storici furono abbandonati, e nel migliore dei
casi sopravvivono solo di nome nelle squallide costruzioni
tirate su come abitazioni provvisorie, poi diventate
permanenti in mancanza di alternative e per trascuratezza.
Per L'Aquila occorrerebbe investire meglio. Si stanno
facendo sforzi per salvare i quasi 110.000 monumenti e
manufatti che secondo il ministero dei beni culturali sono
stati danneggiati dal terremoto.

Ma secondo la previsione ministeriale ufficiale occorreranno


10 o 15 anni per riportare il centro storico alla normalità, in
tutti i sensi dell’espressione, e quasi tutti gli interventi di
ricostruzione, inclusi quelli delle case private, dovranno
essere approvati dal ministero, attraverso una procedura
scrupolosa.

Prima del terremoto circa 10.000 persone abitavano nel


centro della città e circa altre 60.000 fuori dal centro. Dopo
un decennio o più da sfollati, coloro che una volta vivevano
nel cuore de L’Aquila potrebbero non trovarsi più in zona o
non voler tornare, e le case costruite per loro - fino a
questo momento sono stati realizzati 150 complessi in
legno, acciaio e calcestruzzo - potrebbero aver cambiato il
territorio fino a renderlo irriconoscibile. L’Aquila, attraente
centro storico medioevale nel quale si innestava in
equilibrio precario un centro storico barocco (e questa
precarietà spiega, in parte, l’entità del danno), era anche
un centro commerciale e culturale ed una città
universitaria. Se il centro dovesse rimanere morto, in pochi
anni potrebbe finire per essere nulla più che un sito
turistico di secondaria importanza, nel mezzo di un
agglomerato urbano indifferenziato.

Piani di ricostruzione di qualsiasi tipo, e in particolare quelli


più rapidi, richiedono miliardi di dollari (almeno 16 miliardi
di dollari, secondo diverse stime), la gran parte dei quali
dovrebbe arrivare dal parlamento italiano. Ma anche la
piccola tassa finalizzata alla ricostruzione, recentemente
proposta dal sindaco de L'Aquila e da diversi funzionari del
ministero dei beni culturali, è finita nel nulla. In un Paese
oberato dal debito pubblico e distratto dalle vicissitudini del
Presidente del consiglio riportate dalla stampa, il successo
degli aiuti nella fase dell’emergenza ha paradossalmente
creato l'impressione che L'Aquila non abbia più urgenti
necessità di aiuto. Come ha dichiarato qualche giorno fa
Michela Santoro, una assistente del sindaco Massimo
Cialente: “Il messaggio sui media è: 'Le cose vanno bene'.
Messaggio che è lungi dal corrispondere alla verità dei
fatti”.

Il sindaco Cialente, da parte sua, si è affannato a ripetere


ai giornalisti ed alle troupe televisive dentro e fuori dal suo
ufficio di fortuna, ricavato in una ex scuola nella periferia
cittadina, sempre lo stesso duro messaggio: “Se non
ricostruiremo in modo adeguato – che nella sua prospettiva
sta a significare riportare tutto esattamente come era, ma
reso sismicamente sicuro – sarà una vergogna per l'intero
Paese. Sarà una nuova Pompei”.

Si tratta di una preoccupazione tipica di qui. Gli italiani


spesso sono portati a pensare che se non saranno in grado
di restaurare il passato finiranno per farne parte. Ogni
alternativa è difficilmente immaginabile.

Roberta Pilolli lavora per il conservatorio de L'Aquila. Dopo


il terremoto ha collaborato a tirare fuori dalle macerie i
pianoforti a coda. Gli aquilani sono orgogliosi di essere
tenaci.

L'altro giorno, in felpa e scarpe da ginnastica, si stava


preparando per l'apertura ufficiale, questa settimana, della
nuova sede del conservatorio, un complesso in metallo e
vetro da 8 milioni di dollari, costruito in poco più di un
mese, nei quartieri periferici sviluppatisi in modo
incontrollato.
“Voglio indietro la mia casa esattamente com'era”, ha detto
la signora Pilolli. Stava parlando della sua piccola casa a
terrazza di prima della guerra in centro città, dove la sua
famiglia ha vissuto per anni – non un tesoro architettonico,
ma non era questo il punto. “E' la mia identità”, ha
aggiunto. “Ora L'Aquila è morta e si preoccupano solo di
chiese e monumenti, non delle nostre case. Ma l'intera città
era un monumento.”

Riferendosi ai nuovi condomini costruiti dal Governo, che


sono simili al nuovo conservatorio, Aldo Benedetti,
professore di architettura a L'Aquila, ha spiegato: “Non si
inseriscono in nessun contesto, non portano nessuna idea
di architettura, ma solo l'aspetto di caserme dell'esercito
buttate giù da qualche parte.”

Pier Luigi Cervellati, professore di urbanistica a Venezia, va


oltre. Ha detto che la ricostruzione dovrebbe preoccuparsi
in primo luogo di far rientrare più rapidamente i residenti
nel centro storico, non di dargli abitazioni alternative,
chiese, monumenti, grandi magazzini e attività
commerciali. “Un centro lasciato vuoto per anni muore,” ha
detto. “Queste case nuove che stanno costruendo in
periferia sono molto costose e non hanno senso dal punto
di vista urbanistico. Sono come i terminal di un aeroporto.
Non hanno anima. Il rischio è che il centro diventi un non-
luogo.'

Chi risiede nei nuovi appartamenti, grato in un primo


tempo di avere ricevuto un posto dove stare, ora già si
lamenta della mancanza di spazi, negozi, campi sportivi e
di qualsiasi organizzazione sociale. Non ci vuole molto,
dopo un disastro come questo qui, per passare dalla
gratitudine all'impazienza e alla sfiducia. Le voci di
corruzione e tangenti naturalmente dilagano e incalzano. Il
conservatorio è costato quasi tre volte quello proposto, al
costo di 3 milioni di dollari, da Shigeru Ban, il noto
architetto giapponese, con annessa sala da concerti. Gli
Aquilani, così come il professor Benedetti, da tempo si
chiedono perché.

Qual è la soluzione? Anche quando le bombe cadevano su


Londra durante il blitz del 1940, gli urbanisti inglesi
proiettavano visioni di una nuova Londra nel dopoguerra.
La disgrazia divenne la possibilità di sognare. In assenza
sia di un’autorevole leadership in grado di fare da guida,
sia di valide leggi sull'urbanistica, sia di luoghi di
discussione pubblica dove i cittadini abbiano il potere di
confrontarsi seriamente con L'Aquila del futuro, si fa viva
solo la sensazione che la possibilità stia scivolando via. Ma
l’opportunità ancora è data di includere forse
un'architettura nuova a fianco dell'antica, come fece
L'Aquila dopo il terremoto del 1703, quando divenne
l'amata città barocca che ora tutti vogliono preservare,
come se ci fosse sempre stata. Mai una città perfetta, ma
una reale e viva. L'Aquila potrebbe perfino diventare il
modello per un nuovo tipo di centro storico del 21mo
secolo in Italia.

Ma il tempo vola. Di recente, visitando le rovine della


chiesa parrocchiale di Santa Maria Paganica, dove il tetto è
crollato e una surreale montagna di macerie all'interno si
eleva verso le finestre che danno sul tetto delle navate
laterali, osservavo un archeologo del Ministero dei beni
culturali, che doveva catalogare ogni più minuto
frammento, sprecare mezz'ora, nel freddo pungente e nella
neve, a litigare con Michelangelo Saporito, un pompiere
che lavora per i servizi d'emergenza.

Saporito, siciliano, è arrivato a maggio, cinque giorni dopo


la nascita del suo secondo figlio. Voleva aiutare. Quella
mattina stava mostrando la chiesa ad un visitatore, come
aveva già fatto più volte quel giorno con altri visitatori.
Ma si era dimenticato di portare il consueto modulo di
permesso. La burocrazia e le priorità sbagliate hanno
bloccato il progresso.

Sembrava una metafora.

Saporito ha tirato un sospiro.

“Lei lo vede qual è il problema.” Lui l’ha messa così.

(traduzione di Adriano Sponzilli, Giano, Ezio Bianchi,


Giovanni Incorvati)

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