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9/2/2014 Istituto Bruno Leoni - È l'ora di Schumpeter

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di Carl Schramm
È l'ora di Schumpeter
Per Carl Schramm, solo la libera iniziativa e la creatività degli imprenditori possono tirarci fuori dalla crisi finanziaria
Non siamo ancora usciti da una tremenda tragedia economica, una vicenda che sta ponendo in tutto il mondo i concetti basilari del capitalismo moderno al centro del
dibattito. Si tratta indubbiamente di una discussione di grande importanza, in considerazione del fatto che gli assunti più fondamentali dell’economia moderna (ossia
che gli Stati siano stati in grado di escogitare gli strumenti di contrasto del ciclo economico più adeguati, che le Banche centrali siano onnipotenti, che il ciclo
economico sia stato addomesticato e che i mercati dei titoli siano finalmente riusciti a razionalizzare il rischio) sono andati in frantumi.

È questo uno di quei momenti che l’economista austriaco Joseph Schumpeter aveva in mente quando ha parlato di “distruzione creativa”? In fondo è stato proprio
Schumpeter l’economista che più di ogni altro ha riflettuto su quella che può dirsi la condizione di fragilità del capitalismo. Schumpeter ha vissuto gli orrori economici
della Repubblica di Weimar, è stato testimone del terrore prodotto dalla pianificazione di stile sovietico, ha visto la Grande Depressione e il caos della Seconda
Guerra Mondiale. Certamente non poca distruzione. Eppure, l’opera di Schumpeter è stata dedicata agli imprenditori che rinnovano l’economia per il tramite di quel
processo che egli definì “distruzione creativa”.

Se Schumpeter fosse vivo oggi, egli si chiederebbe certamente che cosa abbia causato questa crisi e se i suoi drammatici tratti non siano un elemento connaturato al
capitalismo. Alla prima domanda è stata dedicata grande attenzione. In questo articolo, tuttavia, voglio esaminare la seconda, tutto sommato più preoccupante.
Intendo cioè cercare di capire come salvare il capitalismo da una reazione a questa crisi che potrebbe risultargli fatale.
Dobbiamo rammentare che Schumpeter non vedeva il capitalismo alla stregua di una reazione o di una scelta di ripiego rispetto alla sterile realtà della pianificazione
economica e delle sue utopie. Egli riteneva invece che il capitalismo rappresentasse il fondamento stesso di due forze complementari: la prima era l’espansione
economica, la seconda era il suo ruolo nella tutela della libertà individuale.

Schumpeter era convinto che sacrificare un aspetto significasse mettere a repentaglio anche l’altro. Se fosse ancora vivo ci direbbe senza mezzi termini che, quali che
siano i dubbi che possiamo avere oggi, l’unico modo per garantire la libertà di ciascun individuo è quello di avere un’economia in crescita. Più recentemente,
Amartya Sen ha dimostrato l’importanza di questi due fattori nei Paesi in via di sviluppo, nei quali l’espansione economica è diventata un sinonimo di libertà.

Il nesso tra crescita economica e democrazia è, come ha mostrato lo studioso Michael Mandelbaum, una tendenza, non una legge invariabile dell’economia politica.
Di norma alla crescita economica si accompagna un aumento del tasso di alfabetizzazione e dell’istruzione, insieme ad un trasferimento della popolazione dalle
campagne alle città. Entrambi i fattori esibiscono una forte correlazione con l’insorgere della democrazia. Peraltro, la sovrapposizione di libero mercato e democrazia
in taluni ambiti (proprietà privata, governo limitato, una fiorente società civile, rule of law) può solo rafforzare il nesso causale.

In generale, solo il capitalismo può creare al tempo stesso ricchezza e libertà. E, ovviamente, il capitalismo è in grado di ampliare il benessere degli individui più
rapidamente di quanto abbia mai fatto qualsiasi altro ordine economico o sociale.
Tuttavia, a causa delle pressioni dovute alla crisi dei nostri giorni, non è sicuro che nel nostro futuro crescita e libertà continueranno a garantirsi reciprocamente e a
fungere da ancora della società civile. Sembra proprio che, quando si verifica una contrazione economica, tanto inevitabile quanto imprevedibile, le critiche mosse la
concetto stesso di capitalismo si fa più decisa e becera.

Dalla prospettiva di Schumpeter, è proprio il successo del capitalismo che permette alle società più ricche di far uso dei poteri pubblici al fine di allentare le regole
impersonali che governano i mercati, creando nuove regole che mettono i cittadini al riparo dai rigori dei rischi che essi si assumono e dei loro fallimenti. Da questo
punto di vista, le autorità creano per se stesse il compito di mediare gli esiti di mercato. Schumpeter aveva potuto vedere come i pericoli insiti in questa idea si erano

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concretati nel welfare state prussiano ideato da Bismarck. Dinanzi alla minaccia marxista, l’elite prussiana aveva cercato di garantire la propria posizione facendo sì
che lo Stato dispensasse favori e assistenza sociale. Bismarck, in effetti, era stato spinto dal desiderio di radicare una posizione politica, piuttosto che da un senso di
benevolenza e solidarietà. Quando viene distorto in questo modo, il capitalismo viene visto come uno strumento per soffocare, e non per favorire, la mobilità
economica e sociale.

Fin dall’epoca del New Deal, gli americani hanno iniziato a considerare i poteri pubblici quasi alla stregua di estremi difensori del loro benessere finanziario. In realtà,
tuttavia, gli elementi che permettano di affermare che durante il New Deal le autorità si siano effettivamente attivate a tal fine sono a dir poco esigui. Sebbene oggi si
tenda a dimenticarsene, gran parte delle azioni del governo federale durante la Grande Depressione in realtà ebbe effetti alquanto marginali sulla vita dei singoli
individui. L’espansione monetaria e l’innovazione tecnologica stimolarono l’economia, ma è opinione diffusa che la “seconda Depressione” del ‘37-’38 sia stata
causata proprio dal tentativo di manipolare i mercati del credito attuato dal presidente Roosevelt.

Che dire, allora, del guanto di sfida lanciato da Schumpeter? È possibile salvare il capitalismo? Nell’ottobre 2009 il presidente francese Nicholas Sarkozy si è
espresso in modo brillante, affermando che: «La crisi finanziaria non è la crisi del capitalismo. Si tratta invece della crisi di un sistema che si è distaccato dai valori più
fondamentali del capitalismo, un sistema che ha tradito lo spirito del capitalismo».

Non v’è dubbio che, sotto gli attacchi della crisi finanziaria, il capitalismo imprenditoriale sia in pericolo. In tutto il mondo, l’accento viene posto sulla sicurezza
personale e, almeno per il momento, la propensione della gran parte degli individui ad assumersi rischi si è placata. Si tratta, peraltro, di una reazione perfettamente
razionale e prevedibile.

Questa reazione, tuttavia, diventa problematica una volta che le autorità vengano considerate come l’unica fonte di sicurezza. Quello che l’opinione pubblica deve
capire è che la migliore garanzia di sicurezza non è rappresentata dal governo, bensì dalla crescita economica. Per quanto possiamo desiderare che non sia così, la
realtà è che i poteri pubblici non possono garantire che le nostre condizioni economiche non peggiorino: tale stabilità, in effetti, non può essere garantita da nessuno.
Pragmaticamente, dobbiamo immaginare il modo di accrescere il senso di sicurezza degli individui senza che le autorità diventino più potenti e il loro campo d’azione
più vasto.

La risposta di Joseph Schumpeter a queste considerazioni è che il cittadino più importante non è l’uomo politico, né il capitano d’industria, né il banchiere di Wall
Street. Tutti questi personaggi sono importanti, ma non rivestono un ruolo essenziale per il rinnovamento del capitalismo democratico. Questo ruolo, questo onere
ricade invece sui nostri concittadini che, messi di fronte alle sfide di oggi sono disposti a svolgere il compito di ogni imprenditore: immaginare il nuovo, costruire posti
di lavoro e creare quella ricchezza che è più necessaria che mai per realizzare un futuro degno di essere vissuto.

Quale che sia la via che imboccheremo, il capitalismo imprenditoriale non potrà rinascere e prosperare se i programmi attuati dai vari governi al fine di tutelare la
sicurezza dei cittadini avranno l’effetto di diminuire la responsabilità di ciascun individuo di provvedere al proprio benessere.

Carl Schramm è presidente e CEO della Kauffman Foundation e coautore di “Good Capitalism, Bad capitalism, and the Economics of Growth and
prosperity” (Yale Univerity Press, 2007).

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sull'edizione del 29 maggio 2009 del Wall Street Journal, che ringraziamo per la cortese concessione alla
riproduzione.

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