“Nel LIBRO, a noi sedentari ed inquieti, la nostra azione; il pensiero che si conforma in
linee tipografiche continua la nostra vita. (...) Il Libro, espansione totale delle lettere, si raffigura,
con queste, in una mobile sequenza, per corrispondenze, per eccitazione, per analogia, per diretto
e puro disegno. (...) Ed un solitario e tacito concerto mentale si disviluppa dal leggere, perché,
qualche volta, è completare, sempre interpretare: sognare preziosamente, sopra di una sinfonia
una dolce aspettazione desiderata, perché è un riconoscere parte di sé stesso, prima ignorata,
dietro le indicazioni del poeta, se insiste sopra di un suo dolore, di una sua gioia, di una sua
malinconia” (1).
Nel passo luciniano appena citato campeggia un vistoso intertesto mallarmeano, del resto
richiamato in una nota dallo stesso autore. Lo scritto a cui Lucini fa riferimento è Le Livre,
instrument spirituel, apparso sulla Revue Blanche nel luglio del ’95, e confluito poi nelle
Divagations. “Le Livre, expansion totale de la lettre, doit d’elle tirer, directement, une mobilité et
spacieux, par correspondances, instituer un jeu, on ne sait, qui confirme la fiction. (...). Un
solitaire tacite concert se donne, par la lecture, à l’esprit qui regagne, sur une sonorité moindre,
la signification” (corsivo mio).
Ciò che maggiormente interessa al teorico della Ragion poetica è l’idea dell’elemento
creativo che è insito nell’atto della lettura, dell’intentio lectoris - si direbbe oggi - che completa
in modo determinante l’intentio operis, e che concorre in modo attivo e dinamico a produrre il
senso del testo.
Questo snodo intertestuale, se da un lato si innesta sulla secolare topica della “leggibilità del
mondo”, sulla fecondissima linea di metaforizzazione insita nell’immagine del Mondo come
Libro (2), dall’altro deve essere compiutamente contestualizzato in rapporto al “ruolo di
prim’ordine”, e “tutto ancora da indagare” (3), che la dottrina mallarmeana riveste, al crocevia tra
i due secoli, nella genesi delle teorizzazioni di Lucini, e più in generale - forse, come si vedrà,
non senza una possibile mediazione operata dallo stesso poeta delle Revolverate - nella
costituzione della più profonda ed inquieta coscienza letteraria primonovecentesca.
E il discorso si dovrebbe a questo punto estendere, sempre con un più o meno diretto
riferimento all’idea di una lettura-interpretazione creativa, simpatetica, collaboratrice, a tutta una
fitta costellazione di riferimenti ai testi mallarmeani, noti e meno noti.
Lucini, nel passo citato e in altre non dissimili formulazioni, può aver avuto in mente anche
un’altra enunciazione, presente nella conclusione di Le Mystère dans les Lettres. Sono pagine in
cui Mallarmé si difende - come nell’intervista ad Huret, o nelle giovanili Héresies artistiques, che
peraltro, escluse dalle Divagations, furono riscoperte solo nel 1940 - dall’”injure d’obscurité”,
rivendicando il carattere elitario, quasi iniziatico della poesia moderna, che severamente
seleziona ed elegge il proprio pubblico. “Lire - / Cette pratique - / Appuyer, selon la page, au
blanc, qui l’inaugure son ingenuité (...): et, quand s’aligna, dans une brisure, la moindre,
disseminée, le hasard vaincu mot par mot, indéfectiblement le blanc revient, (...) pour conclure
que rien au delà et authentiquer le silence”.
Si riscontra, in questo passo, la tipica dialettica di “bianchi” e parole, di silenzio e
frammento, che percorre ed anima in più luoghi la riflessione e la sperimentazione mallarmeane
culminanti nel Coup de dès, e, soprattutto, nella densa nota che ne accompagnerà la
pubblicazione su Cosmopolis.
Si deve, a questo punto, far riferimento a quello che appare, a mio giudizio, uno dei testi
chiave dell’inaugurazione della modernità, fino ad ora non adeguatamente considerato. Alludo
alla Bibliographie apposta in appendice alle Divagations, datata Novembre 1896 (4), che
rappresenta forse, alle soglie del Novecento, la più potente e feconda sintesi delle diverse correnti
e dei vari orientamenti di quella concezione della critica come creazione e come arte che aveva
costituito un aspetto essenziale, e ancora tutt’altro che compiutamente indagato, della décadence:
dal Baudelaire dei Salons e degli scritti wagneriani, teorico e insieme artefice di una “critique
amusante et poétique”, al Wilde di The Critic as Artist, fautore di un “independent criticism”
inteso come autonoma creazione sopra un’altra creazione al D’Annunzio delle Note su Giorgione
e su la Critica e del Prologo del Marzocco, araldo di una critica che arrivi, “per via di segrete
analogie”, a cogliere e a ricomporre, “con sintesi geniale”, il cuore profondo della creazione
artistica, e che si esprima nelle forme melodiose ed alate del “poème en prose”, della “prosa
plastica e sinfonica” teorizzata, sulla scia di Baudelaire, nella prefazione al Trionfo della morte;
concezioni, queste, che al Novecento passeranno in eredità forse non senza la mediazione e il
concorso di critici e di teorici minori ed oggi per lo più obliati: dall’Angelo Conti sorprendente
ed esplicito promotore, nel Giorgione, di un’organica e feconda “collaborazione” tra l’artista ed il
critico, alla “critique voluptueuse” di Jules Lemaître, alla “critique d’analogie” di Camille
Mauclair, alla trattatistica di un René Ghil, su cui si avrà modo di tornare più oltre (5).
Nella Bibliographie, dunque, Mallarmé si preoccupa di chiarire la “raison des intervalles, ou
blancs”, delle pause, dei “bianchi”, dei silenzi, che punteggiano le sue pagine teoriche e critiche
ancor più che i suoi poemi in prosa. I bianchi intervallano e scandiscono le “écailles d’intérêt”, i
rari, fulgidi “fragments (...) où miroita le sujet”. Si tratta, per il poeta-critico, di “mobiliser, autour
d’une idée, les lueurs diverses de l’esprit, à distance voulue, par phrases”. La scrittura poetico-
critica, con la sua armonia di pieni e di vuoti, con la sua sapiente compenetrazione di
“frammenti” e di “bianchi”, visualizza e spazializza le irradiazioni e le diffrazioni - quanto mai
centrifughe, ancorché sapientemente coordinate - del pensiero critico. In questo modo si incontra,
anche in sede di teoria della critica, qualcosa di simile a quelle “subdivisions prismatiques de
l’Idée” di cui parla la nota al Coup. Dunque, sul discrimine di quella fusione tra poesia e prosa
che, nel sistema del simbolismo europeo, presiede alla genesi del verso libero da un lato, alla
fioritura del poema in prosa dall’altro, “une forme (...) en sort, actuelle, permettant, à ce qui fut
longtemps le poème en prose et notre recherche, d’aboutir, en tant (...) que poème critique”. In
nome di quello che oggi i poststrutturalisti definiscono come il “principio di reciprocità” tra
critica creativa e poesia autocosciente, tra pensiero poetante e poesia pensante (6), la “critique
poétique” teorizzata cinquant’anni prima da Baudelaire ha ora trovato il suo speculare e chiastico
corrispettivo. Non per nulla Lucini, discettando, proprio in apertura della Ragion poetica, di
“Critica ed Autocritica” (7) e di “Arte e Critica riconciliate”, tratteggia il paradigma di un poeta
che si faccia “critico, non d’altri ma di se stesso”, aperto ad una “fenomenologia del divenire e
del perpetuo svolgimento”, e altrove invoca un lettore vigile e complice, “non inerte e distratto,
ma collaboratore” - singolare punto di contatto, questo, con un teorico da lui tanto diverso come
Angelo Conti -, e capace di non scambiare l’”originalità” per “oscurità” - ed ecco qui riemergere,
palesemente, spunti polemici mallarmeani (8).
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Scrivendo a Carlo Linati il 21 agosto 1914 (9), Serra menziona Lucini, alludendo
all’”antipatia temperata di stima” che nutriva nei riguardi di quell’autore troppo “sfacciato”,
“rivoluzionario” e “stravagante”. E non è forse privo d’interesse riportare i tratti essenziali del
giudizio che Linati aveva dato di Lucini nella lettera a Serra del 16 agosto, a tutt’oggi inedita:
egli ne sottolineava, accanto alle “intemperanze”, anche la “delicatezza intima”, la “curiosità (...)
febbrile”, il “senso della sfumatura”, della nuance; in un’altra missiva, anch’essa inedita, del
settembre dello stesso anno, Linati, pur senza citare esplicitamente l’opera del Lucini teorico,
accennava all’attitudine, propria del cenacolo di scrittori milanesi cui lo stesso autore della
Ragion poetica poteva essere accostato, per le “conversazioni raffinate”, gli “ozi meditativi”, le
“ricerche sottili, frastagliate” (9bis): espressioni in cui pare riassumersi, pur se per rapidi cenni,
quasi un ritratto dell’artista critico.
E’ lecito supporre che, tra le “poche cose” che Serra asseriva - forse con quella punta di
sprezzatura che non gli era estranea - di aver visto, “di sfuggita”, fino a quel momento, alcune
delle pagine fin qui prese in esame avessero potuto attrarre in modo particolare la sua vigile e
prensile attenzione. Del resto, come osserva Raimondi, la missiva in questione cade in un periodo
di esitazioni, ansie, ripensamenti, all’indomani della pubblicazione delle Lettere; una fase in cui
egli tenta di “uscire (...) dal quadro interpretativo di un ipotetico umanesimo di provincia”, e
viene colto dal “sospetto (...) d’avere forse frainteso, se non addirittura ignorato il senso di un
lavoro comune” (10). Sarà forse eccessivo vedere in Lucini, come avrebbe voluto Glauco Viazzi,
l’”odiosamamo maestro di tutt’una generazione” di critici scrittori profondi ed inquieti, da Serra
a De Robertis allo stesso Boine (11); un Lucini che sarebbe stato “letto, adoperato e subito
avversato e messo in disparte con fastidio” (12). Quel che è certo è che non si possono escludere
suoi rapporti di convergenza e di contatto, se non di influsso e di anticipazione, nei riguardi di
quella “cultura vociana” - da intendere ed inquadrare per via di “scorci”, “generalizzazioni” ed
“approssimazioni” (13) - cui tali autori erano in varia misura legati. E non è casuale che proprio
alle colonne della rivista prezzoliniana, il 10 aprile del 1913, il poeta delle Revolverate affidasse
la sua cruciale presa di distanza dal Futurismo.
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In linea generale, un critico come De Robertis tende a proiettare sui testi del passato, si tratti
di Dante, Petrarca o Leopardi, la sua moderna sensibilità simbolista e “malata”. Del resto
l’autore, come egli stesso confessa nel quinto paragrafo di Saper leggere, “non può leggere la
Divina commedia e i Canti che per suo piacere e esperienza personale, come un artista, per
imparare il segreto di certe parole e espressioni nuove” - e si può notare quanto sia evidente, qui,
il riferimento alla “critique amusante et poétique” e all’”independent criticism” del simbolismo e
dell’estetismo, fino allo scoperto richiamo al titolo stesso del più importante fra gli scritti teorici
di Wilde.
Il referente mallarmeano tornerà ad affiorare, in De Robertis, un trentennio dopo Saper
leggere, nello studio Valore del Petrarca (34), che non a caso si conclude con una postilla
polemica in cui l’autore ribadisce che tra i suoi “testi” si devono annoverare, accanto a Foscolo e
Leopardi, proprio Poe, Baudelaire, Mallarmé, Valéry, a conferma di quanto la cultura e la critica
vociane debbano alla grande tradizione simbolista e postsimbolista. Dopo la celebre e audace
definizione di un “Petrarca ermetico” - che sarebbe poi stata sviluppata, pur se con specifico
riferimento al problema variantisico, da Contini in apertura del Saggio d’un commento alle
correzioni del Petrarca volgare - viene esplicitamente richiamato un passo di Mallarmé, peraltro
senza una precisa indicazione del testo a cui il critico fa riferimento. De Robertis allude ad uno
scritto non tra i più noti, cioè Solennité (35), in Crayonné au théâtre, dedicato in massima parte a
Banville. Il concetto che viene utilizzato dal critico italiano in riferimento al ruolo storico della
poesia petrarchesca è quello di “recommencement”, inteso da De Robertis come “storia della
poesia”, “ricerca ultima”, “ritrovamento delle misure perfette di quell’imperfetto che è l’uomo”:
un sistema, in altre parole, di temi e motivi e caratteri che si inseguono e si richiamano nei secoli,
con una sorta di assidua variazione nella ripetizione; e strettamente legata a questa è anche l’altra
nozione mallarmeana cui De Robertis si rifà, sempre presente in Solennité, cioè quella di una
“métrique absolue” che regola e scandisce i tempi di questo “recommencement” non meno che le
sillabe dei versi e i “numeri” della prosa “filigranata di poesia”, e che, dunque, dalla concretezza
e dall’immanenza del testo si riflette nella trascendenza del disegno metastorico. Ma, quel che ora
più conta, nel seguito del testo mallarmeano veniva ribadito, una volta di più, il ruolo
fondamentale rivestito dalla soggettività del lettore: la “métrique absolue” “réclame de
quelqu’un, le poëte dissimulé ou chaque lecteur, la voix modifiée suivant une qualité de douceur
ou d’éclat, pour chanter”. Quello che nel Mystère sarà definito come “air ou chant sous le texte”,
e che si cela e fluisce nelle più riposte profondità di una secolare tradizione - un po’ come il
“tema” di cui parlava, in un’annotazione inedita, il D’Annunzio del Vittoriale, che passa e si
snoda “nell’infinita sinfonia dei secoli e dei popoli” (36) -, deve essere dunque portata alla luce
da un lettore partecipe e complice, il cui punto di vista e il cui ruolo, nei confronti dell’opera in
questione, non siano troppo dissimili da quelli dello stesso autore, caricandosi di una marcata
valenza creativa.
Come si vede, tutto questo denso e complesso sfondo teorico trova espressione e consistenza
attraverso un linguaggio alato, immaginoso, potentemente metaforico, che crea, anche sul piano
stilistico, una stretta prossimità e un profondo legame di simbiosi e di reciproca integrazione tra
la scrittura poetica e quella critico-teorica. Proprio in ciò risiede, forse, l’eredità più feconda che
il “saper leggere” ha lasciato dietro di sé; e in ciò è possibile ravvisare, nel contempo, anche il più
chiaro influsso che sulla sua genesi fu esercitato dalle poetiche critiche del simbolismo e della
décadence.
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1) G. P. LUCINI, Ragion poetica e programma del verso libero, Edizioni di “Poesia”, Milano 1908, p.
192.
2) Cfr. H. BLUMENBERG, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino,
Bologna 1984 (soprattutto, per la persistenza di questa metafora nell’imagery mallarmeana e simbolista, le
pp. 314 e sgg., in cui non è, peraltro, preso in esame il passo ora in questione). Interessante, sempre
nell’àmbito del simbolismo italiano, e pur se ad un livello di più immediata decifrabilità e di minor
tensione concettuale e teorica, il riscontro offerto dal “libro del mistero” - senza posa perlustrato da un
uomo “invisibile (...) come il pensiero” - che compare in Pascoli (Primi poemetti, Il libro). E si può notare
che anche De Sanctis, avendo alle spalle l’ermeneutica romantica tedesca, ricorreva a questa metafora per
asserire la natura creativa dello sforzo esegetico: “Il libro del poeta è l’universo; il libro del critico è la
poesia: è un lavoro sopra un altro lavoro” (F. DE SANCTIS, Saggi critici, Laterza, Bari 1952, p. 70).
3) A. BERTONI, Dai simbolisti al novecento, Il Mulino, Bologna 1995, p. 180.
4) Il testo si può leggere in S. MALLARMÉ, Divagations, Charpentier, Paris 1953, pp. 367-372.
5) Data la mancanza, a tutt’oggi, di uno studio d’insieme su questo specifico e ben determinato aspetto,
non posso che rinviare, per il panorama qui appena scorciato, alla mia tesi di laurea, Artifex additus
artifici. Creazione poetica e riflessione critica tra simbolismo ed estetismo, Università di Bologna, A. a.
1997/’98, rel. prof. F. Curi, nonché al mio studio, di prossima pubblicazione sulla rivista Poetiche, Da Poe
a Wilde. Intorno ad alcune fonti del concetto di critica tra il ‘Convito’ e il primo ‘Marzocco’.
6) Fondamentale, per questi concetti, G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, Mucchi, Modena 1980;
utili chiose in La critica salvata dalla poesia - intervista con Geoffrey Hartman, a cura di R. Bonadei, in
Poesia, V (1992), n. 49, pp. 19-23.
7) G. P. LUCINI, Ragion poetica, cit., pp. 17 sgg.
8) ibidem, p. 203; per l’interessante riscontro contiano, cfr. A. CONTI, Giorgione. Studio, Alinari, Firenze
1894, p. 78. A possibili raffronti tra Lucini e Conti accenna anche A. BERTONI, Dai simbolisti al
novecento, cit., pp. 14 e 179 n. 9) Epistolario di Renato Serra, Le Monnier, Firenze 1953, pp. 520-523.
9bis) Le due lettere di Linati sono conservate alla Biblioteca Malatestiana (Fondo Grilli, b. 22).
10) E. RAIMONDI, Una lettera ariostesca dell’ultimo Serra, in AA. VV., Scritti in onore di Renato Serra,
Le Monnier, Firenze 1974, p. 281.
11) Per la concezione, in Boine, della critica come processo attraverso cui “l’opera d’arte (...) ti esprime, ti
rivela (...) a te stesso”, cfr. lo scritto Un ignoto, in G. BOINE, L’esperienza religiosa e altri scritti di
filosofia e di letteratura, a cura di G. Benvenuti e F. Curi, Pendragon, Bologna 1997, soprattutto pp. 142 e
144.
12) G. VIAZZI, Studi e documenti per il Lucini, Guida, Napoli 1972, p. 103.
13) F. CURI, Serra e la cultura vociana, in AA. VV., Scritti in onore..., cit., p. 113.
14) G. P. LUCINI, Ragion poetica, cit., p. 6.
15) Citerò da R. SERRA, Scritti, vol. I, Le Monnier, Firenze 1938, pp. 203-236.
16) La ballata cui si riferisce la lettura serriana si trova alle pp. 503-505 del corposo volume (P. FORT,
Choix de ballades françaises, Figuière, Paris 1913) che il critico aveva iniziato a sfogliare, tra l’ansia e
l’attesa, “un pezzo qui, un pezzo là, avanti, indietro, senza regola”.
17) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 201. Per il riferimento dannunziano e il relativo snodo intertestuale,
cfr. G. D’ANNUNZIO, Alcione, a c. di P. Gibellini, note di I. Caliaro, Einaudi, Torino 1995, p. 55.
18) Cfr. E. RAIMONDI, Il lettore di provincia, Sansoni, Firenze 1964, pp. 101-2.
18bis) R. ROLLAND, Jean-Christophe, tr. di G. Carullo, pref. di C. Bo, Editori Riuniti, Roma 1966, pp.
835, 824, 827.
19) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 222.
20) Gli abbozzi sono editi in appendice al fondamentale studio di E. RAIMONDI, Il lettore di provincia,
cit., pp. 121-149.
21) Cfr. ad es. R. SERRA, Epistolario, cit., pp. 516, 526, 557.
22) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., pp. 218 e 210.
23) Cfr. S. AGOSTI, Il Fauno di Mallarmé, Feltrinelli, Milano 1991.
24) Cfr. G. POULET, Le metamorfosi del cerchio, Rizzoli, Milano 1971 (per Mallarmé, soprattutto pp.
408 e sgg.).
25) Il passo di Lucini è in ID., Ragion poetica, cit., p. 273-274; quello di Ghil in ID., Traité du Verbe,
Nizet, Paris 1978, pp. 122-123.
25bis) Cfr. F. LANZA, D’Annunzio e Serra negli incunaboli, Istituto di Propaganda Libraria, Milano s. a.
(ma 1973), p. 49; per i riferimenti in Ghil, v. Traité du verbe, cit., pp. 111 e sgg.
26) Cfr. R. GHIL, ibidem, pp. 80 sgg.
27) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., pp. 10.
28) ibidem, p. 39.
29) G. P. LUCINI, Ragion poetica, cit., p. 203, corsivi miei.
30) R. SERRA, Epistolario, cit., p. 228.
31) G. DE ROBERTIS, Saper leggere, in ID., Scritti vociani, Le Monnier, Firenze 1967, pp. 143-156.
32) ibidem, pp. 65-67 e 74.
33) R. GHIL, Traité du Verbe, cit., p. 130.
34) G. DE ROBERTIS, Studi, Le Monnier, Firenze 1944, pp. 32-47.
35) S. MALLARMÉ, Oeuvres complètes, cit., pp. 330-336.
36) A. ANDREOLI, D’Annunzio archivista. Le filologie di uno scrittore, Olschki, Firenze 1996, p. 255.
37) Il manoscritto del breve saggio di traduzione, a tutt’oggi inedito, si trova alla Biblioteca Malatestiana
di Cesena, Fondo Grilli (carte Grilli-Serra), b. 21 n. 18.
38) Cfr., al riguardo (come pure per ciò che concerne la presenza di unità melodiche e movenze versali
all’interno della prosa serriana), G. GRECO, Adesione di Serra al mondo della poesia simbolista francese,
in “Studi romagnoli”, IX (1958), pp. 289-296.
39) A. PRETE, L’ospitalità della lingua, Manni, Lecce 1996, p. 8.
40) Cfr. anche, per questi concetti, M. BRUSCIA, Alle origini del “saper leggere”, Boni, Bologna 1978
(libro che, peraltro, perlopiù trascura i referenti culturali di area simbolista).
41) Cit. in A. ANDREOLI, D’Annunzio archivista, cit., p. 183.
42) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 14.
43) ID., Scritti, vol. II, p. 473-4.
44) Cit. in L. MARTINELLI, premessa a G. P. LUCINI, Scritti critici, De Donato, Bari 1971, pp. XVII-
XVIII.
45) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 474.
46) Cfr. F. CURI, Serra e la cultura vociana, cit., p. 130.