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Framing net.

art
Di Carlo Giordano – carlo.giordano2@unibo.it - http://www.kjj.it
Trascrizione della conferenza tenuta per:

Semiotica del Visivo


Scuola Autunnale di Semiotica
22-25 settembre 2003
Antico Monastero Santa Chiara

Il testo è rilasciato secondo una licenza Creative Commons Attribuzione - Non


commerciale - Non opere derivate. Il testo della licenza è disponibile su:
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.0/it/

Nell’ambito di quell’esperienza artistica ormai decennale e matura che è la net

art, ho focalizzato la mia ricerca su alcune opere che indagavano il rapporto tra il

codice sorgente e l’esecuzione di questo codice.

Nel periodo in cui ho condotto questa ricerca pensavo che l’interesse del

mondo dell’arte contemporanea, relativo allo statuto del codice sorgente e al suo

apprezzamento estetico (per dirla con Genette), fosse destinato ad esaurirsi in fretta.

Valorizzato da figure miste - contemporaneamente teorici/programmatori/artisti -

ritenevo che questo interesse fosse poco più di un riflesso di quel ‘modernismo

artistico’ che ha dominato un periodo della net art con l’apparizione di numerose

opere centrate sulle specificità e i limiti del mezzo.

Al contrario, quest’attenzione è progressivamente aumentata, come dimostra il

titolo della mostra Code, the language of our time per l’importante manifestazione

annuale Ars Electronica, che si è tenuta a Linz nei primi giorni di settembre. Ciò è

evidente anche nelle due recenti commissioni del Whitney Museum di New York, dal

titolo CodeDoc, centrate proprio sull’analisi del possibile valore aggiunto apportato

dalla conoscenza del codice sorgente alla ricezione dell’opera stessa, sia per il

programmatore sia per il profano.


Questo interesse è dovuto sia a fenomeni visibili, duraturi e di notevole

portata, come il movimento per l’open-source, che conferisce visibilità ad un codice

prima chiuso e monopolizzato dalle grandi software house; sia a scelte più piccole ma

dense di conseguenze, come la decisione di basare il nuovo sistema operativo del Mac

(il computer più user-friendly) su Unix, sistema operativo testuale per eccellenza,

laddove l’Apple sembra riconsiderare fortemente la visione proposta del suo mondo

di computer.

D’altronde, non è forse inutile notare come la ‘familiarità’, se non con la

struttura profonda del codice sorgente, almeno con alcune sue sintassi epidermiche,

continui ad allargarsi presso il pubblico; e la condivisione, da parte di artisti e di

‘spettatori’, degli stessi software, degli stessi strumenti, è una caratteristica ben nota

dei nuovi media.

I modelli teorici non possono permettersi di ignorare queste caratteristiche dei

nuovi media e, sopra tutte, la loro programmabilità; la strada per approntare categorie

adeguate sembra tuttavia ancora lunga. In questo senso, credo che l’analisi di

macrotesti multimediali come quelli che vedremo non possa dirsi conclusa con i soli

strumenti della semiotica. Questo sembra vero in particolare per l’analisi di software

che sono in genere, almeno a livello tecnico, più complessi delle pagine web.

Tuttavia, è interessante notare l’incisività degli strumenti semiotici al contatto

con arti così diverse come la pittura e le arti digitali, e come molte caratteristiche

riguardanti la natura profonda dell’opera siano desumibili direttamente dall’analisi

plastica dell’opera.
Il mio intervento è quindi un’analisi testuale di opere di net art focalizzate sul

rapporto con il codice sorgente – intendendo il codice dell’opera stessa, o in senso

generale. In dettaglio analizzerò:

1) Due singole pagine web

2) Tre browser ‘alternativi’

realizzati da alcuni tra i più noti artisti della rete, gli olandesi Jodi.

Una nota di metodo: la ‘chiusura’ del testo, premessa indispensabile per

un’analisi testuale è, in gran parte, un’operazione dell’interprete.

Per la prima pagina web che vado ad analizzare, la dimensione sintagmatica e

ipertestuale – o il rapporto con le altre pagine del sito – mi è parsa ben poco rilevante.

Lev Manovich, autore di un’opera teorica fondativa sui nuovi media, sottolinea in

effetti come in questi ultimi la dimensione paradigmatica tenda spesso a superare, per

rilevanza, quella sintagmatica. Questo fenomeno è visibile in molti aspetti dei nuovi

media, a partire dalla stessa interfaccia utente grafica che usiamo tutti i giorni.

I Jodi peraltro dichiararono in un’intervista di non sapere letteralmente cosa

farsene dell’ipertesto, anche per le loro origini artistiche legate ad esperimenti con il

video, che non rimandavano ad una continuità con pratiche strettamente digitali nè

con una parallela attività di web designer, come spesso accade invece per chi si

esprime in queste forme artistiche liminari.


Cominciamo da un esempio relativamente semplice, una pagina ben nota, che

ha costituito in certi periodi la homepage del sito dei jodi (www.jodi.org).

[la vecchia homepage di jodi.org]

La homepage si presentava come una lunga sequenza di caratteri verdi,

lampeggianti su sfondo nero, senza alcun appiglio di senso immediatamente

comprensibile. Tutto il testo era un unico link sottolineato. Lo spazio delimitato

dalla finestra ospitava una rappresentazione apparentemente astratta, che poteva

legittimamente essere interpretata dagli utenti come semplice errore o crash della

macchina. Ora, in un periodo in cui i web designers si aiutavano tra loro, la

reazione di alcuni utenti, prima di cliccare sul link e procedere nell’esplorazione

del sito, fu proprio quella di andare alla ricerca delle cause dell’errore, all’interno

del codice sorgente che ne era il responsabile.


Con la funzione “View Source” chiediamo anche noi al browser di

mostrarci il codice sorgente della pagina. Ciò che vediamo è un’immagine

ottenuta con un testo, lo stesso testo di superficie, integrata con il codice HTML

della pagina. Questa è l’immagine intera vista da più lontano:

[il codice sorgente della pagina]


Potremmo descrivere quest’immagine come il minaccioso manuale per la

costruzione di una bomba: nella parte superiore vediamo la spiegazione dei

componenti la bomba, nella parte inferiore sono documentati i meccanismi di

scissione e di raddoppio tipici di un’esplosione. Ma perchè proprio una bomba e

non un’qualsiasi altra immagine ottenuta con i caratteri ASCII, tipica della

cosiddetta ASCII art?

Pensiamo agli usi in Internet della steganografia, una tecnica che consiste

nel nascondere, all’interno di banali immagini scambiate dagli utenti,

informazioni pericolose se intercettate. Queste informazioni, tramite un software

apposito, vengono codificate negli spazi lasciati vuoti da una bassa compressione

dell’immagine: questa viene infine decodificata all’arrivo dal destinatario. I

terroristi di Al-Qaeda hanno recentemente utilizzato questa pratica per scambiarsi

informazioni con i leader religiosi di una moschea italiana, e sono stati scoperti

solo per una ragione culturale: i computer della moschea controllati contenevano

un vero harem di sospettissime immagini porno, che infatti nascondevano dettagli

su alcuni attentati in preparazione.

Non sfugge, nella nostra pagina, il ribaltamento di questa tecnica: qui si

nascondono immagini in un testo anche perchè, nel loro progetto complessivo, i

Jodi sono, se non iconoclasti, quantomeno iconofobici. E’ altrettanto evidente

come, arrivando al codice, proviamo stupore nel trovare un ulteriore spazio di

rappresentazione custodito in un luogo separato, quello del codice sorgente,

normalmente condannato ad essere un mero generatore della rappresentazione,

invisibile all’utente.

Lo stupore è tale da convincerci subito che questa sia la vera

rappresentazione, la “verità”; la rappresentazione di superficie, che non significa


niente, ha perso ai nostri occhi di credibilità. C’è qui al lavoro la figura retorica

dell’ironia: il browser, che dovrebbe rendere comprensibile un codice

incomprensibile ai più, di fatto ci impedisce di cogliere la natura figurativa

dell’immagine.

Tuttavia il Lettore che è arrivato fin qui, assalito dai dubbi, potrebbe

tornare in superficie, e interrogarsi sia sulle scelte cromatiche - lo sfondo nero e il

colore verde per il testo – sia sulla decisione di far lampeggiare questo testo. Se la

superficie non rappresentasse davvero nulla, queste scelte sarebbero totalmente

arbitrarie.

Non possiamo dare un’interpretazione figurativa anche di

quest’immagine? Proviamo a interrogare la nostra memoria visiva:

quest’immagine dovrebbe ricordarci i momenti di crisi di un vecchio Pc con

interfaccia a caratteri. Quindi questa pagina sarebbe non già un computer in crash,

quanto l’immagine dello schermo monocromatico di un vecchio computer andato

in crash. In questa superficie, il testo verrebbe quindi utilizzato per creare una

sequenza dallo stesso carattere ‘ingenuo’ di quelle che troveremmo in certa

cinematografia divulgativa sulle nuove tecnologie. Il crash è totalmente illusorio:

altre sono le operazioni per fingere temporaneamente di mandare un computer in

crash oppure per mandarlo davvero in crash. I Jodi lo sanno e le sperimentano in

altri luoghi, giocando sulla paura dell’utente di perdere i propri preziosi dati.

Questa ekphrasis non credo vìoli norme di economia interpretativa, ed è anche

coerente con la ricerca complessiva degli autori.

In questo modo ci troviamo però con due rappresentazioni diverse,

entrambe legittime. Ma allora qual è quella, tra virgolette, vera? Una soluzione è

che queste sono due rappresentazioni diverse di due interpreti diversi. Qui lascio
volutamente ambiguità sul termine interprete, tra l’accezione semiotica e quella

tecnica.

Questo perchè uno è un interprete culturale – il Lettore Modello – l’altro è

un interprete tecnologico – il browser, che fornisce il suo punto di vista sul codice.

Noi apprezziamo quindi l’importanza non tanto del codice sorgente stesso,

ma della relazione tra il codice e la sua rappresentazione, generata da

un’interpretazione tecnologica. Questa pagina focalizza la nostra attenzione sul

ruolo di questo interprete macchinico, il browser, come filtro non neutro ma

distorsore del messaggio “originale”, a causa di un semplice espediente tecnico.

E’ proprio questo scarto tecnico minimo ad identificare, più che l’esibizione di

una maestria nella programmazione, una certa economia espressiva della pagina.

Non si tratta tanto di sanzionare l’interpretazione del browser o

dell’interprete umano; quanto piuttosto di capire che il regime di visualizzazione

del browser si fonda sulla sovrapposizione, opacizzante, della superficie sul

codice. Si noti che questa è una scelta arbitraria: un browser potrebbe

semplicemente giustapporre codice e superficie uno accanto all’altro.

Il Navigator ci impedisce invece di cogliere la totalità del sapere che,

secondo una tendenza ‘postmoderna’, viene spazializzato e installato in due

finestre. Questa frattura dei saperi ci costringe a riflettere sul contratto fiduciario

stabilito con il browser, che si suppone fornirci una rappresentazione veritiera e

integrale delle informazioni provenienti della rete.

Ora, una vasta produzione di visualizzazioni alternative dei dati

provenienti dalla rete è nata, in parte, come reazione ad una battaglia tra la
Microsoft e la Netscape per il monopolio del mercato dei browser, immaginato

come principale interfaccia d’accesso a Internet e quindi a tutti gli aspetti

commerciali presenti o futuri. Nacque quindi, ed esiste tuttora, una manifestazione

chiamata International Browser Day, dove ogni anno sviluppatori software

presentano decine di browser alternativi ai navigatori commerciali. Il browser è

diventato, in sostanza, un genere quasi popolare.

Analizzerò ora una sorta di ‘trittico’ di browser, intitolati Wrongbrowser,

programmati dai Jodi. La mia ‘istantanea’ di questi browser è stata scattata negli

ultimi mesi del 2001 e, all’epoca, era rimasta soltanto più l’eco di questa battaglia,

assieme al suo vincitore assoluto: Internet Explorer della Microsoft.

La home page del progetto Wrongbrowser, poi cambiata nel corso del

tempo, si presentava allora così:

[la vecchia homepage di www.wrongbrowser.com]


E’ interessante notare come a questo indirizzo si accedesse proprio dal sito

www.jodi.org, cioè la homepage degli artisti, là dove avveniva un redirect automatico

e senza spiegazioni verso la pagina in esame (www.wrongbrowser.com) . Questo

incassamento degli enunciatori, e il ritorno ad un enunciatore tendenzialmente

‘esterno’ al sito artistico, produceva un effetto di senso di ‘referenzializzazione’,

aumentato dalla natura presumibilmente commerciale del sito, esplicitata nel suffisso

.com.

Il messaggio generico (“Your current web browser is not capable”)

permetteva quindi, almeno al navigatore ‘ingenuo’, e per un tempo breve, di

interpretare la pagina come un avvenuto rilevamento delle caratteristiche del nostro

browser, incapace di visualizzare correttamente il sito dei Jodi senza l’ultimissimo

plug-in uscito proprio il giorno prima. L’impressione veniva confortata dalla lista di

presunti mirrors, ancorchè caotica, che permettevano di scaricare da luoghi geografici

diversi questo presunto plug-in: quelli posizionati in corea o in olanda e quello

‘commerciale’, .com.

Naturalmente, la mancanza di un qualche logo aziendale e di qualche sforzo

esplicativo poneva in serio dubbio questa interpretazione. La pagina, contrariamente

ad una pagina aziendale inoltre, non provava neanche a rispettare le regole più

elementari della usability; i colori primari dei quadrati, così evidenti in quanto centrali

e in opposizione al colore di sfondo grigio, non rimandano ai link effettivi. Questi

sono rappresentati invece dalle parole “pc” e “mac” scritte in grigio tenue e

volutamente “nascosti” dall’assenza della sottolineatura.

In ultimo, possiamo notare che l’operazione di selezione del testo permette di

‘smascherare’ altre due righe di codice ‘nascoste’ dalla loro identità cromatica con lo
sfondo. Una delle due righe fa riferimento ad una e-mail, ironicamente funzionante a

dispetto dell’indirizzo (undeliverable@wrongbroser.com), tramite la quale

raggiungere gli artisti, che hanno un rapporto con il pubblico estremamente spinoso e

interessante, che qui tuttavia non è possibile approfondire per motivi di tempo.

A livello semisimbolico, non è escluso che con questa ‘dissolvenza’ gli autori

abbiano voluto rappresentare cromaticamente la temuta perdita d’attenzione da parte

dell’utente nella lettura di una pagina web. E’ possibile che intendessero anche, con

l’opposizione complessa /alto + visibile/ vs. /basso + invisibile/, rappresentare

spazialmente proprio quel rapporto tra la rappresentazione e il codice che l’ha

generata. Questa interpretazione è anche possibile perchè la pagina è estremamente

coesa e coerente con le problematiche affrontate dai wrongbrowser, come vedremo.

Cliccando poi su uno di questi presunti server, sveliamo l’ultima sovversione

delle convenzioni: in realtà qui sono gli applicativi ad essere differenti, mentre il

server è lo stesso. Si tratta di software eseguibili (exe), il cui arduo titolo è proprio

questo: .COM, .NL, .CO.KR.


Sebbene i tre browser manifestino comportamenti simili, comincerò dal primo

in ordine di tempo, .COM, che è anche il più complesso. Lo lanciamo:

[wrongbrowser: .COM]

Una volta lanciato, .COM rifiuta di prendere posto nella cornice

convenzionale di una finestra, e si appropria immediatamente dell’intero schermo,

contrariamente ai browser ‘tradizionali’. Tale rifiuto mi appare come la prima

richiesta di considerare questo browser come qualcosa di diverso, come software ma

anche come prodotto estetico; una richiesta che col tempo non sorprenderà più

nessuno, almeno dalla premiazione del codice sorgente del sistema operativo Linux

come opera ad Ars Electronica.

A proposito dello schermo Lev Manovich, nel suo “I linguaggi dei nuovi

media”, sostiene:
Sebbene lo schermo in realtà sia solo una finestra di

dimensioni limitate, posizionata dentro lo spazio fisico dello

spettatore, si presume che lo spettatore sia completamente

concentrato su ciò che vede in questa finestra, focalizzando la

sua attenzione sulla rappresentazione, e ignorando lo spazio

fisico attorno. Questo regime di visione è reso possibile dal

fatto che l’immagine, sia essa un quadro, uno schermo

cinematografico, uno schermo televisivo, riempie

completamente lo schermo. Ecco perché siamo così disturbati

al cinema quando l’immagine proiettata non coincide

precisamente con i bordi dello schermo: rompe l’illusione,

rendendoci consci di ciò che esiste al di fuori della

rappresentazione. [Manovich, 2001 – corsivo mio]

Ci sarebbe quindi un’imposizione all’utente, affinchè concentri la sua

attenzione minuziosa sull’opera wrongbrowser in quanto opera d’arte; per fare questo,

si contravviene esplicitamente all’interfaccia utente grafica, cui principio

fondamentale è la coesistenza di un numero di finestre che si sovrappongono e dove

nessuna singola finestra domina esclusivamente l’attenzione dell’utente.

E a proposito dell’interfaccia utente grafica Steven Johnson, nel suo Interface

Culture, notava intelligentemente come la metafora del desktop, coniata per il Mac,

abbia offeso a suo tempo i fanatici delle interfacce a caratteri – gli “snob del Dos” –

perchè troppo simile ad un giocattolo, troppo user-friendly. Le interfacce del futuro,

prevedeva con lungimiranza, offenderanno perchè saranno troppo user-hostile; e


tuttavia ciò sarà un passo obbligato per poter raggiungere una maturità artistica. Per

dirla con Genette, l’ostilità all’utente potrebbe quindi essere colta come sintomo

dell’estetico nei nuovi media.

.COM è decisamente ostile all’utente, come vedremo. Le sue finestre

reagiscono con comportamenti inusitati, il saper fare dell’utente è messo

continuamente in scacco, le sue conoscenze pregresse rese inutilizzabili. Altri browser

estetici propongono visualizzazioni delle relazioni ‘strutturali’ della rete, in due

dimensioni come WebStalker o in tre come WebTracer, e sono realmente utilizzabili

per navigazioni dotate di un senso alternativo.

[webstalker: vd. http://www.backspace.org/iod/ ]


.COM non presenta un manuale o un help e, più che un browser, appare

visivamente piuttosto una pittura in movimento. La scelta di alcuni colori puri

organizzati in rettangoli ricorda immediatamente Mondrian; questo anche perchè è

individuabile, sotto le finestre in movimento, uno sfondo fisso, per la gran parte del

tempo bianco, delimitato ai bordi da righe e quadrati neri. Lo sfondo bianco sembra

una tela pronta, dove il testo ‘sgocciola’ ogni volta che proviamo ad utilizzare la barra

di scorrimento delle finestre.

Possiamo concentrarci sugli aspetti plastici. Ora, i contrasti manifesti sulla

superficie del browser sembrano poco significativi di per sè; d’istinto, mi è parso

molto più interessante analizzare comparativamente .COM e i browser che usiamo

tutti i giorni.

Una lettura del semi-simbolico prevede tuttavia che le categorie, cioè le

opposizioni del piano dell’espressione, che rimandano ad opposizioni sul piano del

contenuto, siano manifestate all’interno dello stesso testo. Com’è noto, per alcuni

autori (ad esempio per Floch), queste opposizioni possono invece essere rintracciate

anche in testi diversi; ma è necessario limitare il corpus di questi testi.

Per Floch, nel saggio “Le vie dei logo”, diventava così possibile comparare il

logo della Apple e quello della IBM – una comparazione che oggi sarebbe

problematico aggiornare – perchè erano appartenenti, citando la prescrizione di Lévi-

Strauss, alla “stessa cultura o a una cultura vicina”.

Anche i Wrongbrowsers nascono in opposizione ai “rightbrowser”, facendosi

portatori dei valori di una cultura vicina, nel senso di una cultura informatica

ideologicamente lontana ma geograficamente vicina alle grandi corporation,

espressione di quel reperto archeologico che è la net economy. E’ opportuno notare

che dall’Olanda gli autori si erano mossi per andare a lavorare negli Stati Uniti alla
Netscape Corporation, tornando con una valutazione estremamente negativa della

visione di Internet espressa dai dirigenti dell’azienda. L’evento fu fondamentale,

perchè segnò i due artisti al punto da spingerli al desiderio di sovvertire e decostruire

quel browser, veicolo di una precisa ideologia. E oggi i Jodi sono sinonimo

inconfondibile di tale estetica, anche quando costruiscono il loro browser.

Aggiungerei che la qualifica, fin dal titolo della pagina, di browser, vale qui

come indicazione di forme e di funzioni, che consistono, al livello minimo, nella

visualizzazione grafica di un flusso di bit in entrata dalla rete. L’appartenenza di

questo sofware a tale tipo di interfacce sarebbe cioè, come suggerito prima,

un’indicazione di genere, alla stregua di un genere letterario.

Una differenza interessante con l’analisi di maschere tribali e logo corporativi

è conseguenza del carattere digitale delle opere. Noi sappiamo che gli autori

pensavano al genere browser anche per una ragione tecnica: come dichiarato in

un’intervista, fanno infatti uso di uno script standard di Macromedia Director che

permette l’inserimento di finestre di navigazione web nella propria applicazione. In

questo codice, pubblicato per esteso in occasione dell’intervista, sono appunto stati

modificati comportamenti e aspetto delle finestre, come abbiamo visto.

Allo stesso modo, esiste un software artistico che si chiama AutoIllustrator

che, pur mantenendo l’aspetto di un programma di grafica digitale, presenta all’utente

solo funzioni per generare automaticamente, in base a pochi parametri, complicati

patterns grafici. E anche in quel caso, uno degli scopi è frustrare la volontà

dell’utente, sottolineando al contempo le disfunzioni del programma originale cui si

oppone, il famoso Adobe Illustrator, parodiandone la ridondanza barocca e una certa

forma di ‘inusabilità’.
In definitiva appare sensato per ragioni biografiche, tecniche e di appartenenza

al genere, comparare i wrongbrowser a Netscape Navigator o a quel clone che è

Internet Explorer, che ne mantiene appunto tutte le opposizioni qui ritenute pertinenti.

Veniamo quindi alla comparazione tra le finestre messe in scena da .COM e

quelle di Navigator. Definisco “finestra” in .COM il rettangolo colorato che carica

una pagina HTML casuale e ne visualizza il solo testo nel caso della superficie,

oppure il codice sorgente; ma naturalmente i pulsanti e le varie ‘parti’ scomposte sono

tecnicamente ascrivibili alla finestra, anche se non è possibile soffermarsi su ogni

scarto manifestato da questi pulsanti.

Ho riassunto alcune opposizioni interessanti in questa tabella:

.COM NAVIGATOR/EXPLORER
Colore - trasparente - opaco
- casuale - fisso
Bordo - vuoto - pieno

Forma - disunita - unita

Topologia - mobile - immobile

Le categorie cromatiche, eidetiche, topologiche della semiotica plastica

andrebbero completate con categorie che rendessero conto del diverso comportamento

di queste finestre. Per esempio, in .COM avviene che le pagine vengano caricate

automaticamente, secondo un indirizzo casuale di tre lettere seguito dal suffisso .com

– da cui il nome – rendendoli browser che navigano chiusi in uno spazio ingabbiato di

Internet. Questa scelta è in parte una reazione all’annuncio, anni fa, della ‘fine’ dei

nomi di dominio di tre lettere, acquistati in massa nel periodo d’oro della new

economy a fini commerciali di basso profilo.


Prendiamo però la sola opposizione /unita/ vs. /disunita/, che continua la

rottura delle cornici. La disarticolazione delle finestre di .COM, scomposte in

pulsanti, barre di scorrimento, zone di testo, ci restituisce un’altra rottura: quella tra

enunciatore ed enunciato, in particolare perchè la url bar non è ancorata alla

visualizzazione del contenuto dell’url. Perdiamo quindi quelle ‘garanzie’ di integrità

del testo e di certezza della fonte dell’informazione che erano assicurate, a ben

vedere, da una /non partitività/ della finestra di Explorer o del Navigator, opposta alla

/partitività/ di .COM.

La finestra dei browser commerciali è quindi un tutto figurativo (che mantiene

caratteristiche di letteralità della metafora), mentre in .COM comincia l’erosione del

sostrato figurativo. La cornice vuota, contrapposta ai bordi spessi e pieni delle finestre

di Navigator, conferisce ulteriormente un carattere ‘scheletrico’, appunto nel senso

che questo è già lo scheletro di una finestra. Per parafrasare le parole di Ignacio Assis

Da Silva, inizia un processo di spoliazione della finestra, che procederà poi in .NL e

sarà portato a compimento in .CO.KR.

Già in .COM a ben vedere è difficile parlare di finestra. L’altra opposizione,

/trasparente/ vs. /opaco/, sembra mettere in crisi questa nozione. C’è un dispositivo

indicale che focalizza l’attenzione dell’utente sull’importanza della trasparenza: è

questo riquadro “informativo” che generalmente si trova sotto la finestra, dov’è

appunto indicata la trasparenza (al 100%) del background della finestra.

[il box di Macromedia Director in .COM]


Oltre alla data, in basso, il box contiene l’indirizzo http://etc..., che si presenta

come guida alla decodifica del comportamento del browser nella scelta casuale degli

indirizzi, sorta di manuale sintetico. Ma soprattutto, non è difficile riconoscere uno

dei box informativi del programma Macromedia Director.

Questo box è quindi un residuo del processo enunciazionale, una “traccia del

dipingere” che ci ragguaglia - per una volta, senza mentire - sugli strumenti del fare

artistico. Perchè ci viene fornita quest’indicazione, che avrebbe potuto essere omessa?

Il riquadro – quest’ulteriore cornice – non differisce in modo profondo da

alcuni dispositivi visibili in molte rappresentazioni del dipingere, che hanno

accompagnato la nascita di una pittura fortemente autoreferenziale, in cui “il tema

dell’opera è il suo farsi”, come ricorda Victor Stoichita in “L’invenzione del quadro”.

Come in certi autoritratti con specchio, primo tra tutti quello del Parmigianino

(1524), la traccia di .COM svela la tecnica utilizzata per produrre l’opera; questo

espediente è visibile ancora meglio in una Vanitas di Simon Luttichuys, del

diciassettesimo secolo, dove dietro un teschio, posato su di un libro, sta uno specchio

nel quale si può intravedere non il pittore, ma il suo cavalletto.

[Luttichuys – Vanitas]
L’aspetto fondamentale è questo: nel periodo in analisi, la riflessione

metalinguistica sui limiti del mezzo, tipica delle fasi germinali di una nuova arte,

viene catalizzata da marche non dissimili da quelle che avevano caratterizzato le

ricerche della pittura olandese del seicento, e la nascita stessa della moderna forma-

quadro.

Nella pittura olandese questo comportava, ad esempio, fenomeni di

raddoppiamento della cornice, come nella forma-limite del “Quadro girato” di

Gijsbrechts del 1670. Questo quadro, analizzato da Stoichita, rappresenta il rovescio

del quadro stesso, in trompe-l’oeil.

Nella net art questo ha comportato invece dissoluzioni della cornice (come

nella scelta del full screen), scomposizioni (nel caso delle finestre di .Com), processi

di astrazione. Ma la centralità non è nella direzione della riflessione, quanto

nell’oggetto di questa riflessione, la finestra e la cornice appunto, e nella compresenza

di dispositivi indicali simili sul farsi dell’opera: il cavalletto, il riquadro di Director.

Nell’analisi del ruolo intertestuale svolto dalla finestra nel cinquecento e nel

seicento, Victor Stoichita non ha dubbi:

[...] quale fu il ruolo che la finestra (la finestra dipinta, la

finestra divenuta “quadro”) ebbe a svolgere nella presa di

coscienza di sé della nuova pittura?

La risposta che troviamo non può che essere restrittiva: [...] la

finestra funge da catalizzatore nella definizione di un altro

genere pittorico: il paesaggio. Tutte le altre utilizzazioni,

simboliche o formali, che la finestra aveva conosciuto

impallidiscono di fronte alla sua importanza nel processo di


autocoscienza del paesaggio in quanto tale. La ragione è

semplice: la finestra attualizza la dialettica interno/esterno[...]

[Stoichita, 1998]

Naturalmente, questo ci ricorda la continuità della riflessione sul ruolo della

finestra, dall’Alberti in poi. Prima di Internet la finestra era però fondamentalmente

rivolta verso l’interno: ad essere altro erano le cartelle del proprio computer. Internet

invece è stato subito immaginato e descritto con un profluvio di metafore spaziali che

hanno a che fare con la navigazione: digital landscape o datascape, appunto; e la

finestra del browser è servita di nuovo per attualizzare la dialettica interno/esterno,

questa volta rispetto al computer. La metafora è diventata letterale, ha perso lo scarto

di senso, si è isterilita.

.COM sembra invece nuovamente rivolgere all’interno del computer (.NL e

.CO.KR) l’apertura della finestra, ad esempio eliminando la prospettiva con lo sfondo

bianco.

Ritorniamo ancora un attimo sulla trasparenza, dato che gli autori come si è

capito vogliono attirare la nostra attenzione su questo aspetto. In realtà c’è un’altra

metafora che sembra attagliarsi maggiormente a questo genere di finestre trasparenti e

sovrapponibili: i “lucidi”, che in inglese – e nel gergo tecnico – sono chiamati “layer”.

I layer servono anche ai disegnatori di cartoni animati e a molte altre funzioni.

C’è un’interessante ambiguità semantica nel termine layer. In inglese layer

significa anche livello. E’ con questo termine che Lev Manovich definisce i due livelli

su cui operano parallelamente i nuovi media, “cultural and technological layer”.

Questa felice coincidenza onomastica mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti di .COM.


Si era partiti dal rapporto codice/escuzione. Nei browser commerciali questi

due livelli sono tenuti sempre rigidamente separati. In particolare, la visualizzazione

preferenziale è quella del rappresentato, “dietro” c’è il codice. Come questo “dietro”

venga visualizzato è una scelta dal browser. Fatto sta che questa scelta arbitraria

divide la navigazione in due spazi, là dove al codice spetta uno spazio ‘profondo’ e

‘nascosto’, come abbiamo visto.

In .COM i due livelli sono compresenti, ed ognuno sfonda sull’altro. Cerco

con un esempio di catturare una differenza più sottile: in altre pagine web dei Jodi, un

tag viene volutamente lasciato aperto. Ciò che accade lì tuttavia è che certi elementi

del codice, tradizionalmente appartati ‘dietro le quinte’, facciano una rumorosa

intrusione sul palcoscenico. Ma appunto essa appare come un’intrusione, un errore

perdonabile, un piccolo disturbo.

In .COM il codice emerge ‘in superficie’, tutti e due hanno medesima

rilevanza, come è sottolineato dalla soppressione di immagini e suoni e quindi

dall’appiattimento della rappresentazione sul livello del testo (che è il dominio unico

del codice sorgente). Questa fase della net.art si è focalizzata anche sul riportare a

galla ciò che i navigatori e l’interfaccia untente grafica tenevano nascosto: il computer

com’è dentro, il codice, la tecnica e la tecnologia come drammaticamente compresenti

all’aspetto culturale.

Ma questo non è un discorso definitivo. Dalle pesanti ‘finestre’ opache siamo

passati a questi leggeri, fluttuanti layer trasparenti, e questa condizione è la vera

specificità di .COM. Tuttavia il progetto wrongbrowser non si ferma qui. .COM è il


primo passo in quel processo di dissoluzione figurativa della finestra, al punto che è

difficile parlare di finestre o di layer in .NL e .CO.KR. Vediamoli:

.COM .NL .CO.KR

[spoliazione: da .COM a .CO.KR]

In .NL le finestre ipertrofiche di .COM si riducono a cinque testi ‘fluttuanti’,

svincolati da ogni cornice ma legati tra loro da linee verdi, che terminano in un

pulsante quadrato. L’oggetto finestra, nel senso tecnico, ovviamente rimane, anche se

non lo vediamo più. Rimane anche interagibile – in realtà, è possibile soltanto

spostare la finestra tenendo premuti i pulsanti verdi. Con un doppio click su questi si

genera un nuovo indirizzo di estensione .nl. In modo identico a .COM, il contenuto

della finestra può essere il documento web o il suo codice sorgente. Anche questo

tuttavia è diventato immodificabile, un altro aspetto d’interazione che va perduto.

Nell’ultimo, più invasivo tra i tre browser, il processo di spoliazione è portato

al compimento. Come si può notare, non esiste più la finestra stessa, nemmeno se

intesa come oggetto d’interazione; essa è stata dissolta, e rimaniamo di fronte al solo
schermo. Il quale, se non riceve alcun segnale dalla rete, rimane cronicamente nero,

con un cursore solitario e impazzito, e un suono piuttosto sgradevole.

I caratteri diventano spesso enormi, e il browser riduce automaticamente il

numero dei colori nelle impostazioni del nostro schermo, confermando la tendenza

verso l’automatismo e il minimalismo cromatico. Il testo si fa totalmente illeggibile,

frammentato (quando i quadrati colorati custodiscono le lettere del testo), oppure

magmatico, fuso con altri documenti o codici.

Ho quindi evidenziato il percorso attraverso cui, secondo varie strategie

testuali, i wrongbrowser cercano di de-modalizzare il Lettore da Soggetto del fare,

utilizzatore dell’Oggetto – ruolo previsto dalle convenzioni del genere browser – a

Soggetto che concentra un’attenzione estetica sull’Oggetto, raggiungendo in

definitiva uno stato ricettivo e abdicando all’uso del software stesso. Quali sono

queste strategie testuali? Il full screen, come si è visto, ma anche la crescente

aninterattività complessiva, che si traduce nel continuo mettere in scacco il saper fare

dell’utente. Facciamo un esempio: la barra di scorrimento, l’unico elemento di .COM

a mantenere la forma plastica esattamente identica a quella della finestra di

Navigator, è in realtà uno specchietto per le allodole: anzichè permettere di avanzare

nella lettura, provoca invece uno ‘sgocciolamento’ dei caratteri che confonde

ulteriormente tutto il testo.

C’è anche un’imposizione di ritmo, in questo continuo e accelerato

reumatismo delle finestre sulla superficie; un ritmo cui il Lettore difficilmente può

tener testa.

In sostanza, questa de-modalizzazione passa attraverso il suscitare, nel Lettore,

un sentimento di frustrazione che spinga all’inazione. Questa disforìa nei confronti


dell’esperienza della navigazione, ma in generale di qualsiasi manifestazione del fare

dell’utente – cui si sostituisce la volontà casuale del computer – era espressione della

critica ad un principio rimasto per lungo tempo dogmatico nelle arti basate sui nuovi

media, e cioè l’interattività intesa come mera interattività fisica: premere bottoni,

‘partecipare’ all’opera.

Vorrei conludere con un paio di osservazioni. La prima:

Abbiamo bisogno di un Novum Organum di verità, dobbiamo

spalancare le finestre e gettare tutto in strada, ma soprattutto

dobbiamo gettare la finestra e noi con essa.

Questa citazione non è il lascito di un teorico dei nuovi media o di un critico

d’arte, ma si trova nel romanzo Rayuela di Julio Cortàzar.

Qualcosa di simile devono aver pensato i Jodi dopo la realizzazione dei

wrongbrowser, se è vero che da allora hanno praticamente smesso di aggiornare il

loro sito e si sono concentrati su altre forme espressive, alcune delle quali

contemplano anche installazioni multimediali in spazi fisici. La gran parte di queste

ultime opere approfondisce molte tematiche trattate oggi: nessuna, per quanto ne so,

riguarda la finestra. Le riflessioni artistiche sulla finestra, nell’occasione dei

wrongbrowser, avrebbero quindi oltrepassato un confine dal quale non è forse più

possibile tornare indietro.

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