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Cineforum
Via Pignolo, 123
24121 Bergamo
Anno 52 - N. 4 Maggio
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abbonamento postale
DL 353/2003 (conv.in
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Un percorso attraverso il mondo delle serie televisive e dei suoi fan, accompagnati da
una guida deccezione, capace di parlare dellargomento mescolando la passione pi
sfrenata alla competenza critica e tecnica di chi lo frequenta sul piano professionale
ormaI da dIversI annI. Che cosa sIgnIca essere "manIacI serIalI", qualI sono I fattorI
che portano a questa condizione; quali i comportamenti personali e collettivi che ne
derIvano. |a anche a che punto e oggI la cultura della ctIon televIsIva In talIa: che
dIfferenza c'e fra chI la tratta con supercIalIt e Invece chI la coltIva serIamente,
come un vero oggetto di studio.
press@cineforum.it || www.cineforum.it || Tel. +39 035 361361
Disponibile in pdf, epub, mobi
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indubbio: a una prima lettura, i segni che provengo-
no dal presente in cui ci tocca vivere non propongono
grandi speranze. Casomai, proprio il contrario: inducono
corteggiare la disperazione per farcela quantomeno fami-
liare, in modo che labitudine alla sua vicinanza ce la
renda, se non altro, meno spaventosa. Ci vuole molta
forza, probabilmente anche un discreto tasso di ostinazio-
ne a una forma di pensiero che altri potrebbero chiamare
irragionevolezza, per cercare di guardare oltre e trovare in
tutto questo qualche motivo che induca a una nuova aper-
tura di credito verso il futuro. Forse che la parola che ci
pu salvare sia trasformazione? Una parola tuttaltro
che indolore, ne siamo consapevoli, e tuttavia in grado di
impedire allorizzonte di ripiegarsi su di noi e avvitarci
nellidea di una caduta interminabile.
La figura della trasformazione rinvenibile con certez-
za in alcuni dei film di cui si occupa questo numero di
Cineforum. Trasformazioni fisiche, storiche, interiori e/o
nelle relazioni con laltro. Trasformazioni che, con tutta la
sofferenza e le incognite di cui sono portatrici, ci permet-
tono comunque riappropriarci della misura con cui dare
un senso al nostro esserci, dunque alla nostra percezione
del processo, del movimento di cui siamo (non possiamo
essere che una) piccola parte.
Il film di Gianni Amelio, innanzitutto: preziosa presen-
za nella filmografia di questo regista, di cui dovremmo
andare forse un po pi fieri di quanto generalmente non
avvenga, e in questa primavera cinematografica avara di
luce. Nel quale si narra, in una rappresentazione capace
di unire uno straordinario controllo degli elementi del
racconto a una straordinaria intensit emotiva, della scel-
ta di volersi misurare la mente e il cuore bene aperti
con le domande sulle proprie origini personali e quelle
relative al futuro della comunit non conciliata (quanto
non conciliabile?) di cui ci si sente comunque partecipi.
La solitudine di chi cerca senza risparmio, nellocchio del
cambiamento individuale e collettivo, la direzione giusta
verso una risposta che si cela dietro contraddizioni e
paradossi poco incoraggianti.
Trasformazione devastante quella cui sottoposto il cer-
vello di Claire in Tutti i nostri desideri, giovane magistra-
to dalla sensibilit sociale spiccata e dalle intuizioni bril-
lanti, che si scopre malata con ormai pochissimo tempo a
disposizione. Eppure, la sua volont di non arrendersi allo
smottamento fisico le permetter di porre mattoni per il
futuro di altre persone (vicine, lontane), compiendo cos in
qualche modo la sua missione di essere umano in questo
mondo. Trasformazioni inarrestabili, fascinose, diffuse
attraverso migliaia di scatti fotografici che hanno attraver-
sato lesistenza di intere generazioni, dai primi anni
Sessanta a oggi (e non certo finita): il volto, i capelli, i
baffi e la barba, le rughe con il passare del tempo, il sorri-
so e gli occhi perennemente segnati da un velo di malinco-
nia immagini di George Harrison. Martin Scorsese ci
mostra anche le altre sue trasformazioni, che gli hanno
permesso di non essere soltanto il terzo Beatle, ma un
artista a tutto tondo e non solo in ambito musicale: perch
la nostra riconoscenza non si esaurisca con il suo tempo.
Trasformazione, infine, di un corpo che, attraverso
una scelta da qualcuno giudicabile come mero e inutile
nichilismo (ma da altri come progetto eroico e terribile
di una testimonianza portata allestremo, perch altri ne
potessero raccogliere i frutti). Qualche indugio estetico
di troppo non impedisce al film di Steve McQueen di
lasciare tracce profonde insieme a un flebile raggio di
speranza, fosse anche soltanto per reazione alla violenza
istituzionale e commossa piet verso chi ha avuto il
coraggio di una tale scelta.
Singolare tesoro, la speranza, che spesso si trova solo al
termine di uno strano e lungo cammino.
Adriano Piccardi
TRASFORMAZIONI
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SOMMARIO
EDITORIALE
Adriano Piccardi/Trasformazioni 1
CANNES
Fabrizio Tassi/Lei e il Cosmo 4
SPECIALE IL PRIMO UOMO
Tullio Masoni/La differenza e la fedelt 8
Anton Giulio Mancino/Albert, Gillo, Luchino:
i fantasmi di un padre ragazzo 13
I FILM
Giampiero Frasca/George Harrison: Living
in the Material World di Martin Scorsese 19
Roberto Chiesi/Tutti i nostri desideri di Philippe Lioret 22
Luca Malavasi/To Rome with Love di Woody Allen 25
Simone Emiliani/Dark Shadows di Tim Burton 28
Federico Pedroni/Hunger di Steve McQueen 31
Paola Brunetta/Another Earth di Mike Cahill 34
Tina Porcelli/Sister di Ursula Meier 37
Rinaldo Vignati, Elisa Baldini, Giampiero Frasca,
Matteo Marelli, Lorenzo Leone, Pasquale Cicchetti,
Paola Brunetta, Nicola Rossello/The Rum Diary - Ciliegine -
Chronicle - Unger Games - Roba da matti - Isole - The Avengers -
Maternity Blues - Gli infedeli - 50 e 50 40
IL CINEMA E IL SUO DOPPIO
Sergio Arecco/Sogni (di) prigionieri 51
SAGGI CHANGELING
Valentina Alfonsi/Il ruolo dellimmaginario
in Changeling di Clint Eastwood 61
SAGGI THE MAN WHO KNEW TOO MUCH
Ermanno Comuzio/I due uomini che sapevano troppo 69
Luomo che sapeva troppo (1934-1956): strutture a confronto 79
FESTIVAL
Massimo Causo/Rotterdam 80
Tina Porcelli/Biarritz 82
Claudia Bertol/LAsian Film Festival di Reggio Emilia 84
Umberto Rossi/Trieste Film Festival 85
DVD a cura di Arturo Invernici 87
LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato 89
LIBRI E SOUNDTRACKS a cura di Ermanno Comuzio 94
INFO dal luned al venerd - 9.30/13.30 - Tel. 035 361361 - abbonamenti@cineforum.it
cineforum
rivista mensile
di cultura cinematografica
anno 52 - n. 4 - Maggio 2012
Edita dalla
Federazione Italiana Cineforum
Direttore responsabile:
Adriano Piccardi adriano@cineforum.it
Comitato di redazione:
Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttore
editoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara,
Luca Malavasi, Emanuela Martini, Angelo
Signorelli, Fabrizio Tassi
Segreteria di redazione: Chiara Boffelli, Arturo
Invernici, Daniela Vincenzi
Collaboratori:
Sergio Arecco, Elisa Baldini, Alberto Barbera,
Marco Bertolino, Francesca Betteni-Barnes D.,
Pietro Bianchi, Pier Maria Bocchi, Paola Brunetta,
Francesco Cattaneo, Massimo Causo, Rinaldo
Censi, Carlo Chatrian, Andrea Chimento,
Pasquale Cicchetti, Ermanno Comuzio, Jonny
Costantino, Emilio Cozzi, Giorgio Cremonini,
Lorenzo Donghi, Simone Emiliani, Michele
Fadda, Davide Ferrario, Andrea Frambrosi,
Giampiero Frasca, Leonardo Gandini, Cristina
Gastaldi, Federico Gironi, Giuseppe Imperatore,
Lorenzo Leone, Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato,
Pierpaolo Loffreda, Alessandra Mallamo,
Anton Giulio Mancino, Giacomo Manzoli,
Michele Marangi, Mattia Mariotti, Tullio Masoni,
Emiliano Morreale, Alberto Morsiani,
Umberto Mosca, Lorenzo Pellizzari, Alberto
Pezzotta, Tina Porcelli, Piergiorgio Rauzi,
Nicola Rossello, Lorenzo Rossi,
Alberto Soncini, Antonio Termenini, Dario
Tomasi, Paolo Vecchi, Alberto Zanetti.
Progetto grafico e impaginazione:
Paolo Formenti - PiEFFE Grafica*
Amministrazione:
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Bagnolo Mella, Brescia
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Joo Distribuzione - via F. Argelati 35
20143 Milano - tel. 028375671 - fax 0258112324
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Iscritto nel registro del Tribunale di
Venezia al n. 307 del 25-5-1961
associato allUSPI
Unione Stampa Periodica
Italiana
In copertina
Il primo uomo di Gianni Amelio
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Il Festival di Cannes 2012? Interessante e deludente
(viste le premesse). Un po folle e abbastanza conformi-
sta. Ostinatamente aggrappato alla formula-fabula del
cinema dautore (prima il nome, poi il film), ma non
privo di deragliamenti illuminanti. C la vetrina per
venditori e spettatori critici professionisti, che dipende
dalle annate (niente a che vedere con il 2011 di
Kaurismki Malick Moretti Refn Dardenne Von Trier
Kawase Ceylan Hazanavicius Van Sant Allen Kim Ki-
duk), e c il retro-bottega pieno di cose ammucchiate
alla rinfusa, che dipende dalla curiosit dello spettato-
re nomade rabdomante.
Il bello dei festival che un giorno sei in fuga, per
terra e per mare, con due dodicenni innamorati, nel
magnifico mondo di Wes Anderson (Moonrise
Kingdom), tra scout disadattati e geniali e genitori
fedifraghi e perplessi, vestitini vintage (anni Sessanta)
e inquadrature squadrate (Mr. Fox, ma con sentimen-
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CANNES
SPECIALE
LEI E IL COSMO
Fabrizio Tassi
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to), Honky Tonkin di Hank Williams e la musica
smontabile di Benjamin Britten, e il giorno dopo ti
ritrovi imprigionato tra le mura di una casa borghese
con due ottantenni che stanno imparando a morire,
nelluniverso senza scopo e speranza, umano terribil-
mente umano, di Michael Haneke (Amour), dove la
natura (la malattia) reclama la sua sovranit sulla cul-
tura, e non resta altro che un po di tenerezza devota e
la libert di scegliere se vale davvero la pena (s,
comunque valeva la pena), concretizzata in un ultimo
atroce gesto damore.
Ridi, piangi, riempi gli occhi e pensi che il cinema
sempre vivo e lotta (ama, pensa, soffre, gode, muore)
insieme a noi. Anche perch capita che un illustre sco-
nosciuto di nome Rachid Djaidani romanziere, cam-
pione di boxe, attore di Peter Brook (Hamlet! Le
Costume!), aiuto-regista di Kassovitz per Lodio
dopo nove anni di lavoro senza finanziamenti, realizzi
un magnifico film desordio come Rengaine, girato per
le strade parigine con una camera DV, storia (tra le
altre) di un amore tra una ragazza araba e un aspiran-
te attore di colore, ostacolata dalla famiglia di lei, for-
mata da trentanove fratelli, tra cui il capobranco, che
flirta con una cantante ebrea ma decide che la tradizio-
ne (la purezza della razza culturale) vada difesa a ogni
costo, anche se ormai non c pi nulla da difendere (lo
capir anche lui).
Il brutto dei festival che, numericamente parlando,
le occasioni mancate superano di gran lunga i matri-
moni riusciti. Limprobabile Kerouac di Walter Salles
(On the Road, film pavido che trasforma il mito in
aneddoto), linsopportabile Andrew Dominik (Killing
Them Softly, vedi alla voce cinefagia), la confusionaria
soap impegnata di Nasrallah (da Baad el
Mawkeaa/After the Battle, ci saremmo aspettati di
capire-vedere qualcosa in pi dellEgitto post
Primavera araba), la simpatica ma insipida commedia
di Ken Loach (The Angels Share), linquietante ma
convenzionale film-dossier di Vinterberg (Jagten/The
Hunt) Stiamo parlando di pellicole in concorso, scel-
te da selezionatori navigati per darci unidea del cine-
ma che stiamo attraversando, molto spesso prodotto e
cofinanziato (ammirevolmente) dai francesi, con tutti
gli effetti collaterali del caso (vedere lincontro para-
digmatico tra Hong Sang-soo e Isabelle Huppert nel-
lesile divertissement Da-Reun Na-Ra-e-Suh/In
Another Country).
E allora ben venga la Quinzaine des Ralisateurs,
che lanno scorso sembrava entrata in catalessi, e inve-
ce stavolta ha saputo variare spunti e proposte, dal-
lantonioniano Sueo y silencio alladolescenziale The
We and the I di Michel Gondry (deludente), dallele-
gante melodramma di Hur Jin-ho, che ha ambientato
Le liaisons dangereuses nella Shanghai degli anni
Trenta, al cinefilo Room 237 di Rodney Ascher, che
viviseziona Shining dando voce a cinque persone
ossessionate dal capolavoro di Kubrick, tra osservazio-
ni sorprendenti e interpretazioni bislacche. Menzione
donore al cartoon realizzato da Stphane Aubier e
Vincent Patar (quelli di Panique au village) insieme a
Benjamin Renner, Ernest et Clestine, deliziosa storia
scritta da Pennac su una coppia di fatto formata da
un orso e una topolina, decisi a vivere insieme nono-
stante i pregiudizi biologici e culturali dei rispettivi
compagni di specie.
alla Quinzaine che abbiamo trovato i film pi con-
vincenti del Festival: il gi citato Rengaine e soprattut-
to lultimo lavoro di Pablo Larran, No, che completa
la trilogia sul Cile di Pinochet. Un film sorprendente
sia per la storia, che ricostruisce la campagna referen-
daria (pro o contro il regime) del 1988, sia per lo stile,
completamente diverso da Post Mortem, agile, sporco
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Amour
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e diretto, realizzato con una macchina degli anni
Ottanta, per garantire la stessa resa dellimmagine tra
video depoca e ricostruzione cinematografica.
Documento, narrazione e riflessione sono sapientemen-
te amalgamati in una pellicola che ricostruisce la bat-
taglia tra il S e il No a Pinochet, mentre racconta la
sfida personale tra un giovane pubblicitario prestato
alla politica (che utilizza il suo talento per vendere il
prodotto-democrazia al pubblico degli elettori) e il
capo della sua agenzia, schierato con il dittatore in
cerca di legittimazione internazionale. Per la prima
volta lopposizione pot contare su quindici minuti al
giorno di spazio libero in tv, riempiti con una spiazzan-
te (per il regime) retorica della gioia, jingle orecchiabi-
li, video (pi o meno) creativi, interviste raccolte per
strada, satira svela-ipocrisie. La vittoria del No rac-
contata in modo appassionante, ma in un certo senso
finisce anche per inquietare: davvero solo una que-
stione di comunicazione? La politica ancora pratica
e teoria della cosa pubblica, un esercizio critico di con-
sapevolezza (memoria) e trasformazione, o solo una
tecnica da usare a fin di bene o di male, una sfida tra
retoriche contrapposte, in cui la verit va mediata e
ben confezionata perch non spaventi la gente?
In confronto al film di Larran, misteriosamente
fuori concorso, tutto il resto appare incompiuto (il
che non sempre un male), anche quando molto
pi ambizioso o esteticamente coraggioso. Basta pen-
sare a Paradies: Liebe (Paradise: Love) di Ulrich
Seidl, che racconta lapprodo in Kenya di danarose
signore in l con gli anni in cerca di piaceri sessuali
animali (se poi una vuole anche la tenerezza, la que-
stione si complica): un nuovo rigoroso viaggio nel-
losceno, con qualche immagine folgorante (i giovani
neri in piedi sulla spiaggia del resort ad attendere di
essere scelti), ma un film che finisce per attorcigliar-
si su se stesso e sul sadico compiacimento del regista.
Un altro film che comincia benissimo e a un certo
punto non sa pi dove andare Reality di Matteo
Garrone, forse anche per colpa dellesile storia, in cui
lo spassoso tragico protagonista (un pescivendolo
napoletano ossessionato dal Grande Fratello televisi-
vo) viene lasciato alla deriva di una follia che non
cresce, non impazzisce fino in fondo, rimane in
superficie, dentro un film abile, anche divertente, ma
non cos agghiacciante come vorrebbe (dovrebbe)
essere. Christian Mungiu, invece, sa fin troppo bene
dove vuole arrivare, tanto che il suo interessante
Dupa dealuri (Beyond the Hills) finisce per assomi-
gliare a uno di quei film a tesi che non rivelano la
realt, ma ne fanno una parafrasi un po macchinosa
(per quanto ben girata).
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Beast of the Southern Wild
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E sia chiaro che parliamo di registi di talento. Autori
come Jacques Audiard (in De rouille et dos ci sono
sprazzi di grande intensit) o Abbas Kiarostami (che
occhio! ma quanto irritante questo esercizio di cui
non si vede il motivo!) o Carlos Reygadas (allinizio di
Post Tenebras Lux ci sono i cinque minuti di cinema
pi straordinari di tutto il Festival, ma poi, tra la nar-
razione antinarrativa e le immagini sfocate e sdoppia-
te sui bordi, un satana-caprone fosforescente e una
patetica orgia, abbiamo limpressione che il regista
voglia solo impressionare).
Su tutti questi film le opinioni sono molto discordan-
ti (rimandiamo ai voti del prossimo numero). Ci sar
spazio abbondante per discuterne sulle pagine della
rivista. Ci sar modo di raccontare la delusione dopo
aver visto Io e te di Bernardo Bertolucci, gli imbarazzi
di fronte al Dracula di Dario Argento (lo dicono anche
i fan pi sfegatati), i pregi e i difetti dei film di Nichols
e Resnais, il colpo di genio di Elia Suleiman (Diary of
a Beginner) nellinutile film collettivo 7 das en la
Habana, il piacere di scoprire il talento di Ben Zeitlin,
trentenne esordiente originario di New York, autore di
Beast of the Southern Wild, un film malickiano, rude e
visionario, pieno di idee e di energia, fatto di terra e
acqua, di ghiacci che si sciolgono e animali preistorici
al galoppo, di un mondo pagano che sta scomparendo
(sul Delta del Mississippi) e di una coraggiosa bambi-
na di sei anni, Hushpuppy, che vive col padre alcoliz-
zato e uninaffidabile inaffondabile comunit di stram-
bi selvaggi a cui si finisce per voler bene.
In unannata come questa col suo consueto appa-
rato fuori concorso di film altri che raccontano guer-
re, periferie, miserie con la formula festivaliera del
cinema minimalista, impegnato, anche un po punitivo,
vagamente ricattatorio finiscono per emergere anche
certi film normali, buoni e giusti, come Elefante blan-
co di Pablo Trapero (due preti ben poco preteschi nella
bidonville di Buenos Aires: uno riscopre il sesso, laltro
destinato al martirio, contro la legge, il sistema, la
curia, la polizia) o A perdre la raisons di Joacquim
LaFosse (storia ben raccontata e ottimamente interpre-
tata, finale escluso, di una madre-moglie schiacciata
dal suo ruolo e dallegoismo di chi la circonda, dentro
una famiglia disfunzionale arabo-francese).
Poi c Leos Carax e il suo ambizioso, metafisico,
metacinematografico film-mondo. Il Festival di
Cannes assomiglia un po alla limousine piena di cine-
ma che sta al centro di Holy Motors. Maschere, truc-
chi, storie di ogni genere, emozioni assortite, cose gi
viste o ancora da vedere. Ma anche una lista di
appuntamenti rigorosa, perch lo spettacolo (come la
vita) ha le sue regole e la sua ontologia (autore, atto-
ri e spettatori sono complici del gioco). Ognuno pren-
de quello che pu. E non c modo di conciliare chi
ritiene che il film di Carax sia un bidone, un esercizio
meccanico, una stecca di quelle memorabili, e chi
invece pensa sia lunico autentico capolavoro di que-
stanno, il film che sbaraglia codici e attese, il cinema
che va al di l del cinema.
A proposito di limousine, cera grande attesa per
lincontro tra David Cronenberg e Don Delillo in
Cosmopolis. Capita di salire su unauto per andare dal
barbiere, e magari provare a riconciliarsi con la vita (o
meglio, con la morte), e di ritrovarsi protagonisti di
unodissea che assomiglia alla fine del mondo (capita-
lista, tecno-virtuale, solipsistico). Qui siamo nel cuore
della questione che attraversa tante, forse tutte le pelli-
cole del festival, belle o brutte, realiste o fantastiche,
con ambizioni liriche o vocazione di genere. A volte il
tema e in altri casi solo il contesto, il nemico esplici-
to o il convitato di pietra, la causa che scatena il dram-
ma o il palcoscenico che ne amplifica la portata. la
nostra societ fondata sul denaro e lossessione del
controllo, sullegolatria, latomizzazione sociale, il con-
formismo culturale, la disuguaglianza, il culto delleffi-
cienza, la tecnologia dellinformazione fine a se stessa.
Non aspettatevi risposte da questo film parolaio, in cui
gli stranianti dialoghi del romanzo vengono ulterior-
mente raffreddati da una messinscena che esalta larti-
ficio e una claustrofobia luttuosa. Ma qualche buona
domanda, forse, c.
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Elefante blanco
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Comincerei col dire che nella vicenda artistica di
Gianni Amelio Il primo uomo una sorta di ripiego;
lo dico provocatoriamente, ovvio, ma credo sia un giu-
sto modo per rilevare lassurdit di una pausa come
quella che separa La stella che non c (2006) da que-
stopera ultima. In altre parole, Amelio ricorre a Camus
dopo linqualificabile comportamento dei produttori e
dei committenti che avrebbero dovuto sostenere la rea-
lizzazione di un film in Argentina; il film che lautore
inseguiva da anni e avrebbe dovuto seguire le tracce
dellemigrazione paterna, cio larchetipo di una vita e
di tutta unesperienza di cineasta. Il film argentino era
gi stato approvato; non solo, Amelio era gi stato nel
Paese latinoamericano (e italiano) per un non breve
periodo di sopralluoghi e ricerca di attori. Che successe,
poi? Successe che qualcuno giudic poco appetibile una
storia ambientata nel Paese latinoamericano proprio
in un periodo nel quale la sua crisi anticipava la nostra!
e decise di annullare il progetto.
Lincompiutezza del romanzo di Camus, insomma,
risponde a quella di un lavoro sacrificato. Come poteva,
Amelio, entrare nella memoria di Camus (direi perfino
nel suo corpo) e mantenersi libero, cio fedele secondo
i propri mezzi e bisogni? Cercher di spiegare pi avan-
IL PRIMO UOMO Gianni Amelio
SPECIALE
LA DIFFERENZA E LA FEDELT
Tullio Masoni
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ti che una scelta precisa c stata, tale da avvicinare Il
primo uomo a certi titoli di minor successo: Il piccolo
Archimede (1979), I velieri (1983), Colpire al cuore
(1983), che ci avvenuto nella ricerca di unadesione
al testo superiore a quella assunta in altre imprese:
penso a Rea per La stella che non c o a Pontiggia per
Le chiavi di casa (2004), e che tale scelta applica, ne
fosse o meno consapevole lautore, il concetto indicato
da Graham Greene per Il terzo uomo: Il film [] rap-
presenta [] lultima stesura, lultimo, stadio, il pi per-
fezionato, del racconto. (1)
Un aspetto della prosa di Camus leccezionale
equilibrio che lo scrittore raggiunge fra spinta passio-
nale e sintattica asciuttezza, fra esuberanza corporea
e spiritualit, fra disincanto sui fatti e ideale tenacia;
in altri termini, uno stile che rinuncia allenfasi pur
esaltando il dramma della vita umana. Tutto ci, con
ogni probabilit, avrebbe fatto del romanzo un nuovo
capolavoro ma, appunto, il romanzo incompiuto:
bellissimo e, in potenza, pi bello ancora (2). Quella
di Amelio col film e credo di non forzare troppo
pu davvero essere una nuova stesura, ove con que-
sto si intenda una sintesi raggiunta compiendo scelte
nel testo. Da ci, una fedelt che si conferma attraver-
so le differenze formali, e rispetta nel profondo la
figura di Camus: La ringrazio di aver fatto questo
film con tanto pudore, misura e bellezza, ha scritto la
figlia Catherine in una lettera al regista nel mio
mestiere ho incontrato raramente un tale rispetto.
[] Di certo non sono una spettatrice obiettiva, ma
ho trovato il suo film bellissimo. Ho ammirato la sua
direzione degli attori (senza una nota falsa!) e la giu-
sta distanza che lei ha preso, e che rispetta la finzio-
ne senza tradire il libro (3).
***
Di Camus, Amelio adotta leccesso abbacinante della
luce o la sublime chiarit. La luce, soprattutto. Che ina-
ridiva il paesaggio urbano di La peste pur racchiuden-
do meraviglie, o si faceva tragico abbaglio sulla spiag-
gia di Ltranger. Allinizio un quadro sfocato, poi la
figura mezza e nitida del custode che entra lateralmen-
te. Su richiesta di Cormery luomo cerca una tomba, un
morto fra i troppi del 1914; luomo si muove in senso
orizzontale guardando in basso: il senso di sguardo che
il cimitero, con le sue file, impone.
Amelio ha dei cimiteri una particolare memoria: Il
mio paese dominato da un cimitero, da qualunque
punto tu guardi verso Nord vedi il cimitero e quindi
ricordi le persone che ti stanno vicino e che sono l.
Credo non sia un fatto casuale che il cimitero sia stato
messo l; infatti, ci sono dei Paesi, a esempio lAlbania,
dove il cimitero sta addirittura dentro il paese. []
molto bello perch al centro: una non separazione dei
morti dalla vita dei vivi (4). Cormery, al contrario,
cerca a Saint-Brieuc cio lontano sia da Parigi che da
Algeri un padre sconosciuto, un estraneo. Cormery ha
quarantanni, e solo leggendo liscrizione da cui scopre
di essere pi vecchio del padre viene davvero toccato:
E londata di tenerezza e di piet che dun tratto gli
riemp il cuore non era quello slancio dellanima che
spinge il figlio verso il ricordo del padre scomparso, ma
la compassione e il turbamento di un uomo fatto davan-
ti a un ragazzo ingiustamente assassinato era una
cosa fuori dellordine naturale, e in effetti non poteva
esserci ordine, ma solo follia e caos, dove il figlio era pi
vecchio del padre (5).
(1) Graham Greene, Il terzo uomo, Bompiani, Milano 1989, pag. 9.
(2) Albert Camus, Il primo uomo, Bompiani, Milano 1995. Nella nota
del curatore (Catherine Camus), a pag. 5 si legge: consta di cento-
quarantaquattro pagine scritte di getto, a volte senza punti n virgole
[] Per facilitare la comprensione del racconto, si ristabilita la pun-
teggiatura.
(3) La lettera di Catherine Camus ad Amelio apparsa su La
Repubblica di martedi 17 aprile 2012.
(4) Emanuela Martini, Gianni Amelio, Il Castoro Cinema, Milano
2006, pag. 9.
(5) Albert Camus, cit., pag. 25.
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Tenerezza, dunque, piet e angoscia. Il tempo della
vita di molti che si riduce a un tempo unico superando
le generazioni. Il tempo che Amelio ha dato al film inte-
ro; un unico attonito tempo, assorto nella frontalit del
protagonista; in un primo piano, da cui ogni distanza
del passato, ogni cronologia si annulla: Intorno a lui,
immobile, fra queste tombe che aveva smesso di vedere,
si spezzava persino la successione del tempo e gli anni
avevano cessato di allinearsi in un grande fiume che
scorre verso la foce. Non erano ormai che fragore, risac-
ca e risucchio, ed era qui che si dibatteva Jacques
Cormery, alle prese con langoscia e la piet (6).
La scelta nel testo compiuta dal regista diventa
subito scelta poetica e di stile. I movimenti orizzonta-
li, la frontalit del protagonista (un Jacques Gamblin
che pi giusto e fuori dalla somiglianza non avreb-
be potuto essere), lindietreggiare della mdp, o il
seguire, in una sorta di falso movimento, cio di
variazione della stasi, lincessante replica del luogo
salvo le sacrali aperture di paesaggio e la sordina
raffinata di Piersanti che accompagna alterne, senti-
mentali lontananze, danno allinsieme un fatale e tor-
mentato tempo di ritorno.
Se pocanzi ho richiamato alcune opere piccole e
mi riferivo alla rarefazione dello stile ora vorrei misu-
rare la coerenza di Amelio riandando a Cos ridevano
(1998), dove il passato che in Il primo uomo fluisce
replica nella tragica convulsione del presente. Assai feli-
ci, in proposito, mi sembrano le parole di Mauro
Gervasini che, ammettendo autocriticamente un vec-
chio disagio ( titolo cruciale nella filmografia del-
lautore, da noi mai troppo amato), opera il confronto
sulla sintesi di passato-presente: scopriamo che le
asperit del film sono tutte negli occhi di chi guarda.
Una sorta di resistenza al romanzo ellittico, quando
avremmo voluto lo scarto temporale riempito da un
flusso narrativo diverso (7). Una resistenza, certo, e
aggiungerei pi in generale riprendendo quanto scrit-
to in altra occasione la ripulsa per lo specchio, cio
per la miseria di un paese che ha smarrito buone o
cattive identit e ragioni.
Il Camus di Il primo uomo, infine, suggerisce una
domanda: non restava ormai che quel cuore ango-
sciato [] andare oltre, e di sapere, sapere prima di
morire, sapere finalmente per essere, una sola volta,
un solo secondo, ma per sempre (8), alla quale pro-
prio il tempo concepito da Amelio, ossia la personale
e corporea verifica della storia, offre una parziale ma
franca risposta. Oltre il segreto di ogni vita, cercato
con avidit da Camus/Cormery, e avvertibile nellinti-
mit di un padre ragazzo cui era toccata la morte pi
ingiusta. Il segreto di una morte giusta o almeno
Titolo originale: Le premier homme. Regia e sceneg-
giatura: Gianni Amelio. Soggetto: dal romanzo omo-
nimo di Albert Camus. Fotografia: Yves Cape.
Montaggio: Carlo Simeoni. Musica: Franco
Piersanti. Scenografia: Arnaud de Moleron. Costumi:
Patricia Colin. Interpreti: Jacques Gamblin (Jacques
Cormery), Maya Sansa (Catherine Cormery nel 1913
e nel 1924), Catherine Sola (Catherine Cormery nel
1957), Denis Podalyds (il maestro Bernard), Ulla
Bauqu (la nonna), Nino Jouglet (Jacques da picco-
lo), Abdelkarim Benhabouccha (Hamoud), Hachemi
Abdelmalek (Aziz), Jean-Paul Bonnaire (lo zio
tienne nel 1957), Jean-Franois Stvenin (il padro-
ne della fattoria), Nicolas Giraud (lo zio tienne nel
1924), Djamel Said (Hamoud da piccolo),
Mohammed Zahir Taifour (il fratello di Hamoud),
Alexandre Delamadeleine (Henri Cormery), Oualahi
Messouda (la madre di Aziz), Jerome Le Paulmier (il
padrone del mulino), Mohammed Boubker (lacca-
lappiacani), Mohammed Boubker jr. (il figlio dellac-
calappiacani), Ygal Egry (un ufficiale francese),
Sacha Petronijevic (un funzionario), Franck
Beckman (un colono). Produzione: Marco Chimenz,
Giovanni Stabilini, Riccardo Tozzi, Bruno Psery per
Cattleya/Soudaine Compagnie/Maison de Cinma/
France 3 Cinma/Lath Mdia/Rai Cinema. Distri-
buzione: 01. Durata: 100. Origine: Italia/Francia/
Algeria, 2011.
Il film traduce liberamente il romanzo trovato nella
sacca di Albert Camus dopo lincidente automobilistico
nel quale lo scrittore, il 4 gennaio 1960, era rimasto
ucciso. Jacques Cormery visita la tomba del padre,
caduto sulla Marna nel 1914 e, da quarantenne, consta-
ta di essere il pi vecchio fra i due. Poi parte per Algeri,
dove abita lanziana madre; il 1957, e nella colonia
infuria la lotta che presto volger in guerra portando
allindipendenza dalla Francia. Il viaggio di Cormery,
che incarnando lo stesso Camus ormai uno scrittore di
fama mondiale, rappresenta una verifica del passato e,
al tempo stesso, ideale. Luomo avversa il nazionalismo
francese ma, in nome di un possibile progresso che porti
a nuove e reali forme di uguaglianza, diffida di una pro-
spettiva quella di unindipendenza segnata dalla tra-
gedia che cancellerebbe ogni feconda possibilit di
contatto fra diversi. Come tanti connazionali che erano
emigrati in Algeria spinti dalla pi dura necessit,
Cormery non dimentica di essere stato povero e, come
tale, vicino alla condizione degli arabi; sulla base di ci
vorrebbe fosse riconosciuta una sorta di obiettiva,
ambivalente e reciproca solidariet. un francese isola-
to che alluniversit di Algeri, dove incontra gli studen-
ti, o parlando alla radio, rivendica (non solo per ragio-
ni di nascita) unappartenenza algerina. Come la
madre, daltronde, che non vuole finire la propria vita
in Francia: Parigi bella, risponde a un timido invito
del figlio ma non ci sono gli arabi.
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autentica, se non proprio felice: Dal suo letto
Mersault avvert questurto e questa offerta e apr gli
occhi sul mare immenso e curvo, smagliante, animato
dai sorrisi dei suoi iddii. [] Guard le labbra carno-
se di Lucienne e, dietro di lei, il sorriso della terra. Li
guardava con lo stesso sguardo e con lo stesso deside-
rio. Tra un minuto, tra un secondo, pens. La salita
si ferm. E pietra tra le pietre, ritorn nella gioia del
suo cuore alla verit dei mondi immobili (9). un
caso che il romanzo ultimo e incompiuto ponga il
segreto gi contemplato nel primo, e che Mersault sia
anche il nome delltranger?
***
Un controcampo allimpiedi, ma poi pi tradi-
zionalmente spezzato, racconta il colloquio in carce-
re fra il vecchio compagno di scuola di Cormery e suo
figlio, condannato a morte per aver preso parte a
unazione terroristica. Al giovane toccher la ghi-
gliottina, lemblema giustiziere della Francia rivolu-
zionaria ossessivamente inciso nella coscienza di
Camus: basti ricordare il suo saggio-proclama contro
la pena capitale, e la chiusa di Ltranger, e ancora,
in Il primo uomo, quel padre che si era alzato prima
dellalba per assistere a unesecuzione e da ci aveva
riportato malori di nausea e febbre. Quel giovane die-
tro le sbarre, poi, ricorda Al-la-Pointe, un piccolo
delinquente che da una finestra del carcere, in La
battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo, assi-
steva alla decapitazione di un patriota traendo dalla
visione e dallultimo grido del condannato una deci-
siva ragione di impegno politico.
Una volta trovata la chiave con la quale tradurre il
testo, cio lindispensabile affinit, Amelio si diffon-
de su quanto in Camus rimane sospeso fra le righe,
cio la situazione che Pontecorvo aveva rievocato nel
film del 1965. E tuttavia i motivi del contrasto fra lo
scrittore e gli intellettuali francesi fratelli, che si
erano schierati senza riserve per la causa dellindi-
pendenza, emergono chiari nel film come era stato
nel libro: la solitudine di chi francese per origine e
per il mondo ma, al tempo stesso, si sente algerino
nellanima, la sconfitta (giusta e storicamente inevi-
tabile, ma a che prezzo) di un uomo che nel con-
fronto di povert (quella dei francesi immigrati per
fame e degli algerini oppressi) e financo di dispera-
zione, cerca il viatico per una nuova, pi democrati-
ca e civile uguaglianza, infine la profezia di una rovi-
na che avrebbe non molto pi tardi oggi travolto
con modi e intensit diverse i popoli e i sistemi di
entrambi i continenti.
(6) Ibid., pag. 25.
(7) Colpi al cuore, FilmTv n. 16, 22-28 aprile 2012, pag. 13.
(8) Albert Camus, cit., pag. 26.
(9) Albert Camus, La morte felice, Rizzoli, Milano 1987, pag. 136.
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Quando nel film Cormery parla agli studenti, e pi
ancora alla radio, si avvertono solitudine umana, scon-
fitta ideale e amore. Lamore di Camus per il mare ster-
minato davanti e lo spazio interminabile di montagne
dietro, e per quel popolo attraente e inquietante, vici-
no e separato, che si costeggiava nel corso delle giorna-
te (10), con quelle donne che non si vedevano
mai o, se le si incrociava per strada, non si sapeva chi
fossero, con quel velo a met viso e i begli occhi sensua-
li sopra il panno bianco (11); lo stesso amore che
Cormery, parlando alla radio, rivendica in nome della
madre, ben sapendo che la minaccia invisibile dei quar-
tieri sovraffollati si sarebbe presto tradotta nel coro di
voci selvagge, incomprensibili e ritmate provenienti
dalla Casbah notturna; in un annuncio di insurrezione
che, commenta al telefono un giornalista nel film di
Pontecorvo, suona con la minaccia di un incubo.
Se per Camus lAlgeria terra materna, altrettanto si
pu dire, fatte le dovute differenze, per Amelio. Terra non
troppo diversa dalla Calabria della sua infanzia o
dallAlbania di Lamerica (1994) e terra fecondata dal-
loscura ma tenace resistenza delle donne. Con La stella
che non c il femminile, secondario ma concreto e irri-
nunciabile in varie opere precedenti, passava nella sensi-
bilit ferita del protagonista, cio scoprendo la stessa
madre di Amelio dietro la mai conclusa ricerca del padre.
Il primo uomo d una nuova e pi decisa conferma;
Cormery compie il suo viaggio nel passato partendo dal
riconoscimento di un padre mai visto, ma la madre che
davvero resta. Allarrivo Cormery non la trova in casa ma
in un mercato arabo; nel finale vedremo questa madre
stagliata nella luce del Paese da cui non vuole n pu
separarsi. Con fare domestico e solenne, col senso di fata-
lit che talvolta anima le donne ritirate ma superiori, ella
riceve la luce dalla finestra, poi chiude le imposte.
La storia finisce, la storia continua. Lideale di
Camus/Cormery sar sconfitto, e forse lo era gi da
decenni se proprio lui per sempre legato a quella
terra splendida e terrificante aveva denunciato dise-
guaglianze quotidiane,naturali (perdurando lordine
coloniale), e furori umiliati dallendemica stanchezza
cui induce il potere. Un po nella stessa anomalia dello
scrittore, che aveva acquisito una Patria pi che eredi-
tarla, Amelio sostiene da tempo il valore di una terra
e una famiglia putative; per questo la madre di
Cormery, che accoglie la tragedia sapendo di apparte-
nerle, suggerisce anche per il dopo cio per loggi tri-
stissimo un parziale, disperato, e tuttavia caparbio
sentimento di pace.
(10) Albert Camus, Il primo uomo, cit., pag. 231.
(11) Ibid., pag. 231.
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Quando si dice che Il primo uomo un film autobio-
grafico, di Gianni Amelio, basato sullomonimo roman-
zo autobiografico di Albert Camus, occorre intendersi.
Per quanto assurdo o paradossale possa sembrare, non
significa che Amelio si sia semplicemente servito di
questo testo per potersi raccontare in prima persona,
con tutto ci che in un autore la soggettivit comporta
sul piano storico, sociale e antropologico.
AMELIO SECONDO CAMUS
Amelio, prima ancora di farci un film, di immaginarne
anche solo la possibilit, ne ha strategicamente interioriz-
zato le dinamiche costruendosi addosso una parvenza
autobiografica credibile. Simulando una perfetta e medita-
ta trasparenza del s, che i suoi stessi film da sempre
lasciano intendere reclamando percorsi interpretativi in
tal senso, riuscito ad aggirare o fugare meglio la forte
istanza o ingerenza conoscitiva che dallesterno sembra
minacciare la propria sorgente creativa. Con Camus i suoi
presunti fantasmi del passato, familiare e storico, hanno
trovato una precisa sistemazione autobiografica. A partire
dallautobiografia romanzata, appena dissimulata, incom-
piuta dello scrittore francese il regista italiano ha elabora-
to un solido passato di copertura: uno schermo dietro il
quale trovare risposo, riparo e sicurezza. La successiva tra-
sformazione di tale schermo protettivo offerto da Camus
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ALBERT, GILLO, LUCHINO:
I FANTASMI DI UN PADRE RAGAZZO
Anton Giulio Mancino
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in schermo cinematografico ha consentito semmai il rad-
doppiamento del dispositivo memoriale indiretto.
In altre parole, il rafforzamento ad hoc della convinzio-
ne fuorviante e fallace, dentro il film, che la chiave di
accesso privilegiata al vissuto di Camus sia il vissuto di
Amelio. Mentre vero esattamente il contrario. Come
vedremo Amelio ad aver scelto gi nel 1994, lanno in
cui viene tradotto in Italia Il primo uomo, di attingervi
per travestirsi autobiograficamente. Il pudore sul versan-
te biografico gli ha suggerito il ricorso a una suggestiva e
illustre derivazione autobiografica come travestimento
insospettabile. Lintenzione di indossare la maschera
espressamente autobiografica di Camus precede dunque
la realizzazione di questo film sintomatico, ove Amelio
sembra aver trovato il modo di dire, o meglio non dire
finalmente qualcosa di s. Lasciando che questo presun-
to s coincida a prima vista con quello di Camus. Il pro-
cedimento adoperato sottile.
IL PRIMO PRIMO UOMO
A innescare il meccanismo retrospettivo nel primo
capitolo del libro la forte impressione che il protagoni-
sta riceve dalla lettura dei dati anagrafici del padre sco-
nosciuto e precocemente defunto: Fu in quellistante che
lesse sulla lapide la data di nascita del padre, scoprendo
nello stesso tempo di averla sempre ignorata. Poi not le
due date 1885-1914 e fece un rapido calcolo: venti-
nove anni. Un pensiero lo colp allimprovviso e lo scos-
se. Lui di anni ne aveva quaranta. Luomo che giaceva
sepolto sotto quella pietra, e che era stato suo padre, era
pi giovane di lui. E londata di tenerezza e di piet che
dun tratto gli riemp il cuore non era quello slancio del-
lanima che spinge il figlio verso il ricordo del padre
scomparso, ma la compassione e il turbamento di un
uomo fatto davanti a un ragazzo ingiustamente assassi-
nato era una cosa fuori dallordine naturale, e in effet-
ti non poteva esserci ordine, ma solo follia e caos, dove il
figlio era pi vecchio del padre. [] Guard le altre lapi-
di del settore e cap dalle date che quel terreno era costel-
lato di ragazzi che erano stati i padri degli uomini briz-
zolati convinti di vivere in quel momento (1).
Dal canto suo il film puntualmente, nella prima
scena, sembra recepire leffetto sorpresa che scuote la
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(1) Albert Camus, Le premier homme, Bibliotque National pour la
Lettre de Louis Germain, Parigi 1994 (ed. it. Il primo uomo,
Bompiani, Milano 1994; 2011, pagg. 30-31).
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coscienza di Jacques rispetto a quel padre ragazzo
verso il quale non riesce pi a mostrarsi indifferente,
scostante, distratto. Non un caso che Amelio abbia
deciso di cominciare il suo Il primo uomo pressoch l
dove comincia loriginale di Camus. Ma la fedelt nella
trasposizione cela un ben pi profondo debito dellau-
tore cinematografico nei confronti di quello letterario.
Un debito contratto come si detto nel 1994,
quando cio Amelio, a stretto giro dalla pubblicazione
italiana del libro, descrive in una lunga intervista il
rapporto con i genitori e in particolare con il padre
adottando, anzi riadattando il paradosso temporale
descritto e analizzato da Camus.
IL SECONDO PRIMO UOMO
Come il maldestro Antoine Doinel di I quattrocento
colpi (Les 400 coups, 1959) di Franois Truffaut che
desume letteralmente da Honor de Balzac lepisodio
della morte di suo nonno per il compito in classe di
francese anche Gianni Amelio in un certo senso ruba
ad Albert Camus lo schema del ricordo paterno: Io ho
avuto, racconta sul piano personale, su un piano
molto privato, uno shock da adulto, quando, avendo di
gran lunga superato let in cui mio padre mi ha gene-
rato, ho valutato che et avevano i miei genitori quan-
do io li vedevo adulti. Per esempio un giorno ho pen-
sato a mia madre morta e ho realizzato che avevo dieci
anni pi di lei quando morta. Mio padre mi ha gene-
rato che aveva diciassette anni (e mia madre ne aveva
quindici), e quando partito per lArgentina non
aveva ancora ventun anni. [] Improvvisamente,
quando morto davvero, non lho visto pi come mio
padre, lho visto come un essere che a undici anni
stato lasciato da suo padre, a diciassette ha avuto un
figlio, a diciotto ha avuto una figlia, a ventuno parti-
to per cercare suo padre (2).
Come si pu constatare lo shock di Amelio coinci-
de con quella strana vertigin descritta da Camus
che lo aveva colto in quel momento, quella statua che
ogni uomo finisce per erigere e indurire al fuoco degli
anni, insinuandosi in essa per attendervi lo sgretola-
mento finale, si stava screpolando in fretta, stava gi
per andare in pezzi (3). Ragion per cui, retrospettiva-
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(2) Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con
Goffredo Fofi, Donzelli, Roma 1994, pag. 22.
(3) Albert Camus, Il primo uomo, cit., pag. 31.
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mente, con il senno di poi che poi quello di Camus,
senza citarlo esplicitamente per non svelare il curioso
gioco mitobiografico lautore di Il ladro di bambini
(1992) e Lamerica (1994) conclude cos quella che
chiama la quadratura del circolo della mia esistenza:
se ho un problema come uomo, come individuo in rap-
porto ai miei genitori il fatto che oggi li sento giova-
ni, li vedo giovani, non posso avere unimmagine di
mia madre, n di mio padre, quando ho visto mio
padre adulto ero adulto io, e mia madre non mai
stata adulta perch era sempre bambina. Tutti dicono
che io faccio i film sui bambini. Non vero! [] E chi
pu dare torto [] a mio padre di essersi lasciato die-
tro San Pietro Magistano? Io che cosa ho fatto? Io che
non ci ritorno e non ci sono ritornato pi, che cosa ho
fatto? Mio padre ha rimosso la povert, la povert
della sua famiglia, di suo figlio, del suo paese andando
a vedere i grattacieli, ed rimasto laggi (4).
Insomma, chi che parla, Amelio o Camus, maga-
ri per bocca di Amelio? In questo montaggio incro-
ciato senza soluzioni di continuit la palla passa a
Camus: Ma ora gli sembrava che quel segreto che
aveva cercato con avidit di conoscere attraverso i
libri e le persone, fosse intimamente legato a questo
morto, a questo padre ragazzo, a ci che era stato ed
era diventato; e di aver cercato lontano ci che gli era
vicino nel tempo e nel sangue (5). Ed sempre
Camus, dopo questa premessa, a scrivere che il suo
alter ego Jacques Cormery spianando la strada alla
memoria e alle parabole infantili de relato di Amelio
poteva finalmente dormire e tornare allinfanzia
da cui non era mai guarito, a quel segreto di luce, di
povert calorosa che lo aveva aiutato a vivere e a vin-
cere ogni cosa (6).
LALGERIA DEI PADRI RINNEGATI
Ma anche con laltrui riscoperta del padre, di alter
ego in alter ego, occorre intendersi: Nel momento in
cui, racconta sempre il regista ho provato questo
struggimento per la giovinezza estrema di mio padre,
lho assolto di tutti i suoi possibili peccati. Ricordo
che mi dicevo: il giorno che mio padre muore conti-
nuer a fare tranquillamente le mie cose perch la
sua scomparsa fisica non mi interesser pi di tanto
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(7). Da parte di Amelio questo bisogno di conviven-
za con limmagine presente/assente o con figure di
riferimento a monte che assumono valenza paterna
non potevano che essere mutuate da Camus. Se i
ricordi e il connesso meccanismo scatenante appar-
tiene in prima istanza a Camus, non ad Amelio, allo-
ra a chi altri potrebbe riferirsi Amelio che non a caso
in Il primo uomo in Algeria voluto tornare da un
defunto padre ex milite, a lui quasi del tutto ignoto,
contrapposto a una madre viva e profondamente
amata? Sembra di sentire il mite sceriffo di Psyco
(Psycho, 1960) di Alfred Hitchcock: Ma se quella
donna la signora Bates, chi la donna sepolta nel
cimitero di Greenlawn?.
La casella o la tomba resta infatti vuota, ora pi che
mai. Si potrebbe provare a riempirla con i padri cine-
matografici, con cui inevitabilmente un regista cinefi-
lo e profondamente consapevole della storia del cine-
ma come Amelio si trova ogni volta a dover fare i
conti. Se in Il ladro di bambini e Lamerica ha fatto i
conti con il Neorealismo e in particolare con Roberto
Rossellini (Roma citt aperta [1945]; Germania anno
zero [1947]), o in Cos ridevano (1998) con leredit
melodrammatica di Luchino Visconti (Rocco e i suoi
fratelli [1960]), nel suo Il primo uomo i padri putativi,
scomparsi, respinti, persistenti sono Gillo Pontecorvo
o daccapo Luchino Visconti. Leredit da riconferma-
re, confutare, capovolgere mette in moto ancora un
gioco di ombre paterne.
Amelio chiama in causa in maniera persino espli-
cita, cercando per una prospettiva e una posizione
diversa, critica, sconcertata, lesigua filmografia di
Pontecorvo che principalmente ruota attorno a La
battaglia di Algeri (1966), attraverso cui dallItalia,
su commissione della Casbah Film, viene
rievocata/celebrata a posteriori la lotta armata per
lindipendenza dellAlgeria come prototipo del cine-
ma politico internazionale di impianto marxista, in
cui non si pone il problema del rapporto tra violenza
e nonviolenza ma tra contrapposte istanze violente
legittimate da una sorta di religione laica e dialettica
della Storia. E chiama in causa latto parzialmente
mancato, uno dei tanti atti mancati della filmografia
e della teatrografia emblematiche e spesso sommerse
di Visconti il quale nel suo quasi rimosso Lo stranie-
ro (1967), non a caso prima pretestuoso poi troppo
fedele allomonimo romanzo di Camus, progettava
di prendere spunto dal testo per allargare largomen-
tazione dellAlgeria coloniale del 1938-39, a una
sorta di previsione dellOAS e della guerra dindipen-
denza algerina: trapiantare limmagine dellarabo del
libro nellimmagine di unAlgeria oppressa che forse
un giorno si ribeller (8).
Del resto i cenni allOAS, allAlgrie Franaise e
alla Rivoluzione algerina, che Visconti lasci circola-
re come propria primitiva intenzione (9), non solo
non si sono concretizzati nelloriginario, ambiguo
progetto di Lo straniero, ugualmente coprodotto
dalla Casbah Film, che possiamo definire storico-
politico, di attualizzazione del testo sullo sfondo di
unAlgeria travolta da una guerra fratricida, ma
nemmeno in quello contiguo teatrale di Troilo e
Cressida in cui ambientare la storia scespiriana
della guerra fra Greci e Troiani nellAlgeria in lotta
fra algerini e francesi: unidea alquanto peregrina
che rimase allo stadio di progetto (10). Fantasmi
paterni, atti, progetti e film mancati, opere incompiu-
te come testi e pretesti per una storia del cinema ita-
liano che torna sui suoi passi in cerca, da un altrove
allaltro, di occasioni aperte di riflessione e riscoper-
ta, riscrittura e riscatto.
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(4) Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema, cit., pagg. 23, 25.
(5) Albert Camus, Il primo uomo, cit., pag. 32.
(6) Ivi, pag. 47.
(7) Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema, cit., pagg. 23, 25.
(8) Pio Baldelli, Luchino Visconti, Mazzotta, Milano 1973, pag. 257.
(9) Lino Miccich, Luchino Visconti. Un profilo critico, Marsilio,
Venezia 1996, pag. 57.
(10) Gianni Rondolino, Visconti, UTET, Torino 1981, pagg. 463-464.
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strano osservare come la sensazione che scaturi-
sce da molti dei documentari sulle leggende del rock
realizzati negli ultimi anni sia di evanescenza.
Sensazione ancora pi bizzarra se si valuta che ogni
singola inquadratura, ogni testimonianza e ogni foto-
grafia darchivio inserita nelle immagini riservata al
soggetto a cui il film dedicato. Eppure la sensazione
rimane. Per di pi rafforzata. Come se una parabola
inesorabile, giunta al suo punto pi alto dopo un
avvio sorprendente, scivolasse lontano, oltre lesisten-
za terrena, al di l della fama e del successo, oltre
anche la leggenda e la storia della musica, in un empi-
reo lontano, cristallizzato per sempre, inaccessibile e
diafano, impalpabile. E struggente. Cos stato per
Joe Strummer: The Future Is Unwritten (2007) di
Julien Temple e soprattutto per Amazing Journey:
The Story of the Who (2007) dellaccoppiata Paul
Crowder, Murray Lerner, sicuramente uno dei miglio-
ri documenti musicali degli ultimi anni. E cos ,
indubbiamente, per il ritratto fiume di George
Harrison realizzato da Martin Scorsese. Perch se
vero che la semplice sensazione non di certo una
categoria critica, anche vero che tale impressione
indotta dalla costruzione del documentario, dalle
prime inquadrature e dalla personalit stessa del
terzo Beatle (il quarto era Ringo, gli altri due inutile
citarli), quello giovane, allampanato, con la chitarra.
Quello con lo sguardo intenso, rivolto allobiettivo,
ma con il pensiero indirizzato chiss dove.
Il film inizia con una zoomata incerta (sono imma-
gini tratte da un home movie) su un giardino di tuli-
pani, nel cui spazio esiguo delimitato dai bordi dellin-
quadratura sinserisce il volto ormai maturo di George
Harrison, che prende posto discretamente dietro il
rosso dei fiori e la rigidit degli steli. Presente ma defi-
lato, centrale ma sullo sfondo. Forse il significato di
unintera vita in una sola illuminante inquadratu-
ra. Immagine che introduce un prologo, prima dei tito-
li di testa, dedicato al distacco, alla mancanza, al
vuoto lasciato, su cui Eric Clapton, Dhani Harrison,
suo figlio, Terry Gilliam e Ray Cooper, amico e noto
Titolo originale: id. Regia: Martin Scorsese. Fotografia:
Martin Kenzie, Robert Richardson. Montaggio: David
Tedeschi. Con: Terry Gilliam, Paul McCartney, Ringo
Starr,Yoko Ono, Eric Clapton, Eric Idle, Dhani Harrison,
Pattie Boyd, Ray Cooper, Olivia Harrison, Ravi Shankar,
Phil Spector, Tom Petty, Klaus Voormann, George
Martin, Jackie Stewart, Jim Keltner, Astrid Kirchhner,
Jeff Lynne, Jane Birkin, Neil Aspinall, George Harrison
(immagini darchivio), John Lennon (immagini darchi-
vio), Derek Taylor (immagini darchivio), Mal Evans
(immagini darchivio). Produzione: Olivia Harrison,
Martin Scorsese, Nigel Sinclair per Grove Street
Pictures/Spitfire Pictures/Sikelia Productions/Grove
Street Productions. Distribuzione: Nexo Digital. Durata:
208. Origine: USA, 2011.
La vita e la carriera di George Harrison, gli anni di gloria
con i Beatles, il loro sofferto scioglimento, gli album soli-
sti, la vita privata, la riservatezza e il bisogno di spiritua-
lit visti attraverso raro materiale di repertorio e raccon-
tati dalla testimonianza delle persone che lo hanno cono-
sciuto pi da vicino.
GEORGE HARRISON: LIVING IN THE MATERIAL WORLD
Martin Scorsese
L anima, probabilmente
Giampiero Frasca
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session man, riflettono, ognuno a suo modo, in punta
di paradosso. A compendio di tutto, le note di com-
mento di All Things Must Pass, title track di quel
superbo disco solista del 1970, frutto di anni di attese
frustranti, di magnifiche canzoni messe nel cassetto, di
un talento purissimo espresso quasi in punta di piedi
per non offuscare quello dei due leader incontrastati.
Sunrise doesnt last all morning / A cloudburst doe-
snt last all day. Quasi un elogio delleffimero trave-
stito da dichiarazione di poetica. O anche la chiave di
lettura delle immagini che seguono. Un effimero che,
tuttavia, non pu non partire dai Beatles, le cui vicen-
de occupano tutta la prima parte del film e linizio
della seconda, per un totale di poco meno di unora e
cinquanta. Inevitabile.
Cos come inevitabile appare lanomalia di cogliere
solo di riflesso natura ed essenza di Harrison attraver-
so la leggenda del gruppo di Liverpool, e sempre per
mezzo di un diaframma fornito dalla testimonianza di
Paul McCartney, di Ringo Starr, che ne evoca una dop-
pia personalit, una amabile e laltra nascosta, rabbio-
sa, o di Yoko Ono, la cui prospettiva, se ci si fida di ci
che per decenni dissero le malelingue, non pu essere
che alterata dal suo legame esclusivo con Lennon. Una
visione mediata, che non arriva mai a scalfire la cor-
teccia esterna per penetrare nel nucleo di una persona-
lit nascosta e complessa, camaleontica per il bene del
gruppo, in qualche modo pirandelliana, pronta a esse-
re colei che mi si crede. Infatti, prescindendo dai con-
sueti volti immaturi e ribelli del periodo amburghese,
dai caschetti falsamente ingenui della prima met dei
Sixties o degli occhi profondi alla ricerca delloltre del
periodo Sergeant Pepper, sono due gli aspetti che col-
piscono dellesperienza con i Beatles, lastio malamen-
te contenuto con cui Harrison, durante le sessioni di
Let it Be, risponde ai consigli di McCartney circa un
uso troppo invasivo della chitarra in un passaggio
melodico e laccorato sollievo con cui firma le pratiche
che sanciscono la fine legale del gruppo.
Su tutto limpressione di una maschera costante-
mente indossata, unindole mai completamente
espressa, come se essere parte di quella grande mac-
china da guerra del rock ne avesse prosciugato lau-
tentica personalit. Un personaggio lievissimo e una
ricostruzione a tratti wellesiana, se si presta fede alla
singolarit degli aneddoti, che ne fanno, una volta di
pi, una figura vaga, indefinibile, prismatica per la
ricchezza delle prospettive possibili o forse semplice-
mente diafana. Oppure plasmabile, perch attraverso
lirresolutezza del personaggio Harrison possibile
proporre se stessi nella luce pi compiacente. Un epi-
sodio tra gli altri: Eric Clapton racconta che frequen-
tando la prima moglie di Harrison, Pattie Boyd, pian
piano se ne innamor. Ma per il profondo rispetto
che nutriva nei confronti dellamico, con cui amava
jammare per ore nella vastit del giardino della sua
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abitazione, lo inform della situazione che stava
prendendo corpo, ottenendo da Harrison una rispo-
sta che ricorda tanto (troppo?) quella di Viktor
Komarovsky a Yuri Zhivago circa la sorte di Lara,
Prendila, tua, te la regalo. La versione fornita da
Pattie, invece, di segno differente. Sorpresa con
Clapton nel giardino di una villa in cui si teneva un
ricevimento a cui erano stati invitati, Pattie si sent
chiedere da un Harrison furioso se volesse restare o
tornare con lui a casa e opt per il mesto ma riconci-
liante ritorno in seno alla serenit di coppia.
A chi credere? cos necessario credere che una
versione sia pi vera dellaltra? Oppure entrambe for-
niscono quel ritratto sfuggente che rappresenta la
regola di un documentario nel quale si cerca di affer-
rare linafferrabile? Una cosa certa. C una cesura
netta tra il prima e il dopo, tra lera dei Beatles e ci
che accadde successivamente. Per un musicista
dovrebbe essere linizio dellattivit solista, oppure
della carriera in un altro gruppo reso illustre dal suo
nome leggendario. E invece per George Harrison
anche una carriera solista, ma non principalmente.
Fine dellimmagine pubblica, del sono come tu mi
vuoi, e inizio di quella privata. Quella pi vicina alla
realt, probabilmente.
Nel post-Beatles c spazio per il capolavoro All
Things Must Pass, realizzato sotto legida di Phil
Spector, che fornisce a Harrison forza e coraggio per
riesumare dal cassetto suoni personali, riff accantona-
ti, melodie ritenute inadatte e testi rivolti a una tra-
scendenza diventata una sorta di stella polare, di filo
conduttore di unintera esistenza. C limpegno per il
Bangladesh con unimponente operazione di marke-
ting a sostegno dei profughi in fuga dalla guerra tra
India e Pakistan che originer un celebre concerto al
Madison Square Garden di New York, un triplo live e
un film con le riprese della performance. C anche la
costituzione di una casa di produzione, la HandMade
Films, nata per sostenere finanziariamente il progetto
Brian di Nazareth dei Monty Python, e poi dedita ad
altre pellicole con un budget sempre piuttosto conte-
nuto (nel listino anche I banditi del tempo di Terry
Gilliam, Mona Lisa di Neil Jordan e Shakespeare a
colazione di Bruce Robinson).
Ma c soprattutto spazio per una preponderante
dimensione spirituale che pacifica Harrison con se
stesso e con ci che lo circonda. Lontano dallo show
business, compromesso accettato a lungo ma stem-
prante per un carattere la cui vocazione era quella di
voler piantare alberi, stare in silenzio, meditare,
come racconta la sua seconda moglie, Olivia, in rela-
zione al suo rifiuto di comparire in serate ufficiali di
consegna premi. Meditazione e musica, ricerca di una
profondit mistica: una vita che si trasforma in un ine-
sauribile mantra che contraddistingue la seconda
parte della sua parabola, costruita in funzione di ci
che con riluttanza aveva accettato nella prima. Con un
personaggio come Ravi Shankar a sussumere i due
periodi in un unico continuum, figura di musicista
mistico che per Harrison diventa pi importante del
ridanciano maestro Maharishi Yogi, lunico afferma
lo stesso Harrison nel film che lo abbia impressiona-
to pur non avendo mai fatto esplicitamente niente per
impressionarlo. Perch, insegna Shankar, il suono
dio e i maestri lo trasmettono non come una tecnica,
ma come un dono spirituale. Secondo questa accezio-
ne bisogna con ogni probabilit collocare diversamen-
te la sensazione di evanescenza che ammanta tutta
loperazione, sostituendola con un principio ampio e
avvolgente di sublimazione, in virt del quale il sog-
getto pi che defilarsi si eleva, nasconde la sua presen-
za solo per infondere unaura precisa, limmanenza
della sua essenza.
In tutto questo ampio percorso alla rincorsa della
sostanza di un personaggio come Harrison, e prescin-
dendo dalla cura chirurgica con cui le
testimonianze/narrazioni sono montate con le adegua-
te immagini di repertorio, dove si riconosce la presen-
za di Scorsese, il suo tocco, la relazione con se stesso e
con il suo cinema? Si pu effettivamente ridurre tutto
al riferimento allHoward Hughes di Henley con cui
definita lermetica riservatezza di Harrison in una
trasmissione televisiva? E anche in questo caso, evane-
scenza o sublimazione?
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Dautres vies que la mienne (tradotto in Italia da
Einaudi col titolo Vite che non sono la mia) un libro
dal respiro intimo e diaristico dove lo scrittore, sceneg-
giatore e regista Emmanuel Carrre (La moustache,
1986, da cui ha adattato egli stesso il film omonimo nel
2005; Le dtroit de Behring, 1987; La classe de neige,
1995; Ladversaire, 1999; Un roman russe, 2007) si
confronta con le storie reali di altre esistenze conosciute
durante e dopo il calvario di Juliette, la sorella della
moglie, uccisa da un tumore a soli trentatr anni. Fra gli
altri, Carrre conosce due uomini: un giudice, tienne,
collega di Juliette, che aveva un profondo rapporto di
amicizia e di complicit professionale con la scomparsa,
e suo marito Patrice che, fumettista di scarsa fortuna,
apparteneva a un mondo diverso dalla donna, anche
ideologicamente, ma le era estremamente legato. A
Vienne (Isre), tienne e Juliette avevano condiviso una
battaglia legale contro il fenomeno del sovraindebita-
mento provocato dai crediti al consumo e dagli espe-
dienti truffaldini (condizioni contrattuali a caratteri
microscopici) praticati da banche e istituti di credito,
ottenendo qualche vittoria significativa. I due giudici
erano anche uniti dallavere vissuto la stessa drammati-
ca esperienza di malattia (un cancro in giovane et), che
li aveva lasciati menomati (luomo era privo di una
gamba e la donna doveva servirsi delle stampelle). La
descrizione degli eventi delle loro due vite ne raccontava
contemporaneamente una terza, quella di Juliette, la cui
personalit aveva segnato entrambi.
Da queste pagine, dove Carrre interroga la dimensio-
ne estrema della sofferenza e della morte che si aprono
davanti a una giovane donna e madre, nel pieno della
vita e della carriera, Philippe Lioret ha tratto un
romanzo cinematografico, incentrato sui due temi
essenziali del libro, la malattia senza speranza e la truf-
fa legalizzata del credito al consumo. Ha quindi con-
vertito il racconto in prima persona di Carrre in una
storia incentrata sullincontro di due individui di gene-
razioni diverse, con due famiglie e storie differenti alle
spalle, che esercitano lo stesso mestiere di giudici a
Lione (anzich a Vienne). Lioret e il suo sceneggiatore
Titolo originale: Toutes nos envies. Regia: Philippe
Lioret. Soggetto: dal libro Vite che non sono la mia di
Emmanuel Carrre. Sceneggiatura: Philippe Lioret,
Emmanuel Courcol. Fotografia: Gilles Henry.
Montaggio: Andra Sedlackova. Musica: Flemming
Nordkrog. Scenografia: Yves Brover. Costumi: Anne
Dunsford. Interpreti: Marie Gillain (Claire) Vincent
Lindon (Stphane), Amandine Dewasmes (Cline),
Yannick Rnier (Christophe), Pascale Arbillot (Marthe),
Isabelle Renauld (la dottoressa Hadji), Laure Duthilleul
(la madre di Claire), Emmanuel Courcol (il dottor
Stroesser), Anna-Bella Dreyfus (Mona), Thomas Boinet
(Arthur), Lena Crespo (La), Oriane Solomon (Zo),
Eric Naggar (lavvocato Amado), Jean-Pol Brissart (il
presidente Duret). Produzione: Philippe Lioret, Marielle
Duigou , Stphane Clrier, Christophe Rossignon per
Fin Aot Productions/Mars Films/France 3
Cinma/Nord-Ouest Films/Rhne-Alpes Cinma/Mac
Guff Ligne. Distribuzione: Parthnos. Durata: 120.
Origine: Francia, 2011.
Claire una bella donna poco pi che trentenne, appa-
gata nella vita privata e professionale: sposata con
Christophe, un cuoco momentaneamente senza impie-
go, che ladora e da cui ha avuto tre figli, giudice al
tribunale di Lione. Rimane colpita dal caso di Cline,
giovane madre di unamica di sua figlia, che un istitu-
to di credito ha trascinato in Assise come debitrice
insolvente. Scopre cos il sistema perverso del credito
al consumo che strangola gli sprovveduti prestando
loro denaro con interessi altissimi. Claire si appassiona
al caso e, per superare ostacoli frapposti dalla stessa
magistratura, chiede il sostegno di un giudice esperto,
Stphane che, inizialmente scettico, presto decide di
sostenerla nella sua battaglia. Ma c unaltra, atroce,
battaglia che Claire deve affrontare: un glioblastoma,
un cancro al cervello che secondo i medici le lascia
poco tempo da vivere. La donna decide di non seguire
nessuna terapia e di nascondere il suo male a tutti, fin-
ch casualmente Stphane lo scopre. Inizia una corsa
contro il tempo.
TUTTI I NOSTRI DESIDERI Philippe Lioret
Senza dirlo
Roberto Chiesi
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Courcol hanno modificato non poco la fisionomia dei
due protagonisti rispetto ai modelli reali. Si sono ispira-
ti a tienne per inventare Stphane, un magistrato di
oltre cinquantanni che non ha vissuto le terribili soffe-
renze fisiche e psicologiche del giudice di Vienne e, nel
tempo libero, si dedica con passione allattivit di alle-
natore (1) di rugby (un elemento che, come let matu-
ra di Stphane, provengono da un altro giudice descrit-
to nel libro, Jean-Pierre Rieux). Dopo anni di prassi
giudiziaria, luomo ha finito per rinunciare allideali-
smo della giovent, offuscato da delusioni e disincanto,
ma ritrova lenergia di combattere per le sue convinzio-
ni etiche grazie allincontro con Claire. Questo perso-
naggio ha in comune con la Juliette di Carrre lottimi-
smo della volont e la dedizione alla giustizia ma non la
scelta di tacere a tutti la propria malattia e la rinuncia
a qualsiasi forma di cura, perch ritiene che ritardereb-
be solo linevitabile a prezzo di inutili umiliazioni fisi-
che e psicologiche. Inoltre Lioret ha eliminato dal film
la diversit ideologica fra Juliette e Patrice (lui di sini-
stra, lei di destra) e ha aggiunto una motivazione perso-
nale allattaccamento della donna verso Cline: la sua
infanzia travagliata dallirresponsabilit di una madre
costantemente esposta a debiti e insolvenze (a questo
proposito, da ricordare la sequenza in cui Claire, subi-
to dopo avere scoperto la malattia, si reca a trovare la
madre, con cui ha un dialogo teso e pieno di incompren-
sioni, ma evita di parlarle del proprio dramma).
Come in quasi tutti i suoi film, Lioret ha quindi tes-
suto una trama drammatica in questo caso un vero e
proprio mlo, sia pure dal pathos trattenuto basata
sullincontro di due individui, sul loro confronto reci-
proco, sugli effetti che il loro rapporto provoca nelle
esistenze rispettive. Come in Welcome, ha trovato una
materia romanzesca in cui calare un nucleo di denun-
cia sociale e civile il vampirismo degli istituti banca-
ri e di credito che sfrutta i meccanismi pi perversi del
credito al consumo un tema centrale anche nel libro
di Carrre e (a quanto pare con qualche disinvolta
semplificazione dei passaggi giuridici) lo ha reso un
fenomeno speculare e parallelo al cancro che divora
rapidamente la vita di Claire.
LA DIMENSIONE DEL SILENZIO
Le due guerre che scorrono binarie nel film in due
dimensioni diverse il privato di Claire e il pubblico
della sua professione costituiscono unefficace solu-
zione narrativa per rendere ancora pi straziante la
denuncia delliniquit sociale di un sistema che spreme
i poveri e gli ingenui con unusura legalizzata, illuden-
doli di vantaggi inesistenti. Soprattutto perch sotto-
mette la lotta di Stphane e Claire allurgenza di un
tempo contato. Ma il parallelismo cancro/sovraindebi-
tamento non ci sembra costituire laspetto pi sottile e
interessante del film.
Lelemento che rende pi emozionante e segreto Tutti
i nostri desideri, il non detto, il silenzio ostinato di
Claire sul proprio male, mantenuto fino a ricorrere spu-
doratamente a fragili bugie (quando viene ricoverata
durgenza e spaccia Stphane per il proprio padre,
davanti a lui). Un silenzio che sottintende un ventaglio
di reazioni diverse e contraddittorie rifiuto inconscio
del proprio male, pudore e che conferisce una tinta
emotiva pi profonda al film e una dimensione ancora
pi drammatica a Claire, a lungo sola con quella consa-
pevolezza, e perch si attende con angoscia il momento
in cui la verit dovr uscire allo scoperto.
Silenzio e non detto che si riflettono nella reticenza
assoluta che domina la relazione fra Stphane e Claire.
Probabilmente Lioret rimasto colpito da una frase nel
libro, dove Carrre, riferendosi a Etienne, scrive: Ci che
ha detto senza dirlo, che era innamorato di lei. Non si
sapr mai se lamore fra Stphane e Claire rimanga limi-
tato a un profondo affetto platonico oltretutto tutelato
da un rispetto perfino eccessivo per la forma: si daranno
sempre e solo del lei a causa delle rispettive famiglie
e soprattutto dellorrore della malattia e della morte
incombente, oppure se, diversamente, il loro rapporto si
sarebbe spinto oltre. Il titolo assegnato da Lioret si rife-
risce allipocrita formula con cui i contratti solleticano
lansia consumistica delle loro vittime (Soddisferete
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(1) Curiosamente era un allenatore (ma di nuoto) anche Simon, il per-
sonaggio interpretato da Vincent Lindon nel precedente film di Lioret,
Welcome (2009).
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tutti i vostri desideri) e, allo stesso tempo, al desiderio
di vincere quella guerra che per Claire avrebbe dovuto
essere la prima di una lunga carriera e invece sar lul-
tima. Ma pu alludere anche al desiderio, al sentimento
provato da Stphane, che rimane incompiuto e vedovo
prima di essere vissuto.
La sua scoperta della malattia di Claire avviene signi-
ficativamente dopo una sequenza centrale che la pi
bella e riuscita del film: quando la donna, accompagna-
ta in automobile dallamico giudice allospedale (dove
gli ha raccontato che ricoverata la madre), gli chiede di
fare una deviazione verso la zona di un lago artificiale
dove trascorreva le vacanze da adolescente. Nella
sequenza confluiscono vari motivi: la vicinanza dei corpi
di Stphane e Claire, liberi dai vestiti quando si immer-
gono nelle acque fredde, la nostalgia della donna per il
suo passato nel momento in cui sa di non avere pi futu-
ro, lintimit di quella confidenza fatta a Stphane. Su
tutti prevale il clima di ansia, quasi di suspense quando
la donna decide di raggiungere a nuoto un pontile, incu-
rante dellindebolimento del suo corpo. Riesce faticosa-
mente ad arrivarvi ma, quando vi si distende, trema sen-
sibilmente e, durante la nuotata di ritorno, allimprovvi-
so collassa e Stphane deve intervenire a salvarla. Di l a
poco la costringer a farsi ricoverare al pronto soccorso
per un controllo ed emerger la verit. una sequenza
dove tutto rimane latente e lunico fenomeno che emer-
ge allo scoperto la finora invisibile fragilit fisica di
Claire, minata dal male. Il loro solo reale contatto fisico
si verifica in quel momento quando Stphane la cari-
ca sulle spalle per condurla a nuoto alla riva ma non
ha nulla a che vedere con la sensualit, bens con il suo
deperimento fisico. Rispetto al libro, Lioret ha aggiunto
anche una sequenza in cui, in ospedale, il marito
Christophe ha uno scatto di gelosia quando scopre che
Stphane conosceva gi le condizioni della moglie e gli
chiede di andarsene.
significativo il parallelo delle ultime due sequenze, a
distanza di tempo dalla morte di Claire (celata da unel-
lissi, a differenza che nel libro di Carrre). Cline e
Christophe, evidentemente uniti anche sentimentalmen-
te, entrano nella casa coi figli, in unimmagine silenzio-
sa che esemplifica la necessit che la vita continui anche
dopo la morte. Nellultima sequenza, invece, vediamo
Stphane, da solo, che guarda turbato gli oggetti di
Claire ammassati negli scatoloni in attesa di essere por-
tati via dal suo studio. Il vedovo lui, a cui rimane solo
unamarissima e quasi irrisoria soddisfazione dalla noti-
zia che hanno vinto la loro battaglia.
Se Tutti i nostri desideri riesce a evitare ogni rischio
di patetismo, gran parte del merito va agli attori:Vincent
Lindon ha unintensit espressiva di sguardi e gesti,
nonch fisica, che lo confermano come uno dei pi gran-
di attori francesi della sua generazione. Marie Gillain,
che ha lottato per avere il ruolo di Claire, inizialmente
destinato a unaltra attrice, si libera definitivamente del
ruolo di eterna ragazza di cui sembrava prigioniera in
Francia; ma il pubblico francese, stranamente, ha rifiu-
tato laudacia sua e del film, che ha avuto un modesto
esito commerciale Oltralpe.
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Per capire e magari amare questo sogno di/in una
Roma di mezza estate, bisogna amare un po il tea-
tro, lasciar perdere almeno un po il Cinema, ricor-
darsi di Shakespeare e di quanto fosse nel comedy,
almeno un autore solennemente pop (Elfo docet).
Con tutti i suoi fantasmi, veri o fatti soltanto della
materia del sogno e del ricordo; con i suoi tempi
compressi e tagliati, sia per la tragedia, sia per la
commedia; con quel senso del levare e del trasporta-
re anche solo per una scena il suo mondo intrec-
Titolo originale: id. Regia e sceneggiatura: Woody Allen.
Fotografia: Darius Khondji. Montaggio: Alisa Lepselter.
Scenografia: Anne Seibel. Costumi: Sonia Grande.
Interpreti: Alec Baldwin (John), Jesse Eisenberg (Jack),
Ellen Page (Monica), Woody Allen (Jerry), Judy Davis
(Phyllis), Fabio Armiliato (Giancarlo), Roberto Benigni
(Leopoldo Pisanelli), Alessandra Mastronardi (Milly),
Alessandro Tiberi (Antonio), Penlope Cruz (Anna),
Antonio Albanese (Luca Salta), Greta Gertwig (Sally),
Flavio Parenti (Michelangelo), Alison Pill (Hayley),
Riccardo Scamarcio (il ladro), Ornella Muti (Pia
Fusari), Sergio Solli (lautista di Leopoldo), Roberto
Della Casa (lo zio Paolo), Ariella Reggio (la zia Rita),
Gustavo Frigerio (lo zio Sal), Simona Caparrini (la zia
Giovanna), Sergio Bustric (il signor Masucci), Lina
Sastri (lamica al cinema), Donatella Finocchiaro (la
giornalista), Ninni Bruschetta (il detective dellhotel),
Giuliano Gemma (il direttore dellhotel), Maria Rosaria
Omaggio (una passante), Augusto Fornari, Mariano
Rigillo, Gian Marco Tognazzi (i clienti di Anna),
Pierluigi Marchionne (il pizzardone). Produzione: Letty
Aronson, Francesco Marras, Stehem Tenebaum per
Gravier Productions/Perdido Productions/Medusa
Film/Mediapro. Distribuzione: Medusa. Durata: 102.
Origine: USA/Italia/Spagna, 2012.
A Roma, in mezzo al traffico di Piazza Venezia, un piz-
zardone ci introduce a diversi incidenti sentimentali che
hanno avuto come teatro la Citt Eterna. Il famoso archi-
tetto John, che a Roma ha vissuto gli anni della sua gio-
vinezza, rivive attraverso lesperienza del giovane Jack
una sbandata per lamica della sua fidanzata. Il regista di
opera in pensione Jerry, scoperte le virt canore del futu-
ro consuocero, becchino dallugola doro, si incaponisce a
volerlo lanciare nel mondo della lirica. Leopoldo
Pisanelli, persona normalissima, un giorno scopre di esse-
re diventato uno degli uomini pi famosi dItalia; ma cele-
brit si rivela assai scomoda. Antonio e Milly, sposini
novelli, arrivano a Roma da Pordenone per far visita agli
zii bacchettoni di lui. Per una serie di casualit, la coppia
rimane separata per un giorno intero.
TO ROME WITH LOVE Woody Allen
Tracce di materia e niente accademia
Luca Malavasi
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ciato in un set che non esiste e non centra (apparen-
temente) nulla: con tutto questo e molto altro anco-
ra, un Woody Allen a pezzi ma in senso buono,
buonissimo racconta di una Roma che non c, che
una memoria sbiadita e recuperata in due modi
diversi: attraverso il cinema, che ha smesso di omag-
giare in modo diretto da almeno ventanni e che
adesso richiama come se fosse vita, perch la sostitu-
zione ormai definitiva e radicale, e perch il cine-
ma un linguaggio buono per pensare e ricordare; e
attraverso un immaginario mlange di musica opera
teatro quadri storie facce allitaliana che non ha pro-
prio un bel niente di turistico o da cartolina, cos
come non laveva la Parigi di Midnight in Paris o la
Barcellona di Vicky Cristina Barcelona, e che inve-
ce ben consapevole del luogo e del senso comune,
dello sfacciatamente riconoscibile, del narrativamen-
te abusato. Del resto Roma proprio come Parigi
solo e soltanto un set di misteri e sorprese, incon-
tri fugaci e storielle perse e ritrovate. Una citt di
rovine, un set fatto di tanti altri set, pezzi di storia
che non guardano al passato remoto ma a quello
recente e la rovina vale come testimonianza asso-
luta di storia, senza dover aggiungere nientaltro.
Allen gira la sua Roma felliniana, non da o di
Fellini (gi fin troppo omaggiato in Stardust
Memories); attraversa Roma come se fosse Fellini,
con lo stesso modo curioso e insolente (dal punto di
vista cinematografico), consapevolissimo che nella
Citt niente si tiene perch, tutto, appunto, fram-
mento o memoria, fugace apparizione (anche di
attori del cinema italiano) o passaggio frettoloso;
come si pu raccontare una storia, quando si den-
tro un set del genere? Piuttosto, bisogna accettare
una specie di mimetismo contagioso, e strutturale:
Roma questa Roma che non esiste e che , sem-
mai, una specie di sintesi schizofrenica di romanit
e italianit impone il ritmo e landamento, i colo-
ri locali e il sentimento mediterraneo, proprio
come Parigi dava letteralmente forma al racconto di
Midnight in Paris. Solo che Parigi una citt not-
turna e magica e ordinata in lunghi viali, da interni
e bistrot, mentre Roma solare e intricata e un po
oscena: non serve tornare indietro e viaggiare nel
tempo; a Roma c solo da prendere, inseguire, aggi-
rarsi per strada, en plein air, come fa allinizio del
film la provinciale in attesa di conoscere i parenti
del fidanzato, e che destinata (naturalmente) a
perdersi. Rovine e perdita, appunto, sole e confusio-
ne; eccesso, accumulo, compressione. Roma decide,
Allen ascolta, guarda e filma. I luoghi comuni sono
lessenza, leccesso melodrammatico il basso pro-
fondo: una signora tira fuori un coltello, cos, per
vendicare lumiliazione del marito; nessuno si far
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male, solo opera, o forse operetta da quattro soldi.
Machina fissa, frontale, pareti chiuse dalle quinte
dellinquadratura.
In questo set brulicante e in qualche modo gi
deciso, Allen dirige un traffico che non intende del
tutto domare (che cosa ci sta a fare quel vigile
distratto allinizio del film, se non a suggerire che il
flusso disordinato e inarrestabile?); butta nellare-
na lo straniero innamorato di una donna, o forse
due, e della citt e lascia che i suoi occhi facciano
il resto; gli presta la penna mentre ne duplica lo
sguardo, proprio come ha fatto in Midnight in Paris
grazie al camminatore notturno Gil. E si costruisce
anche un alibi, perch lamericano Allen pu guar-
dare Roma solo cos, o vuole guardarla cos, per
quello che sembra e fa vedere, umilmente disinteres-
sato allo spirito segreto (Barcelona Paris Rome,
tutte nel titolo: guide, appunto, anche se non turisti-
che, ma per innamorati). E poi, al suo eroe, presta
pure un curioso fantasma proveniente da un passa-
to imprecisato, che come tante altre cose in questo
film sovraccarico una presenza provvisoria, non
del tutto a fuoco, priva di tenuta drammaturgica e
morale; uno dei tanti frammenti che compongono
questa ricetta un po carnevalesca e pacchiana. E
quando si ride non soltanto per la battuta intelli-
gente al posto giusto; si ride per la sorpresa di un
film lasciato andare, libero e sfacciatamente basso
e, appunto, frontale in un senso pi profondo,
costruito con piccole pennellate di colori primari.
La Roma di Allen una citt divisionista: niente
sfumature, e la sintesi allo spettatore. En plein air,
appunto, tracce di materia e niente accademia.
Leccesso, cos, non semplicemente di casa; luni-
co registro possibile, con conseguente rispolvero del
basso da operetta e dellalto passionale da opera. Fin
troppo facile azzardare una somiglianza tra lAllen
dentro il film e quello dietro la macchina da presa; ma
il gioco da accettare proprio il medesimo. In quella
platea in abito da sera che ascolta un becchino canta-
re arie dopera mentre sinsapona sotto un getto dac-
qua corrente sta la geniale follia di questo film scritto
e diretto a mano libera e volutamente un po distratta,
e lincontro consapevolmente impossibile, se non in
forme disarmoniche o in armonie completamente
nuove tra due culture e due storie e due modi di fare
cinema. Ci sono troppi amori tra cui scegliere, troppa
procacit a cui arrendersi. La Roma e lItalia di
Allen sta in questa confusione di desideri e storie e
luoghi, da cui il regista si lascia volentieri travolgere e,
come si diceva, contagiare, senza opporre grandi dife-
se. Parigi la citt della testa e degli amori intellettua-
li, Roma quella dei sensi e degli eccessi. Da filmare in
modo scomposto, con buona pace del bel cinema.
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Come un vampiro che esce dalla bara dopo secoli e
guarda quello che successo, Dark Shadows ha gli
occhi di Collins, ma in realt sono ancora quelli di Tim
Burton. In realt quasi un unico corpo mutante, con le
molteplici reincarnazioni di Johnny Depp, pi doppio
che filtro, come fosse una figura a distanza che in tutta
lopera del cineasta statunitense, anche quando trop-
po vicino o troppo lontano, sta filmando attraverso il
suo sguardo anche nel momento in cui presente nel-
linquadratura o sta agendo. Da Beetlejuice a Dark
Shadows, un viaggio onirico ininterrotto, che attraversa
luoghi geografici distanti ma anche secoli differenti. E
questultimo film ritorna proprio l, in una specie di
casa infestata, con tutti i segni del tempo. Non pi spi-
riti cialtroni, come quello di Michael Keaton, ma figure
che riappaiono dallaldil o reincarnate, che non hanno
risolto ancora i loro conti in sospeso.
Sembrava essersi chiuso in un congegno certamente
perfetto e riconoscibilissimo, ma al tempo stesso perico-
loso, il cinema di Burton, soprattutto in quel duplice pas-
saggio tra La fabbrica di cioccolato e Sweeney Todd in
cui il lavoro su un soggetto preesistente subiva il consue-
Titolo originale: id. Regia: Tim Burton. Soggetto: John
August, Seth Grahame-Smith, dallomonima serie televisi-
va ideata da Dan Curtis. Sceneggiatura: Seth Grahame-
Smith. Fotografia: Bruno Delbonnel. Montaggio: Chris
Lebenzon. Musica: Danny Elfman. Scenografia: Rick
Heinrichs. Costumi: Colleen Atwood. Interpreti: Johnny
Depp (Barnabas Collins), Michelle Pfeiffer (Elizabeth
Collins Stoddard), Helena Bonham Carter (la dottoressa
Julia Hoffman), Eva Green (Angelique Bouchard), Jackie
Earle Haley (Willie Loomis), Jonny Lee Miller (Roger
Collins), Bella Heathcote (Victoria Winters/Josette
DuPres), Chlo Grace Moretz (Carolyn Stoddard, Gulliver
Mcgrath (David Collins), Christopher Lee (Clarney), Alice
Cooper (se stesso), Ivan Kaye (Joshua Collins), Susanna
Cappellano (Naomi Collins), Josephine Butler (la madre di
David), Justin Tracy (Barnabas da piccolo), Alexia
Osborne (Victoria da piccola), Raffey Cassidy (Angelique
da piccola). Produzione: Richard D. Zanuck, Johnny
Depp, Graham King, David Kennedy, Christi Dembrowski,
Katterli Frauenfelder per Dan Curtis Productions/GK
Films/Infinitum Nihil/Tim Burton Productions/Village
Roadshow Pictures/Warner Bros. Pictures/The Zanuck
Company. Distribuzione: Warner Bros. Durata:
113. Origine: USA, 2012.
Secolo XVIII. Barnabas Collins, signore ricco e
potente, sinnamora di Josette DuPres. Infrange
cos il cuore di Angelique, una strega, che si
vendica trasformandolo in vampiro e facendolo
seppellire vivo. Circa due secoli dopo viene
inavvertitamente liberato. Ritorna nella sua
vecchia tenuta e si accorge che il mondo com-
pletamente cambiato. I suoi eccentrici eredi,
per, non se la sono cavata molto bene e la loro
attivit in rovina. Collins, che affida il segreto
della sua identit alla matriarca Elizabeth,
cerca di recuperare lantico splendore del nome
di famiglia. Ma in citt c qualcuno che vuole
ostacolare il suo scopo. Si chiama Angie, che
simile in maniera impressionante a una sua vec-
chia conoscenza
DARK SHADOWS Tim Burton
Forever Young
Simone Emiliani
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to lavoro di vampirizzazione e trasformazione allinterno
dei segni, delle atmosfere, delle zone dark del cineasta. E
lo stesso Johnny Depp era attore/marionetta di un cine-
ma che, nel privilegiare loggetto, le architetture sceno-
grafiche, stava davvero correndo il rischio di inanimarsi
rispetto allo straordinario equilibrio nello scarto tra figu-
ra e ambiente che aveva toccato il culmine proprio in
Edward mani di forbice, nella crudelt originata dal
vuoto che si creato in una frattura dove la volont indi-
viduale sinfrange con la volont della collettivit. Corpi,
segni, prospettive riprendono forma nella sperimentazio-
ne del 3D nel passaggio importante ma eccessivamente
incompreso (anche dagli stessi fans burtoniani) di Alice
in Wonderland. Con questo film il suo cinema, magica-
mente, riparte da zero, o almeno dagli inizi; potrebbe
essere ipoteticamente collocato nella filmografia del regi-
sta della seconda met degli anni Ottanta.
UGUALE E DIVERSO
Se il proposito di svecchiamento del cinema di
Scorsese rimasto essenzialmente un magnifico progetto
solo teorico in Hugo Cabret, il 3D del film precedente di
Burton, invece, ha creato un magnifico caos, dove i punti
di riferimento di unopera in cui era fortemente marcata
lidentit di chi laveva costruita si rimessa in discussio-
ne. Burton nel suo cinema sempre il costruttore, come
il dottor Frankenstein di un suo ottimo corto degli esor-
di, Frankenweenie. Il regista ancora il suo mostro gen-
tile; stavolta lo scienziato, per, cede spazio al sognatore.
Forse dentro questo film cerano pi progetti: ancora la
fiaba gotica, oppure il melodramma, oppure lhorror, con
Christopher Lee nei panni di un capitano che ritorna
nella sua opera, come era avvenuto in Il mistero di
Sleepy Hollow per una danza dei morti tra la casa
Hammer, Roger Corman e Mario Bava.
Ma c anche la svolta clamorosa dentro gli anni
Settanta, dove Burton/Depp/Collins si muovono come
catapultati da un altro secolo, da un altro pianeta con
esiti irresistibili, senza per nessuna parodia, in un cine-
ma che non solo si scrollato di dosso tutte le scorie del
tempo, ma appare gi ora eterno, forever young, sublime
non solo in senso kantiano (il mare in tempesta di La cri-
tica del giudizio unimmagine che ritorna pi volte), e
che sinoltra alla ricerca di nuovi abissi, esplora altre pro-
fondit, con una passione per quel periodo simile a quel-
la di J.J. Abrams in Super8. Questultima di unassolu-
ta purezza cinematografica; quella di Burton, invece,
un ritorno alla propria memoria, dove forse si materia-
lizzata limmaginazione del regista bambino che nel
1972 aveva quattordici anni, sospeso tra fiabe nere, car-
toon, miti sepolcrali ma anche una passione musicale
dove i brani non sono solo colonna sonora, ma stavolta,
proprio in un suo film, scorrono nelle vene, tra Olivier
Assayas e Wes Anderson.
Il sangue non pi quello iconografico di Sweeney
Todd. Dagli occhi di Collins, quando allinizio perde la
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sua amata ed condannato alla vita eterna, esso si
espande come elemento liquido in continuo movimen-
to, come lacqua del mare che sinfrange sugli scogli e
segna i passaggi del desiderio di normalit e immorta-
lit (la dottoressa, interpretata da Helena Bonham
Carter, se ne vuole impossessare) e si sente il flusso dei
suoi passaggi anche se non si vede. Dark Shadows
potrebbe essere come il corpo umano, da studiare da un
punto di vista anatomico e scientifico, altra creatura
costruita dal suo creatore. Ma poi i pezzi saltano; si cer-
cano di rimettere al loro posto ma gli effetti non sono
pi quelli previsti. Burton crea un meraviglioso ingan-
no. Allinizio con una falsa identificazione col proprio
cinema (tutto il prologo del tragico destino di Collins),
poi con uno smascheramento e fuga.
FILM-ROCK
I primi dieci minuti di Dark Shadows sono da urlo.
Come un contagio, come un altro passaggio sanguigno
da un vampiro che ha gi inebriato la testa e messo in
subbuglio tutti i sensi. Il resto del film ancora pi
bello: esplosivo, ironico, bizzarro, tragico. Soprattutto, si
spiazzati da come un regista come Burton riesca a
guardare ladolescente ribelle (Chlo Grace Moretz, gi
vista in (500) giorni insieme e Hugo Cabret, uno dei
passaggi pi forti nel suo cinema della leva di giovanis-
sime attrici statunitensi, simile a quello di Winona
Ryder in Edward mani di forbice, di Alison Lohman in
Big Fish e di Mia Wasikowska in Alice in Wonderland)
chiusa nella sua stanza, Michelle Pfeiffer che ritorna
dagli anni Ottanta, e precisamente da Le streghe di
Eastwick, con tutto un immaginario vissuto e reinventa-
to. Era da Big Fish che il cinema del regista non aveva
questa innocenza e non arrivava cos dritto al cuore.
Tutte leggende,qui, possono essere vere, tutte le favole
assumono contorni sinistri e deliranti. Dark Shadows
il vero elogio della follia di Burton.
Il trapasso emozionante di Big Fish fra la vita terrena
e laldil, una delle pi belle morti al cinema dellultimo
decennio, trova qui il suo esatto, speculare contrario nel
ritorno alla vita del vampiro che resta spiazzato da ogni
cosa che vede, spaventato e attratto dalla modernit e
perde volontariamente la sua immagine, come Burton
smarrisce, si reimpossessa e si diverte a riperdere il pro-
prio cinema; unimmagine di s che riconosce nel quadro
della casa, per poi sparire nuovamente mentre si lava i
denti davanti lo specchio. Come in Big Fish, non c stata
mai una sintesi tanto perfetta tra passato e futuro, nella
quale ogni istante si vorrebbe rivivere, e rivedere pi
volte. Proprio come larrivo di Vicky in treno, allinizio,
sulle note di Nights in White Satin dei Moody Blues,
canzone da riascoltare in un momento da rivedere pi
volte, fin quasi a consumarlo.
I colori raggelati di La fabbrica di cioccolato esplodo-
no sulle superfici di Dark Shadow. Non solo il sangue,
ma anche lauto rosso fuoco di Eva Green (davvero
uninterpretazione da oggetto smontabile e ricomponi-
bile, sulle tracce dei corpi di La morte ti fa bella di
Zemeckis) fanno penetrare una luce forte in un film di
continui risvegli percettivi, grazie anche a una partitu-
ra visivo-sonora il cui merito da spartire con la musi-
ca del fedelissimo Danny Elfman. Ma il momento in cui
questo contrasto cromatico esplode nellhappening, la
festa. La dimensione dark di Burton sincrocia con
tonalit accese, e la stessa presenza di Alice Cooper
sposta la pellicola nelle zone vergini del film-rock, con
unautoironia inconsueta evidente nellincontro di
Collins con i figli dei fiori, nel quale i dialoghi sembra-
no arrivare quasi da una commedia demenziale nel
momento in cui il protagonista cita la frase-clou di
Love Story libro che ha letto con Vicky Amare
significa non dover mai dire mi dispiace, evidente
anche nel ribaltamento dei simboli della modernit (la
M di MacDonald associata a Mefistofele).
Anche per questo film non c un soggetto originale,
ma la serie televisiva creata da Dan Curtis. Eppure,
ancora una volta il cinema di Burton se ne impossessa
in una continua sovrapposizione di giochi, visioni,
sovrapposizioni, dove gli oggetti si trasformano, i dipin-
ti sembrano animarsi (come avviene realmente nel fina-
le). Lincredibile elasticit del film presente nella
scena di sesso tra Collins e Angelique, tra videoclip e
cartoon: aver pensato un momento cos evidenzia un
estro fuori dal comune; realizzarlo e poi inserirci gli
effetti speciali unincrocio tra genialit e follia. Non
c solo la tradizione dei film sui vampiri in Dark
Shadows, ma tutto il mito del Romanticismo dellotto-
cento che incontra The Rocky Horror Picture Show.
Forse il film diretto da Jim Sharman uno dei motivi
ispiratori, non solo per una sessualit sempre sul punto
di esplodere, ma per il concerto di suoni, musiche e
colori. Una casa-giocattolo che, nel momento in cui si
accende, diventa memorabile spettacolo.
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1981. In dodici anni il conflitto in Irlanda del Nord
ha causato duemilacentottantasette morti e sembra
lontano da ogni soluzione possibile. Sotto il governo di
Margaret Thatcher le posizioni si sono ulteriormente
irrigidite. Belfast una citt sotto assedio e il livello
del conflitto allinterno delle carceri inglesi dove sono
rinchiusi i militanti dellIrish Republican Army sem-
pre pi alto. Ormai la partita si gioca in una guerra di
nervi (non meno sanguinosa di quella che quotidiana-
mente va in scena per le strade) tra il governo che
rifiuta il riconoscimento di uno status politico ai pri-
gionieri irlandesi, costringendoli al ruolo di criminali
comuni, e i carcerati che adottano forme di protesta
sempre pi eclatanti. Da tempo, dopo gli scioperi della
fame che avevano attirato lattenzione della comunit
internazionale e suscitato qualche timida spinta al
dialogo dal Vaticano, i detenuti hanno smesso di lavar-
si e di indossare le uniformi della prigione, vivono in
uno stato fiero e animalesco, con barba e capelli incol-
ti, in celle rivestite dai loro stessi escrementi.
Hunger, il film di esordio del 2008 del videoartista
britannico Steve McQueen che ha vinto la Camera
dOr a Cannes e arriva nelle nostre sale cercando di
sfruttare il clamore mediatico dello scandaloso
Shame, presenta questi elementi in rapida successio-
ne: cartelli iniziali per contestualizzare gli eventi e
poche e precise inquadrature per coglierne il senso ed
evocare la ferocia di una divisione fratricida. Un
campo lungo allinterno di un carcere dove i detenuti
battono oggetti a terra, come in un rito di protesta per-
cussiva. Stacco. Le mani segnate dai pestaggi di un
agente della polizia penitenziaria che, tornato a casa,
cerca di cancellare segni indelebili dal proprio corpo,
riappropriandosi di una normalit negata, in un
ambiente piccolo borghese che stride in contrasto con
i claustrofobici muri della prigione. La scena successi-
va mostra la quotidianit estraniata dei secondini, che
si lavano e si vestono prima di entrare in carcere, tra-
sformandosi anche nelle relazioni, dismettendo
unumanit destinata a restare negli armadietti dello
spogliatoio per indossare ununiforme ancor pi emo-
Titolo originale: id. Regia: Steve McQueen.
Sceneggiatura: Enda Walsh, Steve McQueen. Fotografia:
Sean Bobbitt. Montaggio: Joe Walker. Musica: Leo
Abrahams, David Holmes. Scenografia: Tom McCullagh.
Costumi: Anushia Nieradzik. Interpreti: Michael
Fassbender (Bobby Sands), Liam Cunningham (padre
Dominic Moran), Lalor Roddy (William), Stuart Graham
(Raymond Lohan), Brian Milligan (Davey Gillen), Liam
McMahon (Gerry Campbell), Laine Megaw (la singora
Lohan), Helena Bereen (la madre di Raymond), Karen
Hassan (la ragazza di Gerry), Frank McCusker (il diretto-
re del carcere), Helen Madden (la signora Sands), Des
McAleer (il signor Sands), Ciaran Flynn (Bobby a dodici
anni), Geoff Gatt (luomo con la barba), Rory Mullen (il
sacerdote), Ben Peel (lagente antisommossa), Paddy
Jenkins (il sicario), Billy Clarke (lufficiale sanitario), B.J.
Hogg (linserviente lealista). Produzione: Robin Gutch,
Laura Hastings-Smith, Andrew Litvin per Blast! Films.
Distribuzione: BIM. Durata: 96. Origine: Gran Bretagna/
Irlanda, 2008.
Irlanda del Nord, 1981. Raymond Lohan lavora come
agente penitenziario nel carcere di Long Kesh, sopran-
nominato The Maze (il labirinto). assegnato a uno
dei famigerati H-Blocks, il braccio dove i detenuti
repubblicani stanno effettuando la protesta delle coper-
te e la protesta dello sporco. Davey Gillen, un giova-
ne detenuto appena arrivato, rifiuta di indossare luni-
forme carceraria, si unisce alla protesta delle coperte e
divide una cella sudicia con un altro detenuto repubbli-
cano dissidente, Gerry Campbell, che lo presenta a
Bobby Sands, leader del loro raggio. I detenuti vengono
convinti dalla direzione del carcere ad accettare lofferta
di abiti civili, ma lofferta di rivela una derisione.
Scoppia una sommossa, soffocata con violenza. Una vio-
lenza che si estende anche fuori dal carcere: Raymond
viene ucciso. Bobby Sands inizia un nuovo sciopero
della fame in segno di protesta per labolizione dello
stato giuridico speciale riservato ai detenuti repubblica-
ni. A seguito di questo sciopero, il primo di dieci dete-
nuti a perdere la vita.
HUNGER Steve McQueen
Estetica del corpo che resiste
Federico Pedroni
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tiva che fisica. A segnare come un metronomo la vita
dei prigionieri la voce della Lady di Ferro che risuo-
na nei corridoi bui e maleodoranti per ribadire fermez-
za nelle proprie posizioni, sancire codici morali ed
escludere potenziali compromessi. La paura della
guerra civile ha trasformato una Nazione moderna in
un campo di battaglia in cui i terroristi oscillano tra
laccusa di essere dei semplici e feroci assassini e la
pretesa di diventare dei martiri, in cui il radicalismo
indossa fattezze messianiche e dove il continuo rilan-
cio di obiettivi e metodi occhieggia a una forma perse-
cutoria di vittimismo distruttivo.
Attraverso gli occhi di McQueen la vita carceraria,
derelitta e intestinale, assume le forme astratte del-
lesibizione artistica. Le feci e il cibo che i detenuti
spalmano per sottolineare con implacabile fisicit la
loro condizione e la loro resistenza sui muri delle celle
hanno la vibrante drammaticit dellaction painting,
delle tele di Pollock, di una body art i cui colori ven-
gono dalle viscere, simboleggiando uninteriorit sof-
ferente e aggressiva: una forma estrema di creativit
esercitata in gabbie sempre pi disumane. I prigionie-
ri irlandesi di Hunger non sono assolti dai loro pec-
cati, non vengono sollevati dai crimini commessi.
Quei crimini per appartengono a un mondo esterno,
altro, mentre il regista ci testimonia la loro resistenza
intellettuale e politica attraverso azioni fisiche,
costrette in spazzi angusti, osserva le loro idee farsi
corpo (e sangue e merda) in maniera sempre pi
astratta e simbolica, registra la reazione per cui la
claustrofobia delle piccole celle prende aria attraver-
so la contrazione del fisico: sacchi di ossa e muscoli
che si fanno verbo, diventano nella loro consunzione
momento di battaglia politica.
Trenta minuti di pestaggi e violenza cadenzati da
unalternanza di ruoli di vittime e carnefici esposta
con contrapposizioni anche visive di interni e esterni,
buio e luce, cattivit e libert che culminano nel-
lesecuzione di una guardia carceraria in visita in un
ospizio alla madre catatonica, in cui il rosso sangue
macchia la candida vestaglia di una vecchia che non
capisce quel che succede n ha gli strumenti per rea-
gire (la mano dellassassino fuori campo, ma anche
le urla sgomente dei testimoni), simbolo di una situa-
zione in cui le definizioni di responsabilit la dico-
tomia aggressore/aggredito diventano sempre pi
labili e indefinibili.
Solo dopo questo lungo tour de force introduttivo
che prova i nervi dello spettatore, scaraventato in un
conflitto in cui tutti sembrano reagire meccanicamen-
te in una spirale dai riflessi pavloviani, entra in scena
il protagonista, Bobby Sands, la faccia segnata dai
pestaggi e un carisma pieno di fervore mistico e digni-
t. La narrazione di colpo si fa pi fluida, sembra aver
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trovato il suo cuore pulsante. Landamento singhioz-
zante dei dialoghi lascia spazio a una verbalit pi
piana e compiuta che raggiunge il suo apice nella
scena centrale del film. Un dialogo di oltre venti minu-
ti tra Sands e un parroco nordirlandese, inquadrati in
campo medio e macchina fissa, che crea uno sfasa-
mento temporale ipnotico. Si parla di Belfast e di idea-
li, di corsa campestre e di vocazione, di conoscenza e
di libert fino a estrarre, come in una prova maieuti-
ca, il nocciolo della questione. Bobby espone il suo
piano, il rilancio di una lotta che usa lautodistruzione
come strumento di propaganda, la scelta della fame
che gi dal titolo si manifesta come il tema che coglie
il cuore del ragionamento, molto pi del concetto di
sciopero come estrema forma di combattimento, uso
improprio di unarma al contrario, la privazione come
dimostrazione di ricchezza, lasciugarsi nel corpo per
diffondersi nelle anime dei compagni che sono fuori.
un suicidio calcolato, una forma di hybris ai limi-
ti della mitomania, come sembra suggerire linfastidi-
ta, anche se commossa, ostilit del religioso? O una
nuova figura misticheggiante, un sacrificio estremo
capace di dare fiducia e giovamento ai combattenti
ancora sul campo? qui che le suggestioni cristologi-
che di Hunger esplodono in tutta la loro forza: Sands
fa continui riferimenti alla Bibbia unico libro a
disposizione dei detenuti, conforto anche quando
usato soltanto per rollare surrogati di sigarette e alla
dirompente potenza di un esempio messianico. Ancora
una volta McQueen adamantino nella scelta dei rari
stacchi di montaggio. Dopo linterminabile sequenza
che inquadra i due contendenti in ununica cornice, la
cinepresa stacca sul primo piano di Bobby mentre dal
discorso universale sui massimi sistemi si passa a un
ricordo dinfanzia in cui un episodio violento aveva
rivelato la piet nascosta nelle pieghe dellorrore. Qui
il regista si incolla al volto di Sands, ci mostra le sue
emozioni, ci svela che le rigide teorie morali appena
esposte vengono dallanimo di un uomo ferito e impla-
cabile nella sua dolorosa umanit. Una sorta di
Vangelo apocrifo applicato al terrorismo politico.
La fine di quella scena sospesa sancisce linizio del
Calvario. Bobby comincia il digiuno e i segni dellasce-
si su un corpo gi asciugato dalla rigidit del carcere
sono impietosi. Il fisico si ribella e si consuma, le pia-
ghe da decubito sono stimmate da lenire con unguen-
ti, le ossa disegnano una croce su cui potersi crocifig-
gere. La consunzione quotidiana, scandita dalla stupi-
ta indifferenza delle guardie che lo accudiscono senza
poterlo capire, che lo curano senza volerlo salvare,
assume le caratteristiche di una performance estrema
che si tramuta in una sorta di tortura attoriale per lo
straordinario interprete, Michael Fassbender. Il corpo
che si asciuga, si piega, sembra tramutare le sue giun-
ture nei nodi di un albero maledetto (forse quello a cui
Giuda si impiccato?), impone al film una sorta di
estatica afasia, un mutismo stupefatto di fronte allim-
perscrutabile scelta di morte. Si procede per ellissi
verso la fine inevitabile, con i colori gi da prima
desaturati da una fotografia che privilegia i contrasti
sui toni che virano semanticamente verso lassolu-
tezza del bianco accecante.
Hunger unopera feroce e pietosa, che ricorda le
fatiche della corsa campestre, lo sport che da bambino
fece scoprire a Sands, cresciuto nelle periferie di
Belfast, la libert della natura e il senso di assoluto, la
fatica del fiato e la ricompensa dello sforzo. McQueen
costruisce un film ieratico e consapevole, che dallarte
contemporanea prende lo spirito della performance e
lo declina in un atto unico di annientamento. Il senso
morale del film non sta nel dispensare giudizi (non c
assoluzione per i terroristi, non c perdono per uno
Stato privo di carit) ma nel rappresentare la parabo-
la di un uomo che per cambiare il mondo ha ucciso se
stesso. Il risultato, nonostante si sfiori a tratti il crina-
le dellestetismo, unopera poetica e terrena, estrema
e compassionevole, militante e spirituale.
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Io me ne rendo conto. Mi rendo conto che la storia
di Another Earth pu sembrare scontatissima, e non
solo la sua storia (il cinema indipendente americano
stile Sundance, dove infatti il film ha vinto lo scorso
anno il Premio Speciale della Giuria e il Premio
Sloan). E che da un altro punto di vista pu sembra-
re assurda, inverosimile, forzata. Ma per me il film
desordio di Mike Cahill, documentarista con studi
economici alle spalle, che ha curato regia sceneggia-
tura fotografia montaggio nonch produzione del-
lopera insieme (per produzione e script) alla prota-
gonista femminile Brit Marling, stato unimmersio-
ne nella poesia della vita. Nel dolore, nellangoscia,
nella solitudine ma anche nella riflessione, nella
meditazione sullesistenza, nella consapevolezza che
si acquisisce piano piano di quello che si vuole e che
si e nelle possibilit che la vita pu offrire, non per
Titolo originale: id. Regia, fotografia e montaggio: Mike
Cahill. Sceneggiatura: Mike Cahill, Brit Marling. Musica:
Fall On Your Sword. Scenografia: Darsi Monaco. Costumi:
Aileen Diana. Interpreti: Brit Marling (Rhoda Williams),
William Mapother (John Burroughs), Jordan Baker (Kim
Williams), Flint Beverage (Robert Williams), Robin
Taylor (Jeff Williams), Meggan Lennon /Maya
Burroughs), Kumar Pallana (Purdeep), Luis Vega
(Federico), Rupert Reid (Keith Harding), Ana Kayne
(Claire), Matthew-Lee Erlbach (Alex), Jeff Clyburn (DJ
Big Mike), Diane Ciesla (la dottoressa Joan Tallis).
Produzione: Hunter Gray, Mike Cahill, Brit Marling, Nick
Shumaker per Artists Public Domain. Distribuzione: 20th
Century Fox. Durata: 92. Origine: USA, 2011.
Rhoda Williams una studentessa di notevoli capacit,
tanto da essere ammessa al MIT di Boston per partecipare
a un ambizioso programma
di astrofisica. La sua gioia e
soddisfazione vengono per
funestate da un incidente, da
lei involontariamente causato
al ritorno dalla festa organiz-
zata per festeggiare lammis-
sione. Nellincidente perde la
vita unintera famiglia, quella
di John Burroughs: un musi-
cista di successo, felicemente
sposato, con un figlio e un
altro in arrivo. Intanto, in
cielo apparso un pianeta, in
tutto e per tutto uguale alla
Terra, i cui abitanti sono una
nostra esatta copia speculare.
Pare che su questa copia con-
forme del nostro Pianeta sia
possibile, attraverso i nostri
sosia, riparare agli errori
commessi. Per questo,
Rhoda spera di rimediare
alla tragedia di John.
ANOTHER EARTH Mike Cahill
Unaltra Terra possibile. E unaltra vita
Paola Brunetta
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forza su un altro pianeta, di cambiare, di svoltare, di
redimersi; di portare del bene alle persone a cui si
fatto, anche se involontariamente, del male. E nella
casualit che ci governa.
S, il caso. molto kieslowskiano il film di Cahill da
questo punto di vista, a partire dallo spunto narrativo
che riporta a Film blu (lincidente, la musica, lelabo-
razione del lutto) per arrivare allinquadratura del
volto della protagonista che rimanda alla Julie Delpy
di Film bianco. E dostoevskiano ovviamente, ed esi-
stenzialista. Apro a caso un libro sul Decalogo e trovo
queste parole, che esemplificano alcuni aspetti del
nostro film: Questo significato tutto terreno che si
cerca approssimando e per ripetizioni, appunto
lincontro con se stessi nella consapevolezza del possi-
bile, come condizione desperienza attraverso la quale
interagiscono dialetticamente la contingente casualit
delle circostanze e la loro casuale necessit. Se vero
infatti che Kieslowski filma la dialettica caso/necessi-
t nella possibilit di scegliere, di determinare, pure
non sembra interessarlo la scelta in s; piuttosto la
possibilit della scelta, appunto, che non si teorizza in
abstracto, ma che si d, kantianamente quasi, nel-
lesperienza concreta (1). Perch come dice
Kieslowski stesso intervistato in un altro testo, il caso
nel Decalogo ha un significato essenziale, stretta-
mente collegato allinevitabile. La necessit esiste. Ma
come si muoveranno i protagonisti, questo in gran
parte dipende dalla casualit (2).
E c Von Trier: Melancholia naturalmente (il piane-
ta altro che incombe sulla Terra, il senso di irrequie-
tezza e di solitudine e di spaesamento che questo pro-
voca, la depressione di Rhoda come di Justine, la
volont di entrambe di accoglierla questenergia
nuova, di farsi permeare da essa pur nel significato
diverso che questo assume nei due film, e laspetto
delle due donne) ma anche Le onde del destino, espia-
zione e colpa, redenzione e follia; ma anche qui con
conclusioni opposte perch lo sguardo di Cahill non
contempla il misticismo anche se per certi versi
impregnato di spiritualit, ed decisamente pi posi-
tivo, d ai suoi personaggi la chance che Von Trier non
concede, non si concede; anzi fa in modo che se la
diano reciprocamente questa chance, laddove per Von
Trier la guarigione di Jan aveva dovuto significare,
comportare la morte della colpevole Bess (3).
Un altro libro ho tra le mani in questi giorni ed Le
domande della vita, il testo in cui Savater illustra ai
ragazzi che non studiano filosofia a scuola alcuni ele-
menti-chiave della disciplina. E nel capitolo sulla
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(1) Emanuela Imparato, Krysztof Kieslowski Il Decalogo, AIACE,
Roma 1990, pag. 19.
(2) Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto (a cura di), Kieslowski,
Museo Nazionale del Cinema, Torino 1989, pag. 31.
(3) A qualcuno proprio questo non piaciuto, questo finale ottimisti-
co con John che va sullaltra Terra a ritrovare i suoi cari, e Rhoda che
invece trova, su questa Terra, il suo doppio probabilmente mandato
da lui con chiaro effetto catartico e risolutore; dove appunto ognuno
fa del bene allaltro e in primis lei che lo fa a lui, dopo che tanto
male gli aveva fatto, quattro anni e pi prima.
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libert, dopo aver spiegato il concetto di responsabili-
t per Hume (Essere liberi non motivo solo di orgo-
glio, ma anche di inquietudine e perfino di ansia.
Assumere la libert implica accettare la responsabilit
di ci che facciamo, nonch di alcune conseguenze
indesiderabili delle nostre azioni (4), osservazione che
ben si adatta al nostro film), mostra come lo stesso era
inteso nella Grecia antica e in particolare nella trage-
dia, spiegazione che ci porta ancora pi vicino a noi:
Secondo Sofocle, ci che ci rende responsabili non
ci che abbiamo intenzione di fare, e neppure quel che
facciamo effettivamente, ma la riflessione su ci che
abbiamo fatto (5).
questa in effetti la saggezza che libera la prota-
gonista, per citare non casualmente il titolo di un
testo di Confalonieri sulla meditazione vipassana:
laver riflettuto quattro anni su quello che era accadu-
to, quattro anni di segregazione in carcere, di silenzio
e solitudine, di introspezione estrema e assoluta; e
lesserne uscita (dal carcere) con lintenzione di rime-
diare almeno un po a quanto commesso, di migliora-
re almeno un po, in modo semplice e concreto, la vita
della persona a cui aveva involontariamente provoca-
to tanto dolore, rinunciando a quello che di bello
aveva precedentemente ottenuto (lammissione al MIT
e una probabile carriera di astrofisico, motivo della
festa dopo la quale cera stato lincidente che d avvio
al film, dovuto al fatto di voler guardare la seconda
Terra appena scoperta). Lei si offre a lui e lui si offre
a lei, dopo. Nel controverso finale. Perch Rhoda e
John si cercano come se unenergia sottile li spinges-
se luno verso laltra o comunque richiamasse verso di
lei John, che non sa ancora chi lei sia.
E poi la fantascienza: la Terra 2, il doppio in cui
tutti siamo compresi, migliori o peggiori di quello che
siamo qui, o uguali. Questo nuovo pianeta e il proble-
ma di chi deve andarci, se solo le autorit o anche i
civili. E tutti che ne parlano, stampa radio tv e Rhoda
che ci pensa, il suo sogno e a quello rinuncer alla
fine, in nome dellamore che ha per John o del percor-
so di espiazione che deve compiere, a seconda dei
punti di vista (e noi preferiamo il primo). Un falso
film di fantascienza quindi, un film che utilizza lespe-
diente del secondo pianeta per parlare di noi, di quel-
lo che siamo, di questa nostra condizione umana e di
quanto sia importante la vicinanza tra le persone, al
di l di tutto. Libert e responsabilit. Un po come
Moon e Monsters, due dei film pi interessanti degli
ultimi anni. Cahill per il suo film partito tra laltro
dagli studi di due astrofisici, Berendzen e Greene, che
hanno ripreso la teoria del multiverso della fisica
quantistica, ma questa appunto la cosa meno
importante: linteresse del film un altro, psicologico
ed esistenziale.
Ci sono molti elementi, comunque, in questopera
che complessa. Sul piano dei contenuti troviamo
per esempio la storia, parallela a quella di Rhoda,
delluomo che fa le pulizie con lei a scuola, che lei
apprende essersi accecato con la candeggina nel
momento in cui con la stessa sostanza si reso sordo;
lui la sostiene allinizio e le dice di tenere la mente
sgombra e di assecondare se stessa, lei, in maniera
speculare a quello che le accade con John (e di spec-
chi il film pieno, vetri, specchi nei quali lei si riflet-
te, senza contare la teoria dello specchio rotto per il
nuovo pianeta), in ospedale gli si distende vicino e in
una scena bellissima e incantata gli prende la mano,
che quella di un indio, e gliela accarezza dicendo-
gli: Perdona. Poi c la storia del cosmonauta
russo, che invece di infastidirsi per il ticchettio che
sente e che gli impedisce di godere dello spettacolo
della Terra che vede dallobl dellastronave, decide
di innamorarsi di quel rumore e chiude gli occhi per
rifugiarsi nellimmaginazione, per riaprirli e sentire
che il ticchettio si trasformato in musica: John un
compositore che dal momento dellincidente non
suona pi, ma a un certo punto porta Rhoda in un
auditorium e le fa sentire il suono della sega ad arco,
un suono etereo e primitivo al tempo stesso che sem-
bra la musica di un altro mondo, che lei ascolta chiu-
dendo gli occhi (anche lui, del resto, li ha chiusi) e
rifugiandosi nellimmaginazione di cui sopra, mentre
il suono si trasforma in musica e la scena successiva
lamplesso dei due, disperato e sublime. E quando
lei torner da lui dopo aver saputo di aver vinto il
viaggio lo trover che suona una musica al piano che
sembra Chopin (ma Phaedon Papadopoulos, luni-
co pezzo in colonna sonora che non sia lelettronica
un po straniante dei Fall On Your Sword), la sola
melodia che ascoltiamo in un film che comincia e
finisce con il suono battente di una musica da disco-
teca. E poi la caverna di Platone citata da John: non
siamo pronti (come umanit) per uscire dalla caver-
na e quindi meglio non andare su Terra 2, non
vedere cosa c l.
Cahill, si diceva, ha prodotto, scritto, diretto, foto-
grafato e montato un film a basso costo che richiama
nella prima parte lo stile del Dogma 95, oltre che, in
qualche momento, Cronenberg e Lynch: camera a
mano, insistenza sui volti dei personaggi, uso insistito
dello zoom, colori lividi e tendenti al seppia, ambien-
tazione prevalentemente in interni (la casa di John,
che richiama la casa di tanti film dellorrore ed nella
realt la casa della madre del regista), musica presso-
ch assente e lo spaesamento della protagonista che ci
arriva tutto (il suo camminare sulla neve e vicino
allacqua, sola), insieme al dolore di John; mentre
nella seconda parte si apre a colori pi vivaci e nitidi,
blu, azzurro, bianco, e a immagini suggestive del cielo
e del mare blu cobalto, meraviglioso.
Perch il mare come il cielo, per citare in conclusio-
ne Michel Houellebecq, ci pu dare la possibilit di
unisola, in mezzo al tempo.
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(4) Fernando Savater, Le domande della vita, Laterza, Bari 1999,
pag. 129.
(5) Ivi, pag. 131.
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NO MANS LAND
Al Festival di Berlino 2012 Sister, secondo lungo-
metraggio cinematografico della svizzera Ursula
Meier, ha vinto un Orso dargento-Menzione speciale
della giuria. Ricevere un riconoscimento che non esi-
ste, un no mans land dei premi, ha scherzato la
regista, in una certa misura corrisponde perfettamen-
te alla natura intrinseca di Sister, ma anche al suo
film precedente Home (2008). Questo concetto di
terra di nessuno sembra essere un po il fil rouge
della poetica della Meier, ma di fatto connaturato
alla sua vita. Ed importante avviarsi da qui per
entrare nello spirito del suo cinema.
Ursula Meier nasce a Besanon, un paesino francese
al confine con la Svizzera, e cresce praticamente alla
frontiera con Ginevra come citt di riferimento. A que-
sto si aggiunga un ct germanico da parte del padre
svizzero-tedesco e uneducazione protestante che pre-
suppone un rapporto con limmagine prima delle paro-
le. Cosa che, spiega la regista, se indubbiamente le ha
creato delle difficolt relazionali da ragazzina, ha sen-
Titolo originale: Lenfant den haut. Regia: Ursula Meier.
Sceneggiatura: Antoine Jaccoud, Ursula Meier, Gille
Taurand. Fotografia: Agns Godard. Montaggio: Nelly
Quettier. Musica: John Parish. Scenografia: Ivan Niclass.
Costumi: Anna Van Bre. Interpreti: Kacey Mottet Klein
(Simon), La Seydoux (Louise), Martin Compston (Mike),
Gillian Anderson (Kristin Jansen), Jean-Franois Stvenin
(lo chef),Yann Trgout (Bruno), Gabin Lefebvre (Marcus),
Dilon Ademi (Dilon), Magne-Hvard Brekke (lo sciatore
violento), Simon Gulat (luomo della Golf), Mike Winter
(lo sciatore al Dynastar), Calvin Oberson (il fratello del
Mains Bleues), Eugenia Ferreira (Maria), Antonio Troilo
(lautista del minibus), Luca May (il bambino piccolo),
Lisa Harder, Lucien Saint-Denis (i figli di Kristin Jansen).
Produzione: Jean-Marie Gindraux, Rith Waldburger,
Denis Freyd per Bande Part Films/Arcipiel 35/Vga
Films/RTS Radio Tlvision Suisse. Distribuzione:
Teodora. Durata: 97. Origine: Svizzera/Francia, 2012.
Simon, un ragazzino di dodici anni, vive da solo con la
sorella maggiore Louise in un grigio quartiere industriale
della pianura, sovrastato da unopulenta stazione sciisti-
ca sulle Alpi. Tutti i giorni, prende la funi-
via e sale in cima, dove ruba gli sci e i
costosi equipaggiamenti dei ricchi turisti
per rivenderli, ricavandone piccoli ma rego-
lari introiti. L in alto c un mondo bene-
stante di vacanzieri allegri, in basso Simon
deve fare i conti con una quotidianit di
squallore e miseria. Sua sorella Louise non
riesce a mantenere a lungo un posto di
lavoro ed esce con uomini sempre diversi, a
volte scompare per giorni, abbandonando
Simon a se stesso. La ragazza cerca in tutti
i modi di trarre vantaggio dai traffici illeci-
ti del fratellino, ma finisce per dipendere
economicamente da lui e si fa pagare anche
per manifestargli il proprio affetto. Tra
gelosie e ripicche i due fratelli vivono alla
giornata, ma il loro rapporto nasconde un
inimmaginabile segreto
SISTER Ursula Meier
Storie a margine
Tina Porcelli
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zaltro influenzato il suo successivo modo di pensare il
cinema. In seguito si iscrive alla scuola di cinema in
Belgio, dove tuttora vive, e nel 2009 ha fondato con tre
amici una societ di produzione dal nome godardiano
(Bande Part Films) ubicata a Losanna, in cui risiede
per lunghi periodi. Insomma, un po di qua, un po di l.
Sta sul confine Ursula Meier, che i belgi chiamano la
svizzera e gli svizzeri la belga. Sovente la regista cita
proustianamente un episodio significativo. Una parte
del giardino del liceo che frequentava in Francia sconfi-
nava in Svizzera e quando domandava alle insegnanti
dove si trovassero in quel preciso punto, si sentiva
rispondere che era una terra di nessuno, una no mans
land. Ed su questa espressione verbale astrusa che
non riusciva a comprendere, questo non luogo, questo
vuoto di senso e di materia, che la Meier ha costruito la
sua attuale idea di cinema. Infatti i due film da lei rea-
lizzati, Home e Sister, ci portano entrambi a riflettere
proprio sul concetto di confine, raccontano luoghi ai
margini e persone anchesse marginali.
CONTINUIT
Simon interpretato dal bravo Kacey Mottet Klein,
scoperto dalla Meier in Home nel ruolo del figlio
maschio della famiglia, quella che viveva nella casetta a
ridosso dellautostrada. Nellultimo film della regista
per non ci sono nuclei familiari felici e uniti, ma una
cellula sgangherata composta da Simon e Louise, fratel-
lo-sorella, o figlio-madre come scopriamo con effetto
sorpresa allincirca dopo unora di film. Rispetto al
lavoro precedente lattore che interpreta Simon ovvia-
mente cresciuto, ha dodici anni. Anche questa volta lin-
tenzione della Meier era di approfittare di un margine
risicatissimo che definisce una non et, cio la fase in
cui non si pi bambini ma ancora non si rientra a
pieno titolo delladolescenza. Un periodo limite da
cogliere in fretta perch se solo Kacey Mottet Klein
fosse stato pi grande, si sarebbe persa la connotazione
innocente di alcune scene chiavi, come il momento
struggente in cui Simon paga Louise per dormire affian-
co a lei nel letto, per guadagnarsi il permesso di abbrac-
ciarla e non scivolare nel buio del sonno da solo.
un trafficone il piccolo Simon, una formichina
operosa del piccolo crimine che si mimetizza tra i turi-
sti benestanti delle alte vette innevate per sottrarre
loro le costose attrezzature sportive. Sci, guanti,
occhiali, scarponi, giacche a vento, portafogli, persino
i panini al sacco. Acchiappa tutto. A volte agisce su
commissione, gli indicano i modelli degli sci pi costo-
si dai cataloghi e lui meticolosamente li cerca e li ruba,
invecchia gli esemplari troppo nuovi e copre i graffi di
quelli malridotti per ingannare i compratori poco
esperti. Simon ha le mani svelte e la parlantina anco-
ra pi sciolta come lAntoine Doinel di I 400 colpi
(Les 400 coups, 1959) di Truffaut, regista che la Meier
dice di amare e di conoscere a memoria, o di
Linfanzia nuda (Lenfance nue, 1968) di Pialat, film
a cui confessa di avere molto pensato per il modo si
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tratta il tema dellinfanzia. Abbandonato a se stesso,
Simon singegna come meglio pu nella sua lotta di
sopravvivenza quotidiana, ma quando incontra una
dolce turista inglese con i figli piccoli, fa in modo di
sedersi con loro a pranzare e insiste anche per pagare
le consumazioni, illudendosi di poter comprare attimi
di convivialit familiare. E allorch gli viene chiesto
come si chiama fornisce un nome falso, Julien, che
guarda caso era lo stesso che in Home.
Sembrano quasi un dittico, Home e Sister, luno il
proseguimento dellaltro. Intanto perch nelle intervi-
ste la stessa regista a metterli sempre a confronto.
Spiega che Home un film orizzontale, si svolge lungo
unautostrada, e Sister invece verticale, ritmato dal-
lincessante movimento tra lalto e il basso, il bianco
accecante della stazione sciistica sulla cima della mon-
tagna e la piana industriale sotto la coltre delle nuvo-
le, dove la neve si sciolta o raggrumata in ammassi
grigiastri. La funivia, che il luogo dove Simon si spo-
sta, si cambia, mangia, appunto lelemento di raccor-
do tra i due mondi. Collega due spazi radicalmente
distanti, sia in senso geografico che sociale. Sulla som-
mit i benestanti vacanzieri di passaggio si divertono,
sciano, prendono il sole, si rifocillano gioiosamente
senza badare a spese, mentre in fondo alla montagna i
residenti sgobbano al loro servizio e vivono in unifor-
mi appartamenti angusti e grigi.
CONTAMINAZIONI
Simon e Louise fanno parte di quelle persone che
nella vita nessuno vede e trascinano le loro esistenze
nelle difficolt quotidiane. Letteralmente, Simon tra-
scina ogni giorno il suo slittino con gli oggetti rubati e
una volta invita anche Louise a salirci sopra e porta
anche lei. Con questi evocativi espedienti visivi la
Meier brava a passare dal concettuale al fisico, dalle
sensazioni astratte alla rappresentazione di un males-
sere concreto. Perch il suo un cinema di carne,
come lo definisce, non tanto di corpi che si scontrano
alla Ken Loach o dei gesti reiterati nel quotidiano dei
fratelli Dardenne. un cinema dove la presenza fisica
dei protagonisti si relaziona agli ambienti che non sono
mai soltanto sfondi, ma parte integrante della narra-
zione, personaggi essi stessi. Ma soprattutto un cine-
ma dove le idee si traducono in materia, dove la vita
nella casetta di Home diventa cos insostenibile per i
rumori del traffico che gli abitanti si murano vivi den-
tro la casa; dove Simon che non vale niente alla fine
viene gettato tra i rifiuti, ammonticchiato come un
oggetto inutile tra i sacchi neri della spazzatura che la
teleferica di servizio porta a valle.
Ursula Meier ama mescolare e contaminare generi e
situazioni. Home partiva come un film realista ma poi
sconfinava nella fantascienza, e la regista lo definiva un
road movie allinverso. In Sister punta a trovare un
equilibrio tra una dimensione del reale non limitata
allaspetto sociale e limportanza di un solido intreccio
narrativo alla base.
Indubbiamente, uno dei cardini del film rappresen-
tato dal ribaltamento dei ruoli convenzionali. Nei rap-
porti tra adulto/ragazzo, genitore/figlio, la Meier scar-
dina i compiti e attribuisce alluno quelli dellaltro. Cos
Simon, bambino cresciuto troppo in fretta, a doversi
ingegnare a portare a casa i soldi necessari per il cibo e
la carta igienica. sempre lui a preoccuparsi di quan-
do la madre ritorner a casa dopo le sue fughe con
uomini sbagliati e a prendersi cura dei suoi crolli emo-
tivi. Per, nella straordinaria e intensa inquadratura
finale in cui le due cabine della funivia si incrociano,
accade una sorta di piccolo miracolo. I ruoli si ristabili-
scono. Simon, disorientato dalla chiusura degli impian-
ti e dalla fine della stagione sciistica che rappresenta la
sua fonte di reddito, perde quella sicurezza (ostentata)
da adulto e si ritrova spaesato, smarrito in un paesaggio
di piste gialline e fangose non pi ricoperte dalla neve.
E cos torna verso il basso, ritorna al suo ruolo di ragaz-
zino. Al contrario, la madre recupera il senso di una
maternit troppo a lungo rifiutata e sale verso lalto,
alla consapevole ricerca di quel figlio mai abbastanza
amato. E alla fine il miracolo si compie, su quelle due
cabine che corrono in direzioni opposte, ma allinterno
delle quali delle mani si protendono verso altre mani, e
i volti trasmettono stupore e tutto quello che non sono
stati capaci di comunicare con le parole. Per un istante
lo spettatore avverte un fluido pieno di amore, cos forte
che sembra quasi di vederlo materializzare.
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THE RUM DIARY
CRONACHE DI UNA PASSIONE
Bruce Robinson
Titolo originale: The Rum Diary.
Regia e sceneggiatura: Bruce Robin-
son. Soggetto: dal romanzo Cronache
del rum di Hunter S. Thompson. Foto-
grafia: Dariusz Wolski. Montaggio:
Carol Littleton. Musica: Christopher
Young. Scenografia: Chris Seagers.
Costumi: Colleen Atwood. Interpreti:
Johnny Depp (Paul Kemp), Aaron
Eckhart (Sanderson), Michael Rispoli
(Bob Sala), Amber Heard (Chenault),
Richard Jenkins (Lotterman), Giovan-
ni Ribisi (Moberg), Bill Smitrovich
(Zimburger), Amaury Nolasco (Segur-
ra), Marshall Bell (Donavon), Julian
Holloway (Wolsey), Bruno Irizarry
(Lazar), Enzo Cilenti (Digby), Aaron
Lustig (Monk), Tisuby Gonzlez
(Rosy), Karen Austin (la signora Zim-
burger), Andy Umberger (Green),
Karimah Westbrook (Papa Nebo),
Jimmy Ortega (il poliziotto). Produzio-
ne: Graham King, Tim Headington,
Johnny Depp, Robert Kravis, Anthony
Rhulen, Christi Demborwski per Fil-
mengine/Dark & Stormy Entertain-
ment/GK Films/Infinitum Nihil Pro-
duction. Distribuzione: 01. Durata:
120. Origine: USA, 2011.
Bruce Robinson si preso diverse
libert nel trasporre il romanzo di
Hunter S. Thompson. Il principale
cambiamento sta nellaver soppres-
so un personaggio importante come
Yeamon, una sorta di doppio del
protagonista: simile a lui, ma pi
capace di vivere con pienezza il rap-
porto con le donne (la relazione con
Chenault) e con il giornalismo (lin-
chiesta sullemigrazione da Porto
Rico), Yeamon rappresenta quello
che Kemp avrebbe voluto/potuto
essere. La sua cancellazione porta
con s alcune conseguenze significa-
tive, in particolare il fatto che Che-
nault si trasforma nella donna di
Sanderson (personaggio che nel
libro rimane sullo sfondo, mentre
nel film diventa il vero e proprio
antagonista di Kemp).
Si direbbe che i cambiamenti intro-
dotti assolvano a due funzioni. Da
un lato, ampliando lo spazio di San-
derson, facendo apparire la sua
impresa come una specie di complot-
to internazionale da sventare e met-
tendo in primo piano la sfida don-
chisciottesca di Kemp nei suoi con-
fronti, Robinson cerca di aggiungere
intrigo e mistero a una trama che nel
libro rimane sostanzialmente immo-
bile (pi o meno, una serie di colos-
sali bevute, autocommiserazione e
vaghe speranze di cambiamento: nel
libro non ci sono galli che combatto-
no, n il disperato tentativo di salva-
re il giornale). Dallaltro, introducen-
do nella storia elementi provenienti
da altre opere di Thompson nel
libro non ci sono giudizi su Nixon
(espressi in altre sedi, vedi il necrolo-
gio compreso in Meglio del sesso.
Confessioni di un drogato della poli-
tica: Era assolutamente privo di
etica, morale o di qualunque fonda-
mento di decenza gli storici onesti
lo ricorderanno come un topo di
fogna), cos come assente la scena
dellassunzione di un potente alluci-
nogeno (che crea un collegamento
con Paura e disgusto a Las Vegas)
rafforza lidentificazione (poi esplici-
tata nel finale) tra il protagonista e lo
stesso Thompson.
Facendo di Chenault la ragazza del-
luomo potente, la trama prende
qualcosa da certi vecchi noir (lui,
incastrato dal fascino ammaliante di
una donna, rimane invischiato in un
gioco solo allapparenza pulito e in
cui tutti si rivelano diversi da quel
che sembrano). Si direbbe anzi che
Robinson voglia far assumere al pro-
tagonista tratti provenienti da arche-
tipi bogartiani (in questo sviluppan-
do forse un suggerimento del roman-
zo, dove lio narrante, a un certo
punto, dice che era il tipo di citt
che ti faceva sentire come Humphrey
Bogart anche il valore simbolico
attribuito al rosso e allazzurro, prin-
cipale leitmotiv visivo del film, sem-
bra sviluppare un fugace accenno a
quei colori presente nel libro): leroe
riluttante che preferibilmente in
un posto esotico (Acque del Sud,
Casablanca) sembra l solo per
denaro, osserva il mondo con disin-
cantato cinismo, ma finisce per
impegnarsi sempre nelle cause giu-
ste, anche se la seduzione di una
donna (Solo chi cade pu risorgere)
pu fargli perdere la strada.
Il risultato di queste interpolazioni,
per, non riesce a formare un tutto
coerente. evidente, ad esempio,
per rimanere sulla figura di Che-
nault, che certe scene del libro, ripe-
tute nel film con Sanderson al posto
di Yeamon, perdono di significato.
Quando (nel libro) Kemp vede la
ragazza che fa lamore con Yeamon
al largo, viene sopraffatto dai ricor-
di di cose che non ero riuscito a
fare, ore sprecate e attese frustranti
e occasioni perdute per sempre per-
ch il tempo aveva portato via cos
tanto alla mia vita e nessuno me
lavrebbe restituito. Se al posto di
Yeamon c Sanderson (e al posto
della barriera corallina, una lussuo-
sa barca), la visione pi banalmen-
te lattrazione per il bel mondo (ric-
chezza, belle donne); e la recitazione
buffonesca di Depp ubriaco allonta-
na ancor di pi dal senso originario.
Oppure, si prenda la scenata dopo
labbandono di Chenault: fatta da
Yeamon ha un senso (lui un perso-
naggio che pu essere disperato),
fatta da Sanderson lascia emergere
una vulnerabilit che mal si accorda
con i presupposti del suo carattere
(con una scenata del genere viene
meno la grandezza necessaria a
fare di lui un cattivo sul serio).
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IN SALA
I FILM
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Insomma, decisi certi cambiamenti di
fondo, sarebbe stata necessaria una
pi profonda riscrittura, che soste-
nesse in maniera pi credibile la
volont di fare della vicenda un noir,
rendendo pi sottile lambiguit dei
personaggi. Il film, grazie alla buona
qualit di una fotografia dai colori
brillanti, fila comunque via per gran
parte della sua durata senza distur-
bare (ma senza nemmeno appassio-
nare). Sono gli scorci conclusivi a
lasciare lamaro in bocca: Kemp si
trasforma in una specie di eroe, di
Don Chisciotte, per essere poi (dida-
scalia finale) identificato con Thom-
pson, cos da fare di questultimo una
specie di santino, che combatte con-
tro i bastardi, e innalzare oltre i
limiti il tasso di retorica (che era pro-
prio ci da cui scrittori come lui cer-
cavano di fuggire).
Rinaldo Vignati
CILIEGINE
Laura Morante
Titolo originale: La cerise sur le
gteau. Regia: Laura Morante. Sce-
neggiatura: Laura Morante, Daniele
Costantini. Fotografia: Maurizio
Calvesi. Montaggio: Esmeralda
Calabria. Musica: Nicola Piovani.
Scenografia: Pierre-Franois Lim-
bosch. Costumi: Agata Cannizzaro.
Interpreti: Laura Morante (Aman-
da), Pascal Elb (Antoine), Isabelle
Carr (Florance), Samir Guesmi
(Maxime), Patrice Thibauud
(Hubert), Frdric Pierrot (Ber-
trand), Vanessa Larr (Valerie),
Georges Claisse (lo psicoanalista),
Nadia Fossier (Mathilde), Yves Ver-
hoven (Victor), Elisabeth Catroux
(Fabienne), Emmanuelle Balabru
(Batrice), Frdric Moulin (Bruno),
Mathilda Vives (Claire), Louis-Char-
les Finger (Lo), Jos Fumanal
(Franois), Sandrine Le Berre
(Anne-Lise), Ennio Fantastichini (il
signor Faysal). Produzione: France-
sco Giammatteo, Philippe Carcas-
sonne, Bruno Pesery per Nuts &
Bolts Productions/Maison de Cin-
ma/Soudaine Compagnie. Distribu-
zione: Bolero. Durata: 85. Origine:
Francia/Italia, 2012.
Amanda ha tanti pregi, e poi anche
tanti difetti. Per esempio odia le
ingiustizie, e la disattenzione: gli
sgarbi fatti con o senza volont di
ferire. Non distingue la negligenza di
chi mette una bottiglia di vetro nella
spazzatura indifferenziata e chi si
dimentica i suoi gusti in fatto di cuci-
na giapponese. Ha ragione, sempre, e
quindi il mondo le d torto, perch
lunico modo per viverci in mezzo
sgusciando tra le insidie come unan-
guilla accettare che la perfezione ha
la qualit effimera della ciliegina che
troneggia per circa un minuto o due
sulla torta condivisa con il compa-
gno, e poi sparisce.
Una donna a pi di quarantanni
senza un uomo stabile, anche a Pari-
gi, un caso da analizzare, e bene. Il
marito dellamica, psicoanalista, la
guarda con rassegnata competenza,
lamica con preoccupazione crescen-
te, il compagno che cerca di metter-
ci su casa insieme con rabbia e
incomprensione. Eppure non ha
inclinazioni sessuali atipiche, non
brutta, n infelice. Vuole avere i suoi
spazi belli larghi, e un uomo che ci
cammini attraverso in punta di
piedi, e questo, ne conveniamo
anche noi, non sempre semplice.
Luomo che vuole una chimera, il
personaggio di un libro che deve
aver letto tanto tempo fa, un cavalie-
re senza macchia che non lascia
tracce nella sua cucina, ma c se
piove, e al cinema di quartiere
danno un bel film.
Quando Amanda incontra Antoine
subito amore: Antoine, cos le hanno
riferito, gay, quindi non sar mai
una cocente delusione. Il loro rap-
porto si fermer sullorlo del preci-
pizio, e sar bello guardare il pae-
saggio senza paura di cadere gi.
Ciliegine una commedia scritta
bene e recitata benissimo: si esce dal
cinema rasserenati e in pace con noi
stessi, e non cosa da poco in questi
tempi in cui anche andare al cinema
solo per ridere o stare bene fa sentire
un po in colpa. Laura Morante
abbandona lo stile nevrotico urlato e
spossato che caratterizza ormai la
gran parte dei suoi ruoli in Patria, e
acquisisce una lievit di tratto insoli-
ta, una delicatezza eterea, e una bel-
lezza tangibile e quasi esagerata.
Non fraintendiamo: Amanda e la
rappresentazione che di essa fa la
regista-attrice una donna profonda-
mente nevrotica, ma questa caratteri-
stica sembra essere la sua immensa
forza, la grazia sgraziata che costitui-
sce il suo fascino. Tutto semplifica-
to, e senza dimensione: questo non
vuol dire che la Morante mette in
scena un teatrino delle scimmie
ammaestrate, ma semplicemente che
non interessata alla realt.
Se non fossimo al cinema, direi che
teatro: anche perch la regia qui
tutta sui personaggi, sui tic delle
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facce, sui gesti a segno o a vuoto. E
non ci si vergogna a costruire delle
macchiette: luomo sensibile e timido
che sembra gay, il gay vero che sculet-
ta in giro e mangia la foglia, lamica
premurosa e borghese, il marito di
questa, psicoanalista, che architetta
un piano che anche unesperimento
rivoluzionario che gli permetter di
scrivere un libro di successo su come
liberarsi dellandrofobia. Parigi una
citt delle favole, piena di alberi che
fioriscono e di fenomeni naturali, di
canali rilucenti al sole, di giardini
rigogliosi e fantastici che crescono ai
margini degli appartamenti.
Non c niente di plausibile in Ciliegi-
ne, compreso il titolo, e fa ridere chi
cerca di interpretare questo film inta-
volando una riflessione profonda sulla
visione della donna e delle sue decli-
nazioni psicologiche: del resto stata
la stessa Morante ad ammettere con
candore di essersi ispirata al perso-
naggio di Lucy dei Peanuts per
costruire la sua Amanda, una donna-
fumetto che odia gli uomini perch
ama se stessa, una bambina cresciuta
che ha paura che le scrutino troppo la
generosa scollatura, che comunque
non esita a sfoggiare.
Questo film ci ricorda semplicemente
due cose e lo fa bene. La prima ci
che dimostra: che ancora possibile
scrivere e realizzare commedie intelli-
genti e piacevoli, nonostante gli sforzi
per farci credere il contrario del cine-
ma contemporaneo, soprattutto italia-
no. E poi ci rammenta che inutile
cercare allinfinito: in ogni caso il
sogno sar sempre meglio della realt.
Lo sapevamo gi, ma per ottantacin-
que minuti ci siamo divertiti.
Elisa Baldini
CHRONICLE
Josh Trank
Titolo originale: id. Regia: Josh
Trank. Soggetto: Max Landis, Josh
Trank. Sceneggiatura: Max Landis.
Fotografia: Matthew Jensen. Mon-
taggio: Elliot Greenberg. Scenogra-
fia: Stephen Altman. Costumi:
Diana Cilliers. Interpreti: Dane
DeHaan (Andrew Detmer), Alex
Russell (Matt Garetty), Michael
Kelly (Richard Detmer), Michael B.
Jordan (Steve Montgomery), Ashley
Hinshaw (Casey Letter), Bo Peter-
sen (Karen Detmer), Anna Wood
(Monica), Rudy Malcolm (Wayne),
Luke Tyler (Sean), Crystal Donna
Roberts (Samantha), Adrian Collins
(Costly), Grant Powell (Howard),
Armand Aucamp (Austin), Nicole
Bailey (Cala). Produzione: John
Davis, Adam Schroeder per Davis
Entertainment/Adam Schroeder
Productions/Film Afrika Worldwi-
de. Distribuzione: 20th Century Fox.
Durata: 84. Origine: Gran Breta-
gna/USA, 2012.
Una storia di formazione adolescen-
ziale travestita da superhero movie,
situata tra la divertita presa di
coscienza dello Spider-Man di
Raimi e la vindice esplosione di vio-
lenza di una malmostosa Carrie. Il
tutto proposto attraverso la pratica
stilistica (e narrativa) del found foo-
tage, ormai un autentico sottogenere
con implicazioni del tutto proprie (e
non sempre giustificate dalla storia
raccontata).
Tre ragazzi, tre tipologie differenti di
adolescenti riuniti intorno a unidea
di mutamento del proprio stato e
delle caratteristiche individuali in
prossimit della fatidica soglia che
contraddistingue let adulta.
Andrew, vittima costante della pre-
potenza dei compagni di scuola, ves-
sato anche dal padre, invalido e alco-
lista, sofferente per una madre mala-
ta terminale. Matt, spigliato e tran-
quillo, unico amico di Andrew prima
della comparsa del solare Steve, per-
sonaggio molto popolare al liceo,
candidato alla carica di presidente
del consiglio studentesco, considera-
ta il primo passo per incarichi sem-
pre pi ambiziosi. I tre trovano per
caso una misteriosa conformazione
allinterno di un buco nel terreno,
poco distante da una festa a cui
hanno preso parte. Il contatto con la
formazione cristallina, di cui indi-
cativamente signorano natura e
origine, fornisce allimprovvisato ter-
zetto una serie di poteri di cui poco a
poco comprendono potenza, peculia-
rit ed entit. Ma di fronte al muta-
mento di stato, e dopo un breve
periodo di incosciente spensieratez-
za, di frizzi e di lazzi, le differenti
nature dei tre personaggi vengono
allo scoperto e collidono, fino allir-
razionale esplosione di violenza fina-
le, a causa della quale Andrew sar
prima motivo indiretto della morte
di Steve e poi cieco distruttore della
zona centrale di Seattle, ostacolato
dallintervento risolutore di Matt.
Lo spunto sci-fi ovviamente solo un
pretesto. La conformazione cristalli-
na e ramificata comparsa improvvi-
samente sotto il terreno un dato di
fatto imponderabile sul quale non si
indaga, e che tantomeno pretende
una soluzione che soddisfi una curio-
sit mai generata dal film. lindice
di un cambiamento radicale, la mani-
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festazione concreta di una funzione
cardinale del racconto, la cesura alle-
gorica dopo la quale niente pi
come prima. Il dopo labbozzo di
unosservazione di caratteri e di aspi-
razioni, riassumibile in una triparti-
zione anchessa traslata, in virt
della quale ladolescenza e il senso
di onnipotenza che a volte porta con
s vista attraverso la saggia misu-
ra di Matt, lilluso e generoso entusia-
smo di Steve e il rabbioso senso di
riscatto di Andrew per una famiglia
disfunzionale e per le umiliazioni
subite in un recente passato da nerd
emarginato.
Ma se il racconto di (divergente) for-
mazione poco meno che convenzio-
nale proprio perch proposto come
science-fiction in disguise, pi inte-
ressante appare la logica di creazione
dello sguardo che informa il film e
sostanzia la modalit stessa di rac-
conto. Il found footage come princi-
pio fondante, locchio di Andrew
come visione orientante. La prima
inquadratura del film Andrew che
pone la sua videocamera davanti a
uno specchio rappresenta il princi-
pio concettuale che attraversa tutta
la pellicola, caratterizzandone orien-
tamenti e prospettive: insieme sguar-
do soggettivo sul mondo e piano
oggettivo su di s, una visione totaliz-
zante dellesistente e dellesperienza
sensibile che implica una precisa
volont di collocazione allinterno
della realt, come parte di essa, e non
solo in qualit di osservatore esterno.
Il concetto di visione sottende il desi-
derio di un adolescente tormentato,
esterno alla realt che lo circonda e
da cui escluso, se non, nella miglio-
re delle ipotesi, come semplice spetta-
tore, poich quando entra suo mal-
grado in contatto con quella stessa
realt che si limita a guardare solo
per essere malmenato o umiliato.
La soggettiva come aspirazione, lin-
globamento nelloggettiva come con-
seguenza dellassunzione dei poteri
(le scene in cui Andrew libra la video-
camera in volo per farsi inquadrare
in plonge) e come immagine della
volont di appropriarsi di quel
mondo di cui Andrew non ha mai
fatto parte in precedenza. Un proget-
to di visione che si espande con la
megalomane violenza in cui pare
intrappolato il personaggio, ormai
preda di una crisi irreversibile indi-
rizzata verso lannientamento,
mostrato attraverso ogni dispositivo
di visione e registrazione possibile
(cellulari, tablet, telecamere a circuito
chiuso eccetera) fino al redde ratio-
nem finale con Matt.
Solo a quel punto il regime dello
sguardo subisce uno scarto differen-
te: Andrew lotta per la sua folle
affermazione senza che la sua azione
sia filtrata da un qualunque appa-
recchio. La sua unoggettiva di cui
si fa carico listanza narrante. Diret-
tamente, senza intermediari e senza
figure vicarie. Un dubbio si introdu-
ce nellipotesi di significato: il cam-
bio di registro legittimato dalla
insana determinazione di Andrew a
essere il centro di convergenza degli
sguardi altrui, oppure il disegno teo-
rico predisposto fino a quel momen-
to da Josh Trank saltato per log-
gettiva difficolt di mettere in scena
una vorticosa sequenza dazione
secondo un unico punto di vista?
Giampiero Frasca
HUNGER GAMES
Gary Ross
Titolo originale: The Hunger Games.
Regia: Gary Ross. Soggetto: dal
romanzo omonimo di Suzanne Col-
lins. Sceneggiatura: Gary Ross,
Suzanne Collins, Billy Ray. Fotogra-
fia: Tom Stern. Montaggio: Stephen
Mirrione, Juliette Welfling. Musica:
James Newton Howard, T-Bone Bur-
nett. Scenografia: Philip Messina.
Costumi: Judianna Makovski. Inter-
preti: Jennifer Lawrence (Katniss
Everdeen), Josh Hutcheson (Peeta
Mellark), Liam Hemsworth (Gale
Hawthorne),Woody Harrelson (Hay-
mitch Abernathy), Elizabeth Banks
(Effie Trinket), Lenny Kravitz
(Cinna), Stanley Tucci (Caesar Flic-
kerman), Donald Sutherland (il Pre-
sidente Snow), Wes Bentley (Seneca
Crane),Toby Jones (Claudius Temple-
smith), Alexander Ludwig (Cato),
Isabelle Fuhrman (Clove), Amandla
Stenberg (Rue), Willow Shields
(Primrose Everdeen), Leven Rambin
(Glimmer), Jacqueline Emerson
(Foxface), Paula Malcomson (la
signora Everdeen). Produzione: Nina
Jacobson, Jon Kilik, Diana Alvarez,
Louis Phillips, Aldric Laauli Porter,
Bryan Unkeless per Color Forse/Lar-
ger Than Life Productions/Lionsga-
te/Ludas Productions. Distribuzio-
ne: Warner Bros. Durata: 142. Origi-
ne: USA, 2012.
Tutta la vita delle societ nelle quali
predominano le condizioni moderne
di produzione si presenta come
unimmensa accumulazione di spet-
tacoli. Tutto ci che era direttamente
vissuto si allontanato in una rap-
presentazione, scrive Guy Debord
(La societ dello spettacolo, Baldini
Castoldi Dalai, Milano 2004, pag.
53). Per cercare di capire Hunger
Games bisogna leggerlo a livello con-
testuale. Cio vedere come il film
prenda senso e valore allinterno del
macrotesto cine-spettacolare. Il lavo-
ro di Gary Ross, trasposizione del
primo capitolo dellomonima epopea
scritta da Suzanne Collins, si colloca
nel solco delle recenti saghe cinema-
tografiche principalmente concepite
per un target giovanilistico.
Ogni anno, ciascuno dei dodici
distretti di Panem deve tributare due
suoi giovani, un ragazzo e una ragaz-
za, ai giochi della fame, arena
postmoderna concepita per celebrare
la repressione della rivolta che i pove-
ri tentarono per destituire gli alti
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scranni di Capitol. Preparate il mas-
sacro dei [] figli a causa della ini-
quit dei loro padri, perch non si
alzino pi a prendere possesso della
Terra (Isaia 14, 21 [Nuova Diodati]).
Il tutto sotto gli occhi delle telecame-
re, in un barbarico reality show al ter-
mine del quale uno solo dei parteci-
panti rester vivo.
il ritratto di una societ struttural-
mente organizzata secondo il modello
gi immaginato da Fritz Lang per
Metropolis, con la differenza che i
miserabili non sono confinati nel sot-
tosuolo ma alle periferie. Da un lato
limmagine di una povert riecheg-
giante atmosfere anni Quaranta, dal-
laltro una capitale che rilegge i fasti
di Versailles nellottica futurista e
kitsch del tubo catodico, abitata da
figure eccentriche, parossistiche e
ciniche, in pendant con le acide fosfo-
rescenze televisive.
Molte le suggestioni: dallovvio
rimando al mito di Minosse fino a
Battle Royal, romanzo di Koshun
Takami che ha ispirato il manga (sce-
neggiato dallo stesso scrittore) e il
film (diretto da Kinji Fukasaku) omo-
nimi. Questo a dimostrare che non
certo loriginalit il risultato che il
film si prefigge di raggiungere. La
stessa idea che tutto sia regolato dalle
logiche televisive, e che di conseguen-
za ogni comportamento o reazione sia
condizionato dagli indici di gradi-
mento spettatoriali, non di certo un
qualcosa di inedito; questione gi
cinematograficamente affrontata e
con ben maggiore approfondimento.
Ci che rende interessante Hunger
Games quello di accennare questa
riflessione allinterno di un film che
si presenta sul mercato come il clas-
sico prodotto mainstream, conforme
alle retoriche di vendita, allappa-
renza proponente una vicenda che
non conceda alternative a una
monolettura, da intendersi come
prospettiva unica e unificante. Gary
Ross si rivolge a un pubblico abitua-
to a narrazioni filmiche dimmedia-
ta decifrazione e insinua in questi il
sospetto che non tutto sia di diretta
interpretazione, che pu esistere un
sottotesto, e che bisogna quindi sfor-
zarsi a vedere del montato(cio del
fabbricato) l dove abitualmente si
soliti vedere dellomogeneo (cio del
naturale). In questa prospettiva,
sotto la superficie ingannevole della
facilit fruitiva, Hunger Games pre-
senta un articolato intrecciarsi di
ossessioni metacinematografiche.
il film che esibisce i criteri della sua
stessa giudicabilit, in quanto lancia
segnali sul tipo di operazione che va
compiendo. Come sostenuto da Mar-
cello Walter Bruno, ogni film si auto-
rizza da s, ma non da solo. Esso si
inserisce nel grande flusso della pro-
duzione culturale (I giochi proibiti,
Segnocinema n. 44, luglio 1990,
pag. 4). Loperazione la verit del-
lopera. Unoperazione, per, di certo
non priva dambiguit, poich non ci
permette di capire quanto Gary Ross
sia realmente conscio del proprio
meta-operare.
Siamo di fronte a un regista perfet-
tamente consapevole e quindi inte-
ressato a riflettere sulla struttura
visiva e narrativa di un preciso
modello testuale, oppure di uno
scaltro artigiano che giustifica le
proprie pecche facendole passare
per volute incongruenze finalizzate
a mettere in risalto la struttura del
sistema? Il dubbio rimane: il film
non coinvolge per mancanze della
sceneggiatura, o perch gli artifici
sentimentali della comunicazione
spettacolare, per loro stessa natura,
non possono coinvolgere?
Matteo Marelli
ROBA DA MATTI
Enrico Pitzianti
Regia e sceneggiatura: Enrico Pit-
zianti. Montaggio: Marco Antonio
Pani. Produzione: Enrico Pitzianti
per Eia Film/Societ Umanitaria-
Cineteca sarda/A.S.A.R.P. Casamat-
ta Onlus. Distribuzione: Eia Film.
Durata: 80. Origine: Italia, 2011.
Esistono donne che in silenzio, tutti
i giorni, dedicano la loro vita a chi
soffre. Sono loro le vere eroine del-
lItalia di oggi e in questo film, come
autore e come uomo, ho avuto il pri-
vilegio e lonore di poterlo testimo-
niare (Enrico Pitzianti). Se c stato
un prima, ma non siamo sicuri anco-
ra un dopo, lavanguardistica Legge
Basaglia del 1978 che in pratica
rivoluzion la gestione e lapproccio
anche sociale del disagio mentale in
Italia e in tutto lOccidente lo dobbia-
mo anche a storie come questa. La
storia di Roba da matti infatti la
dimostrazione di quanto si debba
ancora lavorare in questa direzione:
siamo in Sardegna, precisamente a
Quartu SantElena, allinterno della
residenza socio-assistenziale di Casa-
matta in cui vivono otto persone con
disagio mentale. La struttura consi-
derata allavanguardia nel panorama
italiano, un luogo dove le persone con
sofferenza mentale possono aspirare
a ricostruirsi una vita. Purtroppo
per, dopo diciassette anni di attivi-
t, la casa rischia di chiudere, stretta
tra la morsa della burocrazia e delle
gelosie e ripicche corporative: da una
parte c lo sfratto deciso dal padro-
ne di casa che non pi intenzionato
a rinnovare il contratto daffitto, dal-
laltra c una denuncia di un medico
pre-basagliano, che accusa gli ope-
ratori di maltrattamenti e di gravi
inadempienze sanitarie.
E qui arriva Enrico Pitzianti, docu-
mentarista militante, si sarebbe
detto qualche anno fa. Pitzianti,
camera in mano, entra in Casamatta
e comincia a filmare, senza filtri. E
come un fiume prende corpo la sto-
ria. Tre mesi di convivenza e un pro-
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getto di un puro film di finzione che
rimane solo sulla carta: forse lur-
genza di raccontare la chiusura di
Casamatta impedisce a Pitzianti di
calcare troppo la mano sulla fiction.
Quello che ne esce una docu-fic-
tion disadorna, senza orpelli, voluta-
mente brutta nellestetica ma soli-
da nel suo rapportarsi indefessa-
mente con la realt provando persi-
no, follia!, a tentare di influenzarla.
Meriti e pregi della pellicola sono
tutti qui, nellintersezione tra la fin-
zione e la realt, tra un classico rac-
conto cinematografico e lurgenza di
raccontare un mondo che sta per
sparire. E tante anche le mancanze:
del film di finzione manca la grande
idea di regia dalla quale trarre con-
tinua ispirazione, cos come una
chiara e progettuale articolazione
del discorso filmico. Altro dubbio
sorge guardando anche allutilizzo
di alcuni registri narrativi, nelle
finalit come nelle modalit, come
ad esempio la scelta di affidare solo
parzialmente un commento in voice
over di una delle pi strenue soste-
nitrici di Casamatta, Gisella Trincas,
presidente della comunit nonch
sorella di uno dei malati.
Malati che, il caso dirlo (e questo
uno dei grandi punti di forza di Roba
da matti), vengono tratteggiati da
loro stessi, attraverso le loro parole e
i loro gesti, senza quella retorica tipi-
ca di certo cinema patologico che
impone al malato il filtro onnipresen-
te del medico o delloperatore. E il
cuore del film tutto qui, in quel
misterioso ed empatico rapporto
fra gli assistiti e gli altri. Bravo Pit-
zianti nellaprire con naturalezza e
soprattutto pudicizia uno squarcio su
questa umanit dolente e nel delinea-
re, anche con sorprendente ironia, il
ritratto di queste personalit che
troppo facilmente potrebbero esser
definite border-line.
Ecco perch nei racconti e negli
sguardi di Stefano, linnamorato, di
Sergio, il lavoratore, di Patrizia, che
dorme beata, di Maria Antonietta,
lucida a tal punto da riconoscere
come spesso siano gli ospitia mal-
trattare gli operatori, di Cenza, che
scopre con innocenza il gusto vellu-
tato di una tazza di latte, di Pinuc-
cio, che non ha altra casa allinfuo-
ri di Casamatta, c tutta lurgenza
del cinema di vero impegno, di mili-
tanza e di partecipazione. Che non
sar, come detto, propriamente
bello, ma che certamente utile,
per quanto possa esserlo un film
oggi. Certo, siamo anche distanti
dallesperimento argentino dei coli-
fatos, raccontati nello splendido
documentario di Carlos Larrondo
LT 22 Radio La Colifata, datato
2004, ma quello era un caso forse
pi unico che raro di compartecipa-
zione autoriale.
Lorenzo Leone
ISOLE
Stefano Chiantini
Regia: Stefano Chiantini. Soggetto:
Massimo Gaudioso, Stefano Chianti-
ni. Sceneggiatura: Stefano Chianti-
ni, Giuliano Miniati. Fotografia: Vla-
dan Radovic. Montaggio: Luca
Benedetti, Cristina Flamini. Musica:
Piernicola Di Muro. Scenografia:
Ludovica Ferrario. Costumi: Susan-
na Mastroianni, Francesca Tessari.
Interpreti: Asia Argento (Martina),
Giorgio Colangeli (don Enzo), Ivan
Franek (Ivan), Anna Ferruzzo
(Wilma), Pascal Zullino (Rocco),
Paolo Briguglia (Alessandro), Ales-
sandro Tiberi (don Paolo), Vincenzo
Crivello (il muratore), Philippe Gua-
stella (il padre di Ivan), Mauro
Bonaffini, Beniamino Caldiero,
Eugenio Krauss (gli uomini della
rissa). Produzione: Selvaggia Sada,
Gianluca Arcopinto per Obraz Film.
Distribuzione: Gianluca Arcopinto,
Marco Ledda per Zaroff. Durata:
92. Origine: Italia, 2011.
Martina ama le api. Le api di lei se
ne infischiano, e pensano a fare il
miele. Se porge la sua pelle chiara,
nonostante il sole dellisola, alla loro
merc, loro non esitano ad approfit-
tarne: ma Martina conosce le puntu-
re della vita, e le api in confronto
sono compagne carezzevoli, produt-
trici di un nettare inebriante che
placa il suo tormento. Martina ha
smesso di parlare quando ha perso
la figlia, e adesso schiva, solitaria,
pazza. O almeno cos la chiamano in
paese. tornata una bimba anches-
sa: fragile nel suo giubbino dmod,
inconsapevole della propria bellez-
za, egoista e incosciente. Mentre
scalcia passi per le strade in salita
dellisola si scontra in Ivan, un alba-
nese che arriva ogni giorno in tra-
ghetto per lavorare, e ne subito
attratta. Nonostante lui sia un
uomo, abbia mani forti, ossa robu-
ste. Martina di lui si fida quasi subi-
to, perch ha qualcosa nello sguardo
di dolce, il sapore di una vita che
non quella che sta vivendo, il desi-
derio intatto di altri luoghi.
Don Enzo si preso cura di Martina
da quando rimasta sola e senza
voce, e nonostante adesso un ictus lo
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abbia menomato nei movimenti e
nellindipendenza, vuole continuare
a farlo. Chiss perch. un prete
ostinato e atipico, che risponde in
malo modo, comanda, maltratta la
sorella che vuole aiutarlo (non pro-
prio disinteressatamente), non si
fida di nessuno. Quando Martina gli
porta a casa un clandestino, per,
non ci mette molto ad assumerlo
come badante, scandalizzando tutti.
Ivan, poi, molto bravo, e soprattut-
to non ha un soldo, nemmeno per
tornare da dove venuto.
Isole un film breve, piccolo e deli-
cato. Guardarlo (in streaming web,
grazie allinsolita iniziativa dei pro-
duttori Obraz Film e Arcopinto, che
lo hanno reso disponibile gratuita-
mente in contemporanea con lusci-
ta in sala) suscita sensazioni con-
trastanti: un misto di fastidio e
compiacimento, noia e attenzione,
alti e bassi, come le onde del mare
che separano le due isole (una ita-
liana e una albanese) a cui il titolo
fa riferimento. un film di senti-
menti quasi primordiali, mostrati
mentre nascono, crescono, scoppia-
no e poi nuovamente trovano un
equilibrio. Il paesaggio delle isole
Tremiti, la loro apparente inospita-
lit rocciosa, la metafora scontata
di questa ritrosia che si moltiplica
per tre: sia Martina, sia don Enzo
che Ivan sono isole che hanno
imparato a convivere con se stesse
e a bastarsi, affidandosi al ricordo e
a un pianto di nascosto o represso
il rilascio del sentimento.
Se abbastanza chiaro labbina-
mento tra la solitudine di Martina,
privata della figlia, di un compagno
e di una vita normale dal destino, e
quella di Ivan, muratore sfruttato e
respinto dallItalia e dallo stesso,
sfaccendato padre, due sguardi
incompresi che si riconoscono, il
personaggio di don Enzo a rimane-
re poco delineato. Interpretato dal
bravissimo Giorgio Colangeli, que-
sto prete burbero colpito improvvi-
samente da una malattia che lo
riempie di rabbia e impedimenti,
lasciato a se stesso anche dalla sce-
neggiatura, che volutamente e in
pi punti lacunosa ed ellittica, ma
con lui quasi impietosa. Da cosa
nasce il suo attaccamento per Mar-
tina? Da un desiderio di paternit
azzoppato dalla vocazione? Da pia
misericordia cristiana? Da una
forma seppur innocente e platonica
di attrazione per una donna, indife-
sa e fragile, problematica e infanti-
le, ma comunque una donna? Di
qualsiasi forma e dimensione, di
amore si tratta, comunque. Un
amore che non chiede quasi niente,
e che si accontenta della compa-
gnia di un piatto di minestra condi-
viso, che fa finta di non vedere gli
sguardi desideranti, e che, alla fine,
accetta di soccombere a un altro
amore, pi giovane, forte e pieno di
speranza.
Isole un film che scorre sulla punta
delle dita quasi senza lasciare trac-
cia, inconsistente ed essenziale come
limmagine mentale del volto di una
persona cara sottacqua (una cita-
zione nemmeno tanto velata da
LAtalante di Vigo?). Ma, forse pro-
prio per questa sua spontanea
vacuit, qualcosa resta.
Elisa Baldini
THE AVENGERS
Joss Whedon
Titolo originale: id. Regia: Joss
Whedon. Soggetto: Joss Wheldon,
Zak Penn, basato sui personaggi
creati da Stan Lee e Jack Kirby per
la Marvel. Sceneggiatura: Joss
Wheldon, Zak Penn. Fotografia:
Seamus McGarvey. Montaggio: Jef-
frey Ford, Lisa Lassek. Musica: Alan
Silvestri. Scenografia: James Chin-
lund. Costumi: Alexandra Byrne.
Interpreti: Robert Downey jr. (Tony
Stark/Iron Man), Chris Evans
(Steve Rogers/Capitan America),
Chris Hemsworth (Thor), Mark Ruf-
falo (Bruce Banner/Hulk), Jeremy
Renner (Clint Barton/Occhio di
Falco), Scarlett Johansson (Natasha
Romanoff/Vedova Nera), Tom Hid-
dleston (Loki), Samuel L. Jackson
(Nick Fury), Cobie Smulders (Maria
Hill), Clark Gregg (lagente Phil
Coulson), Cobie Smulders (lagente
Maria Hill), Stellan Skarsgrd (il
professor Erik Selvig), Gwyneth Pal-
trow (Pepper Potts), Evan Kole
(Joey), Harry Dean Stanton (una
guardia), Stan Lee (luomo anziano
in televisione). Produzione: Kevin
Feige per Marvel Studios/Para-
mount Pictures/Albuquerque Stu-
dios. Distribuzione: Walt Disney.
Durata: 142. Origine: USA, 2012.
Resta ed bene confessarlo fin da
subito negli occhi una strana
impressione, alluscita di questo
Avengers firmato Joss Whedon.
Unimmagine frammista di familia-
rit antiche e squarci di cose nuove:
come quella che accoglie chi torna a
distanza di anni nei luoghi che furo-
no dellinfanzia. Di uninfanzia, sin-
tende, opportunamente rivisitata e
aggiornata. Il film non ha nulla di
quella deriva finto-retr che pure si
avvertiva in Captain America. Tutta-
via, a dispetto degli scintillii digitali
e dei dialoghi brillanti, questi mar-
cantoni in costume restano il parto
di unimmaginazione le cui coordi-
nate culturali differiscono irriduci-
bilmente almeno per chi scrive
da quelle che dominano lindustria
culturale statunitense oggi.
Lidea stessa del supergruppo, della
crestomazia di individui eccezionali
che si uniscono per superare losta-
colo, sottende ad esempio unideolo-
gia da consenso liberale tanto smac-
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cata da far oggi sorridere. Non a
caso, la riproposizione del motivo
rinuncia in partenza a quella cupez-
za delle distopie collettive, a quella
seriet introspettiva dei caratteri che
infiltrano oggi i prodotti young
adult. Questo film per intenderci
si prende assai meno sul serio. Piut-
tosto, quei tratti lasciano qui il posto
a un distanziamento ludico, uniro-
nia che quasi strategia narrativa.
Quasi. Si avverte infatti lo sforzo di
sbalzare i personaggi dalla superfi-
cie della pagina, di lavorare attra-
verso gli elementi riconoscibili del
genere, per far riemergere lumanit
dei caratteri, la verit delle loro reci-
proche relazioni umane. A tal fine,
la trama risulta opportunamente
ridotta a pretesto, a innocua trovata
favolistica.
La giocata tuttavia riesce a met:
lintreccio s trasparente, ma il
film, schiacciato sotto il peso neces-
sario delle proprie coreografie e
della propria scontatissima colon-
na sonora, inclina pericolosamente
al versante smargiasso del filone
supereroistico, quello la Bay, per
intenderci. Laspetto meno interes-
sante della pellicola, quello legato a
un piacere visivo viscerale e finan-
co puerile, finisce con ingombrare
la scena, rubando il campo a quelle
dinamiche di gruppo che pure
Whedon ha dimostrato pi volte di
saper maneggiare con sincerit e
delicatezza. Cos com, invece, il
film evita tanto il ct fantapoliti-
co-morale quanto e pi colpevol-
mente quello psicologico, del
quale non restano che sprazzi:
penso ad esempio al legame tragi-
co tra Loki e Thor, o a quello spe-
culare tra Banner e Stark, giocato
sulla dialettica tra un doppio inter-
no e un doppio esterno.
Qualcosa insomma si intravede: ma
poco, e non basta a riscattare
Avengers dalla debolezza di alcune
scelte di casting che lasciano per-
plessi (Occhio di Falco e Capitan
America su tutti), o dalla vacuit di
caratterizzazioni appena sbozzate.
Nick Fury, per dire, resta sospeso tra
gli aneliti messianici di un Negro
Magico, per citare Spike Lee, e la
spavalderia guascona propria della
sua controparte cartacea; la coppia
Romanoff-Barron stenta a sollevarsi
dal livello di clich da action movie.
Ma soprattutto quel poco di buono
che resta non basta a riscattare il
film da quel che prometteva di esse-
re: la regia di Whedon aveva solleva-
to discrete speranze, delle quali non
nego dessermi nutrito anchio. Ora
un film andrebbe sempre studiato
per quel che e non per quel che
non , ma se si pensa alla distanza
tra i personaggi femminili di Whe-
don e la parte della Johansson in
questo film, difficile sopprimere un
moto di delusione.
Rispetto a quanto scrivevo su queste
pagine a proposito di Captain Ame-
rica (Cineforum n. 507), infine, mi
sembra che le opportunit di inno-
vare la modularit del racconto
cinematografico seriale siano state
sostanzialmente disattese. Lidea di
una continuity, di un cosmo narrati-
vo coerente che si dispieghi in paral-
lelo alla diegesi del testo filmico non
trova in The Avengers alcun riscon-
tro forte. Il film allude al seguito, ma
lidea che le varie narrazioni posso-
no dipanarsi contemporanamente
insieme e ciascuna per conto loro
viene (mi sembra) sostanzialmente
abbandonata. Peccato. Non resta,
per consolarci se ci concessa una
chiusa mondana che la cristallina
bellezza di Cobie Smulders: a lei
rivolgiamo auguri di brillante car-
riera. Nello SHIELD, e fuori.
Pasquale Cicchetti
MATERNITY BLUES
Fabrizio Cattani
Regia: Fabrizio Cattani. Soggetto:
dal libro From Medea di Grazia
Verasani. Sceneggiatura: Fabrizio
Cattani, Grazia Verasani. Fotografia:
Francesco Carini. Montaggio: Paola
Freddi. Musica: Paolo Vivaldi. Sce-
nografia: Daniele Frabetti. Costumi:
Teresa Acone, Sandra Cianci. Inter-
preti: Andrea Osvrt (Clara), Moni-
ca Birladeanu (Eloisa), Chiara Mar-
tegiani (Rina), Marina Pennafina
(Vincenza), Daniele Pecci (Luigi),
Elodie Treccani (Giulia), Pascal Zul-
lino (il dottor Scalia), Giulia Weber
(Trudy), Lia Tanzi (Rosa), Pierluigi
Corallo (lavvocato), Giada Colucci
(la dottoressa Lucia Stregari), Fran-
ca Abategiovanni (Elsa), Amina
Syed (Mari). Produzione: Fulvia
Manzotti per The Coproducers/Ipo-
tesi Cinema/Faso Film. Distribuzio-
ne: Fandango. Durata: 95. Origine:
Italia, 2011.
Partiamo dal Natale, dalla festa di
Natale che fa da catalizzatore agli
eventi del film, a due terzi di film.
Eloisa viene invitata sul palco da Vin-
cenza, lamica-nemica, a cantare la
canzone che laveva resa famosa nel
1995 al festival di Castrocaro, e sco-
priamo che lei, che ha ammazzato il
figlio, quella canzone laveva dedica-
to proprio a lui. E cantando si com-
muove, piange; e scende dal palco e si
butta tra le braccia di un amico, e con
lui teneramente balla in unatmosfe-
ra da piano-bar anni Ottanta, simile
a quella dellinizio di Flix et Lola.
Atmosfera che viene poi rotta dal-
laggressione di altre due compagne
ai suoi danni, perch se listituto in
cui si ambienta la vicenda ben lon-
tano dagli ospedali psichiatrici giudi-
ziari reali, pur sempre un luogo di
detenzione e di cura, di persone che
non stanno bene.
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Poche scene dopo e sempre in occa-
sione del Natale un altro pianto,
quello di Clara, disperato, davanti al
marito, che tornato da lei perch si
reso conto che la ama ancora,
nonostante tutto quello che suc-
cesso e nonostante il suo tentativo di
andare oltre; ma per lei tornare
insieme non possibile, quello che
sente solo la sua bruttezza, la sua
colpevolezza, la sua inclinazione a
distruggere se stessa e gli altri.
E mentre Rina in quegli stessi gior-
ni va a fare uno stage da parrucchie-
ra in citt,Vincenza, delle quattro la
pi vecchia e apparentemente pi
risolta, si toglie la vita scrivendo ai
due figli che le sono rimasti che
vuole loro bene, che augura loro il
bene. E viene inquadrata a piombo
nello spazio della psicoterapia di
gruppo, in fondo a una serie di scale
di hitchcockiana memoria.
Nel finale Clara in giardino, presso
una fontana; guarda lacqua e ricor-
da luccisione dei suoi figli in uno
specchio dacqua, e si immagina
dentro questacqua, lei stessa dentro
lacqua a morire insieme a loro, fino
a che un qualcuno immaginario non
la toglie da l. Lacqua verde, e quel
verde quello della scena iniziale, il
verde screziato da dei flash di luce
intermittente, il rumore del treno, il
volto di lei che si accenna mentre
nella scena finale del film si defini-
sce, con la voce narrante (la sua, ma
probabilmente sta leggendo i diari
di Vincenza) che parla di loro donne,
di loro detenute in quellistituto, di
loro amiche, di loro compagne di
stanza, di loro infanticide, con le
facce tirate e la testa vuota, dicendo
che hanno una tempesta dentro che
non esce mai e che non esiste al
mondo una roccia che prima o poi
non si sgretoli, perch come affer-
mava il prete amico del marito, il
male dentro a ognuno e Dio non
ancora riuscito a separare il bene
dal male, come recita il brutto sotto-
titolo del film (Il bene dal male,
appunto).
Ci sono altri film a cui questo pu
richiamarsi, Quando la notte in
primis, presentato anchesso a
Venezia 68 (Maternity Blues era
nel Controcampo Italiano); ma
quel verde che lo apre e lo chiude
ci riporta a Lo spazio bianco, in cui
una donna che non voleva avere
figli decide di tenere un bambino
venuto per caso e deve anzi
attendere tre mesi sperando che
riesca a sopravvivere fuori dallin-
cubatrice, visto che nato prema-
turo. Maria che perfettamente
autonoma, Maria che bada a se
stessa, Maria che starebbe bene
anche senza figli, che forse stareb-
be meglio come era per la Fallaci
del libro che lha resa famosa (e
anche Lo spazio bianco tratto da
un libro, come il nostro film da un
testo teatrale della Verasani, che ha
firmato con il regista la sceneggia-
tura), ma che nellattesa della sua
bambina, prima e dopo il parto,
trova un suo senso e un suo scopo.
Il paragone con il film di Francesca
Comencini (e anche, se vogliamo,
con quello della sorella, che presen-
ta una donna che non riesce pi a
sostenere le attenzioni e le cure che
le richiede il figlio e che un giorno in
cui lui cade lo lascia l, incapace di
reagire) ci porta a entrare per con-
trasto nel discorso sul valore del
film: laddove il primo realistico,
sottile, profondo nellanalizzare i
sentimenti della protagonista in
maniera minimale e con dialoghi
essenziali e scarni, Maternity Blues
molto televisivo, specie nella prima
parte: regia piatta, schematismo di
fondo, dialoghi scontati e buonismo
imperante, per cui viene da dire che,
con un tema di questo tipo e di que-
sta portata, Cattani avrebbe potuto
fare di pi, osare di pi.
Essere un po pi duro e rendere le
cose un po pi complesse, come
sono nella vita reale. per questo
che sono partita dalla descrizione di
alcune sequenze e situazioni: sono
quelle meglio riuscite, pi poetiche e
pi vere, e determinano il film sul
piano narrativo. Ma lopera ha il
merito di portare sullo schermo il
tema della depressione post-partum,
legata allinfanticidio, che vale la
pena di indagare anche al cinema,
mostrando le diverse (in questo caso
quattro) ragioni e situazioni e
lasciando allo spettatore il compito
di giudicare, se ha senso giudicare
quello che, inspiegabile, costituisce
uno dei tab pi potenti di qualun-
que societ umana.
Paola Brunetta
GLI INFEDELI
AA.VV.
Titolo originale: Les infidles.
Regia: Jean Dujardin, Gilles Lellou-
che (ep. Las Vegas); Emmanuelle
Bercot (ep. La domanda); Fred
Cavay (ep. Prologo); Alexandre
Courts (epp. Bernard, Thibaud,
Simon, Infedeli anonimi); Michel
Hazanavicius (ep. La buona
coscienza); Eric Lartigau (ep. Loli-
ta). Soggetto: Jean Dujardin. Sce-
neggiatura: Jean Dujardin, Gilles
Lellouche, Stphane Joly, Philippe
Caverivire, Nicolas Bedos. Fotogra-
fia: Guillaume Schiffman. Montag-
gio: Anny Danch, Julien Leloup,
Benjamin Weill, Michel Hazanavi-
cius. Musica: Evgueni e Sacha Gal-
perine. Scenografia: Maamar Ech
Cheikh, Wahib Chehata. Costumi:
Carine Sarfati. Interpreti: Jean
Dujardin (Fred/Olivier/Franois/
Laurent/James), Gilles Lellouche
(Greg/Nicolas/Bernard/Antoine/Er
ic), Mathilda May (Ariane), Graldi-
ne Nakache (Stphanie), Julien
Lepris (Matho), Alezandra Lamy
(Lisa), Anne Suarez (Julie), Cyrius
Rosset (Victor), Guillaume Canet
(Thibaud), Annabelle Naudeau
(Agns), Claire Vivilel (lamante di
Thibaud), Manu Payet (Simon),
Sandrine Kiberlain (Marie-Christi-
ne), Isabelle Nanty (Christine),
Charles Grard (Richard), Maeva
Pasquali (Nathalie), Clara Ponsot
(Ins). Produzione: Jean Dujardin,
Marc Dujardin, ric Hannezo,
Guillaume Lacroix per JD
Prod./Black Dynamite Films.
Distribuzione: BIM. Durata: 109.
Origine: Francia, 2012.
Bisogna dargliene atto: fresco vinci-
tore del premio Oscar, Jean Dujar-
din ha voluto sorprenderci (Que-
stesercizio mi permette di proporre
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qualcosa di diverso, di non diventa-
re The Artist). E cos con Gli infe-
deli egli ha deciso di rimettere in
gioco la propria immagine di novel-
lo Maurice Chevalier del cinema
transalpino, lanciandosi, insieme al
sodale Gilles Lellouche, in unav-
ventura per tanti versi arrischiata,
tesa a sconfessare, degradare e irri-
dere il mito del grande seduttore
francese, ricorrendo a quel gusto tra
il beffardo e il crudelmente satirico
che animava la commedia allitalia-
na degli anni Sessanta e Settanta,
quella, in particolare, dei film a epi-
sodi di Dino Risi ed Ettore Scola.
Uneredit che percepibile, ad
esempio, nelle microstorie incasto-
nate frammezzo ai segmenti di pi
largo e disteso respiro, esili interludi
comici, di una comicit alquanto
grassa, al limite della barzelletta
sconcia, dove nondimeno pare di
poter cogliere qualcosa della misogi-
nia disinibita e dellinsolenza sgua-
iata e anarchica che improntavano
gag, arguzie verbali e trovate visive
della commedia a sketch del buon
tempo antico. Per contro (e parados-
salmente), gli episodi pi articolati,
e di maggior consistenza, e pi con-
vincenti, esibiscono tonalit che
tirano allamaro e al dolente.
Il film ci scodella allora un campio-
nario di ritratti di infedeli compulsi-
vi che conservano, nelle loro fattezze
e nelle loro movenze, qualcosa di
urticante. Gli antieroi di questi pic-
coli racconti si presentano come
individui grigi, sciatti, mediocri:
squallidi erotomani e tristi libertini
con i quali non possibile, per il
pubblico, stabilire alcun processo di
identificazione.
Penso soprattutto a Laurent, il pro-
tagonista di La buona coscienza, il
segmento pi riuscito del lotto, dove
la dissacrazione della figura del
maschio sessista assume un timbro
acido e derisorio. La goffa esuberan-
za delluomo sposato che, lontano
da casa per ragioni di lavoro, ben
deciso a cogliere al volo loccasione
propizia gettandosi sulla prima gon-
nella che gli capiti a tiro, si traduce
in una smania affannosa, lamentosa
e impotente, capace di trasmettere
nello spettatore una sensazione di
persistente disagio. Allo stesso
modo, la vicenda del maturo denti-
sta irretito da una ninfetta senza
cervello acquister assai presto
qualcosa di penoso e di patetico,
prima di risolversi, nelluomo, in
amaro disincanto (Lolita).
Ancora pi secco e pi cupo, gioca-
to su un registro drammatico che si
discosta dalle cadenze leggere del
resto della pellicola, lepisodio (La
domanda: lunico costruito a parti-
re da una prospettiva femminile e
firmato da una regista donna) in cui
un marito e una moglie decidono
incautamente di confessarsi le reci-
proche scappatelle, innescando in
tal modo un feroce gioco al massa-
cro entro il quale entrambi i conten-
denti finiranno per smarrirsi: una
piccola pice da camera, costruita
sul volto degli interpreti (uso insi-
stito di piani ravvicinati e inquadra-
ture fisse) e sulla tagliente densit
dei dialoghi.
Va da s che, in un formato cinema-
tografico anomalo come la comme-
dia a episodi, se alcuni sketch fun-
zionano a dovere, altri possono
denunciare cadute di tono, squilibri
di ritmo. Talora le scelte di regia
singolfano nelle grinze di un grotte-
sco sin troppo laborioso e caricatu-
rale (Gli infedeli anonimi, dove una
Sandrine Kiberlain decisamente
fuori parte fa rimpiangere la splen-
dida interprete di Storie di spie).
In altre situazioni (Prologo e soprat-
tutto Las Vegas) gli autori scelgono
di adottare una narrazione pi scan-
zonata e sconnessa, sbrigativa e
ammiccante, prossima alla sciatteria
programmata e alla scioltezza prati-
cona ma fragile di certa commedia
neohollywoodiana. Qui la pellicola
non rinuncia a farsi complice di un
cameratismo virile dietro il quale
sinsinua lombra di unomosessua-
lit mal repressa. E tuttavia anche
qui la messa in scena, nella sua mac-
chinosa intenzione comica, fatica
non poco a trovare i tempi giusti del
racconto. Perch, si sa, la comicit
esige tempi rigorosi, esatti. quello
che verr a scoprire a sue spese il
povero Laurent, il quale, avendo
commesso limperdonabile errore di
tirare troppo per le lunghe la sua
barzelletta, finir per annoiare tutti.
Nicola Rossello
50 E 50
Jonathan Levine
Titolo originale: 50/50. Regia:
Jonathan Levine. Sceneggiatura:
Will Reiser. Fotografia: Terry Stacey.
Montaggio: Zene Parker. Musica:
Mochael Giacchino. Scenografia:
Annie Spitz. Costumi: Shane Vieau.
Interpreti: Joseph Gordon-Levitt
(Adam), Seth Rogen (Kyle), Anna
Kendrick (Katherine), Bryce Dallas
Howard (Rachel), Anjelica Huston
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(Diane), Serge Houde (Richard),
Andrew Airlie (il dottor Ross), Matt
Frewer (Mitch), Philip Baker Hall
(Alan), Donna Yamamoto (la dotto-
ressa Walderson), Sugar Lyn Beard
(Susan), Yee Jee Tso (il dottor Lee),
Sarah Smyth (Jenny), Daniel bacon
(il dottor Phillips), Will Reiser
(Greg). Produzione: Evan Goldberg,
Ben Karlin, Seth Rogen, Shawn Wil-
liamson, Nicole Brown, Kelli
Konop, Tendo Nagenda per Point
Grey Pictures/IWC Productions.
Distribuzione: Eagle. Durata: 100.
Origine: USA, 2011.
Bello questo nuovo cinema indipen-
dente americano, segnato da com-
medie che commedie del tutto non
sono, ma che offrono uno sguardo
leggero e disincantato sulla realt e
sugli aspetti anche drammatici che
presenta. Commedie low budget di
ambientazione prevalentemente
urbana, giovanilistiche quanto basta
o comunque con protagonisti giova-
ni e dirette spesso da autori giovani
che curano molto la musica, legata
al panorama indie rock americano, e
che lavorano con attori che condivi-
dono la loro visione del mondo e il
loro stile di regia che spesso sus-
surrato, minimale quando non
dimesso nella rappresentazione del
quotidiano. Stile Sundance se
vogliamo, o comunque a un terzo
modo di fare cinema che non sia
quello dei film dautore propriamen-
te detti n quello dei blockbusters si
richiamato il regista, facendo rife-
rimento al festival di Redford. Ne
abbiamo viste parecchie, negli ulti-
mi anni: (500) giorni insieme, Juno,
Un perfetto gentiluomo, Humpday,
Me and You and Everyone We
Know, Lo stravagante mondo di
Greenberg, Fa la cosa sbagliata
dello stesso nostro regista, e per
certi versi anche American Life, Il
calamaro e la balena, Soffocare. 50 e
50 rientra nel genere, con la diffe-
renza che il tema che affronta con
leggerezza e ironia a volte eccessiva
quello della malattia, del cancro
per la precisione, con il quale ulti-
mamente molti registi si sono con-
frontati, uscendo dal clich melo-
drammatico alla Love Story per
andare su visioni differenti (della
malattia ma anche della vita, proba-
bilmente) e per toccare aspetti diver-
si della questione, Le invasioni bar-
bariche, La mia vita senza me e Biu-
tiful lultimo periodo della vita dei
protagonisti e le priorit nuove che
esso propone, Uno su due la malat-
tia presunta e le sue conseguenze,
La guerre est dclare la malattia di
un figlio dal punto di vista dei geni-
tori, sullesempio dei libri di Forest.
Ma il problema , appunto: come
parlare di una malattia di questo
tipo, che come scrive Ken Wilber ha
un aspetto medico-oggettivo e un
aspetto culturale dato dal modo in
cui la nostra societ la vive e la con-
sidera a livello di paure, speranze,
miti, storie, valori e significati, senza
contare le implicazioni psicologiche
legate al singolo individuo ma anche
a coloro che lo circondano, e come
parlarne al cinema? Quali aspetti
evidenziare, quale interpretazione
dare ma soprattutto che stile e che
tono utilizzare per esprimerli?
C chi dice che la malattia ha un
significato profondo per la persona,
che ha a che fare con quello che e
con il modo in cui vive. Da questo
punto di vista ha portato movimen-
to, scombussolamento (caos, fango,
energia primordiale) nella vita ordi-
nata e sempre uguale del nostro pro-
tagonista, uno che non era solito
porsi domande o mettere in discus-
sione le cose. Poi c il punto di vista
medico, ben espresso dal modo aset-
tico e terminologicamente corretto
che il dottore utilizza per comunica-
re ad Adam che malato e che ha
cinquanta possibilit su cento di
sopravvivere. C il protagonista che
deve riconsiderare la sua vita ma
che in realt non fa nulla per cam-
biarla, se non lasciarsi un po anda-
re alle persone che gli stanno vicino,
lasciando (invece) andare chi sem-
bra vicino ma non lo . Ci sono gli
altri da consolare e sostenere, come
fossero loro i malati. C da affronta-
re il paradosso di ammalarsi anche
se non si beve, non si fuma, si fa jog-
ging tutte le mattine, non si attraver-
sa col rosso anche se la strada libe-
ra (emblematica la prima sequenza
del film) e nemmeno si guida lauto
perch gli incidenti sono la prima
causa di morte, dopo il cancro. E
da affrontare lapparente non senso
di tutto questo, da cercare di capire
perch sia capitato proprio a te, che
significato possa, appunto, avere. E
un significato per il nostro pare
averlo, alla fine, questo cancro da
cui riesce a venire fuori. O almeno
questo ci fa intendere il finale che
apre allamore e alla condivisione,
quella con chi ti vuole bene davvero.
La storia raccontata nel film ispi-
rata alla vicenda di Wile Reiser, che
ne produttore e sceneggiatore; gli
attori, tutti bravi nello stile minima-
le che caratterizza lopera, sono il
Gordon-Levitt di (500) giorni insie-
me, lattore comico Seth Rogen, le
giovani Anna Kendrick e Bryce Dal-
las Howard che si stanno facendo
conoscere sempre di pi, qualche
caratterista di rango e Anjelica
Huston nella parte della madre; lo
stile realistico-quotidiano con
qualche elemento interessante quale
luso dellinquadratura a piombo a
indicare la drammaticit di alcuni
momenti e una fotografia dai colori
plumbei o comunque neutri, il tono
appunto quello della commedia e
bisogna dire che anche se dal regista
di Fa la cosa sbagliata ci si poteva
aspettare qualcosa di pi in termini
di coraggio e originalit, loperazio-
ne funziona. In tutti i sensi.
Paola Brunetta
50
!"#$#%&!%$'()*+,+ "#&%.&/%"/ //0"! 123(42 !%
Ho sofferto molto,
cado nel vuoto senza di te,
Sto tornando, amore,
Heathcliff crudele,
mio unico sogno,
mio unico padrone,
troppo tempo ho urlato nella notte,
sto tornando al tuo fianco,
per mettere le cose a posto
sto tornando a casa,
alle mie Cime Tempestose,
Heathcliff, sono io
(Kate Bush, Wuthering Heights, 1978)
1. Qualcuno ha scritto, non a torto, che nessuna ver-
sione cinematografica di Cime tempestose riuscita a
liberare lo spettatore dalle pagine del romanzo di
Emily Bront (1847) con la perfetta intensit della
canzone che ne ha tratto Kate Bush, con quel grido
gemente (Heathcliff) che sembra liberarsi dal pi
profondo nucleo espressivo del libro e volare via nel-
laria. Perch il romanzo, fin dalle prime incomprensi-
bili (comprensibili solo a posteriori) cinquanta pagine,
tende a rinchiudere il lettore, per effetto di un incante-
simo di scrittura che ha molto a che fare con lelemen-
to gotico che lo pervade, in quella stessa prigione in
cui rinchiude inesorabilmente i propri personaggi, vit-
time della maledizione che affligge in pari misura
Cime Tempestose (Wuthering Heights), la ricca dimo-
ra degli Earnshaw radicata nella desolata brughiera
dello Yorkshire ed esposta come vuole letimologia alle
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IL CINEMA E IL SUO DOPPIO
SAGGI
SOGNI (DI) PRIGIONIERI
Sergio Arecco
Sogno di prigioniero
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sferzanti raffiche delle tempeste, e Cime tempestose, il
dark novel (o il romance, essendovi il reale e il fanta-
stico inscindibilmente connessi) che da Cime
Tempestose prende il nome con un passaggio tal-
mente fluido dal significante al significato da autoriz-
zare, ad esempio, la disinvoltura-forzatura della tradu-
zione francese, Les Hauts de Hurlevent (da cui
lHurlevent di Jacques Rivette [1985], ahim circo-
scritto alla sola impaginazione dei primi capitoli).
Torna a casa, ho cos freddo! Lasciami entrare
dalla tua finestra!, canta la Cathy (Catherine) di Kate
Bush, rivolta a un Heathcliff scomparso che la rassi-
cura: Sono io!. Finch, nella versione di William
Wyler (1902-1981), La voce nella tempesta
(Wuthering Heights, 1939), lHeathcliff di Laurence
Olivier, tornato davvero a casa dallAmerica per com-
prarsi, ormai ricco, la dimora ora fatiscente dov stato
accolto come trovatello dal signor Earnshaw e dov
stato per troppo tempo impiegato come stalliere, non
rompe davvero il cerchio magico della maledizione che
aleggia su Cime Tempestose e si avventura, sulla scia
della voce nella tempesta della Catherine di Merle
Oberon, fuori dalla prigione di quelle mura per
ricongiungersi con lei tra le nuvole, in intermundia
affatto immuni dalla bufera di neve che sta infuriando
fuori.
Nellaccesa, rusticana versione di Luis Buuel
(1900-1983), Cumbres borrascosas o Abismos de
pasin (Cime tempestose, 1953), certo non incline
come quella di Wyler al romanticismo hollywoodiano
del lieto fine, si preferisce invece esplorare fino in
fondo, per ammissione dello stesso Buuel, la dimen-
sione sadica del romanzo acutamente percepita dai
surrealisti (soprattutto quelli neri, Bataille in primis,
ma anche dai meno radicali, come Breton) e si opta
per il gesto rituale del prete/esorcista che gira attorno
al catafalco di Alejandro/vampiro (cos si chiama lo
Heathcliff messicano di Buuel) per aspergerlo di
acqua santa, decontaminarlo e buttarvi sopra una
palata di cenere, dopo che el bruto ha osato sollevare
per un attimo il velo che ricopre il cadavere di Catalina
e baciarne le labbra (una cerimonia ancestrale che il
La voce nella tempesta
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giovane Buuel ha memorizzato dai tempi dellinfan-
zia trascorsa a Calanda). E nella versione pi recente,
il Wuthering Highs di Andrea Arnold (2011), si torna
s allantico, ossia al testuale piuttosto che allinfra-
testuale del romanzo, e dunque al rispetto della sua
inimmaginabile brutalit intrinseca, ma, proprio per
la presa datto dellinimmaginabilit, si concede trop-
po spazio a uninterfaccia di Heathcliff alquanto la
mode e a unimmaginabilit viziata da un eccesso di
attualizzazione (il trovatello immaginato come un
ragazzo di colore).
2. Luis Buuel ricorda nellautobiografia di aver
scritto una prima sceneggiatura da Cime tempestose
fin dal 1931, ossia subito dopo la realizzazione di
Lge dor (1930), sotto la diretta influenza del surrea-
lismo pi radicale, e di averla dovuta poi manomette-
re nel corso degli anni per riuscire a girare il film, con
mezzi poverissimi, ben ventanni dopo, in Messico, con
attori mediocri e un esito sono le sue parole assai
discutibile. E quando sottolinea radicale, Buuel
intende proprio la lettura che di Cime tempestose ha
condotto Georges Bataille (lettura elaborata tra la fine
degli anni Trenta e linizio dei Quaranta), il quale
prende a pre-testo il romanzo per sviluppare per len-
nesima volta il tema prediletto dellerotismo quale
conferma della vita dentro la morte: quella simbiosi
tra sensualit fisica e furore erotico intinto di morte
che, a dire di Bataille, trova nellunione finale tra la
Catherine Earnshaw e lo Heathcliff (Earnshaw? non
potrebbe essere un fratello illegittimo, come molti
hanno ritenuto?) di Cime tempestose un paradigma
letterario insuperato. Persino per i giapponesi, il cui
Cime tempestose pi aggiornato (Arashi gaoka, 1988,
di Yoshishige Yoshida, sottotitolo Onimaru, Il demo-
niaco) si pone ostentatamente come rilettura in salsa
medievale e in chiave sado-necrofila non tanto del
romanzo di Emily Bront quanto del saggio di Bataille
su Emily Bront, ovvero del lungo, sottile delirio meta-
fisico che lo percorre.
Linfanzia, la ragione, il male: sono questi i tre
registri che, secondo Bataille, scandiscono il tempo
della rivolta contro le costrizioni familiari condotta
dai due protagonisti: linfanzia delle loro corse selvag-
ge nella landa, con il libero gioco dellinnocenza getta-
to in faccia alla ragione adulta e repressiva di una
societ (quella vittoriana) pronta a condannare le loro
pulsioni primordiali come colpevoli sfrontatezze, det-
tate da un spirito di trasgressione che non pu non
portare al trionfo della parte maledetta sepolta in loro:
la parte del gioco, del rischio, del pericolo, del maligno,
della sovranit tuttaltro che inespiabile. Il verde
paradiso degli amori infantili cantato da Baudelaire,
quel paradiso innocente di amori furtivi chiasmo
che la dice lunga sul modo quanto mai ambiguo in cui
il poeta francese, di soli tre anni pi vecchio di Emily
Bront, interpreta linfanzia si trasforma nella lettu-
ra demoniaca di Bataille in un alto luogo della fan-
tasia, rappresentato appunto dalla casa maledetta,
battuta dalla violenza selvaggia dei venti e delle bufe-
re, attorno alla quale ruota la vicenda: un alto luogo,
di una sovranit aspra e ostile, dove la vita e la morte,
il reale e limmaginario, il passato e il futuro, il comu-
nicabile e lincomunicabile, il Bene e il Male non sono
pi percepiti in modo contraddittorio. Tanto che la
parte maledetta, o la sovranit erotico-sadica, vi pos-
sono essere espiate dopodich, una volta pagata
lespiazione, traspare nellopera il sorriso, cui essen-
zialmente si riduce la vita.
Non dunque cos vero che anche la versione-
Wyler, pur hollywoodianamente risolta in un mlo
edulcorato e favolistico, contravvenga allo spirito del
libro. In ogni caso ed un bel paradosso vi con-
travviene molto meno della cruda versione-Buuel,
pur cos coerente con la lettura, oltraggiosa nel conte-
nuto ma esattissima nella sostanza, di Bataille. Se
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infatti, la sadica Emily Bront, letterariamente pos-
seduta dallidea gotica dellEroe Maledetto (la famo-
sa frase di Catherine: Heatcliff sono io!) espia se
stessa e il proprio romance immaginando nellultima
pagina che i due fantasmi di Catherine e Heathcliff si
possano ricongiungere di notte, dopo la morte, nella
brughiera di Wuthering Heights, ecco che Wyler, il
quale si preoccupato, ma non troppo, di stemperare
la componente blasfema o incestuosa o anarcoide
dellEroe Maledetto, fa altrettanto: prima allestendo, a
mo dincorniciatura (entro la quale proiettare in fla-
shback lintera storia), lo scenario della tempesta di
neve e promuovendo poi due spiriti positivi come il
proprietario Lockwood e il dottor Kenneth a spiriti
visionari (Li ho visti con i miei occhi), titolari della
visione delle due anime troppo a lungo tenute prigio-
niere da Cime Tempestose e finalmente liberate in
una candida luce di espiazione.
3. Abbassa le pesanti sbarre! apri, severo guardia-
no! / Non os rifiutare stridono gli aspri cardini
piano, scrive Emily Bront in The Prisoner (fragment)
(9 ottobre 1845), la poesia che Bataille suppone faccia
da preludio a Cime tempestose, con la sua apologia
della liberazione per pura forza di volont volont
ovviamente selvaggia, la cui violenza destinata a
venire riassorbita in unilluminazione lenta e lunga-
mente vissuta, forse mistica, o comunque prossima
allindicibile tormento degli asceti. Pure sappiano i
miei tiranni che io non sono condannata / a lunghi anni
di tenebre e disperazione desolata; / un messaggero di
speranza viene a me nelloscurit, / e per una breve vita
mi offre eterna libert. // Viene col vento dellovest, con
le brezze erranti della sera, / nellora in cui il cielo sil-
lumina e dilata di stelle la sfera. / Quando il respiro del
vento si fa dolce, pensoso e serio, sorgono e mutano
visioni che mi ammalano di desiderio.
In realt non sono questi i versi citati da Bataille
nella nota 10 al saggio su Emily Bront. Lo scrittore
preferisce, nel suo stile e intendimento, quelli della
penultima quartina che alludono a torture e tormen-
to, ad angoscia e lamento, a fuochi infernali pla-
cati da una luce azzurrina, spenti i quali, se mes-
saggera di morte, la visione visione divina. Noi
abbiamo privilegiato quelli delle quartine nona e deci-
ma perch ci sembrano pi pertinenti a quella poetica
del sublime e della credenza esoterica che a nostro
avviso fanno da sottostruttura a tutto Cime tempesto-
se e rendono plausibile lesistenza cinematografica di
quelli che abbiamo definito intermundia, in assenza
dei quali Catherine e Heathcliff non avrebbero un
posto dove ritrovarsi e dove andare. E che altri ha defi-
nitivo, nel corso di una speculazione diversa ma pur
sempre intrinseca al mondo sublunare del sogno o
della veggenza, intersigna, voce del latino medievale
riferibile a quella misteriosa relazione tra fatti e perso-
ne lontani che d luogo a unimmagine telepatica, a
una seconda vista a mezza strada tra il presagio e la
premonizione.
Anzi, Jean Grenier (perch di lui si tratta, di un filo-
sofo, maestro di Albert Camus, che non esita a raccon-
tare lattrazione del vuoto facendo appello al mondo di
credenze esoteriche della Bretagna nata, soprattutto la
Bretagna hurlevent della Baia dei Trapassati) arriva
persino a prendere le distanze dal termine premonizio-
nee a togliere quel pre giusto per togliere alla visio-
ne onirica qualsiasi sostrato sintomatico o traccia ante-
riore di tipo mnestico, la Freud per scegliere il ter-
mine, di matrice ecclesiastica, monizione (monition),
puro e semplice indicatore di uno stato particolare della
coscienza (non dellinconscio) che ci rivela, medianica-
mente, qualcosa che, mentre noi siamo qui o l, si sta
svolgendo in altro luogo o in altro tempo, e che ciono-
nostante, grazie a una percezione istantanea, possiamo
condividere e persino toccare con mano.
4. C un film che narra per filo e per segno la feno-
menologia or ora descritta e che, non a caso, assomi-
glia moltissimo a La voce nella tempesta, un film per
Sogno di prigioniero
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il quale la nona e decima quartina di The Prisoner
(fragment) di Emily Bront suonerebbero come un
viatico ideale, e in misura ben superiore a quella da
noi introdotta a proposito del film di Wyler. Solo che il
film, Sogno di prigioniero (Peter Ibbetson, 1935) di
Henry Hathaway, viene girato quattro anni prima (!)
di La voce nella tempesta e, pur derivando dal roman-
zo omonimo, molto la Bront, pubblicato dallepigo-
no George L. Du Maurier (nonno di Daphne Du
Maurier) nel 1891, vive assolutamente di luce propria.
Non gli fa velo n lidentica ambientazione nello
Yorkshire, dove il verde paradiso degli amori infanti-
li ospita questa volta due bambini di pari condizione
sociale (facoltosa), il Peter Ibbetson eponimo (otto
anni) e la vicina di casa Mary (sei anni), visceralmen-
te uniti dai giochi dinfanzia, n lidentica sventura
della divisione una catastrofe familiare che li tiene
separati per molti anni luno dallaltra, finch, venti
anni dopo, non si ricongiungeranno adulti, diversi
eppure eguali, riconoscibili eppure irriconoscibili, visi-
bili eppure invisibili, comunicabili eppure incomuni-
cabili, in altro luogo e in altro tempo.
Lamour fou raccontato da Sogno di prigioniero
composto da un tale carico di reminiscenze brontiane
sui nessi amore/morte, bene/male, salvezza/dannazio-
ne, eros/espiazione, realt/sogno, da meritare a sua
volta lentusiastico apprezzamento sia di un surreali-
sta ortodosso come Andr Breton sia di un surrealista
eterodosso (nero) come Luis Buuel. Tutto sa, in
effetti, di Cime tempestose: la sfrenatezza dei giochi, la
rivalit sessuale sinonimo di attrazione fatale, la male-
dizione dellallontanamento e della morte. Eppure
nulla, nella geniale trasposizione del romanzo effettua-
ta da un Hathaway in stato di grazia, sa, in effetti, di
Cime tempestose. Sar perch Hathaway trasferisce
lazione dallo Yorkshire originario alla ben pi amena
campagna circostante Parigi. Sar perch rispetta
scrupolosamente lepoca storica del libro (laddove, per
volont di Samuel Goldwyn, avverso ai costumi in
stile Reggenza,Wyler deve spostare lazione di La voce
nella tempesta dal 1801, anno dellambientazione
brontiana, al 1841, anno troppo sbilanciato in avanti
per legittimare un amour fou accesamente preroman-
tico come quello tra Catherine e Heathcliff): una fine
Ottocento di lavoro e progresso in cui Peter Ibbetson
pu intraprendere una professione liberale come quel-
la di architetto e solo Mary, divenuta duchessa di
Towers, rimane vincolata non per sua responsabilit a
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Sogno di prigioniero
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un passato aristocratico dei cui tab premoderni fini-
r per pagare il prezzo. Sar perch adotta uno sche-
ma da romantic fantasy gi collaudato a teatro attra-
verso il Peter Ibbetson di Nathaniel Raphael e al cine-
ma attraverso una versione kitsch di George
Fitzmaurice, regista standard di solito al servizio di
vedette come Pola Negri o Rodolfo Valentino o Greta
Garbo o Jean Harlow (Per sempre [Forever, 1921],
con i ben pi anonimi Wallace Reid e Elsie Ferguson).
Fatto sta che la versione-Hathaway, con un set carce-
rario fortemente chiaroscurato da lame di luce spio-
venti dalle grate che sembra fatto apposta per allegge-
rire il prigioniero Peter Ibbetson (Gary Cooper) dal
peso delle catene della colpa e proiettarlo impercetti-
bilmente al di fuori, fornisce unesemplare conferma di
quel quid di sospensione dellincredulit in cui fon-
damentalmente consiste il cinema, e non solo un cine-
ma gotico come questo.
vero che il severo guardiano, in questo caso, non
abbassa le pesanti grate, anzi, infierisce vieppi su
un Peter estaticamente raggiunto da quella monition
in cui lo irretisce, dallesterno, Mary Towers (Ann
Harding). vero che il carceriere incrudelisce fino a
provocargli, con limpugnatura della frusta, quella
lesione alla spina dorsale che, a detta del medico,
dovrebbe immobilizzarlo per sempre e procurargli una
morte subitanea. Dovrebbe. Perch proprio da questo
stato di totale prostrazione sorge, grazie alla logica
degli intersigna, un altro uomo, un altro Peter
Ibbetson che non soltanto non muore ma, smentendo
la ragion positiva del medico, vive per molti anni
ancora, dentro (ove gode delle impalpabili visite di
Mary) e fuori la prigione, abbassando da s le pesanti
grate e ricongiungendosi con Mary in quel verde
paradiso degli amori infantili, completo di altalena e
scivolo, in cui si sono conosciuti bambini e in cui ora
si riconoscono adulti, al di fuori dello spazio e del
tempo, incorporei in tutta la loro corporeit (o vicever-
sa). Il cinema di fantasmi vanta una lunga tradizione,
fin dalle origini del cinema, dove il fantasma il mate-
riale filmico pi idoneo a dimostrare che cosa la
nascente Settima Arte sappia fare con i suoi trucchi
artigianali e i suoi pionieristici effetti speciali. Ma non
propriamente di questo bric--brac che in Sogno di
prigioniero si tratta. Se mai dellopposto, dello statuto
del visibile e della genealogia dellinvisibile. Di quel-
lesaltazione della ragion visionaria che, ontologica-
mente, d corpo e immagine a quanto, per la natura
evanescente e imponderabile che lo qualifica, sfugge a
ogni norma gravitazionale.
5. Di solito, per portare a buon fine traffici del gene-
re, non sottoposti alle leggi del sogno diurno o nottur-
no bens a quelle della rverie o del daydream in libe-
ra uscita, occorre il contatto medianico di un oggetto
magico che funga da talismano. In Sogno di prigionie-
ro lanello di Mary. In un film che ne evoca, con la
marcata accentuazione dellonirico specifica del goti-
co americano, i prodigi luministici e i riverberi da pit-
tura metafisica, e che, forse non casualmente,
ambientato in quel medesimo 1934 in cui viene girato
Sogno di prigioniero, loggetto del transfert una
sciarpa femminile. Stiamo parlando di Il ritratto di
Jennie (Portrait of Jennie, 1949) di William Dieterle
(1893-1972), regista cresciuto in Germania con i fasti
illusionistici dellespressionismo e trasformatosi, dopo
il trasferimento a Hollywood, in cineasta per tutte le
stagioni (thriller, poliziesco, musical, biopic). Salvo
lasciarvi, prima di abbandonare la fabbrica dei sogni
per rientrare in Europa, una personalissima impronta
proprio con un romantic fantasy che di quella fabbri-
ca un prototipo purissimo: un sogno a occhi aper-
ti che potrebbe appartenere a un musical e invece
assume le sembianze del thriller fantastico, ammesso
che Il ritratto di Jennie sia accreditabile a un genere
specifico (il quale, nel caso del thriller fantastico,
comincer a esistere un bel po pi in l). Al punto
che Buuel (dopo aver ammirato Sogno di prigioniero
e La voce nella tempesta) lo ha amato in s e per s,
con un esplicito richiamo al suo indecifrabile impasto
di elementi disparati: Ho adorato Ritratto di Jennie
con Jennifer Jones, opera misconosciuta, misteriosa e
poetica. Ho dichiarato da qualche parte il mio amore
per questo film e David O. Selznick mi ha scritto per
ringraziarmi.
La sciarpa femminile. il medium tra realt e
sogno, visibile e invisibile, comunicabile e incomunica-
bile, che lega, fin dal primo dei sette incontri che li
congiungeranno ogni volta di pi fino a dar vita a un
vero e proprio incantesimo erotico, il mediocre pittore
Eben Adams (Joseph Cotten) e la giovane scomparsa
(bambina nel corso del primo incontro, donna nel
corso dellultimo, secondo una simmetria esponenzia-
le che condensa nei sette incontri almeno quattordici
anni della vita di lei) Jennie Appleton (Jennifer Jones).
Ed giusto la sciarpa, simbolo di un verde paradiso
degli amori infantili che qui, in una New York inver-
nale, con tanto di Central Park ghiacciato e trasforma-
to in pista per pattinatori, parrebbe tale solo per sug-
gestione analogica o metaforica laddove, paradossal-
mente, riesce a essere tale grazie allestroso comporta-
mento del folletto Jennie, un vero spiritello o cobol-
do della foresta di smeraldo della citt a impedire
al film di diventare una rilettura sado-necrofila del
tema della prisoner liberata dalla morte, vittima
nella fattispecie di una precoce death by water consu-
matasi nei primi anni del secolo. Il talismano funziona
(Da dove io vengo nessuno lo sa, / dove io vado tutte
le cose vanno, / il vento soffia, il mare urla / nessu-
no lo sa, canticchia Jennie bambina). E non solo per
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Qui e sotto, Il ritratto di Jennie
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virt propria, altrimenti resteremmo nel campo angu-
sto di una sospensione dellincredulit tutta estem-
poranea e aleatoria. Funziona perch interagisce con
un altro talismano di caratura e valore equipollente,
ovvero leponimo ritratto di Jennie, un talismano dal
potere tanto pi forte e duraturo quanto pi si reitera
nel tempo, perfezionandosi da schizzo appena traccia-
to su carta ad abbozzo pi elaborato a quadro a colo-
ri su tela esposto con tutti gli onori in un museo: s, a
colori, per effetto della magniloquente irruzione cro-
matica (anchessa non una novit assoluta, ma certo
una plusvalenza inusuale e scioccante per il modo
invasivo in cui si fa sentire, colorando leternamente
rannuvolato cielo di New York della tinta pi appro-
priata) alla quale Dieterle ricorre nellultimo quarto
dora del film, con viraggi prima in verde bottiglia, poi
in seppia e infine in Technicolor.
Come pu darsi un ritratto di Jennie senza Jennie?
Tutti gli amici di Eben Adams, adepti della ragion
positiva e non della ragion visionaria, se lo chie-
dono. E nessuno sa rispondere. Anche perch non
risultano dotati di quella seconda vista di cui pu
godere lui per il fatto di essere, in quanto artista
(Dieterle dixit), un abitatore di intermundia o un fre-
quentatore di intersigna. Per cui non riescono, nep-
pure sforzandosi, a vedere Jennie. La quale lascia,
nondimeno, tracce indubitabili del proprio passag-
gio. La sciarpa. I ritratti Da dove vengono quei
ritratti, quei sortilegi? Da lei? Da lei e da Eben con-
giunti e collaboranti. Si badi. Il primo ritratto, quel-
lo che fa tanta impressione sugli scettici mercanti
darte Martins e Spinney, stato tracciato da Eben
come in trance, sulla scia del ricordo di lei, senza che
lei abbia posato da modella, come le capiter di
posare in seguito. Dunque un prodotto dellincor-
poreo. E dato che ha la medesima pregnanza figura-
tiva degli altri ritratti successivi, pi evoluti ma
anche pi seriali, sorge il sospetto, per via dellomo-
logabilit del seriale, che anche i successivi, sia pur
tracciati in presenza di Jennie, siano altrettanti pro-
dotti dellincorporeo. Da qui la straordinaria intui-
zione cinematografica del film: lincorporeit la
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Qui e nelle due pagine successive,
Il fantasma e la signora Muir
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condizione, non la sostanza. Jennie una figura di
Eben, appartiene alla sua realt subliminale. Non
per nulla, quando, terrorizzato dallidea di averla
perduta per sempre, Eben osa sfidare di notte il
mare in burrasca (il quarto dora finale virato a
colori) onde raggiungere su una perigliosa barca a
vela le cime tempestose dello scoglio e del faro di
Chion presso le quali si consumata la tragedia
degli Appleton, non trova su quelle prode nulla e
nessuno se non se stesso: un se stesso costretto a
rivivere lannegamento di Jennie attraverso il rischio
del suo stesso annegamento.
Il film, proprio perch ingenuamente volto a dirci
che siamo noi i soli responsabili dei nostri sogni e,
quando siamo artisti, i soli responsabili della libera-
zione dei nostri fantasmi interiori, non si fa scrupolo
di abbinare altrettanto ingenuamente, a titolo di dop-
pia epigrafe (come se non bastasse la voce fuori campo
a prevenirci su quanto stiamo per vedere), due autori
lontanissimi nello spazio e nel tempo che avremmo
pensato incompatibili, Euripide e Keats. Chiss se
morire non sia vivere / e se ci che i mortali chiama-
no vita non sia morte?. La bellezza verit, la veri-
t bellezza, questo tutto / ci che vi occorre sapere.
La prima citazione troppo generica, e forse apocrifa,
per poterla rintracciare in una qualche opera del gran-
de tragico greco. La seconda, invece, talmente famo-
sa se n gi ricordato quattro anni prima Elia
Kazan e ne ha fatto un passaggio chiave del film
desordio, Un albero cresce a Brooklyn (A Tree Grows
in Brooklyn, 1945) da indurci subito a riscoprirla in
fondo alla poesia cui fa da mirabile suggello (Ode su
unurna greca, 1819, vv. 49-50). Magari aggiungendo-
vi quel primo emistichio del v. 50 che nella didascalia
del film manca: Ye know on Earth (vi dato sapere
qui sulla Terra). Perch importante che lintersignum
verit-bellezza avvenga qui sulla Terra, in uno spazio
definito di figurazioni presenti e assenti, di cui linfini-
to soltanto un analogon creato da quella che
Coleridge, amico di Keats, chiama imagination e che
la fantasia creativa.
6. Come se il cinema fantastico di fine anni
Quaranta costituisse una piattaforma ideale per una
Keats-renaissance, ecco il poeta inglese fare capolino,
due anni prima, anche in Il fantasma e la signora Muir
(The Ghost and Mrs. Muir, 1947) di Joseph L.
Mankiewicz. Incantate finestre spalancate sulla
schiuma / di mari perigliosi in magiche contrade
abbandonate (Ode a un usignolo, 1819, vv. 69-70). E
a fare capolino non in unepigrafe pi o meno conven-
zionale, bens attraverso la peculiare dizione di un
attore, Rex Harrison, travestito da nero fantasma
galante e rivolto alla rapita Gene Tierney, la giovane
vedova Muir (mare, in gaelico: siamo nel villaggio di
Whitecliff, sul Mare del Nord) che ha affittato il cotta-
ge del defunto capitano di marina suscitandone le
immancabili rimostranze. O, per meglio dire se dav-
vero si potesse dire in italiano , mostranze (mon-
strance, ostensione): dal momento che il fascinoso
Daniel Gregg si mostrasenza tanti imbarazzi in veste
di revenant a uninquilina, Lucy Muir, a sua volta per
nulla imbarazzata (ed per questo che legano fin dal
primo incontro, notturno ma nientaffatto spaventoso,
se mai disinvolto e rilassato) dalla presenza ostinata
dellospite. Il che sposta inesorabilmente lasse erme-
neutico dalla ghost story alla sophisticated comedy,
con gran sfoggio di atmosfere gotiche de-goticizzate da
un romanticismo pi solare (il mare, la spiaggia, il
plain air marino in cui il fantasma si muove piena-
mente a suo agio) che sinistro tanto che verremo a
sapere alla fine, anche se lo spettatore attento ha modo
di accorgersene assai prima, che lillustre trapassato
intrattiene rapporti non meno amabili con la figliolet-
ta di Lucy, la non meno disinibita Anne, bambina del
tutto refrattaria alla paura dei fantasmi.
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Non che, in Il fantasma e la signora Muir, man-
chi la figura topica del prisoner. Solo che il prisoner
non Daniel Gregg, eventuale inoffensivo nosferatu
finito in cattivit tra le mura stregate del suo stesso
cottage, bens Lucy Muir, o, perch no?, Anne Muir,
inquiline segrete di una shanned house cui si sento-
no legate da un troppo sollazzevole patto con il
fantasma per avere la bench minima intenzione di
violarlo. La sciarpa di Il ritratto di Jenny? I ritratti
stessi di Il ritratto di Jenny? Macch. Tra le pieghe
del precoce modello di crossover disegnato da
Mankiewicz per loccasione (mystery gotico pi
commedia sentimentale pi dramma romantico pi
thriller ironico alla Hitchcock: le musiche sono fir-
mate da Bernard Herrmann) si lascia affiorare, e
con la massima credibilit diegetica, un ben pi
concreto talismano di origine soprannaturale, nien-
temeno che un libro a quattro mani destinato non
solo alle stampe ma a un sicuro successo editoriale,
dunque non un lascito di natura ultraterrena quan-
to uneredit di natura quanto mai terrena e soprat-
tutto pubblica, che trascende il destino privato
(Daniel ripiombato tra le ombre in attesa della
morte-ricongiungimento di-con Lucy, Anne sposa
felice emancipata dal vincolo primario con il cot-
tage dellinfanzia) degli stessi contraenti il patto: il
libro di memorie dettato nelle interminabili ore buie
dallincantevole man in black allincantata appren-
dista di termini marinareschi e solecismi da lupi di
mare. Perch, come sempre in Mankiewicz, a farla
da padrone non lo storytelling in s, e tantomeno
lo storyboard (che pare non esistere). lo storytel-
ler in persona.
BIBLIOGRAFIA (IN ORDINE DI RIFERIMENTO)
Kate Bush, cd The Kick Inside, EMI 67815 (lp 1978, cd 2006);
Emily Bront, La prigioniera (frammento) in Poesie, a cura di A.
L. Zazo, Mondadori, Milano 1997 (gi traduttrice di Cime tem-
pestose, Mondadori, Milano 1989); Luis Buuel, Dei miei sospi-
ri estremi, SE, Milano 1991 (gi Rizzoli, Milano 1983); Georges
Bataille, Emily Bront, in La letteratura e il male, SE, Milano
1987 (gi Rizzoli, Milano 1973); Id., La sovranit, Il Mulino,
Bologna 1990; Charles Baudelaire, Msta et errabunda, in
Opere (I fiori del male, LXII), Meridiani Mondadori, Milano
1996; Jean Grenier, Lattrazione del vuoto, in Isole (1933), pre-
fazione di Albert Camus, Mesogea, Messina 2003; Jean
Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, voce Sogno diurno in
Enciclopedia della psicoanalisi (1968), tomo II, Laterza,
Roma/Bari 2008; Ado Kyrou, Amour, rotisme et cinma, Le
Terrain Vague, Parigi 1957; Jacqueline Risset, Le potenze del
sonno, Nottetempo, Roma 2009 (capitolo La notte illuminata
del mondo interiore); Samuel Taylor Coleridge, Biographia lite-
raria (1817), Editori Riuniti, Roma 1992; Id., Opere in prosa, a
cura di Fabio Cicero, Bompiani, Milano 2006; John Keats,
Poesie, a cura di Silvano Sabbadini, Mondadori, Milano 2004.
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Nelle opere che appartengono [al genere dello strano puro], si
narrano avvenimenti che si possono spiegare mediante le leggi
della ragione, ma che in un modo o nellaltro sono incredibili,
straordinari, impressionanti, singolari, inquietanti, insoliti e
che, per questa ragione, provocano nel personaggio e nel lettore
una reazione simile a quella che i testi fantastici ci hanno resa
familiare. (1)
Un bambino scompare nella Los Angeles di fine anni
Venti. Alcuni mesi dopo la madre si vede ricondurre
dalla polizia un bambino diverso. La donna ovviamen-
te non lo riconosce e si tenta in tutti i modi di farla tace-
re e di addossarle la colpa. La verit sulla sorte del pic-
colo verr fuori pi tardi e si tratter di una terribile
storia di infanticidi seriali di inenarrabile violenza.
Changeling, A True Story, recitano sinteticamente
i titoli di testa del film, dando forma a un ossimoro che
CHANGELING
SAGGI
IL RUOLO DELLIMMAGINARIO
IN CHANGELING DI CLINT EASTWOOD
Valentina Alfonsi
(1) Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano
1977, pag. 50.
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fonde la cronaca storica con il mondo delle leggende
popolari: nei fairy tales del folclore britannico ma
anche germanico e pi in generale nordeuropeo (2), il
changeling infatti un essere, spesso non umano, che
le fairies lasciano nelle culle al posto dei bambini da
loro stesse rapiti e che, in alcuni casi, non torneranno
pi dai loro genitori.
Nel film la parola changelingnon viene mai pronun-
ciata, lo stesso sceneggiatore J. Michael Straczynski
definisce semi-casuale la scelta del titolo (3) e del resto
la pellicola era stata proiettata per la prima volta a
Cannes come Exchange, ponendo quindi semplicemen-
te laccento sul concetto di scambio, senza sottolineatu-
re di tipo fantastico o addirittura fiabesco. lecito per-
tanto pensare che quel titolo abbia una valenza princi-
palmente metaforica e suggestiva nel sottolineare come
la true story ricostruita nel film con toni del tutto reali-
stici sia per incredibile, irreale e spaventosa come pu
esserlo appunto una fiaba.
A uno sguardo pi attento, ci si rende conto per di
come i racconti sui fairy changelings (4) abbiamo
inquietanti punti in comune con la vicenda del picco-
lo Walter Collins e di sua madre Christine e di come
pertanto il titolo sia preciso e pertinente nel definire
un modello culturale, sociale e politico crudele e impe-
netrabile, valido tanto nelle antiche leggende quanto
nel mondo moderno, che condanna senza appello
Christine come donna e come madre, imputandole
ogni colpa e responsabilit.
Dice Carlo Chatrian (5): Il termine changeling
rimanda alle leggende del folclore inglese, secondo
cui le fate rapivano i bimbi pi belli e lasciavano al
loro posto quelli brutti: in realt la bellezza (6)
del bambino solo uno dei motivi che inducono le
fairies al rapimento. In taluni casi i piccoli umani
vengono condotti in un altro mondo, nella fairyland,
per essere ridotti in stato di schiavit o tenuti in vita
alla stregua di animali domestici per il divertimen-
to dei loro rapitori; altre storie vedono invece i bam-
bini come vittime sacrificali di un debito di sangue
che le fairies sarebbero tenute a pagare al diavolo
ogni sette anni. Bambini come strumento di piace-
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re, dunque, o come carne da immolare non a un
bene superiore ma al demonio. In ogni caso, oggetti
e non esseri umani.
Esattamente come i bambini del film di Eastwood,
ingannati, torturati e uccisi dalla sanguinaria fairy
Gordon Northcott (Walter e gli altri piccoli rapiti);
usati dal potere per risolvere una situazione spinosa
e imbarazzante (Arthur Hutchins, che viene indotto
a mentire e a dichiarare unidentit fasulla per poter
chiudere al pi presto il caso della sparizione di
Walter); ricattati e costretti a compiere crimini e cru-
delt in cambio della sopravvivenza (il giovanissimo
assassino Sanford Clark). Tanto nel mondo incantato
dei fairy tales quanto in quello reale degli Stati Uniti
di inizio Novecento, i bambini sono schiacciati da un
sistema sociale che non li considera come esseri
umani portatori di diritti ma come creature mute,
inferiori, senza identit, tanto da poter essere scam-
biati, invertiti, spostati perch un bambino vale lal-
tro. Non per Christine, per.
Il ruolo delle madri nei changeling tales segnato
da implicazioni colpevolizzanti frutto di una cultura
strettamente patriarcale: il rapimento dei bambini
infatti spesso rappresentato come una conseguenza
della negligenza della madre, per stanchezza (una
madre non dovrebbe mai addormentarsi, a meno che
non vi sia qualcun altro a vegliare sul bambino) o
perch stata chiamata al lavoro troppo presto dopo
la nascita del piccolo. Anche Walter viene portato via
quando il lavoro allontana ingiustamente e senza
preavviso Christine da casa; oltretutto, Christine
una madre sola.
I racconti popolari prescrivono di lasciare sopra la
culla dei neonati un frammento dei pantaloni o un
indumento del padre, per proteggerli e impedirne lo
scambio. A essere portati via dalle fairies sono quindi
i bambini soli, senza protezione paterna, privi del rico-
noscimento di unautorit maschile: Walter in effetti
non ha padre, porta il cognome della madre, una
donna immersa in una solitudine pressoch totale che
diventa drammaticamente evidente dopo la scompar-
sa del piccolo, quando nessun amico o parente le
vicino e le offre sostegno.
Secondo le leggende, oltretutto, i bambini rapiti
sono quasi sempre maschi, come maschi sono i bam-
bini portati via e uccisi da Northcott: in una realt in
cui i bambini sono considerati oggetti e le donne indi-
vidui privi di volto e di volont, la bambina quasi
unentit inesistente, nemmeno degna di un rapimen-
to. Le fairies non saprebbero che farsene.
Se si sospetta la sostituzione del bimbo maschio con
il changeling, secondo gli antichi tales i genitori deb-
bono innanzitutto appurare che lo scambio abbia
effettivamente avuto luogo, per poi far s che la fairy
introdottasi in casa si riveli per ci che davvero e
sparisca. Solo allora il vero bambino potr tornare,
bench non sia infrequente che il piccolo scomparso
resti tale e non faccia pi ritorno a casa.
Risulta poi spesso determinante laiuto di un altro
personaggio, sia esso un semplice vicino, un passante
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(2) Si tratta comunque di un tipo di storie presenti in tutte le cultu-
re, non solo europee.
(3) Its a medieval term for one child, often a demon child, substituted
for another. The downside of the word is that it has this supernatural
connotation. I used it as a temporary title, figuring that I could always
change it down the road, but everyone seemed to like it, Q&A with
Changeling Writer J. Michael Straczynski, a cura di Gilbert Cruz,
http://www.time.com/time/arts/article/0,8599,1852963,00.html
(4) Molte delle informazioni di carattere generale sui fairy change-
lings riportate in seguito, e la cui fonte non sia diversamente indica-
ta, sono tratte dal saggio di Terri Windling, Changelings, pubblicato
sul magazine Realms of Fantasy nel 2003. Larticolo disponibile
per la consultazione allindirizzo: http://www.endicott-
studio.com/jMA0301/changelings.html
(5) Carlo Chatrian, Changeling, Duellanti n. 47, novembre/dicem-
bre 2008, pag. 8.
(6) Lunico velato riferimento alla bellezza (interiore ed esteriore) e alla
sua assenza come motivo determinante di rifiuto, la domanda di
Walter sul motivo che ha indotto il padre a lasciare la famiglia: il bam-
bino ha litigato con un compagno di classe perch He said my dad ran
off because he didnt like me, e Christine risponde Your dad never
even had a chance to meet you So how could he not like you?.
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sconosciuto o qualcuno portatore di maggiore autori-
t, come un membro del clero; Christine, in lotta con-
tro lintero ordine costituito, dalla polizia allammini-
strazione comunale, trover un sostegno inatteso nel
reverendo Gustav Briegleb, che per imposta la pro-
pria azione secondo dettami strettamente politici di
lotta contro lo strapotere e la corruzione delle autori-
t losangeline: discorsi che Christine ascolta con
rispetto ma verso i quali non mostra alcun concreto
interesse. Christine rivuole suo figlio.
significativo sottolineare come ogni changeling
story contenga necessariamente due nuclei narrativi,
quello che vede protagonista il fairy changeling alle
prese con lostilit crescente della famiglia in cui si
introdotto, e quello del piccolo umano condotto
nella fairyland, che resta per necessariamente
avvolta in un mistero molto pi fitto. Il film di
Eastwod, coerentemente con il titolo scelto, si con-
centra maggiormente sul changeling affidato alle
cure di Christine, lasciando che sottili spiragli sul
destino di Walter siano aperti solo attraverso i rac-
conti di altri bambini, Sanford e David, il ragazzino
fuggito dal ranch di Northcott che torna a casa dopo
anni passati a nascondersi.
Il changeling, come si diceva, deve essere spinto a
rivelarsi, a tradirsi: i metodi esposti dalle leggende
sono bizzarri e fantasiosi, e tendono essenzialmente a
provocare sorpresa e ilarit nella creatura (7). Non
mancano per riferimenti a sistemi ben pi crudeli e
violenti: il concetto di changeling poteva essere un
modo, per le famiglie il cui figlio mostrava deformit,
ritardi mentali o una crescita non normale dal punto
di vista psicofisico, di giustificare lemarginazione del
bambino o addirittura la sua eliminazione fisica.
Dice il personaggio di Puck in Rewards and Fairies
di Rudyard Kipling: All that talk of changelings is
peoples excuse for their own neglect (8), che esat-
tamente laccusa imputata dalla polizia a Christine.
Come evidenzia lacuta analisi che Briegleb fa degli
articoli pubblicati sui giornali a proposito di Walter, se
il piccolo mostra differenze fisiche rispetto al periodo
precedente la scomparsa, la responsabilit deve essere
della madre che lo maltratta o vuole che il bambino
risulti diverso ed estraneo, per potersene liberare addi-
tandolo come non suo. Tutto teso unicamente alla
diffamazione e allo screditamento della madre.
Le procedure adottate da Christine per dimostra-
re lestraneit del piccolo che le stato forzatamen-
te affidato sono necessariamente pi prosaiche di
quelle descritte nei changeling tales: la donna si
basa sul riconoscimento diretto di chi aveva avuto
rapporti quotidiani con Walter, come linsegnante e
il dentista, ma anche su fatti per cos dire scientifi-
ci, come lanalisi dei denti, della struttura fisica e
dellaltezza (bench ogni prova venga poi clamoro-
samente rigettata dalle autorit). In ogni caso, colo-
ro che possono testimoniare sono esclusivamente
adulti: a scuola solo la maestra a essere interpella-
ta, non i compagni di classe, e i piccoli vicini di casa
dei Collins non vengono pi mostrati dopo i primi
momenti in cui Christine si affanna a cercare Walter
nel proprio quartiere.
Risulta quindi evidente come il film, in maniera pi
o meno cosciente, tenda a stabilire un parallelo molto
puntuale tra un fatto realmente accaduto e una preci-
sa tipologia di racconti folcloristici, ai quali ci si fino-
ra riferiti come fairy tales: in realt, nel caso dei chan-
geling tales, sarebbe pi corretto parlare di folk
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(7) Valga come esempio la terza parte della fiaba riportata dai fratel-
li Grimm nei loro Kinder- und Hausmrchen (Fiabe dei bambini e
della casa) col titolo Die Wichtelmnner (tradotto in italiano come
Gli Gnomi, il termine tedesco si riferisce a piccole creature umanoi-
di, non necessariamente malvagie): a una madre disperata per la
comparsa di un mostriciattolo al posto del suo vero bambino, una
vicina disse di portare in cucina il bambino che era stato scambiato
col suo, posarlo sul focolare, accendere il fuoco e mettere lacqua a
bollire in due gusci duovo. Questo avrebbe fatto ridere il bambino
scambiato, e bastava che ridesse perch per lui fosse finita (trad.
Elena Franchetti, Fabbri Editori, Milano 1995).
(8) Rudyard Kipling, Rewards and Fairies, Kessinger Publishing,
Whitefish, Mont., 2004, pag. 10.
(9) Cfr. Introduzione alle Deutsche Sagen (Saghe Germaniche) dei
fratelli Grimm.
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legends, di racconti popolari dal momento che la
legend ha radici pi marcatamente storiche, e meno
implicazioni poetiche e fantastiche della fairy tale (9).
Le changeling stories non sono infatti fiabe ambienta-
te in un luogo e in un tempo sconosciuti e lontani ma
racconti solidamente ancorati alla realt quotidiana e
che spesso riportano indicazioni geografiche e storiche
ben precise; lunico elemento fantastico dato dalla
presenza delle fairies, in base ad antiche credenze che
le considerano esseri realmente esistenti capaci di
intervenire nel mondo degli uomini.
I changeling tales rappresentano, per le culture
che li hanno prodotti, un strumento di interpretazio-
ne della realt: laddove non pu arrivare la ragione
o losservazione, come nel caso della nascita di un
bambino gravemente malato o malformato, intervie-
ne la legend a spiegare, a fornire istruzioni, a trac-
ciare la strada da seguire per ripristinare lordine
compromesso. La changeling tale serve per coprire
una realt inaccettabile, a rendere risolvibile un pro-
blema altrimenti insolubile.
E se alle madri di quei racconti viene detto che il
loro bambino stato scambiato con una creatura
mostruosa, a Christine lo scambio viene invece impo-
sto, con lassurda pretesa che lei possa e debba accet-
tarlo, ma le motivazioni dei due processi sono molto
simili: nascondere un fatto reale e inconfutabile, ma
drammatico e orribile, che la comunit non sa (o non
vuole) gestire. Cos come nei villaggi ottocenteschi di
cui parlano i Grimm non c posto per certe malattie
o deformit che la medicina ancora non conosce o non
sa come trattare, la Los Angeles degli anni Venti non
pu ammettere la deliberata inettitudine, gli errori e la
corruzione delle autorit rivelatesi incapaci di indaga-
re correttamente per risolvere un caso di sparizione
infantile: e se un colpevole ci deve essere, quel colpe-
vole sar la madre, perch disattenta, perch sola, per-
ch egoista, perch incapace di prendersi cura della
prole, o semplicemente perch pazza.
Limmaginario collettivo (sia esso folcloristico-popo-
lare o politico-sociale) si configura dunque come pro-
cesso codificato di lettura e interpretazione del mondo,
interpretazione tuttaltro che sincera e diretta ma anzi
filtrata da storture di comodo, sostanzialmente men-
dace perch basata su invenzioni false, tese a negare
lidentit e la specificit degli individui a favore di
unastratta e tenace difesa dellimmagine della comu-
nit e dellautorit.
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La forza scandalosa e pericolosa della lotta di
Christine Collins, portata avanti unicamente in nome
di un sentimento pudico e privato come lamore, sta
proprio nella sua capacit di scardinare quellimmagi-
nario, nello sporcare limmagine dei presupposti difen-
sori della giustizia, nel rompere un equilibrio consola-
torio e rassicurante ma fittizio.
Yours is a story with a happy ending, Mrs. Collins.
People love happy endings, si sente dire Christine poco
prima dellincontro col finto Walter. In nome di un lieto
fine da donare allopinione pubblica si pu rubare liden-
tit di un bambino e cancellare quella di un altro per
dargliene una fasulla, si pu condannare dei bambini
rapiti a una morte orribile solo perch condurre le inda-
gini in maniera approfondita avrebbe portato via troppo
tempo ed energie, si pu deliberatamente distruggere la
vita di una donna imponendole di accogliere un estraneo
in casa propria riconoscendolo pubblicamente come suo
figlio, e si pu definire pazzia una perfettamente legitti-
ma richiesta di giustizia. Tutto per un happy ending atto
a dare un senso a ci che non ce lha, a costruire un rac-
conto (un happy tale) che contribuisca a cementare una
mentalit, un sistema di segni culturali allinterno del
quale linganno strumento di potere.
Anche la battaglia privata di Christine viene del
resto incanalata, in particolar modo da Briegleb, su
binari riconoscibili, ordinati e sensati, e cos si arriva
a un processo, nel corso del quale lopinione pubblica
pu indignarsi e scandalizzarsi, e alla conseguente
condanna esemplare dei colpevoli. Il male viene puni-
to, la giustizia viene ripristinata, Christine da pazza
diventa eroina: la fiducia delle masse nellautorit e
negli ideali di cui essa si fa portatrice viene convenien-
temente ricucita. E poco importa che la morte per ese-
cuzione di Northcott sia quanto di pi raccapricciante
e meno liberatorio si possa immaginare, tanto per
Christine quanto per gli spettatori. E poco importa che
gli omicidi brutali commessi da Northcott non abbia-
no alcun senso, e che il racconto degli stessi fatto da
Sanford, coetaneo delle vittime, sia uno dei momenti
pi intollerabili della carriera del sergente Ybarra e di
tutta la produzione cinematografica recente, o forse
addirittura di sempre.
Eastwood apre delle ferite profonde e dolorose e non
offre alcun rimedio per lenirle o quantomeno per tol-
lerarle, per comprenderle. Niente d sollievo, niente.
Changeling trasmette per tutta la sua durata solo
unangosciante e disturbante sensazione di sgomento.
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In base a questa lettura, la visione dellimmagina-
rio proposta da Changeling sembrerebbe quindi del
tutto negativa e illusoria; osservando la distanza che
separa il sapore fiabesco del titolo dalla critica sto-
rico-politica innegabilmente contenuta nel raccon-
to, osserva ancora Carlo Chatrian (10): La tenace
storia di Christine Collins si sviluppa lungo tutta la
Grande Depressione e finir col fare del bambino
scomparso una sorta dimmagine dellinnocenza
finanziaria dellAmerica di inizio secolo. Ritorna
quindi un rapporto con il mondo dellimmaginario,
anche se letto in negativo.
Se esiste una realt pubblica, sociale nella quale
gli individui ricoprono dei ruoli, per altrettanto
vero che esiste una realt interiore, privata, emoti-
va: di questa seconda realt Christine viene mutila-
ta dopo la scomparsa di Walter. Ne abbiamo fugace
visione nelle primissime sequenze del film che pon-
gono al centro la relazione affettiva tra madre e
figlio: Walter lunico ad avere un rapporto con
Christine in quanto donna, in quanto essere umano,
ma nessuno degli altri personaggi, e degli spettato-
ri, pu affermare di conoscerla davvero.
Nellintimit della sua vita domestica anche
Christine fa riferimento, come chiunque altro, a un
immaginario, a un sistema di abitudini, di gesti; in
particolare, per i Collins sembrano avere una certa
rilevanza la radio (Walter solito ascoltare le com-
medie radiofoniche) e il cinema. Ancora le storie.
Quelle storie che sono fondamentali per reggere il
sistema di potere su cui si fonda una societ, sono
molto simili alle storie su cui ciascun essere umano
costruisce il suo vissuto privato, le proprie perso-
nalissime mitologie. Christine e Walter amano
andare al cinema, e Christine non rinuncia a quel-
la forma di svago nemmeno dopo la scomparsa del
bambino: lo conferma la sequenza finale dedicata
alle chiacchiere e ai pronostici sullimminente
notte degli Oscar. Christine considera Cleopatra
over-rated e scommette sulla vittoria di Accadde
una notte di Frank Capra: tale piccolo dettaglio
apre agli spettatori uninaspettata panoramica
sulla personalit, sulle idee, sulle emozioni, sui
gusti della donna. Christine, che abbiamo visto in
azione unicamente come madre e poi impegnata
nella sua lotta, una donna che ama le commedie
romantiche, che ama ridere, che riconosce al cine-
ma, allarte, allaffabulazione hollywoodiana un
ruolo determinante nella propria esistenza:
Accadde una notte usc negli Stati Uniti nel 1934
e, malgrado inizialmente lo script avesse faticato a
conquistare lentusiasmo dei produttori, si rivel
un trionfo coronato da cinque Oscar. Lottimismo e
il buonumore infusi dalla pellicola furono intesi
proprio come unallegra sfida allatmosfera spenta
e sfiduciata della Grande depressione: allegria hol-
lywoodiana (11) come antidoto alla crisi economi-
ca e sociale che tortura il Paese, quindi, ma anche
balsamo per le ferite personali di Christine Collins
che sembra ritrovare il sorriso grazie a Claudette
Colbert e Clark Gable.
Limmaginario collettivo dunque, in questo caso
cinematografico, viene ora rappresentato come capace
di esercitare uninfluenza buona sulla vita degli indivi-
dui, e per Christine in particolare si tratta di un modo
per andare avanti, per continuare a vivere; nella sua
riflessione sullo scollamento fra prospettiva pubblica e
privata presente nel film, scrive Adriano Piccardi (12)
a proposito del significato rivestito nel film di
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(10) Ibidem.
(11) peraltro impossibile non notare quanto lontano sia, moral-
mente e stilisticamente, un film come Accadde una notte dalla cru-
dezza di Changeling: tanto luno impegnato a celebrare con dolce
ingenuit i lati luminosi e divertenti della vita e dei rapporti umani,
quanto laltro affonda nella sofferenza e nella paura; tanto luno si
incanta a mettere in scena una storia perfetta, senza sbavature, senza
spigoli n scosse, dove ogni nodo si scioglie nella maniera pi inno-
cua, bella e indolore, quanto laltro contempla con terrore limpossi-
bilit di trovare soluzioni e risposte nette di fronte allirrompere del
dolore, della violenza e della morte nellesistenza delle persone.
(12) Adriano Piccardi, Prigioniera della speranza, Cineforum n.
480, dicembre 2008, pag. 5.
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Eastwood dal successo vittorioso di Accadde una
notte: Anche in questo caso il simbolo collettivo va
riconvertito al valore che acquista nel vissuto del per-
sonaggio: Christine ha creduto nellassegnazione
dellOscar a quel film, che dunque ora per lei il segno
tangibile del collegamento tra loggetto pi urgente
della sua fede individuale e il suo necessario inverarsi.
Ci creder per tutta la vita, come dice la didascalia
conclusiva, pudicamente sospesa circa il destino riser-
vato a quella speranza inamovibile.
La speranza, dunque. Sulla parola hope, pronun-
ciata da Christine, il film si chiude. Christine Collins
never stopped searching for her son, leggiamo pochi
istanti dopo, e lentamente il cuore tragico e nerissimo
del racconto prende forma.
La speranza di Christine, le storie e i principi di cui
la donna si nutre per non soccombere, sono artificiali
e fragili tanto quanto lo erano quelli su cui si reggeva
il potere delle dispotiche autorit di Los Angeles:
People loves happy endings, le viene detto per giusti-
ficare il calvario a cui si sta per sottoporla, ma non
forse proprio un happy ending illusorio quello che la
donna costruisce per s?
Senza lieto fine, o quantomeno la speranza di poter-
lo ottenere, senza storie, senza fiabe, senza una griglia
interpretativa rassicurante che consenta di leggere la
realt fissando dei punti di riferimento positivi a cui
guardare, semplicemente impossibile sopravvivere.
Lelaborazione di un immaginario, sia esso pubblico o
privato, inteso come struttura immaginifica interpre-
tativa e simbolica non di per s n buona n cattiva,
ma solo necessaria e connaturata allesistenza e alla
conservazione dellumanit stessa.
Di questo parla Changeling, della mancanza di
senso del reale e sopratutto del male e del dolore, e del
disperato tentativo degli uomini di dar forma e dire-
zione a quel senso inesistente attraverso sistemi astrat-
ti chiamati, di volta in volta e di luogo in luogo, socie-
t, politica, giustizia, arte, fairy tale, legend. O pi
umanamente speranza.
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LE SOMIGLIANZE
Ci sono stati due uomini che sapevano troppo. Uno
era inglese, laltro americano; ma a tutti e due era
capitata una drammatica avventura cera di mezzo
una crisi internazionale eppure erano diversi fra
loro. Uno apparteneva agli anni Trenta del secolo
scorso, laltro agli anni Cinquanta. In mezzo esatta-
mente ventidue anni, quindi le cose erano cambiate
nel frattempo. E anche colui che di queste vicende
fece ogni volta un film.
Nel 1934 Hitchcock aveva trentacinque anni e lavo-
rava a Londra, dovera nato. Il suo primo The Man il
suo diciottesimo film, il nono sonoro e la sua prima spy-
story. Nel 1956 di anni ne aveva cinquantasette e da
sedici lavorava in America, dove si era trasferito. Perch
a Hollywood sent il bisogno di fare un remake del film
gi realizzato in Inghilterra? Dichiar a Truffaut, nel
THE MAN WHO KNOW TOO MUCH
SAGGI
I DUE UOMINI CHE SAPEVANO TROPPO
Somiglianze e differenze tra le versioni 1934 e 1956
della stessa vicenda, raccontata due volte da Hitchcock
Ermanno Comuzio
Luomo che sapeva troppo (1934)
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famoso libro-intervista Le cinma selon Hitchcock, che
lo fece perch gli americani non conoscevano la prima
versione, il che non vero perch quella inglese era
stata distribuita in America, dove aveva avuto lo stesso
vasto successo che nella Patria dorigine (tanto vero
che il film del 34 aveva costituito la prima vera affer-
mazione su scala mondiale del regista).
Pi comprensibile la volont di porre mano allope-
razione in un ambiente di lavoro dalle potenzialit e
dagli apporti tecnici pi solidi della prima volta. Per
questo Hitch diceva a Truffaut che la prima versione
era stata fatta da un dilettante di talento, mentre la
seconda da un professionista (1), il che suona per
abbastanza strano se pensiamo che nellanno della
prima versione il regista si era fatto abbondantemente
le ossa con venti film.
Se ci chiediamo quale dei due risultati sia migliore
dellaltro non c una risposta perentoria.
Personalmente ho un debole per il periodo inglese del
Nostro, ma questo non influisce sul giudizio, che non
pu che essere salomonico, in quanto si tratta di due
cose decisamente diverse e incommensurabili (nel
senso proprio del termine, che non si possono misura-
re). Ma non sono proprio daccordo n col giudizio di
Rohmer e Chabrol, che nel loro libro dedicato al regi-
sta affermano che il primo The Man Who Know Too
Much era stato uno dei film meno felici del periodo
inglese (2), n con quello di Gosetti nel secondo
Castoro dedicato a Hitch nel 1996, che la seconda
versione supera loriginale (3).
Consideriamo dapprima le somiglianze e le differenze
(il confronto condotto sulle copie italiane). Le somi-
glianze pi evidenti sono nel racconto di base, scritto
dagli stessi autori anche se gli sceneggiatori sono diversi,
e nella stessa Cantata nel punto focale della vicenda, il
concerto allAlbert Hall e il famoso colpo di piatti. In
ambedue i film i cattivi si presentano come brave per-
sone (ma il killer della seconda versione ha una faccia
patibolare), in ambedue i figli dei protagonisti (sempre
vittime per caso) sono presi in ostaggio, mentre i buoni
inseguono delle false piste e devono sbrigarsela da soli
(dai poliziotti non hanno grande aiuto, anzi la polizia
Luomo che sapeva troppo (1934)
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non crede a quello che dicono), e centra in ambedue una
cappella religiosa che fa da copertura.
Ci sono addirittura delle identit, come quando i
buoni, giunti nella cappella, si scambiano informa-
zioni cantando per mimetizzarsi con i fedeli che into-
nano in coro un inno; e come nel formidabile partico-
lare della canna della pistola che sporge dal buio del
palco, allAlbert Hall, per spostarsi minacciosamente e
mirare allambasciatore straniero. Questo in una
sequenza centellinata, nello scorrere del tempo, in cui
si realizza in pieno il precetto hitchcockiano che non
nello sparo la paura, ma soltanto nella sua attesa.
IL Y A LA DIFFRENCE
Ben pi numerose, comunque, sono le differenze: ne
rileviamo soltanto le pi evidenti. La seconda versione
dura trentacinque minuti in pi, il colore prende il
posto del bianco-e-nero, la coppia dei protagonisti
inglesi diventa americana (e questultima assume una
identit precisa: medico lui, cantante lei), la figlia
diventa un maschietto, il preludio vacanziero si svolge
nel Marocco francese e non pi nella Svizzera tedesca.
E poi, nello sviluppo della stessa trama, nel primo
film la prima pista seguita dal protagonista maschile
quella giusta (il dentista, complice nel complotto),
mentre nel secondo film si tratta di una falsa pista (il
laboratorio di tassodermia: sequenza spassosa). E poi
nella cappella, prima di venirvi rinchiuso, lo stesso
personaggio suscita un putiferio con una grottesca
(anzi comica) battaglia a sediate con i cattivi, men-
tre nel secondo fugge dalla cappella arrampicandosi
sulla fune della campana e issandosi sul campanile
(premonizione, in certo senso per il campanile e per
lo stesso attore del finale di La donna che visse due
volte [Vertigo], che arriver due anni dopo?).
E soprattutto, al concerto, nel film inglese allesecu-
zione della Cantata succede la lunga sequenza della
sanguinosa sparatoria al covo dei cattivi (un macel-
lo, tra tutori dellordine e fuorilegge), mentre nel film
americano c la sequenza del ricevimento nellamba-
sciata straniera in cui rinchiuso il figlioletto. Da
notare che lepisodio dellassedio nella prima versione
era stato suggerito a Hitch da un fatto vero accaduto
a Londra nel 1910; ed stato il regista a raccontare
che la censura ebbe a ridire sul fatto che avesse dota-
to i poliziotti di fucili, dato che fieramente i bobbies si
vantavano di non adoperare le armi.
Interessante la figura a chiasmo che caratterizza i
personaggi delleroina femminile e del killer, e solo
nella versione inglese: lei nella gara di tiro al piattello
iniziale manca il bersaglio, mentre lui lo centra in
pieno, ma nellattentato durante la Cantata lui a fare
cilecca e nella sequenza della sparatoria finale lei a
centrare il bersaglio, che proprio il killer.
Ma queste sono tutte differenze esterne; pi
importanti sono quelle interne, appartenenti cio
alla natura stessa dei due film e del loro svolgimen-
to. La versione hollywoodiana indubbiamente la
pi ricca, oltre che la pi lunga e con diversi epi-
sodi pi dilatati, pi delibati con compiacenza, si
direbbe. Facendo sfoggio di un virtuosismo spudo-
rato, insomma, tutto qui pantografato, pi enfati-
co, pi spettacolare. I citati Rohmer e Chabrol
usano il termine trasfigurazione, e affermano che
quello del 1956 uno dei film in cui la mitologia
hitchkockiana trova la sua espressione pi pura, o
almeno la pi evidente, il film che possiede la
costruzione pi studiata (4).
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(1) Francois Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche editrice,
Parma 1991, pag. 76.
(2) Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock, Marsilio,Venezia 1986,
pag. 124.
(3) Giorgio Gosetti, Alfred Hitchcock, Il Castoro Cinema, Milano
1996, pag. 132.
(4) Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcok, op. cit., pag. 124.
Luomo che sapeva troppo (1934)
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A proposito di dilatazione, un esempio micro,
rispetto a quello macrodellesecuzione in sala, ma
rivelatore. Nel film del 34 il disco con la Cantata
utilizzato una volta sola, quando fatto ascoltare al
killer, per capire qual il punto esatto in cui dovr
sparare (Qui nessuno sentir lo sparo, penso che il
compositore avrebbe apprezzato, dice il capo, che
piuttosto raffinato: definisce la Cantata uno
splendido brano, un piccolo capolavoro, prima di
citare Shakespeare. Da notare che la battuta sar
ripresa tale e quale dallaltro cattivo del 1956).
Nella versione americana invece lascolto avviene
due volte, e poi, quando il capo resta solo, aziona di
nuovo quel disco e ascolta soddisfatto, stavolta solo
per godersi la musica.
Un altro esempio: nella sequenza del concerto (di
cui diremo pi avanti, data la sua importanza), nel 56
lambasciatore straniero fatto vedere diverse volte
e con malizia, dato che lui il bersaglio mentre si
assesta nel suo palco, quando si china in avanti per
ascoltare meglio, quando una lieve carrellata in PP
scende dalla testa al petto.
Ma questo ingrandimentocomincia subito, in que-
sta seconda versione, fin dai titoli di testa: infatti
quella del 1936 si limita sobriamente a presentare
davanti ai titoli due o tre dpliants turistici della
Svizzera invernale (Hitch vi ha ambientato il proemio
per una ragione personale in Svizzera aveva trascor-
so la luna di miele e poi il candore della neve delle
montagne di St. Moritz suggerisce unidea di innocen-
za, che lo sviluppo della vicenda dimostrer fallace, e
contraster poi con la nebbia londinese; unaltra
apparenza innocente, copertura della malvagit, sar
poi la sacralit della cappella in cui celebrano funzio-
ni religiose i cattivi).
Nel 1956 invece i titoli di testa anticipano con sfar-
zo la faccenda cruciale del concerto allAlbert Hall,
con inquadrature dellorchestra, della sezione degli
ottoni, di quella delle percussioni, del suonatore di
piatti, e il loro gran colpo fa da sfondo al cartello
Directed by Alfred Hitchcock. E poi i piatti sono
mostrati in PP, enormi, nella loro superficie piatta ( il
caso di dirlo) a fare da sfondo allenfatica scritta: Un
singolo colpo di piatti e come ha scombussolato le vite
di una famiglia americana.
LUNDERSTATEMENT
Un singolo colpo di piatti in tutta la partitura. Hitch
racconta che lispirazione gli venuta da una storiella
a fumetti del Punch, quella di un ometto che si pre-
para minuziosamente al concerto allAlbert Hall cui
deve partecipare, e, raggiunta lorchestra, estrae dal
suo astuccio un flauto piccolo e attende pazientemen-
te il momento da cui dovr estrarne una sola nota, e
dopo il suo intervento ripone lo strumento e lascia
discretamente la buca dellorchestra.
Inoltre tutto, nel 1956, pi dialogato e recitato: la
resa dei due protagonisti americani pi drammatica,
pi seriosa, da un James Stewart, trottante e convulso
e magari un po goffo e da una Doris Day piagnu-
colosa e sconvolta; gli interpreti inglesi sono molto pi
contenuti, soffrono composti (lunderstatement!). Lui
poi, il marito, qui ironico anche nelle peggiori situa-
zioni: prigioniero dei cattiviinsieme alla figlia, se la
vedono brutta, ma quando sente anchegli la notizia
alla radio che lambasciatore straniero stato soltan-
to leggermente ferito sorride ad Abbott, il capo, con
divertita superiorit.
Nel 34 c anche limpagabile Peter Lorre nel ruolo
di Abbott. al suo primo film fuori da una Germania
su cui gi si proietta unombra nefasta, ed impagabi-
le con la sua ciocca bianca nel ciuffo tirato sulla fron-
te, cattivo elegante, sardonico, insinuante, ma con
una cicatrice su un sopracciglio e con sguardi minac-
ciosi e scatti irosi.
A proposito di capelli, il killer della prima versione
ci viene presentato fin dallinizio come un uomo ben-
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portante e una persona dabbene, ma con un particola-
re geniale: prima ancora che appaia, la figlia del pro-
tagonista dice di lui: Ha troppi denti e troppa brilan-
tina, e subito dopo, per stacco, ecco in PPP la nuca e
la capigliatura imbrillantata delluomo di cui si parla
(ed ancora introdotto da quei capelli lucidi quando
entra col capo nel gabinetto del dentista).
Intendiamoci, non che la versione americana man-
chi di finezze e di gag, o di capacit di agganciare lo
spettatore, anche se non so se davvero il periodo ame-
ricano sia maggiormente caratterizzato, per Hitch, da
un moto di penetrazione nelle profondit dellintrigo e
della suspense (5), come afferma Fabio Carlini nel
primo Castoro del 1974.
Ricordiamo, fra le gag, quella di Ben che, nel ritro-
vo marocchino, prima sprofonda sui cuscini di un
basso divano, poi non sa dove mettere le gambe, poi
gli viene il torcicollo a parlare con la coppia finta
amica che seduta alle sue spalle; e ancora la sua dif-
ficolt di mangiare larrosto con tre dita, secondo
luso locale. Ma soprattutto ecco tutta la sequenza
dallimbalsamatore, con gli operai che mettono in
salvo gli animali da loro impagliati che la colluttazio-
ne potrebbe danneggiare, e lui che, nellagitarsi, mette
la mano nelle fauci di una tigre (imbalsamata, ma non
meno minacciosa).
Ancora: tutta la vicenda intercalata dalla presenza
dei parenti e amici che sono venuti a dare il benvenu-
to a Londra alla nostra coppia, sconcertati e sempre
ignari dallo strano andare e venire dei due. Per con-
tro, la prima versione pi secca, come gli altri film
realizzati in Patria. Lo stesso Hitch dichiar una volta:
Penso che i miei film inglesi siano pi realistici. [] I
mei film americani sono pi romantici, assomigliano
pi ai miei sogni (6).
Il film del 34 ha cose pi fini, dunque pi gustose.
Come lo scherzo di un filo di lana del lavoro a maglia
di Jill che Bob, mentre la moglie balla con il comune
amico Louis, attacca alla giacca di questultimo (che
subito dopo viene ucciso mentre tutti ridono di lui): il
non poter comunicare del protagonista col poliziotto
di St. Moritz che parla solo tedesco: lironia della sus-
siegosa battuta del funzionario del ministero che cerca
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(5) Fabio Carlini, Alfred Hitchcock, La Nuova Italia (Castoro
Cinema), Firenze 1974, pag. 61.
(6) Charles Barr, Le strutture ipnagogiche: il periodo inglese di
Hitchcock, in Edoardo Bruno (a cura di), Per Alfred Hitchcock,
Editori del Grifo, Montepulciano 1981, pag. 17.
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di intimidire Bob per fargli svelare quanto gli ha detto
Louis (Guardi che la sua reticenza potrebbe causare
guai internazionali. Si ricorda luccisione dellarciduca
Ferdinando a Sarajevo?); il gas anestetico col quale il
dentista tenta di addormentare Bob e poi questi ad
addormentarlo, indossando il suo camice e facendosi
passare per lui qu