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“UN SOLITARIO E TACITO CONCERTO”.

DAL POÈME CRITIQUE


SIMBOLISTA AL “SAPER LEGGERE” VOCIANO

“Nel LIBRO, a noi sedentari ed inquieti, la nostra azione; il pensiero che si conforma in
linee tipografiche continua la nostra vita. (...) Il Libro, espansione totale delle lettere, si raffigura,
con queste, in una mobile sequenza, per corrispondenze, per eccitazione, per analogia, per diretto
e puro disegno. (...) Ed un solitario e tacito concerto mentale si disviluppa dal leggere, perché,
qualche volta, è completare, sempre interpretare: sognare preziosamente, sopra di una sinfonia
una dolce aspettazione desiderata, perché è un riconoscere parte di sé stesso, prima ignorata,
dietro le indicazioni del poeta, se insiste sopra di un suo dolore, di una sua gioia, di una sua
malinconia” (1).
Nel passo luciniano appena citato campeggia un vistoso intertesto mallarmeano, del resto
richiamato in una nota dallo stesso autore. Lo scritto a cui Lucini fa riferimento è Le Livre,
instrument spirituel, apparso sulla Revue Blanche nel luglio del ’95, e confluito poi nelle
Divagations. “Le Livre, expansion totale de la lettre, doit d’elle tirer, directement, une mobilité et
spacieux, par correspondances, instituer un jeu, on ne sait, qui confirme la fiction. (...). Un
solitaire tacite concert se donne, par la lecture, à l’esprit qui regagne, sur une sonorité moindre,
la signification” (corsivo mio).
Ciò che maggiormente interessa al teorico della Ragion poetica è l’idea dell’elemento
creativo che è insito nell’atto della lettura, dell’intentio lectoris - si direbbe oggi - che completa
in modo determinante l’intentio operis, e che concorre in modo attivo e dinamico a produrre il
senso del testo.
Questo snodo intertestuale, se da un lato si innesta sulla secolare topica della “leggibilità del
mondo”, sulla fecondissima linea di metaforizzazione insita nell’immagine del Mondo come
Libro (2), dall’altro deve essere compiutamente contestualizzato in rapporto al “ruolo di
prim’ordine”, e “tutto ancora da indagare” (3), che la dottrina mallarmeana riveste, al crocevia tra
i due secoli, nella genesi delle teorizzazioni di Lucini, e più in generale - forse, come si vedrà,
non senza una possibile mediazione operata dallo stesso poeta delle Revolverate - nella
costituzione della più profonda ed inquieta coscienza letteraria primonovecentesca.
E il discorso si dovrebbe a questo punto estendere, sempre con un più o meno diretto
riferimento all’idea di una lettura-interpretazione creativa, simpatetica, collaboratrice, a tutta una
fitta costellazione di riferimenti ai testi mallarmeani, noti e meno noti.
Lucini, nel passo citato e in altre non dissimili formulazioni, può aver avuto in mente anche
un’altra enunciazione, presente nella conclusione di Le Mystère dans les Lettres. Sono pagine in
cui Mallarmé si difende - come nell’intervista ad Huret, o nelle giovanili Héresies artistiques, che
peraltro, escluse dalle Divagations, furono riscoperte solo nel 1940 - dall’”injure d’obscurité”,
rivendicando il carattere elitario, quasi iniziatico della poesia moderna, che severamente
seleziona ed elegge il proprio pubblico. “Lire - / Cette pratique - / Appuyer, selon la page, au
blanc, qui l’inaugure son ingenuité (...): et, quand s’aligna, dans une brisure, la moindre,
disseminée, le hasard vaincu mot par mot, indéfectiblement le blanc revient, (...) pour conclure
que rien au delà et authentiquer le silence”.
Si riscontra, in questo passo, la tipica dialettica di “bianchi” e parole, di silenzio e
frammento, che percorre ed anima in più luoghi la riflessione e la sperimentazione mallarmeane
culminanti nel Coup de dès, e, soprattutto, nella densa nota che ne accompagnerà la
pubblicazione su Cosmopolis.
Si deve, a questo punto, far riferimento a quello che appare, a mio giudizio, uno dei testi
chiave dell’inaugurazione della modernità, fino ad ora non adeguatamente considerato. Alludo
alla Bibliographie apposta in appendice alle Divagations, datata Novembre 1896 (4), che
rappresenta forse, alle soglie del Novecento, la più potente e feconda sintesi delle diverse correnti
e dei vari orientamenti di quella concezione della critica come creazione e come arte che aveva
costituito un aspetto essenziale, e ancora tutt’altro che compiutamente indagato, della décadence:
dal Baudelaire dei Salons e degli scritti wagneriani, teorico e insieme artefice di una “critique
amusante et poétique”, al Wilde di The Critic as Artist, fautore di un “independent criticism”
inteso come autonoma creazione sopra un’altra creazione al D’Annunzio delle Note su Giorgione
e su la Critica e del Prologo del Marzocco, araldo di una critica che arrivi, “per via di segrete
analogie”, a cogliere e a ricomporre, “con sintesi geniale”, il cuore profondo della creazione
artistica, e che si esprima nelle forme melodiose ed alate del “poème en prose”, della “prosa
plastica e sinfonica” teorizzata, sulla scia di Baudelaire, nella prefazione al Trionfo della morte;
concezioni, queste, che al Novecento passeranno in eredità forse non senza la mediazione e il
concorso di critici e di teorici minori ed oggi per lo più obliati: dall’Angelo Conti sorprendente
ed esplicito promotore, nel Giorgione, di un’organica e feconda “collaborazione” tra l’artista ed il
critico, alla “critique voluptueuse” di Jules Lemaître, alla “critique d’analogie” di Camille
Mauclair, alla trattatistica di un René Ghil, su cui si avrà modo di tornare più oltre (5).
Nella Bibliographie, dunque, Mallarmé si preoccupa di chiarire la “raison des intervalles, ou
blancs”, delle pause, dei “bianchi”, dei silenzi, che punteggiano le sue pagine teoriche e critiche
ancor più che i suoi poemi in prosa. I bianchi intervallano e scandiscono le “écailles d’intérêt”, i
rari, fulgidi “fragments (...) où miroita le sujet”. Si tratta, per il poeta-critico, di “mobiliser, autour
d’une idée, les lueurs diverses de l’esprit, à distance voulue, par phrases”. La scrittura poetico-
critica, con la sua armonia di pieni e di vuoti, con la sua sapiente compenetrazione di
“frammenti” e di “bianchi”, visualizza e spazializza le irradiazioni e le diffrazioni - quanto mai
centrifughe, ancorché sapientemente coordinate - del pensiero critico. In questo modo si incontra,
anche in sede di teoria della critica, qualcosa di simile a quelle “subdivisions prismatiques de
l’Idée” di cui parla la nota al Coup. Dunque, sul discrimine di quella fusione tra poesia e prosa
che, nel sistema del simbolismo europeo, presiede alla genesi del verso libero da un lato, alla
fioritura del poema in prosa dall’altro, “une forme (...) en sort, actuelle, permettant, à ce qui fut
longtemps le poème en prose et notre recherche, d’aboutir, en tant (...) que poème critique”. In
nome di quello che oggi i poststrutturalisti definiscono come il “principio di reciprocità” tra
critica creativa e poesia autocosciente, tra pensiero poetante e poesia pensante (6), la “critique
poétique” teorizzata cinquant’anni prima da Baudelaire ha ora trovato il suo speculare e chiastico
corrispettivo. Non per nulla Lucini, discettando, proprio in apertura della Ragion poetica, di
“Critica ed Autocritica” (7) e di “Arte e Critica riconciliate”, tratteggia il paradigma di un poeta
che si faccia “critico, non d’altri ma di se stesso”, aperto ad una “fenomenologia del divenire e
del perpetuo svolgimento”, e altrove invoca un lettore vigile e complice, “non inerte e distratto,
ma collaboratore” - singolare punto di contatto, questo, con un teorico da lui tanto diverso come
Angelo Conti -, e capace di non scambiare l’”originalità” per “oscurità” - ed ecco qui riemergere,
palesemente, spunti polemici mallarmeani (8).

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Scrivendo a Carlo Linati il 21 agosto 1914 (9), Serra menziona Lucini, alludendo
all’”antipatia temperata di stima” che nutriva nei riguardi di quell’autore troppo “sfacciato”,
“rivoluzionario” e “stravagante”. E non è forse privo d’interesse riportare i tratti essenziali del
giudizio che Linati aveva dato di Lucini nella lettera a Serra del 16 agosto, a tutt’oggi inedita:
egli ne sottolineava, accanto alle “intemperanze”, anche la “delicatezza intima”, la “curiosità (...)
febbrile”, il “senso della sfumatura”, della nuance; in un’altra missiva, anch’essa inedita, del
settembre dello stesso anno, Linati, pur senza citare esplicitamente l’opera del Lucini teorico,
accennava all’attitudine, propria del cenacolo di scrittori milanesi cui lo stesso autore della
Ragion poetica poteva essere accostato, per le “conversazioni raffinate”, gli “ozi meditativi”, le
“ricerche sottili, frastagliate” (9bis): espressioni in cui pare riassumersi, pur se per rapidi cenni,
quasi un ritratto dell’artista critico.
E’ lecito supporre che, tra le “poche cose” che Serra asseriva - forse con quella punta di
sprezzatura che non gli era estranea - di aver visto, “di sfuggita”, fino a quel momento, alcune
delle pagine fin qui prese in esame avessero potuto attrarre in modo particolare la sua vigile e
prensile attenzione. Del resto, come osserva Raimondi, la missiva in questione cade in un periodo
di esitazioni, ansie, ripensamenti, all’indomani della pubblicazione delle Lettere; una fase in cui
egli tenta di “uscire (...) dal quadro interpretativo di un ipotetico umanesimo di provincia”, e
viene colto dal “sospetto (...) d’avere forse frainteso, se non addirittura ignorato il senso di un
lavoro comune” (10). Sarà forse eccessivo vedere in Lucini, come avrebbe voluto Glauco Viazzi,
l’”odiosamamo maestro di tutt’una generazione” di critici scrittori profondi ed inquieti, da Serra
a De Robertis allo stesso Boine (11); un Lucini che sarebbe stato “letto, adoperato e subito
avversato e messo in disparte con fastidio” (12). Quel che è certo è che non si possono escludere
suoi rapporti di convergenza e di contatto, se non di influsso e di anticipazione, nei riguardi di
quella “cultura vociana” - da intendere ed inquadrare per via di “scorci”, “generalizzazioni” ed
“approssimazioni” (13) - cui tali autori erano in varia misura legati. E non è casuale che proprio
alle colonne della rivista prezzoliniana, il 10 aprile del 1913, il poeta delle Revolverate affidasse
la sua cruciale presa di distanza dal Futurismo.

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“Filosofia, Lirica, Storia, Sentimento, Grammatica, ed Anarchia: tutto si avvicenda in questi


fogli. Io mi confido alla capacità del lettore, che tutto legga e sappia leggere; gli procuro un
nuovo piacere. Come la vita” (14).
Poche righe, stralciate dalla dedica a Marinetti, in cui parrebbero quasi sintetizzati alcuni
temi e motivi destinati a divenire tipici di quella che si vorrebbe definire l’antropologia letteraria
vociana: l’anelito ad un sapere assoluto ed onnicomprensivo, peraltro, nel Papini di Un uomo
finito, a tratti ansioso, convulso, frustrato, risolventesi in un continuo oscillare tra l’”eterno
slancio verso il tutto” e il “ricascare nel nulla”; l’analogia, o meglio la dialettica, tra letteratura e
vita, che tanta fortuna avrà nel Novecento; e, quel che ora più conta, l’idea di un “saper leggere”,
qui già quasi terminologicamente delineato, che ponga testo ed esegeta in un rapporto di vitale
continuità, di comunione simpatetica - e si rammenti che già il Mallarmé di Le Mystère dans les
lettres, davanti alla ricordata “injure d’obscurité”, preferiva “rétorquer que les contemporaines ne
savent pas lire”.
Poco importa che qui l’autore fissi princìpi di lettura che devono valere non tanto in linea
generale, quanto piuttosto in relazione all’interpretazione della sua stessa opera: è tipico proprio
del simbolismo fin da Poe (si rileggano al riguardo le prime righe di The poetic principle) il
proiettare su tutte le opere, del presente come del passato, i canoni della propria estetica, fino a
configurare una poetica che evolve in metodo critico.
E si può tornare, allora, all’ampia parafrasi mallarmeana da cui siamo partiti: il “solitario e
tacito concerto”, tutto raccolto in interiore homine, chiuso in mute armonie, che si risolve nel
“riconoscere parte di se stesso, prima ignorata, dietro le indicazioni del poeta”. Difficilmente si
potrebbe trovare, per il “saper leggere” serriano e derobertiasiano, una definizione più efficace; e
potrà non essere del tutto infruttuosa una ricerca, proprio nelle pagine dei vociani, di possibili
esemplificazioni, tanto in sede teorica quanto sul versante dell’esercizio critico, di questa
concezione.
Conviene partire da uno dei testi serriani più noti, il Ringraziamento ad una ballata di Paul
Fort (15). Si tratta di un poeta di cui proprio la lettura serriana invita a ripensare, al di là del noto
carattere volutamente “chiaro” e “popolare”, le ascendenze colte e simboliste: l’autore di testi
come la Reconnaissance matinale de la ville (16), che attrae l’attenzione del critico cesenate nella
piovosa mattina domenicale, è lo stesso animatore di quel “Théâtre d’Art” cui sono legati in varia
misura i nomi di Verlaine, di Mallarmé, di Maeterlinck, e lo stesso poeta di cui Remy de
Gourmont, nella sesta serie delle Promenades littéraires, aveva lodato la “manière de sentir”
capace di tradursi consapevolmente e sapientemente in una “manière de dire”.
“Nul bruit que ce doux chant que zézaie la mésange....” Non è casuale che Serra, dopo aver
temporaneamente trovato riposo alla sua inquietudine nei versi della Reconnaissance, si soffermi
proprio su quel canto di cincia, su quella sorta di “pedale” iniziale, riverberato, nella stanza
successiva, dall’onomatopea del “bruit frais de fointaine”: “Le mie labbra ridicono: ‘nul bruit’...”.
E quell’onomatopea si lega, com’è evidente, a tutta una tradizione simbolista, da Verlaine (“O
bruit doux de la pluie”) a Régnier (“Bruit de l’eau qui s’égoutte”) a D’Annunzio (“ti sien come la
pioggia che bruiva”), di cui Serra loda altrove, pur se tra le note riserve, il “miele diffuso”, l’”oro
liquido e senza forma” (17). Un’onomatopea, questa del “bruire”, che doveva avere
profondamente suggestionato il nostro autore, se è vero che egli vi ricorreva anche nelle lettere
d’amore, laddove parlava di acqua che udiva “fuggire e bruire”, e di una “fantasia d’amore e di
ricordi” che sentiva “bruire nell’anima” (18). Ma questo alone fonosimbolico avvolgeva anche il
“canto divino del silenzio”, la “sinfonia di voci purissime” che in Romain Rolland - autore,
com’è noto, assai congeniale all’ultimo Serra - rapiva d’un tratto Christophe e Olivier: “Le bruit
d’abeilles, le parfum du tilleul ... / (...) Le doux bruit de la pluie avec l’odeur des roses”.
Un’amicizia, quella fra i due giovani, che è come l’intimo e concorde vibrare di due anime,
venato di “profondo e silenzioso giubilo”, di “silenzio amoroso” (18bis) (e sul significato di
questi silenzi si avrà modo di tornare).
Si può notare ancora, nel testo di Fort, il procedimento tipicamente impressionista - tra la
“blancheur de troupeaux” dell’Après-midi di Mallarmé e il pascoliano “nero di nubi” - che porta
in primo piano la “blancheur rosée de désert insonore” propria della “grand’rue”. Un’immagine,
questa, che del resto ritroveremo, contaminata con il pascoliano “bianco di strada”, anche in quei
luoghi dell’Esame di coscienza che parlano di “stanchezza delle vecchie strade bianche”, di
“strade di una bianchezza che è falsa sotto le nubi di mobile piombo”.
Ma una sensibilità in senso lato simbolista non si riscontra solo nei tratti stilistici che, oltre a
sollecitare la sensibilità del critico, si ripercuotono sul suo dettato prosastico. Essa, infatti,
informa di sé la stessa modalità dell’approccio al testo, la stessa fenomenologia dell’agnizione
poetica.
“Anch’io sono un altro” (19), scrive il critico, dopo il “piccolo miracolo” di “luce e calma,
argento e pace perfetta” operato dal poeta francese. E non è impossibile scorgere, qui, una
qualche eco del rimbaudiano “Je est un autre” della lettera a Paul Demeny, resa nota da Berrichon
nell’ottobre del 1912 e già inclusa nell’edizione del Mercure de France in cui, come si evince
dagli abbozzi del saggio su Rolland (20), Serra leggeva il poeta di Charleville.
Ed era proprio ad un saggio su Rimbaud, oltre che ad uno su Verlaine, che, come si ricava
dall’epistolario, Serra lavorava nello stesso torno di tempo - tra gli ultimi mesi del’14 e i primi
del ’15 - cui appartiene anche la gestazione del Ringraziamento (21). Non per nulla, in questo
stesso scritto, è ricordata l’adesione di Fort alla poetica del veggente, la sua concezione del poeta
come “récreateur”, “visionnaire”, “esclave noir de ses symboles”, ma nel contempo, sulla scorta
del Baudelaire lettore di Poe, “maître blanc de ses paroles”. E la disposizione interiore che
accompagna l’approccio a Fort è anche esplicitamente accostata al “turbamento quasi misto di
rancura e di durezza” con cui il critico si era avvicinato allo stesso poeta del Bateau ivre, e forse
non troppo dissimile, come condizione emotiva, dall’”antipatia temperata di stima” di cui parla a
proposito di Lucini, e al “sorriso di dolcezza” con cui si era “piegato verso le opere di Verlaine”
(22).
Serra vive, come i simbolisti e, in parte, tramite loro, l’avventura di un soggetto che, come
direbbe Agosti (23), si aliena, ma nello stesso tempo si riconosce e si invera, nel Linguaggio,
scoprendo “parte di se stesso (...) dietro le indicazioni del poeta”; in questo senso, mediante il
“naufragio” nel testo, la ragionata alienatio mentis da esso veicolata, il soggetto critico può
divenire, rimbaudianamente, “un altro”.
E in quella stessa mirabile pagina, quasi incorniciata tra “Anch’io sono un altro” e “nul
bruit”, tra alienazione e reiterazione, tra riconoscimento della poesia e sua solitaria “esecuzione”,
si articola una fenomenologia dell’atto della lettura in cui sembrano affiorare concetti ed
immagini di ascendenza, stavolta, mallarmeana. La “continuità silenziosa”, il “solitaire et tacite
concert” che lega esegeta e poeta, che “si potrà rilassare ma spezzare non si può più”, è
paragonato ad una successione di “cerchi propagati l’uno dall’altro sull’acqua”, ad un’assidua e
solidale “vibrazione iniziale” che “si dispone (...) intorno al primo punto con quel rapporto che ha
la circonferenza del circolo al centro”.
Una similitudine, questa, già preannunciata nelle prime pagine: le immagini che si
susseguono fugaci davanti agli occhi e nella mente del critico nascono l’una dall’altra, e l’una
nell’altra si annullano, “come cerchio da cerchio e suono da suono”, e “si dissolvono e tornano a
formarsi intorno al punto che mai non muta”. Queste “forme leggere” “tutte premono e
mormorano e vanno nella corrente silenziosa e dolce”. Una clausola limpida e tornita - due
perfetti endecasillabi, separati da una tenue cesura dopo “vanno” -, rafforzata dall’allitterazione
della “a” e dall’omoioteleuto che lega i tre verbi: la prosa critica assume le movenze della poesia.
Ma siamo anche in presenza di una sorta di rivisitazione dell’archetipo eracliteo del fluire; e che
non sia del tutto peregrino parlare di un eraclitismo di Serra è confermato dal leopardiano
sgomento su cui si chiude la Partenza di un gruppo di soldati per la Libia: “tutto il flusso
eracliteo che mi spaura, l’infinito che mi rapisce in ogni punto dell’universo”... E viene in mente,
tra simbolismo ed estetismo, Pater, e per l’esattezza quell’accenno di una teoria della critica che è
la Conclusione della prima edizione degli Studies in the History of the Renaissance, Conclusione
che non per nulla reca in esergo una citazione dall’Oscuro. “Ogni oggetto” - scrive Pater - “si
risolve in un gruppo d’impressioni (...) nella mente dell’osservatore. (...) Quelle impressioni della
mente individuale (...) sono in perpetua fuga”. Si crea, allora, un incessante flusso, un “continuo
svanire”, “uno strano e perpetuo intessere e stessere di noi medesimi”. “Svanire” - dirà Montale -
è “la ventura delle venture”. Quelle “impressioni” sono anche quelle del critico; e questo
soggettivismo gnoseologico è il più coerente presupposto di una critica intesa, secondo la
definizione wildiana, come “a mode of autobiography”.
Tornando alla similitudine serriana del cerchio, pare quasi di trovarsi in presenza di una
liberissima riscrittura di un prezioso incipit dantesco (“Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al
centro”, accenno di “circulata melodia”); ma sembra profilarsi, ancora una volta, dietro questo
incessante fluire, questo inesauribile cangiare di “forme leggere”, “sostanza di silenzio e di
fugacità”, “visione mobile e labile”, questo gioco, si direbbe, di dissolvenze incrociate, l’ombra
di Mallarmé: “Toute l’âme résumée / Quand lente nous l’expirons / Dans plusieurs ronds de
fumée / Abolis en autres ronds”... Quale icona, del resto, avrebbe potuto visualizzare meglio del
cerchio e dell’ellisse la nozione di un pensiero che pensa se stesso, di una poesia che – attraverso
il molteplice gioco del reflectere – si fa critica di se stessa, e , specularmente, di una critica che si
fa poesia, finendo per abbracciare ed inglobare in sé, anche nella reale e concreta matericità
della scrittura e del testo, il proprio oggetto?
Sullo sfondo archetipico delle “metamorfosi del cerchio” (24), emergono richiami anche agli
scritti teorici del poeta di Hérodiade, che parla di una “convergence de fragments harmoniques à
un centre”, di un’”onda (...) i cui cerchi vibratori (...) producono un limite infinito che non
raggiunge la calma del centro”. E riscontri altrettanto interessanti sono offerti dal teorico delle
Divagations per ciò che riguarda il concetto di “vibrazione”: se già nell’articolo su Wagner del
1885 la musica appariva come “prolongement vibratoire de tout”, la più nota Crise de vers
avrebbe poi parlato - riprendendo affermazioni già presenti nell’Avant-dire premesso dall’autore
al Traité du Verbe del discepolo René Ghil - di una “disparition vibratoire” del reale “selon le jeu
de la parole”. E lo stesso Serra parla di “suoni d’argento”, di una “vibrazione argentina” le cui
onde “si trasmettono da assonanza a assonanza, da calma a calma, e si disperdono con un
mormorare di aria sonora ....” - ove si può notare, nell’ordito prosastico serriano, e specie
nell’ultimo colon, anche lo squisito effetto allitterativo.
E proprio in Ghil ritroviamo, pur se enfaticamente gravato di siderali risonanze metafisiche,
l’àmbito metaforico del centro e del cerchio: come per una sorta di dantesca “visione
metamorfica”, il “cercle virtuel virtuellement éternel et infini” si trasforma in una “ellipse” che
muta, a sua volta, “la matière en mouvement”, dando vita ad una “universelle symphonie”, quasi
una sorta di silenziosa musica mundana, di cui la poesia stessa è partecipe. E Lucini, che pure
prende le distanze dall’ispirato ed entusiasta teorico del Traité, sembra riecheggiare proprio le
parole di Ghil laddove delinea i caratteri di un’arte letteraria che, ravvolgendosi e svolgendosi
“dal movimento che non si arresta mai”, “sintetizza la serie dei movimenti in un’astrusa e
novissima linea vibrante, a cerchi, a nodi, ad ellissi, a spezzate, concentrica, rapidissima” (25).
Può essere qualcosa di più di una mera curiosità erudita il notare – nell’ottica di quello stesso
“positivismo sentimentale” di cui Serra parlò a proposito di Pascoli, con un’intuizione destinata
ad essere largamente sfruttata dalla critica successiva - come a questa metaforica della
vibrazione, gravida di nuclei concettuali ed implicazioni teoriche, possa non essere del tutto
estranea la suggestione offerta dalle ricerche di Helmholtz intorno alla natura e alla proprietà
delle onde sonore; non a caso, la Théorie psychologique (sic, ma in realtà Théorie physiologique
de la musique) dello scienziato tedesco, cui già Ghil si richiamava esplicitamente, figura tra le
letture progettate dal critico cesenate in un taccuino giovanile (25bis).
Chi poi cercasse in Serra ulteriori riscontri della metafora del cerchio, non avrebbe che da
aprire Di Gabriele D’Annunzio e di due giornalisti, ove la “voluttà”, vista da Serra quasi come
una sorta di crociano “sentimento fondamentale” del poeta delle Laudi, appare come “principio”,
concettuale e musicale, di una “cerchia di finzioni fantastiche” che “si è andata dilatando intorno
alla persona del poeta con progresso ritmico, come quello delle increspature concentriche al tonfo
del sasso nel lago”.
Mallarmé parla anche, sempre in Crise de vers, di “une orchestration, qui reste verbale”;
Ghil, sulla sua scorta, di una “instrumentation verbale” cui fa riscontro, in chiave sinestetica, una
forma di “audition colorée” (26). E neppure questa nozione di “orchestrazione verbale”,
quest’idea di una sinergia tra parola e musica resa possibile proprio da un avvolgente gioco di
vibrazioni, sembra essere rimasta priva di eco in Serra: “di verso in verso tutto vibra più forte;
(...) tutto si canta, il sospiro è diventato profondo come un’armonia di orchestra. (...) - scandite
queste sillabe a una a una per sentir con che gioia si staccano e vibrano”.
E i riferimenti potranno ancora ampliarsi, sempre limitandosi ai riscontri mallarmeani, sol
che si estenda l’indagine alle pagine pascoliane: quando Serra nota che “le parole più comuni in
un verso di lui rendono un suono nuovo”, poiché “pare che la sua voce nel proferire le faccia
vibrare lungamente e tragga dai loro seni riposti echi non conosciuti” (27), pare di avvertire
un’eco di un lapidario alessandrino del Tombeau d’Edgar Poe, “donner un sens plus pur aux mots
de la tribu”; e quando egli rimprovera al poeta di san Mauro di essersi talora compiaciuto del
“vago”, dell’”incerto”, del “simbolico”, insomma dell’”oscura vanità della suggestione” (28),
sembra muoversi, pur se dall’ottica di una parziale presa di distanza, nel contesto teorico e anche
terminologico della definizione mallarmeana del processo di simbolizzazione come “allusion” e
“suggestion”, tra Crise de vers e l’intervista ad Huret.
Ma lo stesso approccio serriano, e già luciniano, al testo, è da ricondurre, in linea generale,
ad una sensibilità simbolista. Al lettore prospettato da Lucini nella pagina poc’anzi richiamata
l’autore chiede, tramite una programmatica “oscurità”, di “interporre spazio tra periodo e
periodo, sostando per interpretare attentamente”; “il libro deve vivere nelle sue mani; al suo
contatto vibrare” (29). Questo paradigma di lettore-esegeta complice e collaboratore pare
prefigurare l’immagine serriana, affidata tanto all’epistolario, fin da una lettera all’Ambrosini del
1908, quanto al Ringraziamento, di un critico che agisce in modo intenzionalmente
antisistematico, muovendo da “un gran fascio di appunti presi leggendo”, “commenti,
divagazioni, impressioni” (30), e procedendo poi, come si legge nel Ringraziamento, “avanti,
indietro, senza regola”. Ma questo lettore è anche, a ben vedere, quello auspicato da Baudelaire
nel testo che, non a caso, segna la fondazione teorica di quel modello di prosa poetica, “lirica” e
“musicale”, cui Mallarmé farà riferimento per la costruzione del “poème critique”: alludo alla
lettera dedicatoria ad Arsène Houssaye che apre Spleen de Paris, e in cui si delineano i tratti di
un’opera che esige un lettore capace di destreggiarsi abilmente e di muoversi con assoluta libertà
nel dedalo di un testo che non ha, apparentemente, “ni tête ni queue”, ma in cui, al contrario,
“tout (...) est à la fois tête et queue, alternativement et réciproquement”, in una sorta di circolare
ricorsività. Lo sguardo del lettore potrà “hacher”, “smembrare” l’opera in “fragments”, in
componenti particolari ed autonome di una sorta di metaunità dinamica e sfaccettata, non lontana
da quella che gli esegeti vociani postulavano e ricercavano, più o meno arbitrariamente, nelle
opere oggetto della loro indagine.
E in questo stesso contesto possono essere viste le presenze mallarmeane ravvisabili in De
Robertis. In Saper leggere (31), l’orizzonte teorico dell’”orchestration verbale” è presente, in
forma latente, nell’idea di una futura lirica “politonale”, cui si giungerà attraverso una “serie di
ritmi e accordi nuovi che accennano a formarsi con una maggiore ricchezza di incroci e un
tessuto armonico più sottile”. E in un altro fondamentale scritto vociano, Collaborazione alla
poesia, soprattutto nella prima parte, Conti con me stesso, quest’idea s’intreccia con una
sinestesia tipica dell’imagery del Mallarmé critico e teorico, quella che associa i suoni del verso a
sensazioni luminose: proprio nella stessa pagina in cui De Robertis ha appena invocato, a
conforto della propria “sensibilità malata, acuita all’estremo”, i nomi di Rimbaud e Mallarmé, e
ha rivisitato il topos parnassiano e dannunziano del verso divino (“Il verso!... Cosa divina, nella
sua vibrante fattura, nella sua unità brulicante...”), si parla, oltre che di “suggerimenti vasti” ed
“emozioni (...) musicalmente lontane” che fanno pensare a Baudelaire, anche di “luccichii di
parole”, “colori intravisti”; la stessa metafora della vibrazione luminosa è poi ripresa e
sviluppata: “verso luccicante”, “improvviso barbaglio su un fondo chiaro”, “ripetersi di suoni
vibratorii”, “movimento (...) simile a luce che si riversi (...) su una superficie sconfinata”; e
qualche pagina oltre è ancora richiamato, con un ulteriore riferimento all’”orchestrazione
verbale”, il “tessuto armonico, luccicante di infinita luce”, che il critico vuole ravvisare in una
terzina dantesca (32).
Ebbene, come già si è accennato, anche a proposito di questa linea di metaforizzazione si
deve richiamare Mallarmé, che in Crise de vers, dopo avere assimilato le parole che compongono
il verso ad “alternatives lumineuses simples”, e a “touches”, a “pennellate” che “existent dans
l’instrument de la voix”, ricorre poi all’analogia, tipicamente parnassiana, delle parole paragonate
a pietre preziose, parole che “s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle traînée de
feux sur des pierreries”; nel Mystére, il già ricordato “centro di sospensione vibratoria” è anche
fulcro di una “réciprocité de feux”; in La Musique et les lettres, il susseguirsi delle frasi, in cui è
insita una “réminiscence de l’orchestre”, è simile all’”éruptif multiple sursautement de la clarté,
comme les proches irradiations d’un lever de jour”. Altri riscontri emergerebbero ove questa
sommaria indagine fosse estesa a testi meno noti. In Quelques médaillons, ad esempio, di
“scintillation mentale” si parla a proposito di Villiers de l’Isle-Adam, e si dice che il sovrano
ingegno di Poe “éclate en pierreries d’une couronne”.
Ma vengono in mente anche la “clarté melodieuse” e il “froid scintillement” che gli occhi di
Erodiade attingono da “pierres” e “purs bijoux”, e, nel contempo, con una convergenza
eloquente, la dannunziana “melodia di luce”. E Ghil aveva, dal canto suo, definito la poesia come
una “peinture” ottenuta “par le moins de hasard lumineux donné aux mots” (33).

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In linea generale, un critico come De Robertis tende a proiettare sui testi del passato, si tratti
di Dante, Petrarca o Leopardi, la sua moderna sensibilità simbolista e “malata”. Del resto
l’autore, come egli stesso confessa nel quinto paragrafo di Saper leggere, “non può leggere la
Divina commedia e i Canti che per suo piacere e esperienza personale, come un artista, per
imparare il segreto di certe parole e espressioni nuove” - e si può notare quanto sia evidente, qui,
il riferimento alla “critique amusante et poétique” e all’”independent criticism” del simbolismo e
dell’estetismo, fino allo scoperto richiamo al titolo stesso del più importante fra gli scritti teorici
di Wilde.
Il referente mallarmeano tornerà ad affiorare, in De Robertis, un trentennio dopo Saper
leggere, nello studio Valore del Petrarca (34), che non a caso si conclude con una postilla
polemica in cui l’autore ribadisce che tra i suoi “testi” si devono annoverare, accanto a Foscolo e
Leopardi, proprio Poe, Baudelaire, Mallarmé, Valéry, a conferma di quanto la cultura e la critica
vociane debbano alla grande tradizione simbolista e postsimbolista. Dopo la celebre e audace
definizione di un “Petrarca ermetico” - che sarebbe poi stata sviluppata, pur se con specifico
riferimento al problema variantisico, da Contini in apertura del Saggio d’un commento alle
correzioni del Petrarca volgare - viene esplicitamente richiamato un passo di Mallarmé, peraltro
senza una precisa indicazione del testo a cui il critico fa riferimento. De Robertis allude ad uno
scritto non tra i più noti, cioè Solennité (35), in Crayonné au théâtre, dedicato in massima parte a
Banville. Il concetto che viene utilizzato dal critico italiano in riferimento al ruolo storico della
poesia petrarchesca è quello di “recommencement”, inteso da De Robertis come “storia della
poesia”, “ricerca ultima”, “ritrovamento delle misure perfette di quell’imperfetto che è l’uomo”:
un sistema, in altre parole, di temi e motivi e caratteri che si inseguono e si richiamano nei secoli,
con una sorta di assidua variazione nella ripetizione; e strettamente legata a questa è anche l’altra
nozione mallarmeana cui De Robertis si rifà, sempre presente in Solennité, cioè quella di una
“métrique absolue” che regola e scandisce i tempi di questo “recommencement” non meno che le
sillabe dei versi e i “numeri” della prosa “filigranata di poesia”, e che, dunque, dalla concretezza
e dall’immanenza del testo si riflette nella trascendenza del disegno metastorico. Ma, quel che ora
più conta, nel seguito del testo mallarmeano veniva ribadito, una volta di più, il ruolo
fondamentale rivestito dalla soggettività del lettore: la “métrique absolue” “réclame de
quelqu’un, le poëte dissimulé ou chaque lecteur, la voix modifiée suivant une qualité de douceur
ou d’éclat, pour chanter”. Quello che nel Mystère sarà definito come “air ou chant sous le texte”,
e che si cela e fluisce nelle più riposte profondità di una secolare tradizione - un po’ come il
“tema” di cui parlava, in un’annotazione inedita, il D’Annunzio del Vittoriale, che passa e si
snoda “nell’infinita sinfonia dei secoli e dei popoli” (36) -, deve essere dunque portata alla luce
da un lettore partecipe e complice, il cui punto di vista e il cui ruolo, nei confronti dell’opera in
questione, non siano troppo dissimili da quelli dello stesso autore, caricandosi di una marcata
valenza creativa.
Come si vede, tutto questo denso e complesso sfondo teorico trova espressione e consistenza
attraverso un linguaggio alato, immaginoso, potentemente metaforico, che crea, anche sul piano
stilistico, una stretta prossimità e un profondo legame di simbiosi e di reciproca integrazione tra
la scrittura poetica e quella critico-teorica. Proprio in ciò risiede, forse, l’eredità più feconda che
il “saper leggere” ha lasciato dietro di sé; e in ciò è possibile ravvisare, nel contempo, anche il più
chiaro influsso che sulla sua genesi fu esercitato dalle poetiche critiche del simbolismo e della
décadence.

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In un suo pamphlet, L’art en silence, Camille Mauclair lodava il silenzio come


“cristallizzazione dell’anima”, “padre dei sogni”, “dolce quiete che ci consente di ascoltare la
melodia interiore”. Era, questo, certo ad un minore livello di profondità concettuale, qualcosa di
simile al “solitario e tacito concerto” da cui abbiamo preso le mosse, a sua volta non lontano dal
“concert muet” e dal “poème tu (...) aux blancs” di cui parla Crise de vers.
Per questa via, trovava riscontro sul versante specifico della teoria letteraria e delle dottrine
estetiche quello che potrebbe essere considerato quasi come un vero e proprio mito simbolista del
silenzio. Proprio al silenzio Maurice Maeterlinck - il cui Double jardin avrebbe attratto, nel 1901,
l’attenzione del Serra traduttore (37) - dedicava un capitolo del suo Trésor des humbles, e
Rodenbach, altro autore che potè esercitare, accanto a Samain e Laforgue, citati negli abbozzi del
saggio su Rolland, una qualche suggestione sul critico cesenate (38), celebrava il Règne du
silence, inseguendo, con il suo verso opaco e smorzato, “plaintes de cristal / qu’on s’obstine à
poursuivre aux confins du silence”. Profondi silenzi solcavano a tratti anche i versi del Chariot
d’or di Samain; e si può pensare, ancora, alle rarefatte atmosfere di quel théâtre du silence che
tanta importanza ebbe per il D’Annunzio drammaturgo, così come per il Wilde di Salomé.
Sul versante dell’autocoscienza letteraria, il tema del silenzio si legava alla condizione, cui
già si è accennato, di una poesia/frammento che nasceva dal bianco/silenzio, e che traeva vita,
paradossalmente, proprio dal vuoto che la cingeva e la insidiava. Una dialettica, questa di parola
e bianco, musica e silenzio, che della critica simbolista è carattere intrinseco e, a un tempo,
oggetto di consapevolezza teorica.
“J’écrivais des silences”, dice Rimbaud in Alchimie du verbe. “Nel bianco di quelle righe,
come nel silenzio che separa un verso dall’altro, una parola dall’altra, trema un riflesso: questo
riflesso è la lontananza di una lingua che tutte le lingue precede e suppone e raccoglie” (39) -
quasi la “lingua redenta” di Benjamin e Rosenzweig.
Questo battesimo del silenzio, questa genitura del vuoto, se assume in Mallarmé le sofferte
implicazioni che sono ben note, non manca di affiorare, sorprendentemente, anche in
D’Annunzio, che proprio all’Impero del silenzio consacra la seconda parte del Fuoco. “L’essenza
della musica”, a parere del dottor mistico, dietro cui si cela Angelo Conti, che a questi concetti
dedicò realmente alcuni scritti apparsi sul Marzocco, “non è nei suoni”, ma “nel silenzio che
precede i suoni e nel silenzio che li segue”, nell’”alto silenzio” astrale cui Stelio è appena riuscito
a carpire la fugace “parola dell’elemento”, istituendo anch’egli, sullo sfondo dell’immensa quiete
cosmica, un nesso tra segno verbale ed impressione luminosa. E’ già implicito, in quest’idea, il
primo nucleo di quello che sarà il grande disegno del Libro segreto, il germe essenziale della
“poetica del frammento” che si dispiegherà in quell’opera: una vasta corona di frammenti
governati e tenuti insieme da una sorta di latente e quasi precaria tramatura prosodica - e non per
nulla l’autore scriveva, nella più convulsa fase elaborativa, di stare cercando “il ritmo del libro”.
Ebbene, i concetti espressi nella pagina del Fuoco prima citata trovano una chiara risonanza
nel De Robertis di Saper leggere: “L’interpretazione realizza le pause. Le pause, in arte, sono
sospese tra sillaba e sillaba” (40). E il dantista del Vittoriale parrà quasi voler fare a sua volta eco
a queste parole quando, a margine del commento Scartazzini-Vandelli, coglierà l’”incognito
indistinto” di certi passi della Commedia, in cui il “mistero” o “aura” della poesia “spira tra
parola e parola” (41).
Queste e altre simili enunciazioni non paiono prive di riscontri neppure in Serra, laddove
egli, come nel saggio pascoliano, accenna a parole che “risuonano come in un grande silenzio” e
“cantano nel silenzio lungamente come una eco nei cuori di infinita tacita melodia” (42), non
lontana dal “tacite concert” da cui siamo partiti.
Analoga l’atmosfera del Ringraziamento: sono un “silenzio vuoto”, un “vuoto” e un
“silenzio” che l’autore ha “cercato”, ad anticipare e prefigurare l’atto della lettura, mentre egli si
accinge ad entrare nella “casa dei libri”. L’attitudine con cui il critico si accosta a tale atto non è
troppo avulsa dalla “Muse moderne de l’impuissance” che, nella giovanile Symphonie littéraire,
impone a Mallarmé l’”aimable supplice” di “ne faire plus que relire (...) les maîtres
inaccessibles”; e anche in quel caso, lo scenario è quello di una “matinée” cristallina e dilavata,
di un’”heure précieuse” che dona un “état de grace” tale da operare nel poeta, alla lettura di
Gautier, “une insensible transfiguration”...
Quando il solitario e tacito concerto ha inizio, si levano e si mischiano “effetti di cielo o di
silenzio o di suono”; il “nul bruit” che il critico ricanta nel profondo della propria coscienza
letteraria è isolato “nel silenzio della lunga pausa”, silenzio che poi “si determina in un brusio di
fontana”, quando nel testo di Fort “l’eau coule et le vers chante et fuit”; il poeta muove i suoi
passi “in quel gran silenzio”, e la “limpidità del mattino” si accampa “con la sua brina e il suo
silenzio”.
Il silenzio, se da un lato, trasfondendosi dall’orditura intrinseca del dettato poetico alle
modalità della sua decodifica e della sua “esecuzione”, finisce per sostenere ed alimentare
l’esistenza e la fruibilità stesse del testo, dall’altro viene a connotare il “vuoto” in cui il lettore,
nel suo narcisismo sottile, nella sua straniante chiaroveggenza, finisce per trovarsi rinchiuso. E’
lo stesso Serra a parlare altrove del “carcere dell’inchiostro” che gli impedisce di “godere
anch’egli un poco del vivere” (43); e si rammenti che anche la casa dei libri gli appariva, nel
Ringraziamento, “il mio luogo, il mio carcere, il mio destino”.
Si rivisitino, ora, alcuni luoghi dell’Esame di coscienza. Alla vigilia del conflitto,
“attendiamo in silenzio”, ed invano, “l’aurora di una letteratura nuova”. Dopo lo sterminio, l’erba
“buona per i nostri corpi” sarà “tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della
primavera” - e si può, a riscontro, aprire il Diario di guerra alla data del 17 luglio 1915: “O proda
di erba vera, vivace, non toccata ancora se non dalla luce - erba per camminarci a piedi scalzi e
per dormire distesi, fra il silenzio e il cielo!”. Un cielo, nondimeno, infinitamente lontano: “il sole
che filtra tra i riflessi del verde pare un’ironia sulla terra gibbosa, nuda e tetra” - e
dell’ossessionante “sereine ironie” di un cielo puro ed impassibile aveva già parlato Mallarmé in
L’Azur, anticipato dal “ciel ironique et cruellement bleu” del baudelairiano Cygne.
“Il silenzio” - per tornare all’Esame - “fuma in un vapore violetto”; “non c’è voce né suono
se non di caligine”; “non si vedono gli uomini e non si sente il loro formicolare”. Sono già state
segnalate, per queste immagini, suggestioni pascoliane e anche tolstojane; ma si potrebbe forse
cautamente richiamare Apothéose, un sonetto di Laforgue, anch’egli menzionato negli abbozzi
rollandiani, che fonde, in una densissima analogia, l’idea del formicolio e quella del silenzio: “En
tous sens, à jamais, le silence fourmille / de grappes d’astres d’or mêlant leurs tournoiements”.
Un esempio di poesia cosmica e “copernicana” che può avere offerto, tra le altre cose, qualche
suggestione anche allo stesso Pascoli. Il formicolio è, qui, degli astri, più che degli uomini; ma da
queste siderali lontananze si può intravvedere, tra i tetti di Parigi, “un pauvre fou qui veille”,
intento a vergare lo stesso sonetto, e quasi emblema vivente della solitudine del letterato.
Solitudine che Serra tenta ora di spezzare, annientando i vincoli del suo carcere
dell’inchiostro: inchiostro che ora “si scioglie in luce”, con una splendida nuance di ascendenza,
ancora una volta, simbolista, mentre la corona di un pino è come “una pagina d’aria grigia” che
si stempera in un “verde fosco e fresco”, in un “cielo più vasto”, in una “gran trasparenza
scolorata”. Si ha voglia di “essere insieme”, “andare insieme”, “stanchi di parole”, seguendo
l’incedere della “ruota silenziosa”, “fra il silenzio e il fremere uguale delle gomme”, “nel silenzio
della mattina”. Una scrittura, quella dell’Esame, che - tutta filigranata ed istoriata di silenzi, iati,
intermittenze - si fa, in ciò, specchio fedele e perspicuo di una sofferta condizione esistenziale, di
una dilacerata “coscienza infelice”.
Ed è qui che la strada di Serra e quella di Lucini divergono. Rispondendo ad una inchiesta
della rivista svizzera Coenobium (44), il poeta delle Revolverate articolava una delle infinite
varianti della metafora della “leggibilità del mondo”. “Grande spazio (...) per me, grande
biblioteca per accontentare la mia avidissima curiosità; essere circondato giornalmente dal flusso
e riflusso della vita intensa degli uomini e della natura. (...) Grande libro tutto il mondo: (...)
torno a rileggerlo”. Era proprio attraverso la letteratura che Lucini riusciva ad “essere insieme”,
ad “andare insieme”, uomo tra gli uomini. Già nel passo citato in apertura, “il pensatore
silenzioso” doveva, dopo la lettura, uscire “al sole del giorno, in faccia a tutti, partecipando al
lavoro comune”, laddove invece, per il Serra di Intorno al modo di leggere i Greci, restava
incompiuto l’anelito ad uscire dal carcere per “mettere in comune” (45).
Emergeva qui, forse, il Lucini erede di certo solido e generoso costruttivismo risorgimentale
e postrisorgimentale, che tanta parte aveva avuto nella critica italiana dell’Ottocento, da Foscolo
a Settembrini a De Sanctis.
In Serra, invece, una volta che la “scelta della poesia”, anch’essa ben consentanea al
simbolismo, e il mendace palliativo del “risarcimento estetico” (46) abbiano palesato tutta la loro
fragilità e la loro fallacia, dischiudendo quello che è stato chiamato l’”abisso dell’estetismo”, il
silenzio della lettura, in cui la parola poetica vive, nutrita di mute armonie, la propria umbratile
vita, sfuma e si annichila, trasceso da quello, ancora più vasto e più vuoto, della morte.
L’inchiostro si scioglie in luce, si dissolve e si disperde nel vuoto degli spazi, e solo a questo
prezzo può cessare di essere un carcere.
NOTE

1) G. P. LUCINI, Ragion poetica e programma del verso libero, Edizioni di “Poesia”, Milano 1908, p.
192.
2) Cfr. H. BLUMENBERG, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino,
Bologna 1984 (soprattutto, per la persistenza di questa metafora nell’imagery mallarmeana e simbolista, le
pp. 314 e sgg., in cui non è, peraltro, preso in esame il passo ora in questione). Interessante, sempre
nell’àmbito del simbolismo italiano, e pur se ad un livello di più immediata decifrabilità e di minor
tensione concettuale e teorica, il riscontro offerto dal “libro del mistero” - senza posa perlustrato da un
uomo “invisibile (...) come il pensiero” - che compare in Pascoli (Primi poemetti, Il libro). E si può notare
che anche De Sanctis, avendo alle spalle l’ermeneutica romantica tedesca, ricorreva a questa metafora per
asserire la natura creativa dello sforzo esegetico: “Il libro del poeta è l’universo; il libro del critico è la
poesia: è un lavoro sopra un altro lavoro” (F. DE SANCTIS, Saggi critici, Laterza, Bari 1952, p. 70).
3) A. BERTONI, Dai simbolisti al novecento, Il Mulino, Bologna 1995, p. 180.
4) Il testo si può leggere in S. MALLARMÉ, Divagations, Charpentier, Paris 1953, pp. 367-372.
5) Data la mancanza, a tutt’oggi, di uno studio d’insieme su questo specifico e ben determinato aspetto,
non posso che rinviare, per il panorama qui appena scorciato, alla mia tesi di laurea, Artifex additus
artifici. Creazione poetica e riflessione critica tra simbolismo ed estetismo, Università di Bologna, A. a.
1997/’98, rel. prof. F. Curi, nonché al mio studio, di prossima pubblicazione sulla rivista Poetiche, Da Poe
a Wilde. Intorno ad alcune fonti del concetto di critica tra il ‘Convito’ e il primo ‘Marzocco’.
6) Fondamentale, per questi concetti, G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, Mucchi, Modena 1980;
utili chiose in La critica salvata dalla poesia - intervista con Geoffrey Hartman, a cura di R. Bonadei, in
Poesia, V (1992), n. 49, pp. 19-23.
7) G. P. LUCINI, Ragion poetica, cit., pp. 17 sgg.
8) ibidem, p. 203; per l’interessante riscontro contiano, cfr. A. CONTI, Giorgione. Studio, Alinari, Firenze
1894, p. 78. A possibili raffronti tra Lucini e Conti accenna anche A. BERTONI, Dai simbolisti al
novecento, cit., pp. 14 e 179 n. 9) Epistolario di Renato Serra, Le Monnier, Firenze 1953, pp. 520-523.
9bis) Le due lettere di Linati sono conservate alla Biblioteca Malatestiana (Fondo Grilli, b. 22).
10) E. RAIMONDI, Una lettera ariostesca dell’ultimo Serra, in AA. VV., Scritti in onore di Renato Serra,
Le Monnier, Firenze 1974, p. 281.
11) Per la concezione, in Boine, della critica come processo attraverso cui “l’opera d’arte (...) ti esprime, ti
rivela (...) a te stesso”, cfr. lo scritto Un ignoto, in G. BOINE, L’esperienza religiosa e altri scritti di
filosofia e di letteratura, a cura di G. Benvenuti e F. Curi, Pendragon, Bologna 1997, soprattutto pp. 142 e
144.
12) G. VIAZZI, Studi e documenti per il Lucini, Guida, Napoli 1972, p. 103.
13) F. CURI, Serra e la cultura vociana, in AA. VV., Scritti in onore..., cit., p. 113.
14) G. P. LUCINI, Ragion poetica, cit., p. 6.
15) Citerò da R. SERRA, Scritti, vol. I, Le Monnier, Firenze 1938, pp. 203-236.
16) La ballata cui si riferisce la lettura serriana si trova alle pp. 503-505 del corposo volume (P. FORT,
Choix de ballades françaises, Figuière, Paris 1913) che il critico aveva iniziato a sfogliare, tra l’ansia e
l’attesa, “un pezzo qui, un pezzo là, avanti, indietro, senza regola”.
17) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 201. Per il riferimento dannunziano e il relativo snodo intertestuale,
cfr. G. D’ANNUNZIO, Alcione, a c. di P. Gibellini, note di I. Caliaro, Einaudi, Torino 1995, p. 55.
18) Cfr. E. RAIMONDI, Il lettore di provincia, Sansoni, Firenze 1964, pp. 101-2.
18bis) R. ROLLAND, Jean-Christophe, tr. di G. Carullo, pref. di C. Bo, Editori Riuniti, Roma 1966, pp.
835, 824, 827.
19) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 222.
20) Gli abbozzi sono editi in appendice al fondamentale studio di E. RAIMONDI, Il lettore di provincia,
cit., pp. 121-149.
21) Cfr. ad es. R. SERRA, Epistolario, cit., pp. 516, 526, 557.
22) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., pp. 218 e 210.
23) Cfr. S. AGOSTI, Il Fauno di Mallarmé, Feltrinelli, Milano 1991.
24) Cfr. G. POULET, Le metamorfosi del cerchio, Rizzoli, Milano 1971 (per Mallarmé, soprattutto pp.
408 e sgg.).
25) Il passo di Lucini è in ID., Ragion poetica, cit., p. 273-274; quello di Ghil in ID., Traité du Verbe,
Nizet, Paris 1978, pp. 122-123.
25bis) Cfr. F. LANZA, D’Annunzio e Serra negli incunaboli, Istituto di Propaganda Libraria, Milano s. a.
(ma 1973), p. 49; per i riferimenti in Ghil, v. Traité du verbe, cit., pp. 111 e sgg.
26) Cfr. R. GHIL, ibidem, pp. 80 sgg.
27) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., pp. 10.
28) ibidem, p. 39.
29) G. P. LUCINI, Ragion poetica, cit., p. 203, corsivi miei.
30) R. SERRA, Epistolario, cit., p. 228.
31) G. DE ROBERTIS, Saper leggere, in ID., Scritti vociani, Le Monnier, Firenze 1967, pp. 143-156.
32) ibidem, pp. 65-67 e 74.
33) R. GHIL, Traité du Verbe, cit., p. 130.
34) G. DE ROBERTIS, Studi, Le Monnier, Firenze 1944, pp. 32-47.
35) S. MALLARMÉ, Oeuvres complètes, cit., pp. 330-336.
36) A. ANDREOLI, D’Annunzio archivista. Le filologie di uno scrittore, Olschki, Firenze 1996, p. 255.
37) Il manoscritto del breve saggio di traduzione, a tutt’oggi inedito, si trova alla Biblioteca Malatestiana
di Cesena, Fondo Grilli (carte Grilli-Serra), b. 21 n. 18.
38) Cfr., al riguardo (come pure per ciò che concerne la presenza di unità melodiche e movenze versali
all’interno della prosa serriana), G. GRECO, Adesione di Serra al mondo della poesia simbolista francese,
in “Studi romagnoli”, IX (1958), pp. 289-296.
39) A. PRETE, L’ospitalità della lingua, Manni, Lecce 1996, p. 8.
40) Cfr. anche, per questi concetti, M. BRUSCIA, Alle origini del “saper leggere”, Boni, Bologna 1978
(libro che, peraltro, perlopiù trascura i referenti culturali di area simbolista).
41) Cit. in A. ANDREOLI, D’Annunzio archivista, cit., p. 183.
42) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 14.
43) ID., Scritti, vol. II, p. 473-4.
44) Cit. in L. MARTINELLI, premessa a G. P. LUCINI, Scritti critici, De Donato, Bari 1971, pp. XVII-
XVIII.
45) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 474.
46) Cfr. F. CURI, Serra e la cultura vociana, cit., p. 130.

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