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Alessio Stefanelli

Gli Attimi
di … Vignanera

______________________________________________________
<produzione propria>
Fotografia ed elaborazione grafica

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Chris Montagna (Floods Graphics)

Di tutto ciò nulla rimane


se non scolpito nei ricordi…

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D

a secoli ormai aveva deciso di rimanere lì.


In quella nicchia di mondo, poggiato sul dorso della
sua secolare presenza, aveva assistito a storie di
longevi e folletti, di giovani andati via e di guerrieri
scomparsi, di furbizie e cattiverie, di conquiste e
oppressioni, di onore e amore.
Questa è la storia del paese di Vignanera che
nasce nei feudi delle Terre di Pietragialla, a confine
con il Regno del Mare Antico.
Le storie di Vignanera sono storie di uomini e
donne semplici, vissute a volte per centinaia di anni; a
cavallo tra realtà e fantasia, nel susseguirsi cadenzato
delle stagioni e dei secoli.

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Lo diceva sempre nonna Adelina nella sua


antica lingua vignanerina: lu cane secuta sempre lu
strazzatu.
Di fatti ogni volta che Mesciu Ginu passava
nelle ore calde d’agosto dava proprio
quell’impressione: si trascinava sulle sue ginocchia,
pedalando la sua bicicletta che forse aveva vissuto
l’intero corso delle due guerre mondiali.
Ricordo bene: era verso mezzogiorno e
nell’aria afosa, affumicata già dalle prime essenze di
sugo e basilico, appariva lui da lontano, come un
ciclista sfinito che avesse percorso mille e più
chilometri, si dondolava da sinistra a destra, e
pesantemente spingeva sulle ginocchia consumando
quel poco di forza che gli era rimasta, ma passando
non diceva niente: solo un segno impercettibile con la
testa che rimaneva fissa guardando avanti, e via: caru

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cumpare…e dopo che era già via…u Signore cu te
iuta…
Io ero molto piccolo e allora non notavo altro
che la ritualità del momento, e perciò chiesi a nonna
Adelina come mai nei confronti di quella persona
venivano rivolte quotidianamente parole di
benedizione: lei mi disse, che Mesciu Ginu non aveva
mai avuto pace nella sua vita, che aveva perduto la
moglie con il figlio in grembo, e i due fratelli in
guerra, e che da allora si era innamorato di un’altra
donna, di fuori paese. La stessa però era mal vista
dalla sua famiglia e da quella della sua buonanima
moglie che indispettita lo colpì dall’alto con un
malanno eterno ed inguaribile, sconosciuto anche alla
più moderna medicina.
Ma lui questo male lo aveva da oltre
trent’anni, come mai non era ancora morto? Come
mai non lo si sentiva lamentare?… solo quel breve
gesto con la testa in segno di saluto, come un
condannato a morte che conosca già il suo destino,
nient’altro è rimasto nella mia mente.

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Anni dopo capii che Mesciu Ginu non era
malato, ma soffriva perchè era un escluso, uno di
quelle persone a cui Vignanera non diede la possibilità
di riscattarsi, che superficialmente etichettò come
persona da evitare, maschera predefinita e bianca,
senza nessun colore né espressione, un condannato a
morte…nessuna redenzione a Mesciu Ginu, una
persona già morta nonostante avesse solo cinquantotto
anni.
I vignanerini non gli diedero scampo, pur non
volendo lasciarono che il tempo facesse la sua parte
dimenticandosi di un uomo che pure viveva accanto a
loro, comprava il pane nella stessa panetteria e le
sigarette nello stesso tabaccaio.
Lo fecero annegare nel mare delle
dicerìe…acqua che riempie i giorni quieti di questo
villaggio di pianura.
Oggi sulla sua lapide bianca come la maschera
che rappresentava, c’è scritto semplicemente: Refolo
Luigi nato e morto qui.

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Intermezzo

Uomo non lasciarti mai dominare


dall’indifferenza, ricordati sempre che non esiste
bestia più feroce per chi ti sta accanto…non lasciare
che un tuo vicino muoia solo nell’alito ventoso della
tranquillità di Vignanera: sorridi sempre a
tutti…potresti essere positivamente frainteso…non

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lasciare che gli anni ti avvolgano senza averli battuti
a macchina, e scolpiti sul marmo con le tue stesse
mani.
L’indifferenza degli altri è indifferenza di se
stessi…un cancro che cresce senza fermarsi
mai…cerca di scoprire il celeste del cielo e il fascino
del volo, abitante di Vignanera, la gioia del sole e la
tranquillità della campagna ti siano da armi
invincibili contro l’indifferenza del mondo attuale in
cui ogni giorno combatti per la tua sopravvivenza.

Le immagini rifluiscono nella mia mente come


le vecchie videocassette che si riavvolgono al
contrario, di scena in scena, di colore in colore.
In quelle estati torbide, d’improvviso, mentre
oramai da giorni l’afa ribolliva nell’aria ondeggiante
come il fumo di una fòcara, comparivano personaggi
strani: tutti uguali, con lunghi catenacci d’oro e
camicie sbottonate, con le stesse automobili e
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intercalari continui: bon..bon..merd..merd.. erano gli
svizzeri.
O meglio i vignanerini andati via da tanti anni.
Avevano costruito lì in Svizzera una piccola
Vignanera, diceva mia nonna. Seduto sul marciapiede,
tra lei e la commare ‘Mmaculata che mettevano
insieme le foglie secche di tabacco cucendole tra loro,
ascoltavo i discorsi eroici di Antonio, fijiu de u Mariu
Caddhrina, emigrato a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70
per fare il muratore a Losanna insieme a due altri suoi
parenti.
Mi ricordo che Antonio arrivava puntualmente
ogni anno, prima della festa patronale di Sant’Oronzo
e ci ossessionava con i suoi discorsi sulla pulizia
svizzera e sulla puntualità che qui non c’era, sul
lavoro che in Svizzera ti veniva a cercare e un sacco
di altre cose che a me annoiavano a morte e che ogni
anno come un rito accademico si ripetevano
inesorabilmente.
Ricordo bene la cosa che mi infastidiva di più:
la coda di volpe, o di un altro dannato animale peloso,

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che teneva sul cruscotto della sua Fiat 128 verde,
targata VD 14592. Mi portava al chioschetto del paese
per comprarmi “la coppa della nonna”,che a me
faceva schifo, ma non ebbi mai il coraggio di
dirglielo. Salivo in macchina e vedevo quell’ammasso
di peli a forma di coda, e all’epoca mi infastidiva così
tanto che per me era oramai diventato un’etichetta
negativa di una categoria umana: quando vedevi uno
con la coda in macchina, significava che era come
Antonio. Lui diceva che io non capivo della moda,
perché era lui a portarla. All’inizio pensavo che la
Svizzera fosse come un grande laboratorio, una
grande industria dove si creava tutto ciò che arrivava a
Vignanera: almeno così me la spiegava lui. Da lì capii
però che la moda svizzera faceva veramente vomitare,
soprattutto perché produceva le code di volpe e visto
che ragionavo con la mia mente da bambino, misi
insieme le idee e deliberai che gli svizzeri mi erano
veramente antipatici.
L’estate poi erano i miei avversari con le
ragazze, e inoltre le stesse preferivano sempre gli

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svizzeri perché offrivano loro ogni sorta di dono, cosa
che io non potevo fare: li odiavo con tutto me stesso.
Figli di nessuno, chi erano i loro genitori? Che li
tenessero nelle loro macchine con le code di volpe
dentro!!!
Gli emigranti: tornavano ogni anno e appena
mettevano piede a Vignanera, scendevano dalla
macchina e chiudendo gli occhi si stiracchiavano
lungamente, poggiandosi sull’aria tranquilla del loro
paese, che ogni giorno tornava nei loro occhi; lo
vedevano dappertutto e ne progettavano un ritorno
definitivo. Odiavano che qualcuno gli chiedesse
“quanto tempo ti fermi”, perché loro non si
fermavano a Vignanera, né se ne andavano mai:
questo era quel luogo in cui mai avrebbero voluto
essere visti come stranieri, in cui tutto doveva
rimanere come era stato prima che partissero.
Vignanera doveva aspettarli intatto, incontaminato,
nulla sarebbe dovuto cambiare in attesa del loro
ritorno. Passavano decenni, e a volte mezzo secolo,
ma loro ogni anno nel periodo della festa patronale

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erano lì, felici e spensierati a mangiare noccioline e a
bere vino sui tavolini in piazza o sul marciapiede delle
loro case. Sognavano quel momento precisamente dal
giorno in cui nell’anno precedente erano andati via.
Non ti muovere dice un libro della Mazzantini:
rimani là, come uno scatto di una vecchia Canon,
click!
Un timbro nella mente, un segno di riconoscimento e
di unione: tutti riuscirono a rispettare in pieno quella
promessa di ritorno definitivo, anche se in modo
diverso.
Di fatti alcuni le noccioline in piazza non le
mangiarono più, ma il loro corpo era lì, insomma, a
neanche un chilometro di distanza, e partecipavano
anche loro all’amato ritrovo estivo… il loro ritorno
però era di un definitivo diverso…
Oggi penso con molto rispetto a loro, credo
che consòli molto nella vita scoprire storie di sacrifici
e lunghi silenzi, di lacrime versate e mai asciugate, di
sapori amari tenuti per decenni nel silenzio dei loro
cuori, di sguardi invisibili dietro i finestrini delle loro

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macchine in partenza. Di fatti le loro sofferenze non
le vedeva nessuno, le portavano via con loro e non
potevano condividerle con i paesani, erano soli. Forse
era questa la vera tragedia, la solitudine estrema che li
accompagnava fino al giorno del rientro definitivo.
La storia di questi miei compaesani è la storia
di tutti noi, di tutti coloro che camminano alla ricerca
perpetua di una fonte d’acqua dove abbeverarsi,
affrontando le mille strade che la vita inesorabilmente
ci propone e a volte impone.

Intermezzo I

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Ogni volta che qualcuno partiva, si piegava
sulle ginocchia e fissando la terra ne raccoglieva un
po’, mettendola in tasca.
Era la benedizione di Vignanera: quella terra di
colore rosso cupo, che aveva costretto a fuggire via, a
scappare…
Le luci del mattino, le ombre nitide, squadrate,
quasi tagliate con lama affilata, i colori confusi dal
profumo della mattinata di campagna…un misto di
cicale e di basilico, di rucola e vino…di olio e pane,
che bagna la terra e ne diviene sangue.
A colpi di zappa, a colpi d’amore, a colpi di
destino…
Tragico e magico quel destino…ti porta
lontano, ma ti avvicina sempre di più: come se
partissi da mille chilometri lontano e nell’orizzonte ci
fosse già la tua terra…ad aspettarti…a cullarti…a
tranquillizzarti… e ogni giorno di mancanza, di ora
in ora quello stesso diventasse sempre più nitido, fino
a stendersi in quella pianura pungente d’erba secca
… Vignanera, dopo anni compare…ma spesso non ti

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lascia il tempo di godertela che devi nuovamente
andar via. E’ la rappresentazione di tutto ciò che tu
sei anche se non lo sai…è la tua famiglia…i tuoi
affetti…i tuoi ricordi e il passato, quello che spesso
non conosci perché remoto, fatto di lacrime, di fatica
e di gioie semplici, di forza di carattere e di
ignoranza radicata, di purezza di sentimenti e
ospitalità innata, di rimorsi e pentimenti, di episodi
mai esternati diventati malattia rituale.
Un passato che ti ha geneticamente plasmato e
caratterizzato: con una missione ben precisa…dare
gloria e successo a coloro i quali a Vignanera non ne
hanno mai avuta, a coloro che non tornanorono più, a
coloro che soffrirono le pene tribolanti della malattia,
a coloro che nutrirono ansie di gioia ma che per un
fato avverso non l’ebbero mai…vai e torna vincitore.
Sia questa la tua missione, guerriero, la tua
opera, il tuo fine ultimo…raccoglierai nel tuo pugno
la terra arida accesa di rosso, e bagnandola con il
tuo sangue ne renderai gloria per tutto ciò che ti resta
da scoprire nel mondo.

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Non dimenticare mai uomo della storia e della
memoria, mantieniti sempre lucido dovunque tu
vada…la memoria ti guiderà sempre…

A Vignanera vivevano già prima degli uomini


famiglie di folletti verdi.
Erano arrivati qui già prima delle dominazioni di
Akmed Shallà, passando attraverso il Regno del Mare
Antico avevano trovato dimora in questo posto.

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Il loro popolo vagando in lungo e largo e
perseguitato dalla mala sorte, aveva dato vita a
Vignanera, costruita con le loro mani e generata con
un alito di soffio benigno, come lo spirito che li
animava.
Nonna Adelina spesso mi raccontava di queste
creature, dicendomi che Vignanera non era un paese
qualunque nelle Terre di Pietragialla, perché era per
metà umano e per l’altra magico.
Mi raccontava spesso che quando lei era piccola, e
raccoglieva il tabacco, tra gli alti fusti dello stesso a
volte si sentiva un ridere acuto di creature strane, e le
dicerìe portavano a credere che questi erano i folletti
che si divertivano spensierati pensando che la loro vita
non era mortale come quella degli abitanti del paese.
Ma nonostante questo i vignanerini se li
tenevano bene i folletti, perché, diceva nonna, erano
gli unici a comunicare con i defunti. Di fatti erano i
traghettatori delle anime verso il paradiso, una forma
di carontini del Bene.

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Essi praticamente essendo creature con natura
semidivina, mantenevano i rapporti con l’aldilà, pur
abitando a Vignanera.
Mia nonna mi raccontava che quando era piccola
scriveva molte lettere al suo papà morto dandole nelle
mani dei folletti verdi.
L’unico problema era che questi folletti,
diceva nonna, “si offendevano” con gli abitanti di
Vignanera ogni qualvolta questi ultimi compivano
otto anni: cioè, una volta raggiunta questa età, nessuno
riusciva più a vederli, e chi voleva comunicare con
loro, per affidargli messaggi da portare all’oltretomba
doveva verdersela con le bande organizzate di
bambini che per portare i messaggi dei grandi ai
folletti chiedevano un tributo salato, proprio come una
perfetta macchina malavitosa, una forma di pizzo.
Quanta ignoranza consapevole…eppure si viveva
bene in questa chiusura, gioie e dolori quotidiani e
semplici: vivendo senza grandi progetti i vignanerini
campavano decenni e decenni e morivano senza

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preavviso, da un giorno all’altro…ma a suo modo era
un ottimo vivere.

Intermezzo II

E poi arrivava la primavera.


Splendida e profumata, un’aria salubre e curativa
prosciugava le lacrime dell’inverno bagnate
dell’umidità puzzolente che imperversava ogni
giorno.
La primavera era il tempo del riscatto della
vegetazione, degli animaletti domestici che finalmente
potevano appisolarsi sui marciapiedi e per strada, il
riscatto delle lucertole che imperiose dominavano i
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muretti a secco costruiti dalle vecchie generazioni per
delimitare le proprietà e ora diventati dimora dei
piccoli sauri.
Non posso non ricordare le corse nei campi
tra le margherite bianche e i papaveri rossi, che
chiudendo gli occhi rivedo nitidamente insieme al
profumo misto di acidità e dolcezza che la primavera
esalava.
Spesso la primavera creava nostalgie, e ansie
di rimorsi, si risvegliavano le ferite delle tarantole e
come dolori di fresca fattura riprendevano a pulsare
nell’animo delle donne mute… anzi ammutolite da
secoli di barbare subordinazioni, di cieca inferiorità
al dominio maschile…dal pater familias…il raggio
del Signore, colui che decideva e deliberava senza
maggioranze assolute e relative.
Codesta stagione era come una rinascita della donna
ed una voglia di risorgimento di Vignanera intero,
paesello senza animo combattente.
Per secoli trasportava sulle spalle e poggiava nella
sua nicchia di mondo le mille dicerìe e norme usuali

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che provenivano da secoli di lontani Principi, Re e
condottieri.
Sconfitta e poi sconfitta e nuovamente
sconfitta da chiunque da qui era passato, celava nella
sua falsa ospitalità la sua non voglia di combattere,
di cambiare e rivoluzionare il suo percorso. Tutto era
sufficiente per campare…ma niente era sufficiente per
vivere.
Vivere qui significava durare più a lungo
possibile, quella si che era una vittoria: poveri
vignanerini quanto costa vivere nelle Terre di
Pietragialla al confine estremo del mondo civile, tra
fantasia e realtà.

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4

Vignanera non era un luogo vero, insomma


non era realtà, concretezza, ma solo appartenenza.
Chi viveva lì sapeva che non aveva possibilità di
scappare: almeno non poteva farlo dentro di sé, nella
sua memoria, nei suoi ricordi. Permaneva pur sempre
un pezzetto di quella terra purpurea di sangue e vita.
Molti avevano tentato di disconoscerla, come
tanti Giuda rinnegavano in ogni parte del globo e ad
ogni uomo che incontravano.
Gli iscariota vivevano dappertutto: Roma, Milano,
Parigi, Terre del Nord e dell’Ovest.
Ma vivere era una cosa, appartenere un’altra.

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Il tessuto dell’anima ci viene donato alla nascita, un
protocollo di riconoscimento e di crescita…insomma,
buon Dio, i cromosomi si erano sviluppati là, e
combinati tra loro per secoli ed anni, mesi e settimane,
fino ai giorni nostri. Dentro di noi viveva la storia di
un paesello, con i suoi eroi, le sue storie, gli uomini e
le donne, le guerre e le carestie, il lavoro e l’amore.
Tutto questo pullulava di vita anche in Alberto che ora
stava a Roma, in Donato che viveva a Milano, in
Giovanni a Parigi, in Marta a New York, tutti
accomunati da una stirpe delle Terre di Pietragialla.
Quanto sarebbe bello se tutti capissero
l’importanza della storia e dell’appartenenza.
Non si può abbandonare o dimenticare Vignanera,
scorre nel nostro sangue, si moltiplica nelle cellule e si
prepara a rivivere ogni volta dentro di noi.
Nonna Adelina diceva “a ddhru nasci te tocca”, che
sembrerebbe un motto pessimista e malaugurante, ma
a me piace interpretarlo come dicevo in precedenza: il
luogo di origine è appartenenza signori miei!

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È la forza di cambiare, e non quella di
rimanere sempre uguale, ma modificarsi, tramutarsi.
E’ lo stimolo a non vanificare secoli di stenti e fame,
di dolori e incapacità, di impossibilità e povertà.
Miei cari, dalla storia si impara nell’identico modo in
cui lo si fa dai propri genitori e dai propri nonni.
Il ricordo non è malinconia come molte menti
colgono, ma è la bellezza di ciò che si è vissuto anche
indirettamente attraverso i nostri geni: ricorda
Alberto, ricorda Donato, ricordate Giovanni e Marta,
ricordate tutti voi che viveste tra realtà e fantasia il
paese delle meraviglie. Che i ricordi siano un
momento gioioso e vi donino nuova linfa, e che vi
perdonino delle mille volte in cui l’avete rinnegato, in
cui l’avete deriso o bestemmiato. Noi apparteniamo.
Sapete cosa è molto importante? L’assenza e
la sua sensazione di presenza.
Ecco tutto ciò è importante.
E’ importante però anche andare via: perché non si
misura l’appartenenza senza l’assenza. Scusate il

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gioco di parole che mi permetto indegnamente di fare!

Ricordo bene allontanandosi quello che


succede. I denti si stringono forte e i muscoli
diventano deboli, come se fosse un viaggio
nell’oltretomba, senza ritorno. E’ questo di cui
abbiamo paura, si, proprio questo: il non ritorno. NO
RETURN!!
E’ come se ci si preparasse ad un momento che
somiglia alla morte, cioè l’assenza perpetua, ma non
preoccupatevi non potrebbe mai essere per fortuna.
Chi è assente ci dà sempre la sensazione di esserci,
non è forse così?! Se immaginiamo qualcosa o
qualcuno e pensiamo o ricordiamo fortemente, alla
fine riusciamo a creare e a materializzare: eccola la
sensazione di presenza dell’assenza.
A ddhru nasci te tocca.

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Intermezzo III

E poi arrivava lei, quel dolce ricordo di una


gloriosa adolescenza. Riflesso di luce pura, idea
d’amore, almeno nel suo immaginario. Tuttora non
potrebbe spiegare quelle sensazioni, ogni cosa
collimava e veniva inserita nel pentagramma di quello
che lei plasmava nel mondo a cui apparteneva.

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Ma quanto dura quell’amore che tale non è:
forse il tempo di contemplarlo e niente più.
Svanisce tutto, appena si aprono gli occhi…
Il tempo dell’illusione è succo di limone, cacao in
polvere, frutto ancora acerbo…il palato amaro e il
tempo di capire svaniscono così come quel momento
eterno.
Il giorno dopo ti risvegli con delle ferite di cui non
conosci origine e provenienza…

Vanessa conosceva bene se stessa.


Si conosceva al tal punto che avrebbe saputo riferire
con cristallina precisione l’attimo e il momento in cui
l’avrebbe fatto.
L’occasione era il suo problema: essa compariva
improvvisamente e colpiva la sua mente come spina
di rosa.

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Era quell’attimo che pur non fuggiva velocemente, ma
ne torturava la sua anima fino al punto in cui lei
avrebbe ceduto.
Si andava dicendo che Vanessa era una donna sporca,
che non si lavava mai e i bambini sapevano che
portava anche i pidocchi.
Povera fimmina quante umiliazioni doveva
subire, e solo perché amava amare.
Fu non molti anni fa che io ne conobbi le forme: era
bellissima e nessuno era in grado di donarsi alla sua
maniera, l’unicità con cui ti coinvolgeva non aveva
pari a Vignanera: la donna che amava amare era anche
la donna che non si lavava e aveva i pidocchi?! Fino a
quel momento avevo sempre dubitato di quello che si
sapeva sul suo conto, e di fatti tutto il contrario si
confermò quel giorno.
Ero disteso sul prato di margherite bianche che
si estendeva lungo la mia anima e a testa in su
pensavo a quel che dovevo fare la sera. Nonostante le
mie orecchie toccavano mille camomille riuscì ad
ascoltare un fruscìo non lontano da me e solo un

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attimo dopo e con un leggero ritardo una essenza
profumata e colorata di donna interessata.
Vanessa era dietro di me e mi osservava, anzi
penetrava nel pensiero. Aveva questa caratteristica lei,
ti faceva capire subito quello che veniva a fare.
La bellezza elegante del suo corpo slanciato era una
sola cosa con il suo animo ammaliante: le sue fattezze
erano il normale prolungamento dell’amore che aveva
dentro.
Vanessa però difettava in una cosa: non
combatteva mai contro la tentazione, non cercava di
sconfiggerla, ma superava sempre quel sottile filo di
nylon che divideva la seduzione dalla sua naturale
conseguenza. Non capii mai se lo faceva
appositamente o comunque provava ad allontanarne
da sé il pensiero.
La sua carta nera era sempre l’occasione che come
fato avverso si presentava costantemente.
Quel giorno tra le margherite mi si accostò
con delicatezza guardandomi con occhi bassi ma
grintosi e poggiò leggermente le sue dita sulle mie

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labbra e come aria piacevole di primavera mi sussurrò
che lei deteneva il potere assoluto sugli uomini, che il
dono era di natura iniqua, quasi diabolica.
Neanche i folletti verdi ne avrebbero saputo la
provenienza, ma sicuramente era fortemente
paralizzante.
In quel momento era disumano distrarti dalla
seduzione in atto. Il problema era che nulla sembrava
forzato, non c’era ritualità in quello che faceva ma
amore, amore e amore. Per questo il coinvolgimento
era totale, anche l’anima rimaneva allibita a quello
che ogni uomo subiva nel momento in cui si
scavalcava il sottile filo di nylon.
E lei era maledettamente brava a farlo scomparire, a
nascondertelo e colpendoti ripetutamente simulava
forme sinuose e circolari trascinandoti nell’altro
spazio dell’immaginazione reale.
Vanessa non si lavava perché le donne di Vignanera
ne invidiavano il dono. Sapevano che nessuna poteva
sconfiggere quel potere che si illuminava di luce
propria, Vanessa aveva i pidocchi perché un po’

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incarnava quella verità che ogni donna vorrebbe
possedere.
L’eleganza delle forme mi sorprendeva, perché ad
esse abbinava ogni cosa che rappresentasse la
femminilità estrema.
Ti guardava negli occhi e muovendosi lentamente
sorrideva e spingendo con le punta delle dita
strappava quel poco di paura che ti rimaneva.
Nel prato l’elegante calore dell’umana femminilità mi
permise di non toccarla ma di percepirla, di non
palparla ma solo di sfiorarla, di non osservarla ma
unicamente di intravederla.
Vanessa amava gli uomini perché li dominava,
questo era chiaro, ma il suo piacere non era sadico ed
egoista, ma altruista e sincero: “guarda uomo cosa
significa amare: l’eterno contrasto tra ciò che vuoi e
che non puoi, tra quello che desideri ardentemente ed
è fonte di pensiero continuo e quello che invece devi
mostrare falsamente di volere. Amare è un po’ come
non amare…la regola è la non regola…la gioia è la
non gioia…la noia a volte è l’occasione. Amerai se

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saprai isolare coscienza e ragione…di cuore in cuore
farò uscire la verità e tutto sarà chiaro…”.
Il potere però la consumò lentamente e scomparve
improvvisamente da Vignanera, tra lo sgomento e il
pianto degli uomini distrutti.
La ritrovarono un po’ di mesi più in là nel
Mare della Terra di Mezzo, sul collo una catenina con
un ciondolo inciso: ero l’occasione e niente più.

Intermezzo IV

Il giorno in cui decise (o capì) che stava per


morire era uno di quelle noiose giornate che ognuno

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di noi attraversa nell’attesa del passaggio a nuova
tipologia di vita.
Quando si cambia, la cosa brutta è accorgersi del
cambiamento, del trapasso a nuova categoria, a
nuova vita anche se vecchia come l’uomo.
Era questo che non accettava: perchè doveva
cambiare? chi lo decideva? chi tramava alle sue
spalle togliendogli tutto ciò che aveva ricevuto e dato
negli anni.
Si perdeva il carico di concretezza per un pugno di
ricordi sfuggenti.
Era questo che faceva male: via tutto, si svolta
strada…click…una foto e via.
Niente più…solo ricordi.
Il problema che ognuno conosce ma nasconde, e che
invece lui non nascondeva era il “ritorno del
ricordo”.
Si, signori miei, ritornava, a velocità altissima
e si ficcava nella parte più remota del cuore,
manifestandosi ma travestendosi di altre forme con

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abiti a volte carnevaleschi, occultando le ragioni
profonde delle scelte quotidiane.
Perché ciò che è passato in realtà è il futuro…ma
quando si presenta dice: “ciao, io sono il tuo futuro,
il nuovo, ciò che mai guarderà indietro, la tua
speranza di fare meglio di prima, il tuo sogno…”.
Non è VERO: è il ritorno di tutto quello che
non è stato, di tutto quello che è stato a metà, di tutto
quello che non è mai potuto essere, di tutto quello che
è stato in un modo ma non avrebbe dovuto, di tutti i
rimorsi e i rimpianti fusi insieme :“auguri per il tuo
futuro, caro!”.
Sarebbe lo stesso dire :”auguri caro per il tuo ritorno
al passato, accoglilo bene, potrebbe fare molto
male!”.
“Aspetta, caro, ricordati anche di non fingere non
fosse altro perché sarebbe peggio!”.
Oh grazie di cuore ma preferisco il presente; è questo
il mio futuro e il mio passato, preferisco scegliere
oggi senza il vuoto di ieri e il buio di domani…la luce
la trovo OGGI! Grazie comunque signori!

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Andatevene tranquillamente a fare in culo con i vostri
sviolinatissimi riti di occasione!!
La vita è fatta di attimi, di attimi infiniti, di
attimi eternamente presenti, del passato che ritorna e
sconquassa i tuoi progetti: forse pensavi di sfuggire a
questo?
Sei come gli altri…non cambierai mai se non cominci
a CREDERE in quello che percepisci.
Fosse per te faresti conti tutto il giorno:
2+3+6-3-6:8+6_________Buongiorno caro
passeggero lei è indirizzato verso la morte ma non lo
sa.stop___________Buongiorno di nuovo si ricordi di
“carpere il diem” perché fugge via
sempre.stop___________Buongiorno il solito
sprecone di ore, giorni e settimane.stop.
Ogni giorno è il passato che ti chiama a
cambiare, imparando da lui, concretizzandolo nel
presente e scommettendo nel futuro!!
Svegliati_____________________WAKE UP!!!

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6

Nonna Adelina mi raccontava spesso che nel


feudo di Vignanera quando lei era piccola di notte si
sentivano voci di persone morte molti secoli prima.
Diceva che anche lei da piccola, quando lavorava per
la raccolta delle olive, aveva parlato con uomini
vissuti nel passato che le chiedevano insistentemente
di essere liberati.

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In particolare mi rimase impresso quando un
giorno, seduti vicino al vecchio camino nell’intento di
riscaldarci dal freddo umido, parlava di Solomo.
In pratica quest’uomo era uno di quelle voci che
ascoltava ogni giorno all’imbrunire, quando dopo una
giornata durissima tornava insieme alla sua famiglia
presso la masseria dove abitavano.
Ma la particolarità era, diceva lei, che per parlare e
ascoltarlo doveva piegarsi alla base di un secolare
albero d’ulivo posto proprio vicino alla sua finestra.
Proprio lì riusciva a percepire la voce di Solomo, nato
nel 1687 e morto nel 1722 accoltellato perché
sorpreso a fare l’amore con la moglie del fratello.
Mia nonna tenendomi le mani strette strette per
non farmi venire paura raccontava che Solomo era
intrappolato nelle radici più profonde del
mastodontico albero e che aveva fatto quella fine
perché il rimorso gli aveva impedito di passare a
nuova vita.
Praticamente lui era costretto a rimanere per sempre
tra la vita e la morte, paralizzato ma vivo.

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“A ‘ntra ogni pete d’ulìa ‘ncete nu dulore”,
questo era quello che lei ripeteva.
Questo feudo sterminato era per i vecchi abitanti di
Vignanera un immenso cimitero dell’insoddisfazione,
ma anche un punto d’unione con il passato. Era il
magico ponte che riuniva le mille storie di Vignanera:
quelle che avevano avuto una fine infelice e
incompiuta.
Le anime vaganti si nascondevano nei tronchi o nelle
radici più profonde di questi esseri silenziosi. Esse li
avevano scelti perché erano come degli enormi
confessionali, che avevano immagazzinato dentro le
loro venature ogni sorta di segreto o di fatto
inespresso.
Il feudo conosceva praticamente tutto.
Per i vecchietti che ancora vivono a Vignanera, il
feudo rappresenta un luogo di culto, di lavoro, di vita
e di morte.
E’ esattamente il ciclo della vita: di
generazione in generazione hanno benedetto ogni
nuova nascita, hanno visto crescere, soffrire e morire.

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Felicità dalla sofferenza e sofferenza dalla felicità,
rimorso dal rimpianto e rimpianto dal rimorso,
lacrime di gioia e gioia delle lacrime.
In ogni modo, e secondo il racconto di nonna
Adelina questo feudo era vivo, si muoveva e ogni
giorno si impadroniva di ogni anima insoddisfatta
intrappolandola nelle venature radicate nel sottosuolo
nel tentativo di salvarle dall'inferno.
Radicate erano pure le origini dei vignanerini,
orgogliosi di avere un grande spirito vivente che li
seguiva e li indirizzava nella tortuosa via dei giorni.
Ognuno di noi, parlando con un’anziana persona del
feudo poteva capire come questi abitanti traevano
stimoli e concentrazione dal bosco: per loro era un
grande padre, maestro di vita, di sacrificio e segreti
intrappolati…ma tutto ciò che resta è il ricordo.

Intermezzo V

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Spesso volava sul dorso di un gabbiano e
vedeva tutto chiaro; a volte invece, cadeva nel mare
blu… a volte anche nero.
Quell’odore del mare che ti pervade le cavità nasali
quando ti stendi sullo scoglio dell’anima a volte,
però, ti taglia le ali, ti abbassa nell’inferno più
profondo delle tue paure presentandoti come in una
mostra di quadri e sotto fari taglienti, le cose a cui tu
non vorresti mai appartenere.
… Lungi da me questa cosa qui!! Io non ne ho mai
sentito parlare, e invece lo tieni dentro incollato con
mastice di secoli induriti.
… ma poveri loro!! E invece povero te…
Il gabbiano è piccolo e sul suo dorso non ci
puoi stare per sempre…scivolerai anche tu: la verità
è tale perché ti sembra notizia falsa_____
Si caro, la filosofia è saper interpretare quello che ti
si presenta e scegliere la modalità d’uso.
Devi saper nuotare nel mare nero_____
A Vignanera non tutti sapevano interpretare i
segni…forse pochi______

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Quei segni che pur facendoti diventare storpio non
intaccavano le potenzialità intellettive…avanti sulla
stessa strada compari, non arrendetevi, sbattete
sempre sullo stesso punto che prima o poi si
rompe_____________NO_____________sbattete e
tanti auguri per i secoli dei secoli.

n tamburello che suona eternamente come canto di


cicale…è questo l’ultimo attimo in cui oso pensare a
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Vignanera. Come essere vivente che danza sul filo
della storia raccontando le sue mille favole ritoccate di
realtà e malinconia.
Come piccolo esempio della vita di ogni uomo: è solo
questo Vignanera.
In qualunque posto del mondo ognuno di noi si
trovi, avrà sempre una Vignanera vicino a
lui…d’altronde è la vita che scorre, nulla altro
rappresenta.

Ringraziamenti
<Ringrazio tutti coloro i quali leggendo riusciranno a tacere, sentire ed
interpretare;
<ringrazio le persone che capiscono i segni della vita;
<ringrazio Christian per la collaborazione;

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<ringrazio tutti i nonni che ci cederanno il testimone della storia;
<ringrazio Vignanera per essersi prestata a questa personale interpretazione;
<ringrazio i miei genitori che volutamente mi hanno lasciato libero di essere
libero;
<ringrazio Francesca che dolcemente mi accompagna nella vita;
<mi scuso con i “grammaticologi” per aver personalizzato e interiorizzato la
punteggiatura;
<mi scuso con chi da anni scrive, i quali però mi capiranno sicuramente;
<mi scuso con chiunque si senta colpito, ma se si possono trovare riferimenti
sono puramente casuali;
<infine ringrazio infinitamente Dio per mezzo del Suo Unico Figlio, perchè
metodo di vita quotidiana.

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Informazioni e contatti:
alessio.stefanelli@libero.it

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