1. Economia, commercio e mediazione...................................................................... 8 1.1 La mediazione pu veicolare una nuova etica nelleconomia?............................ 8 1.2 Leconomia come se le persone contassero........................................................10
2. Economia solidale..................................................................................................13 2.1 Il significato di economia solidale: cosa sintende.............................................13 2.2 Forme di economia eticamente regolata.............................................................19 2.2.1 Il commercio equo e solidale (CES)............................................................19 2.2.2 La finanza etica..........................................................................................20 2.2.3 Il microcredito............................................................................................22 2.2.4 Il consumo critico e responsabile................................................................24 2.3 Economia della responsabilit sociale................................................................26
3. Criteri operativi, cenni storici e analisi economica del CES................................30 3.1 Trade, not aid....................................................................................................30 3.1.1 Il prezzo equo.............................................................................................31 3.1.2 La sostenibilit ambientale e sociale...........................................................34 3.1.3 Linvestimento in beni pubblici locali.........................................................34 3.1.4 Lassistenza tecnica e finanziaria................................................................35 3.2 Compatibilit tra CES e economia di mercato....................................................36 3.3 Cenni storici e culturali sulla nascita del CES....................................................38 3.4 Dal punto di vista della dottrina economica.......................................................41 3.5 Rilevanza e diffusione attuale in Italia e in Europa............................................45 3.6 Gli attori e intermediari del CES........................................................................50 3.6.1 Produttori del Sud del mondo.....................................................................50 3.6.2 Associazioni, cooperative e consorzi di produttori ......................................50 3.6.3 Centrali dimportazione/Alternative Trade Organizations (ATOs)..............51 3.6.4 Enti e marchi di certificazione....................................................................52 3.6.5 Botteghe del Mondo (BdM)/Worldshops ....................................................55 4 3.7 La filiera del CES..............................................................................................57
4. Levoluzione del CES: le interazioni con leconomia e il mercato tradizionale..59 4.1 Linterazione con la GDO: nuove forme di distribuzione per il CES..................60 4.1.1 Le filiere ibride...........................................................................................66 4.1.2 Alcuni esempi di filiere ibride.....................................................................68 4.1.2.1 Il caso Esselunga Ctm Altromercato..................................................68 4.1.2.2 Il caso Dico Commercio Alternativo.................................................69 4.2 La responsabilit sociale nella GDO: una nuova interazione con il CES............70 4.2.1 Le filiere imitative condotte dalle imprese della GDO.................................73 4.2.2 Alcuni esempi di filiere imitative condotte dalle imprese della GDO..........75 4.2.2.1 Il caso Tesco plc..................................................................................75 4.2.2.2 Il caso Marks&Spencer........................................................................76 4.2.2.3 Il caso Coop Italia................................................................................77 4.3 Le interazioni tra CES e GDO: il contesto italiano.............................................80 4.4 La responsabilit sociale delle imprese industriali: nuovi prodotti etici ..............86 4.4.1 Le filiere imitative condotte dalle imprese industriali..................................86 4.4.2 Alcuni esempi di filiere imitative condotte dalle imprese industriali............88 4.4.2.1 Il caso del marchio Mondovero/Alce Nero...........................................89 4.5 Sostenitori e detrattori delle contaminazioni con il mercato tradizionale: le criticit e le potenzialit delle interazioni.................................................................90
Appendice 1. La carta italiana dei criteri del commercio equo e solidale...............96 Appendice 2. La carta dIdentit delle Botteghe ...................................................101 Appendice 3. La torta della GD italiana ................................................................103 Appendice 4. Graduatoria delle prime 30 imprese europee della GDO ...............104
Questo scritto nasce da una duplice esigenza personale: la curiosit di conoscere le prospettive di crescita del mercato equo e solidale come recente fenomeno socio- economico che si inserisce nella vasta sfera delleconomia della responsabilit sociale, e linteresse per rintracciare tutti i possibili contesti duso della mediazione allinterno dei circuiti in continua evoluzione delleconomia solidale. Ho sempre considerato il commercio equo e solidale (CES) come emblema di uninterazione economica con esito pi che positivo fra soggetti molto diversi: si tratta di una forma alternativa di commercio e di un modello di consumo che, affiancandosi ai tradizionali circuiti commerciali, intende superare i difetti delle attuali relazioni economiche tra Nord e Sud del mondo attraverso unequa distribuzione del valore lungo tutta la filiera di produzione e distribuzione dei prodotti provenienti dai Paesi in via di sviluppo (PVS), promuovendo al contempo la compatibilit sociale e ambientale. Il fine ultimo quello di stimolare un concreto sviluppo in quelle aree del mondo dove mancano risorse e infrastrutture per un decollo economico. Come forma di commercio, questo modello non intende sovvertire il sistema economico prevalente, ma affiancarsi come mercato alternativo basato su relazioni economiche paritarie. Per funzionare, necessita concretamente di una mediazione fra le parti: lungo le filiere di produzione e distribuzione interagiscono soggetti diversi che sono in grado di raggiungere intese commerciali grazie a unintesa attivit di trattative basate sul dialogo, lassistenza e lappoggio a progetti di sviluppo per linvestimento degli utili. Dal piccolo produttore, associato a un consorzio o una cooperativa, al consumatore finale, passando per le centrali dimportazione e gli enti di certificazione, la mediazione strumento imprescindibile per uninterazione efficace e proficua: permette di gettare quel ponte ideale tra produttore e consumatore 1 , metafora spesso utilizzata dagli operatori del settore per descrivere lefficienza delle filiere eque e solidali, come canali che evitano il maggior numero di passaggi distributivi.
1 Becchetti L. e Costantino M. (2007), Leconomia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili, in C. Pepe (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati, Milano: Franco Angeli, p. 56.
6 Consolidatosi attraverso queste filiere alternative ed autonome, il CES sta sperimentando da qualche anno a questa parte un ampliamento dei volumi delle proprie quote di mercato attraverso nuovi canali produttivi e distributivi, resi possibili grazie allinterazione con alcuni dei pi importanti attori del commercio internazionale, come le imprese transnazionali e la grande distribuzione organizzata. Un intervento calibrato di mediazione reso per questo ancora pi indispensabile dalla convergenza di questi intermediari inediti che, per di pi, perseguono obiettivi commerciali lontanissimi dalla realt del CES (come la massimizzazione del profitto e laccumulazione del capitale). Linfluenza di questi nuovi attori nelle filiere eque e solidali considerevole perch la loro interazione con il mercato equo sta stimolando una crescita del commercio solidale quasi inaspettata, con un ampliamento senza eguali delle reti distributive e la creazione di nuove gamme di prodotti equi curati dalle stesse multinazionali. Per la portata di questo fenomeno, non tutti gli operatori del mercato equo e solidale vedono di buon occhio queste prospettive di crescita, ed nato un acceso dibattito: il timore di una banalizzazione o di uno stravolgimento dei valori solidali, insieme allo sfruttamento dei marchi e delle certificazioni eque e solidali per mere strategie di marketing, elevato. Secondo invece alcuni esperti, poter guidare questo processo di contaminazione determinerebbe un ulteriore ampliamento delle gamme di prodotti (oggi limitate ad alcuni prodotti commodities 2 ) e lallargamento della distribuzione, arrivando cos a una maggiore visibilit ed efficienza. difficile poter pronosticare e formulare previsioni verosimili, ma per le ricadute future di questi fenomeni di contaminazione ritengo sia utile ipotizzare le opportunit e i limiti dellevoluzione del CES costituite dalle nuove filiere ibride, nate dallincontro del mercato equo e la grande distribuzione, affinch si possa perseguire un beneficio diffuso fra tutti i partecipanti e perch si possano trovare misure concrete per raggiungere accordi economici che comportino ricadute positive per lo sviluppo delle economie dei paesi pi fragili e marginalizzati dal commercio internazionale. La mediazione va intesa dunque non solo come strumento per la creazione di nuove filiere che includono soggetti molto diversi, ma anche come una pratica che promuove un approccio commerciale innovativo, che superi la sfera economica (interesse solo per il prodotto) e
2 Con questo termine, nella letteratura economica ci si riferisce a prodotti agroalimentari e materie prime (banane, caff, cacao, t, cotone) provenienti dai paesi ex-coloniali, che rappresentano una quota notevole del commercio Sud-Nord del mondo.
7 pervada la dimensione sociale (prospettiva relazionale), per stimolare e sostenere una nuova etica degli scambi attraverso la diffusione di un sistema di valori morali sostenibili anche nei circuiti economici tradizionali e nelle abitudini di consumo.
Come punto di partenza, ho voluto iniziare questo scritto con un quesito relativo al possibile ruolo della mediazione nella sfera economica, per poi rintracciarne a livello teorico lutilit del suo impiego nelle transazioni commerciali. Trovando una valida risposta nellapproccio relazionale come modalit innovativa di intendere il commercio, i primi capitoli intendono presentare una concezione economica distinta dallattuale modello di sviluppo prevalente, per introdurre alcuni dei contributi pi recenti della dottrina in merito al rapporto tra etica ed economia. Il ricorso ad un approccio inedito negli scambi commerciali e il riconoscimento di una responsabilit delle proprie azioni da parte dei principali attori economici sono ci che contraddistingue le pratiche di uneconomia altra, generalmente denominata economia solidale, le cui declinazioni concrete sono brevemente descritte nel secondo capitolo. A un approfondimento di una di queste pratiche, la pi consolidata e riconosciuta, dedicato il terzo capitolo, dove vengono trattati al dettaglio i suoi criteri operativi, insieme ad alcuni cenni sulla sua nascita e sulle considerazioni formulate da specialisti delleconomia politica. Lultimo capitolo indaga alcune delle interazioni pi interessanti fra leconomia di mercato e CES, analizzando le soluzioni di compromesso raggiunte attraverso le filiere ibride e imitative, realizzate grazie alla mediazione degli interessi di soggetti economici diversi fra loro: questa parte consente di rintracciare gli sviluppi, le opportunit e i limiti emersi dallincontro di un sistema economico consolidato con un modello alternativo di produzione e di consumo.
8 1. Economia, commercio e mediazione
1.1 La mediazione pu veicolare una nuova etica nelleconomia?
La teorizzazione di un atteggiamento altruistico negli scambi commerciali non costituisce qualcosa di inedito, ma la sua applicazione pratica che lo . A partire dagli anni 90 del secolo scorso, si sono pubblicati svariati volumi e organizzati diversi convegni sul rapporto tra etica ed economia 3 : si registrata quindi una tendenza considerevole in campo accademico nel ricongiungere lo studio delleconomia alla morale. Un esempio concreto di questa constatazione dato dalla nascita di centri di ricerca accademici 4 dedicati allo studio delle relazioni economiche che sorgono nei contesti della cooperazione e del non profit, vista limportanza sempre pi crescente del cosiddetto Terzo settore, animato da istituzioni e soggetti economici privati che attuano in una prospettiva etica nei confronti della collettivit. In questo campo di studi, stato possibile concepire in modo innovativo lo scambio commerciale, ispirato alla logica conciliativa della relazione e basato sulla mediazione delle esigenze dei soggetti che vi prendono parte. Modificando il senso e le ragioni dello scambio di stampo capitalistico, la mediazione pu rivelarsi uno strumento di informazione e una modalit di partecipazione che permette di modificare una transazione commerciale strumentale in un processo inclusivo, allinterno del quale i beneficiari possono instaurare un rapporto basato sulla parit e la trasparenza, nel rispetto di un ordine di valori che mira al benessere degli individui coinvolti. Questa modalit di scambio mette al centro di una
3 A questo proposito, utile ricordare i recenti contributi di premi Nobel per leconomia a questa tematica: Scelta, benessere e equit di Sen (2006), Impresa, mercato, diritto di Coase (2006), Stato, mercato e libert di Buchanan (2006) e Commercio equo per tutti di Stiglitz (2007).
4 In Italia, lattivit del Centro di Ricerche sulla Cooperazione e il Non Profit dellUniversit Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha portato nel 2006 alla pubblicazione della prima indagine di rilevanza nazionale sul Commercio Equo e Solidale, a cui si affianca Econometica, il Centro Interuniversitario per lEtica economica e la Responsabilit Sociale dImpresa, mentre a livello internazionale vanno segnalati il network europeo EMES, Emergence des entreprises sociales en Europe, il network sudamericano RILESS, Red de Investigadores Latinoamericanos sobre Economa Social y Solidria e il canadese CRISES, Centro di Ricerca sulle innovazioni sociali (Laville J.-L., Cattani A. D. (2006), Dizionario dellaltra economia, Roma: Sapere 2000, p. 49).
9 relazione commerciale i suoi attori e le loro esigenze, rendendoli cos capaci di trovare un accordo condiviso, evitando che uno si avvantaggi a discapito dellaltro. Pi in generale, una prospettiva antropologica applicata agli scambi commerciali pu essere fonte di un vantaggio diffuso, grazie allattenzione rivolta alla qualit delle relazioni con i propri simili, e non solo per il volume di beni fisici o degli introiti monetari. Questo pu essere possibile grazie alla mediazione degli interessi e delle identit delle parti che intendono instaurare un rapporto commerciale paritario, attraverso il quale si vuole dare maggiore importanza alle esigenze dei soggetti e delle comunit coinvolte, pi che al ritorno economico. Parallelamente, alcuni economisti hanno recentemente iniziato a pensare in maniera sistematica al rapporto tra ricchezza e felicit 5 , arrivando a comprendere limportanza della qualit della rete di relazioni dellindividuo rispetto allambiente sociale che lo circonda: non sembra che il disporre di ingenti somme di denaro sia necessariamente fonte di benessere senza linclusione a un ambiente sociale in cui ci si riconosca e con cui si condividano valori comuni 6 . La stessa logica pu essere applicata alle ragioni dello scambio commerciale: non vi soddisfazione reciproca se manca un vantaggio condiviso da entrambi le parti. Lapproccio relazionale applicato agli scambi economici attraverso la mediazione degli interessi e delle motivazioni in gioco pu rivelarsi inoltre uno strumento dintervento efficace in caso di criticit. Il ruolo della mediazione in campo economico di fondamentale importanza fra soggetti che perseguono obiettivi commerciali diversi, e se in grado di veicolare valori come la fiducia, lo scambio di conoscenze e la reciprocit, pu dare origine a una partnership di medio - lungo termine che comporta un beneficio condiviso. Questo stesso atteggiamento pu essere applicato anche nella sfera dei consumi: il cittadino che sceglie di acquistare un prodotto che veicola determinati valori morali nei confronti del produttore (per esempio, condizioni di lavoro dignitose), andando oltre i
5 Allargomento stata dedicata una specifica sessione nella Conferenza Annuale dellAmerican Economic Association del 2002 (Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica. Commercio equo e solidale. Roma: Donzelli).
6 interessante ricordare che le classifiche internazionali evidenzino come il gap di reddito tra paesi ricchi e paesi poveri non si traduca in un eguale gap di felicit, con il paradosso di alcuni paesi poveri del Sud del mondo in posizione migliore rispetto a tanti paesi cosiddetti avanzati (Becchetti L. e Costantino M. (2007), Leconomia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondocit., p. 52).
10 criteri tradizionali di scelta come la qualit e il prezzo, adotta un approccio etico che gli permette di superare quellalienazione dello scambio imposta dal modello consumistico prevalente nelle societ industrializzate, dove lo scarto informativo ha determinato una distanza tra merce e consumatore (vedi modalit dacquisto nei grandi magazzini: supermercati, discount, centri commerciali) spogliando lacquisto di ogni valenza sociale. Se attualmente nei mercati delle merci e dei capitali si accusa una mancanza di riferimento ad un quadro etico, dovuto al predominio delle dottrine liberiste, basate sui principi della deregulation (assenza di regole), una modalit nuova degli scambi pu conciliare il commercio al benessere collettivo a livello transnazionale. Per il momento, questo approccio relazionale contraddistingue alcune pratiche economiche che mirano a stimolare rapporti paritari e concorrono alla creazione di uneconomia solidale ma alcuni specialisti segnalano la diffusione di questo approccio commerciale anche nei circuiti economici dove fino a poco tempo fa si pensava fosse impossibile il rispetto di criteri eticamente corretti.
1.2 Leconomia come se le persone contassero 7
La prospettiva relazionale applicata agli scambi commerciali apre cos una sfida allattuale ordine economico: la mediazione permette di condurre uninterazione sulla base del rispetto di un quadro etico e di gestire cos la qualit della relazione commerciale, superando una dimensione meramente economico-strumentale, in modo tale da mettere al centro del rapporto le esigenze delle parti coinvolte e trovare un accordo o un compromesso che le soddisfi, senza che avvenga a spese di una delle due. Questa prospettiva riporta leconomia a una dimensione umana, e mette in chiaro la sua missione come scienza sociale: creare valore e utilit al servizio delluomo, come mezzo (e non fine assoluto) per la realizzazione non solo individuale ma collettiva, perch la disciplina economica una scienza rivolta alla societ, e quindi al prossimo e alla collettivit e al loro benessere.
7 Titolo del working paper di Zamagni S. (2006), Leconomia come se la persona contasse: verso una teoria economica relazionale, Aiccon Working paper n.32, Universit di Bologna sede di Forl.
11 Questo approccio si rintraccia nei numerosi studi che caratterizzano da qualche tempo a questa parte la letteratura economica, dove si va sempre pi affermando lesigenza di ricorrere alla prospettiva relazionale per superare le insufficienze ed i limiti esplicativi legati al paradigma riduzionista dellindividualismo massimizzante 8 : si nota una crescente attenzione rivolta alla componente relazionale dellindividuo, che segna una nuova visione delleconomia, particolarmente eclettica perch fa convergere i contributi di diverse scienze sociali come la psicologia, la sociologia e lantropologia nellanalisi economica 9 . In particolare, in questi contributi si concentra lattenzione sullimportanza delle azioni degli individui che, grazie alle loro interazioni, determinano le priorit e danno risposta alle esigenze della collettivit, superando lo stereotipo predominante di unegemonia della finanza e delleconomia, in un contesto economico in cui quello che conta sono le persone e le loro scelte. Un esempio di questa corrente della disciplina il concetto formulato da Zamagni e Bruni 10 di economia civile che vede il mercato come spazio dove si esercitano le virt civili, come reciprocit, fiducia e fraternit, e focalizza lattenzione sul benessere della societ civile grazie allinterazione e partecipazione dei cittadini attraverso una democrazia economica, allinterno della quale gli individui contribuiscono attivamente al raggiungimento di un equilibrio sociale. Un ulteriore esempio si basa sugli stessi principi, ed costituito dai fondamenti delleconomia della responsabilit sociale, dove la responsabilit ripartita tra i cittadini che, agendo dal basso, possono influenzare il comportamento delle istituzioni e delle imprese attraverso le proprie scelte. Questi contributi non intendono stravolgere i fondamenti della dottrina economica, ma restituirle il giusto significato di scienza sociale: rimettere la societ al centro
8 Si tratta del paradigma neoclassico incentrato sulla figura dellhomo oeconomicus, il quale pu raggiungere il suo massimo grado di soddisfazione attraverso la massimizzazione dei beni a sua disposizione. (Becchetti L. e Costantino M. (2006), Il commercio equo e solidale alla prova dei fatti. Milano: Mondadori, p. 13).
9 Becchetti L. e Costantino M. (2007), Leconomia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondocit., p. 53.
10 Autori del saggio del 2004 Economia civile. Efficienza, equit, felicit pubblica edito da Il Mulino, Bologna. Tra laltro, Zamagni ha coniato lespressione homo reciprocans, inteso come soggetto economico con attitudini alla reciprocit e socialit nellanalisi economica (contrapposto a homo oeconomicus).
12 delleconomia e ridare al commercio la sua funzione di creazione di benessere. Come scritto da Ransom: il punto di restituire al commercio quello che ne lo scopo essenziale: accrescere il benessere del genere umano nel suo insieme, se non ci riesce unimpresa priva di valore che arricchisce alcune persone rendendone povere molte di pi senza portare proprio a niente 11 .
11 Ransom D. (2004), Commercio equo e solidale. Roma: Carocci, p.30.
13 2. Economia solidale
2.1 Il significato di economia solidale: cosa sintende
Se da un lato il processo di globalizzazione 12 sta generando opportunit senza precedenti per la crescita economica 13 , dallaltro lato suscita anche grandi preoccupazioni relative alla sostenibilit ambientale e sociale, insieme ai problemi del commercio internazionale e alle disparit sociali 14 di un mondo sempre pi interconnesso. I volumi della produzione e del commercio mondiale hanno raggiunto una soglia quantitativa senza pari ma a rischio di uno sfruttamento e spreco delle risorse vitali da cui dipende lumanit: non sono pochi gli specialisti che, da prospettive di dottrine diverse, hanno segnalato che di pi non significa necessariamente meglio. A questo proposito, una contraddizione data dalla crescita costante del reddito mondiale viene segnalata dagli economisti dello sviluppo: la ricchezza mondiale cresce ogni anno, ma non garantisce benessere a tutti 15 . Il problema urgente rappresentato dalla gestione dei beni pubblici globali per uno sviluppo diffuso necessita di nuove regole e strumenti per garantire la stabilit dei
12 Inteso come fenomeno complesso che consiste nellintegrazione economica dei mercati a livello globale secondo i principi delleconomia di mercato e del liberismo commerciale, e la crescente libert e velocit nella mobilizzazione dei capitali.
13 Nellanalisi economica, si distinguono i concetti di crescita e sviluppo. La crescita definita come laumento di un indicatore quantitativo, come il prodotto interno lordo (PIL); lo sviluppo si riferisce alla combinazione di azioni economiche e sociali volte a migliorare il benessere di una collettivit, includendo le condizioni di vita non riducibili al solo tenore di vita (Laville J.-L., Cattani A. D. (2006), Dizionario cit., p. 15).
14 Lampliamento del divario economico e sociale si manifesta sia allinterno di ciascun paese che nelle relazioni tra i paesi del Sud e del Nord del mondo: la differenza tra i redditi del 10 per cento pi ricco e del 10 per cento pi povero su scala mondiale si allarga: il rapporto era di 1 a 11 nel 1913; 1 a 35 nel 1973; 1 a 72 nel 1992. Il 20 per cento pi ricco si accaparra l86 per cento del prodotto interno lordo mondiale, il 20 per cento pi povero appena l1 per cento. Si contano 1,2 miliardi di persone che dispongono di meno di un dollaro al giorno e 2,8 miliardi (oltre il 45 per cento della popolazione mondiale) con meno di 2 dollari. Mentre 1,3 miliardi di persone non hanno accesso allacqua potabile, le fortune delle 200 persone pi ricche del pianeta superano i redditi cumulativi del 41 per cento della popolazione mondiale (Laville J.-L., Cattani A. D. (2006), Dizionario cit., p. 40). Inoltre, a questa lista di contraddizioni, va aggiunto un ulteriore dato: i fatturati annuali di singole multinazionali superano il PIL di diversi paesi, come segnalato dalle Nazioni Unite in un suo report del 2002.
15 Becchetti L. (2005), La felicit sostenibile, Roma: Donzelli, 2005, p. 3.
14 mercati finanziari, la tutela dellambiente, la conservazione delle risorse e lequit globale, per superare i difetti delle istituzioni internazionali preposte a queste funzioni, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e lOrganizzazione Mondiale del Commercio, accusate di promuovere politiche commerciali e finanziare a vantaggio di pochi.
Figura 1. Vignetta di Subito La corsa allo sviluppo una corsa ad ostacoli nella quale gli atleti pi deboli devono superare ostacoli pi alti 16
Fonte della figura: http://www.italia.attac.org/tobin/vi11.html
Leconomia solidale sinserisce nel dibattito in corso relativo al divario economico e sociale tra i paesi del Nord e del Sud del mondo, proponendo alternative reali e concrete alle dinamiche delleconomia capitalistica e neoliberista per una nuova prospettiva relazionale negli scambi commerciali transnazionali, attraverso le pratiche del commercio equo e solidale, la finanza etica, il microcredito e il consumo critico, e perseguendo lobiettivo finale di promuovere lo sviluppo 17 nelle aree pi arretrate del pianeta. Questo fenomeno viene talvolta identificato come un vero e proprio
16 OXFAM (2002), Rigged rules and double standards: trade, globalization, and the fight against poverty, Washington: Oxfam Publishing.
17 Occorre smascherare lassunto che a una ripresa delleconomia nazionale corrisponda necessariamente un miglioramento della vita dei poveri: lo sviluppo devessere concepito come un diritto delluomo, non come un fatto di crescita nel prodotto nazionale lordo. In una concezione profondamente rinnovata, lo sviluppo si dovr intendere come un cambiamento concreto della situazione economica della met pi povera di una popolazione, misurando tale cambiamento in base al reddito reale per abitante. (Yunus M. (1998), Il banchiere dei poveri, Milano: Feltrinelli, p. 28).
15 movimento, perch implica il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini del Nord del mondo che, attraverso le scelte di consumo e risparmio, contribuiscono in prima linea al sostegno e alla realizzazione delle pratiche di un modello economico alternativo, migliorando inoltre indirettamente il contributo di imprese e istituzioni impegnate nel riequilibrio del benessere economico e sociale dei paesi. Molti operatori riconoscono la validit di queste forme di commercio e finanza alternativi, complementari alle politiche di sviluppo delle istituzioni dei paesi del Nord e Sud del mondo, perch determinano ripercussioni concrete e positive, a differenza degli aiuti umanitari, che si limitano ad avere un carattere solo assistenziale e unilaterale, senza stimolare un cambiamento concreto. Leconomia solidale intende affiancarsi alle forme tradizionali delleconomia liberista, col fine di correggere dallinterno quelle diseguaglianze che oggi viziano il commercio globale, dove si sono consolidate dinamiche di potere che favoriscono solo alcuni soggetti a discapito di tutti gli altri, e dove valori di rispetto e dignit si sono persi per quelli di profitto e arricchimento immediato a ogni costo.
Figura 2. Vignetta di Bruno DAlfonso La banana rappresenta uno dei prodotti commodities dei PVS soggetto al controllo degli oligopoli esercitati dalle principali imprese transnazionali in campo agroalimentare. Fonte della figura: http://it.geocities.com/ciaccifumetti/vignette/pages/commercio-equo-solidale_jpg.htm
16 Difatti, i circuiti tradizionali dei prodotti commodities dal Sud del mondo, soprattutto provenienti dai paesi ex coloniali, presentano diversi problemi perch caratterizzati da una forte asimmetria relazionale tra i suoi intermediari: precarie e malsane condizioni di vita e di lavoro dei produttori, problemi dimpatto ambientale, forti squilibri di potere nella catena di trasformazione e distribuzione, turbolente dinamiche di mercato, difficile confronto con le esigenze del produttore e del consumatore finale 18 . Inoltre, il commercio dal Sud del mondo di questi prodotti caratterizzato dalla presenza di multinazionali che, di fatto, controllano le catene di produzione e distribuzione, lucrando la gran parte dei profitti ricavabili dalla filiera 19 : questo lo stato del mercato dei prodotti agroalimentari esportati dai PVS, gestito a favore di oligopoli di importatori e imprese transnazionali che trattengono i ricavi nelle aree pi sviluppate, determinando lo sfruttamento di economie fragili, e negando le possibilit di sviluppo che potrebbero colmare il divario economico e sociale che caratterizza il pianeta. Inoltre, proprio su questi prodotti che i governi dei paesi pi industrializzati riservano le barriere commerciali pi restrittive e i dazi doganali pi alti, che ricadono sul debito estero dei paesi pi poveri. La mancanza di equilibrio nelle attuali relazioni del mercato internazionale rende fragile la posizione di chi svantaggiato e lascia spazio dazione a chi invece detiene pi potere, che cos in grado di stabilire condizioni e prezzi a proprio ed esclusivo vantaggio. Le pratiche delleconomia solidale intendono porre rimedio allo squilibrio dei mercati globali, seguendo il principio secondo il quale la creazione di reddito 20 , e quindi lo sviluppo, a poter risollevare le sorti delle economie dei PVS, non tanto la distribuzione a pioggia di aiuti monetari attraverso i programmi di cooperazione poco praticabili e spesso inefficaci.
18 Pepe C. (2007), Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo, in Pepe C. (a cura di), Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati. Potenzialit e contaminazioni tra commercio equo e solidale e commercio internazionale. Milano: Franco Angeli, p. 23.
19 Ibid. p. 27.
20 La creazione di reddito favorita dallo spirito imprenditoriale dunque il prerequisito fondamentale necessario per disporre di risorse utilizzabili per risolvere i problemi dello sviluppo (Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica cit., p. 15).
17
Figura 3. Vignetta di Subito Un esempio dellinefficienza degli aiuti internazionali dato dai cosiddetti aiuti legati, che obbligano i PVS ad un ulteriore vincolo di dipendenza dai paesi pi avanzati 21 . Fonte della figura: http://www.italia.attac.org/tobin/vi03.html
Allinterno di un dossier redatto da Oxfam nel 2002 dedicato al commercio mondiale e alla lotta alla povert, possibile rintracciare un dato che giustifica linefficacia degli aiuti finanziari allo sviluppo e alla cooperazione da parte dei paesi del Nord del mondo, nonostante i loro considerevoli volumi: Le restrizioni commerciali dei paesi ricchi costano ai PVS circa 100 miliardi di dollari lanno due volte quanto ricevono in termini di aiuti allo sviluppo 22 . Questa contraddizione ha stimolato e continua a incentivare la ricerca e la sperimentazione di uneconomia alternativa, regolata su valori e principi che permettano la creazione di reddito l dove le condizioni economiche e sociali non lo rendono possibile; in altre parole, uneconomia animata e regolata dal concetto di solidariet, sia a un livello macroeconomico, dove le politiche delle istituzioni internazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) stimolano e agevolano una reale partecipazione ai mercati globali dei paesi marginalizzati dai circuiti e dagli accordi che avvantaggiano i paesi industrializzati, sia a livello microeconomico, che vede il consumatore finale agire con uno spirito altruistico, non solo sul piano ideale
21 Si tratta di risorse finanziare donate ai PVS a condizione che vengano impiegate per lacquisto di beni prodotti dal paese donatore o per finanziare lintervento esclusivo di imprese del paese donante per la costruzione delle opere ritenute necessarie.
22 OXFAM (2002), Rigged rules and double standards cit., p.10.
18 (condivisione di valori di uguaglianza, autodeterminazione dei popoli, giustizia) ma, con la sua scelta concreta, agisce per appoggiare la predisposizione di condizioni adatte allo sviluppo dei paesi produttori, come la produzione autoctona, loccupazione, il miglioramento delle condizioni sociali dei PVS. Rimane chiaro che i sostenitori e fruitori delle pratiche delleconomia solidale non hanno la pretesa di presentare questo modello commerciale come la panacea agli squilibri del mercato internazionale, ma le ragioni a sostegno di uneconomia eticamente regolata si fondano sulla validit dei risultati finora raggiunti, che mirano a stimolare nel lungo termine una reale convergenza 23 , processo attraverso il quale le economie dei paesi pi arretrati possano raggiungere ed agganciare le economie dei paesi industrializzati. A fianco delle proposte delleconomia solidale, rimane per tanto valido lappello lanciato da molti per la realizzazione di politiche che ristabiliscano un riequilibrio nellordine internazionale, non solo a livello economico, a partire dalla riforma di organismi internazionali 24 che siano efficienti e universalmente riconosciuti, ed effettivamente in grado di incidere con progetti e regole per la massimizzazione del benessere collettivo e non del profitto di una minoranza. Da un punto di vista meramente terminologico, lespressione economia solidale viene utilizzata con unaccezione piuttosto ampia dalla maggior parte degli specialisti che si occupano di analizzare queste pratiche economiche alternative, come il sociologo francese Laville. Altri economisti esprimono preferenze anche per altre espressioni, come economia sociale, economia del benessere, economia civile coniata da Zamagni, economia dal basso impiegata molto da Becchetti per riferirsi al coinvolgimento di una cittadinanza attiva nel sostenere e utilizzare gli strumenti di consumo e risparmio in senso socialmente responsabile.
23 La maggior parte dei lavori degli economisti concorda nel sostenere che la convergenza delle aree arretrate verso quelle pi sviluppate ritenuta, in generale, condizionata da quattro fattori principali: capitale fisico, capitale umano, qualit delle istituzioni (governance) e livello della tecnologia. Questo vuol dire che per recuperare i livelli di sviluppo dei paesi pi avanzati, gli inseguitori devono raggiungere gli stessi tassi di risparmio e investimento, gli stessi livelli di scolarizzazione e di accesso alle tecnologie informatiche, la stessa stabilit istituzionale. Il recupero inoltre reso particolarmente difficile dalla necessit di unazione congiunta e contemporanea su tutti i fattori, non essendo sufficiente ai fini della convergenza e delluscita dalla trappola della povert il progresso su uno solo di essi (Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica cit., p. 14).
24 Pi volte stata avanzata la proposta di riforma di organismi internazionali preposti a ristabilire equilibrio negli assetti economici e politici a livello mondiale: un esempio fra molti, la riforma delle Nazioni Unite.
19 2.2 Forme di economia eticamente regolata
2.2.1 Il commercio equo e solidale (CES) 25
Secondo una definizione particolarmente semplice ma esaustiva, il CES costituisce una modalit di commercio alternativo di prodotti agroalimentari e artigianali esportati dai paesi del Sud del mondo verso i consumatori del Nord, basato su un processo produttivo e distributivo che rispetta una serie di parametri che, complessivamente, intendono stimolare lo sviluppo e la creazione di reddito nei PVS. Secondo unaltra definizione, fornita da Becchetti e Costantino, il CES non che una speciale filiera dimportatori, distributori e dettaglianti (chiamati commercianti equosolidali) di prodotti alimentari e artigianali, parzialmente o interamente prodotti da comunit rurali povere di paesi in via di sviluppo 26 . Questi prodotti si differenziano dunque non tanto per la loro qualit, ma per la natura e le caratteristiche del processo produttivo 27 in cui si ha pieno rispetto di criteri eticamente orientati, come la dignit del lavoro, la sostenibilit sociale e ambientale, la trasparenza e infine il reinvestimento di una parte degli introiti in beni pubblici locali. Questi parametri rappresentano un contributo decisivo alla soluzione dei problemi generati dallattuale sistema produttivo prevalente e dai fallimenti del mercato; per esempio, la stabilizzazione del prezzo, il prefinanziamento della produzione, la compatibilit sociale e ambientale, la trasparenza dellinformazione, la partnership tra importatore e produttore in grado di generare servizi allexport e opportunit di apprendimento e trasferimento tecnologico. Il principio cardine di questo modello commerciale rappresentato dal prezzo equo, che si riferisce a una remunerazione dei produttori dei PVS che garantisca un ricavo pi alto rispetto a quello realizzato dai canali commerciali tradizionali, consentendo cos ai lavoratori e produttori di soddisfare i bisogni essenziali e di
25 Per un approfondimento sui criteri operativi, intermediari, filiere produttive e distributive, cenni storici e analisi economica, cfr. capitolo III.
26 Becchetti L. e Costantino M. (2006), Il commercio equo e solidale cit., p. 22.
27 Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica cit., pp. 116 e seguenti.
20 garantire un livello di vita dignitoso. Il prezzo equo rappresenta una soluzione al fallimento del mercato del lavoro in condizioni di monopolio e in quelle condizioni dove leccesso e labuso di potere contrattuale del datore di lavoro rende il salario del lavoratore non equo, o meglio, inferiore al valore della propria prestazione 28 .
2.2.2 La finanza etica
Si tratta di quella parte della finanza che si occupa di selezionare e gestire investimenti (azioni, obbligazioni, prestiti) condizionati da criteri etici e di natura sociale 29 . Attraverso i cosiddetti fondi etici possibile indirizzare il risparmio verso le imprese e organizzazioni che dimostrano attenzione verso una produzione sostenibile, influenzando cos loperato di altre imprese e determinando processi virtuosi in grado di orientare societ e imprenditori verso uno sviluppo sostenibile. 30
La finanza etica supportata da intermediari specializzati che si occupano della raccolta di fondi di quegli investitori disposti ad accettare un rendimento inferiore pur di investire in iniziative di alto contenuto sociale. Linvestitore etico non interessato soltanto al rendimento della propria operazione, ma vuole essere consapevole delle ragioni di fondo che producono tale redditivit e delle caratteristiche del processo produttivo adottato dallimpresa in cui ha investito 31 . Linvestimento socialmente responsabile particolarmente diffuso negli Stati Uniti e nel Regno Unito 32 , mentre nellEuropa continentale ha conosciuto una crescita ridotta, ma presenta uno sviluppo promettente: alcune indagini campionarie annunciano prospettive di crescita per questo settore dal lato della domanda dei risparmiatori individuali, come riportato da una ricerca condotta in ambito europeo dal German Sustainable Investment Forum nel 2002, dove la percentuale di coloro che ritengono la finanza socialmente responsabile
28 Ibid. p. 19.
29 Ibid. p. 156.
30 Ibid. p. 20.
31 Ibid. p. 156.
32 Secondo dati rilevati nellaprile 2001, esistono 230 fondi etici negli Stati Uniti che gestiscono un volume di 2324 miliardi di euro ( del totale dei risparmi gestiti complessivamente dai fondi Usa), e 55 nel Regno Unito con un volume di risparmi pari a 17 miliardi di euro (ibid. p. 159).
21 uniniziativa valida cresciuta dal 20 al 35 per cento negli ultimi 3 anni, mentre in Italia risulta che la finanza etica sia un fenomeno ancora poco conosciuto secondo una ricerca condotta nello stesso anno da IREF, Istituto italiano di ricerche educative e formative, nella quale solo 4,4 per cento degli italiani maggiorenni dichiara di esserne a conoscenza, e un 9,5 per cento che ne ha solo sentito parlare. interessante accennare che anche il sistema bancario sta conoscendo sviluppi verso uneconomia solidale, con la nascita delle banche etiche, che svolgono la funzione di punto dincontro tra i risparmiatori (che sentono lesigenza di una gestione dei propri risparmi pi consapevole e responsabile) e le iniziative economiche che si basano su un modello di sviluppo umano e sociale sostenibile, e fondate sui valori della solidariet e della responsabilit civile. Per esempio, levoluzione di questo sistema bancario alternativo in Italia stata realizzata da piccoli gruppi di Mutua Autogestione, le cosiddette MAG 33 , mentre nel 1998 sorta Banca Popolare Etica, che propone di investire il risparmio attraverso operazioni che finanziano unicamente iniziative socio-economiche di utilit sociale ed internazionale, per la difesa dellambiente e la crescita culturale della societ, perseguendo un duplice obiettivo, imprenditoriale e culturale. Un altro esempio italiano il Consorzio Etimos, un consorzio cooperativo appartenente a Banca Etica, specializzato nella raccolta di risparmio a sostegno di esperienze microimprenditoriali e programmi di microfinanza nei PVS e in Italia tra i propri soci, che devono essere organizzazioni (e non privati) che hanno sottoscritto almeno una quota del capitale sociale, come, per esempio, nei PVS, istituzioni di micro finanza, banche popolari e di villaggio, cooperative di produttori, associazioni, universit, scuole e istituti di promozione sociale, mentre in Italia, cooperative e Botteghe del CES, fondazioni, enti pubblici e religiosi. Gli stessi meccanismi su cui si basano le attivit del Consorzio Etimos caratterizzano anche organizzazioni simili in Europa, che hanno per dimensioni maggiori, come le olandesi Triodos Bank e Oikocredit, e linglese Shared Interest 34 .
33 Si tratta di societ cooperative finanziarie che operano nellambito della finanza etica, sorte a partire dalla fine degli anni 70 (http://it.wikipedia.org/wiki/Mutua_autogestione).
34 Depperu D. e Todisco A. (2007), Sistemi di creazione di valore nelle filiere equo solidali in Pepe C. (a cura di) Prodott dal Sud del mondo cit., p. 108.
22 A queste esperienze legate alla finanza solidale, si sono affiancate iniziative sorte nel sistema bancario tradizionale, come Banca Prossima, costola non profit del gruppo Intesa San Paolo 35 .
2.2.3 Il microcredito
Costituisce uno strumento particolarmente efficace 36 e apprezzato nel campo delleconomia solidale, e in particolare della microfinanza 37 , e rappresenta la possibilit di accedere al prestito di importi bassi per le fasce di popolazione pi povere, considerate dal sistema finanziario tradizionale non solvibili (incapaci di restituire il denaro prestato), perch rappresentano beneficiari che non sono in grado di offrire garanzie collaterali o che comportano spese di gestione troppo alte, offrendo basse possibilit di profitto a fronte di rischi elevati. Il tasso dinteresse applicato nel microcredito molto basso (in grado di consentire la copertura dei costi delloperazione) e, per agevolare la restituzione del prestito, vengono costituiti appositamente gruppi di beneficiari del prestito, in modo da poter creare una condivisione della responsabilit: i beneficiari si sentono reciprocamente responsabili per la restituzione, e unendo i propri sforzi sono pi motivati a fare del meglio. Il principio sui cui si basa il microcredito consiste nel ritenere che la povert diffusa nei paesi pi arretrati economicamente non sia dovuta a ignoranza o pigrizia, ma alla mancanza di strumenti che possano comportare la creazione di reddito da parte di chi viene tradizionalmente escluso dal sistema creditizio, ossia il povero. Lindividuo che vive in condizioni di povert e riceve un prestito, anche ridotto, in grado di dare avvio a una piccola attivit imprenditoriale, ed cos motivato a migliorare il proprio status
35 Jacomella G., Boom del microcredito, anche lItalia lo scopre, Corriere della Sera, 1/6/2008.
36 Le Nazioni Unite scelsero il 2005 come lanno internazionale del microcredito, con lobiettivo di sottolineare lefficacia di questa iniziativa.
37 Insieme dei servizi finanziari di piccola scala alle famiglie e alle imprese escluse dal sistema finanziario tradizionale. La microfinanza (MF) unattivit dellintermediazione finanziaria, le istituzioni di MF (IMF) si distinguono dagli altri tipi di operatori finanziari per il target a cui si rivolgono e per la dimensione delle loro operazioni unitarie. Spesso le IMF sono specializzate nella concessione di microcrediti ed il termine microcredito a volte utilizzato come sinonimo di microfinanza (Lorigliola S. (2003), Verso Sud. Il commercio equo al Sud del mondo: progetti e produttori per uneconomia solidale, Verona: Ctm Altromercato, p. 92).
23 sociale ed economico, intraprendendo unattivit che fornisca un sostento per s e la propria famiglia, ed evitando di ricorrere a elemosina e usura (il mercato nero del credito), che condannano a una perenne condizione di dipendenza e sudditanza, e per questo considerate cause dirette della povert. Il microcredito dimostra dunque che possibile sradicare la povert attraverso un nuovo metodo di concessione del credito rivolto ai poveri. Ad avere questa intuizione stato leconomista bengalese Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace del 2006, fondatore della Grameen Bank 38 , la cui esistenza e continuo sviluppo dimostrano la validit del microcredito, perch quasi tutti i suoi beneficiari sono stati in grado di restituire le somme ricevute in prestito 39 . Anzi, risulta evidente che i meno abbienti sono i beneficiari che meritano pi fiducia rispetto a qualsiasi altra categoria che si rivolge al sistema creditizio: il povero che riceve un prestito consapevole di avere ununica possibilit per cambiare le proprie sorti, e per questo simpegna a sfruttare al meglio la chance concessagli, arrivando a restituire la somma ricevuta. Sulla scia del successo di Grameen Bank, sono stati creati istituti bancari simili che si occupano dellerogazione di servizi come il credito e il risparmio, chiamati anche le Banche dei poveri, sorte nei paesi del Sud del Mondo, e ora presenti anche in quelli industrializzati. In Italia, secondo dati dellIstat, la pratica del microcredito cresciuta del 7 per cento tra il 2004 e il 2005, mentre nellultimo biennio le somme erogate sono aumentate del 33 per cento e i beneficiari del 24 per cento. I suoi promotori italiani sono diversi, per la met costituiti da fondazioni non bancarie, associazioni, diocesi e MAG, pi di un quarto rappresentato da enti locali e universit, mentre il restante da fondazioni bancarie e banche 40 .
38 Fondata nel 1976, prima banca al mondo a effettuare prestiti sul criterio basato non sulla solvibilit del beneficiario, ma sulla fiducia (http://it.wikipedia.org/wiki/Grameen_Bank).
39 Il tasso di recupero del credito fornito da Grameen Bank risulta superiore al 98 per cento (Yunus M. (1998), Il banchiere cit., p. 34). In questo senso, la Grameen Bank stata anche oggetto di studi e ricerche da parte di organismi e agenzie indipendenti, anche da parte della Banca Mondiale (www.grameen-info.org).
40 Jacomella G., Boom del microcredito, anche lItalia lo scopre, Corriere della Sera, 1/6/2008.
24 2.2.4 Il consumo critico e responsabile
Allinterno del vasto panorama delleconomia solidale, il consumo critico e responsabile costituisce un modello dacquisto da parte dei cittadini dei paesi economicamente pi avanzati fondato sulla scelta di prodotti che veicolano i valori della sostenibilit sociale e ambientale, perch realizzati nel rispetto di un quadro etico, politico o ideologico condiviso. Il movimento che sostiene questo modello di consumo stato denominato consumerismo 41 , animato non solo dai singoli consumatori che individualmente adottano comportamenti dacquisto coerenti a un modello di sviluppo sostenibile (per esempio, viene praticato il boicottaggio dei prodotti di imprese considerate fallimentari sotto il profilo etico), ma dalle associazioni di consumatori che promuovono campagne di pressione su imprese e governi, per varare leggi e procedure di controllo sulla qualit degli alimenti, la lotta allinquinamento, la sicurezza dei prodotti industriali e delle condizioni di lavoro. Il movimento attinge la propria forza dallidea che gli effetti delle scelte di consumo etico sono paragonabili a quelle del voto 42 : scegliendo di comprare un prodotto rispetto ad un altro, si esercita un voto con il portafoglio che possibile esprimere quotidianamente come strumento di partecipazione dal basso alleconomia da parte dei cittadini. Come spiegano Becchetti e Costantino, il consumo responsabile segna lavvio di una nuova fase pi matura della democrazia economica con un aumento di partecipazione da parte della societ civile alle scelte economiche: promuovere pari opportunit, agevolare la rottura di monopoli, favorire i produttori... 43 . Questo meccanismo di partecipazione dal basso influenza loperato delle grandi imprese e della grande distribuzione di massa, che si equipaggiano a fornire prodotti per i consumatori pi critici: a partire dalle scelte dacquisto consapevole, si viene a creare un circolo virtuoso che contagia il settore produttivo.
41 Si tratta di un neologismo proveniente dallInghilterra, dove i movimenti dei consumatori sono pi forti e radicati, e sta a indicare un rapporto critico con il consumo. Per lItalia sono molto interessanti i contributi offerti dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, diretto da Francesco Gesualdi (Perna T. (1998), Fair Trade cit., p. 90).
42 Becchetti L. e Costantino M. (2007), Leconomia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo cit., p. 47.
43 Ibid. p. 48.
25 Nei mercati pi avanzati, come quello inglese, alcuni specialisti come Nicholls riconoscono la diffusione del fenomeno di consumo etico di massa emergente 44 , che obbliga le imprese a cercare strategie per questi nuovi sviluppi del mercato, come il rinnovamento delle politiche di marketing e la continua osservazione del comportamento dacquisto dei consumatori. Una forma avanzata di consumo critico il modello rappresentato dai Gruppi dAcquisto Solidale (GAS), costituiti da soci organizzati in associazioni o gruppi informali che si impegnano a stabilire contatti diretti con produttori agroalimentari per acquistare allingrosso con regolarit (generalmente, con cadenza settimanale) prodotti alimentari che rispettano specifici criteri di produzione, come la biologicit e la sostenibilit del trasporto e dellimballaggio a basso impatto ambientale, costruendo una filiera diretta con i fornitori che evita lintermediazione dei soggetti tradizionali di distribuzione. Questo sistema permette di concordare il prezzo equo dei beni direttamente con il produttore, a condizione che vengano stabilite relazioni dacquisto di lungo periodo. Si tratta di un movimento di consumo nato negli anni 60 del XX secolo in Svizzera, Germania e Giappone, diffuso poi anche negli Stati Uniti, Canada e il resto dellEuropa Occidentale 45 , e avviato in Italia nel 1994 con la creazione del primo GAS a Fidenza; il movimento italiano si consolida nel 1997 con la nascita della rete nazionale di collegamento dei GAS, che ha la funzione sostenere il network di collaborazione dei gruppi per diffondere informazioni sui produttori e i loro prodotti e divulgare lidea dei gruppi dacquisto 46 .
44 In inglese, emergence of mass-market consumerism (riportato da Pepe C. (2007), Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud cit., p. 22).
45 Tratto dai lemmi Community-supported Agriculture e Gruppi dAcquisto Solidale di Wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/Community-supported_agriculture).
46 Tratto dalla sezione documenti del sito della rete nazionale di collegamento dei GAS (http://www.retegas.org/index.php?module=pagesetter&func=viewpub&tid=2&pid=3).
26 2.3 Economia della responsabilit sociale
Se la soluzione dei dilemmi del sistema socio-economico lasciata al solo intervento di imprese e istituzioni, la possibilit di risolvere paradossi si allontana. Leonardo Becchetti, 2005
Nel campo della ricerca economica, alcuni specialisti hanno cercato di individuare una teoria sullimportanza della responsabilit dei diversi attori che interagiscono nel sistema economico, con lobiettivo di fornire un valido contributo alle politiche economiche rivolte alla massimizzazione del benessere collettivo. Da qui la concezione di economia della responsabilit sociale, in cui ogni soggetto che partecipa al sistema economico riconosce la responsabilit dei propri comportamenti e delle proprie scelte, perch producono inevitabilmente ricadute nei confronti degli altri soggetti con cui interagisce. Il presupposto per una responsabilit diffusa nel sistema economico lesistenza di una democrazia economica, nella quale la cittadinanza ha la possibilit dinfluire sulle dinamiche del sistema economico e sui suoi problemi in maniera altrettanto determinante che loperato delle imprese e delle istituzioni. Sostenitore di questa visione economica leconomista Leonardo Becchetti che, basandosi sul principio dellequilibrio dei tre pilastri 47 , afferma che la ripartizione della responsabilit nel sistema economico deve essere condivisa allo stesso modo tra cittadini, imprese e istituzioni. Lo stesso ordine viene indicato dagli economisti Stefano Zamagni e Luigino Bruni, con la triade Stato, mercato e societ civile 48 . Questi approcci intendono superare i fallimenti delle teorie economiche precedenti, basate rispettivamente sulle capacit dello Stato di svolgere le funzioni di regolatore delleconomia attraverso la promulgazione di leggi (pianificatore benevolente pubblico) e le possibilit del mercato di autoregolarsi grazie alla concorrenza perfetta e allequilibrio della domanda e offerta (la mano invisibile).
47 Una sorta di parallelo allequilibrio dei tre poteri delle istituzioni di uno Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) formulati da Montesquieu (Becchetti L. (2003), Finanza etica cit., p. 18).
48 Bruni L. e Zamagni S. (2004), Economia civile. Efficienza, equit, felicit pubblica. Bologna: Il Mulino.
27 Becchetti punta lattenzione sulle pratiche concrete fornite dalleconomia della responsabilit sociale che, superando la visione riduzionista 49 , vede i cittadini come attori capaci di determinare nel moderno sistema socio-economico cambiamenti dal basso: una minoranza di cittadini, mettendo al centro delle loro scelte non solo il proprio interesse ma anche il benessere della collettivit, in grado di incidere sul comportamento di imprese e istituzioni. Becchetti scrive a questo proposito che basta infatti una quota minoritaria di cittadini con preferenze etiche che orienta consumi e risparmi verso le imprese socialmente responsabili per dare un segnale a istituzioni e imprese sullattenzione dei consumatori ai problemi dellambiente e dello sviluppo e per indurre le imprese stesse ad aumentare la propria responsabilit sociale al fine di conquistare la fetta di mercato dei consumatori etici 50 . Questa visione si basa sul principio per cui la sfera di diritti e doveri di ogni cittadino coinvolge non solo la dimensione sociale, ma anche quella economica: ogni individuo ha una sua responsabilit e, come individui appartenenti a un complesso tessuto socio- economico, siamo tutti in grado di influenzare il mercato. A seconda dei valori che si intende perseguire, possibile sostenere un atteggiamento di appoggio o di disapprovazione nei confronti, per esempio, dellimpresa produttrice di un bene che si sta per acquistare. Adottando criteri responsabili di consumo, devono incidere nelle scelte dacquisto i metodi di produzione (le condizioni dei lavoratori, i metodi agricoli applicati, impiego di manodopera retribuita dignitosamente, il rispetto dellambiente) del bene che si sta per comprare. In questo modo, possibile adottare unottica dacquisto che tenga conto delle ripercussioni che lacquisto stesso pu determinare. Questa visione economica viene anche definita economia dal basso per via delleffetto-leva nellinfluenzare il comportamento di imprese e istituzioni, che si vedono obbligate a tener conto dellorientamento della cittadinanza per realizzare i propri obiettivi tradizionali. Per questo, linteresse per il tema della responsabilit sta guadagnando sempre pi attenzione di molte imprese.
49 Teoria prevalente nella dottrina economica, secondo la quale gli individui tendono a massimizzare il proprio utile o piacere personale, che coincide in genere con la massimizzazione del benessere derivante dalle opportunit di consumo (ibid. p. 12).
50 Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica cit., p. 16.
28
Figura 4. Il circolo virtuoso instaurato dai tre pilastri delleconomia della responsabilit sociale
fonte: Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica. Commercio equo e solidale. Roma: Donzelli, p. 113.
Lutilizzo di metodi che determinano un consumo socialmente responsabile da parte dei cittadini non produce quindi solo un effetto diretto, sostenendo per esempio il mercato equo attraverso il consumo di prodotti solidali, ma anche un effetto indiretto su imprese e istituzioni che si vedono costrette a tener conto del cambio di preferenze dei cittadini per poter realizzare i propri obiettivi tradizionali. In questa maniera, entrano nella logica del mercato e del confronto concorrenziale i valori extraeconomici di rispetto dellambiente, equa distribuzione del valore, importanza delle condizioni di lavoro in tutte le fasi del ciclo produttivo. Il contagio presto fatto: i temi della solidariet, dellinclusione e della salvaguardia ambientale possono divenire fattori sui quali si gioca la competitivit tra le imprese. Un altro significativo passo in avanti lintegrazione di preoccupazioni sociali gi allinterno della fase produttiva 51 , in modo da ridurre o minimizzare i suoi effetti collaterali indesiderati. A fianco del contributo di Becchetti, sono diversi i filoni di pensiero che danno attenzione ai concetti di reciprocit e responsabilit sociale, schierandosi nettamente contro il paradigma riduzionista dellindividualismo massimizzante.
51 Questo principio cardine della responsabilit sociale supera quella visione dicotomica delleconomia tipica della filantropia americana, per la quale prima c il momento della produzione e creazione di ricchezza, duro e spietato, che crea quei guasti sociali cui la fase successiva della filantropia e della carit cerca di porre rimedio. (Becchetti L. e Costantino M. (2006), Il commercio equo cit., p. 12).
29 Sulla centralit dellidea di responsabilit, da intendersi come fondamento di una nuova etica economica, concorde il filosofo tedesco Hans Jonas 52 che giustifica la necessit di una morale adeguata e appropriata alla societ odierna caratterizzata dal dominio tecnologico, che ha reso obsoleto lordine etico precedente (che chiama morale della prossimit, patrimonio etico del passato inadeguato allera delluomo tecnologico). Jonas spiega come gli obiettivi e le conseguenze dellazione determinata dalla tecnologia moderna sono cos nuovi che letica precedente non pi in grado di abbracciarli 53 . Dunque, la ricerca di unetica adeguata ai tempi che corrono passa attraverso il principio di responsabilit, utilizzato anche dal sociologo britannico Zygmunt Bauman in un suo noto saggio 54 nel quale denuncia la necessit di unestensione della responsabilit in tutti i settori della societ odierna 55 . In un suo saggio 56 pi recente, Bauman riporta una crescente consapevolezza dellindividuo a responsabilizzarsi, a costruirsi una morale inedita, come reazione allimperante individualismo e alla debolezza delle strutture sociali: Se io sono il fine sono anche il mezzo, lo strumento del cambiamento. Su questo stesso principio, collegato a quello dellautolimitazione, si sono basati gli studiosi del Wuppertal Institut nel redigere il famoso rapporto 57 sul futuro sostenibile.
52 Autore del testo Il principio responsabilit. Unetica per una civilt tecnologica, pubblicato da Einaudi, Torino nel 1990.
53 Riportato da Perna T. (1998), Fair Trade cit., p. 154.
54 Bauman Z. (1996), Le sfide delletica, Milano: Feltrinelli.
55 Riportato da Perna T. (1998), Fair Trade cit., p. 154.
56 Bauman Z. (2006), La vita liquida, Bari: Laterza.
30 3. Criteri operativi, cenni storici e analisi economica del CES
la creazione di reddito e non la distribuzione della ricchezza la chiave fondamentale per la lotta alla povert. Leonardo Becchetti, 2005
3.1 Trade, not aid
Per meglio comprendere il CES, utile fare riferimento allo slogan Trade, not aid (commercio, non aiuti) che fu promosso per la prima volta nel 1964 alla prima conferenza dellUnctad 58 a Ginevra. Il significato di questa frase racchiude, infatti, lessenza del mercato equo e solidale, che si contrappone alle logiche assistenziali degli aiuti monetari: promuovere le possibilit per i PVS di esportare materie prime e manufatti nei mercati avanzati, senza penalizzazioni e senza occupare una posizione di svantaggio, accedendo cos al commercio internazionale. In altre parole, lo scopo del modello di scambi commerciali proposto dal CES quello di permettere ai produttori marginalizzati dalle dinamiche del mercato internazionale di poter vendere le proprie merci a un prezzo (il prezzo equo) che rispetti il valore reale dei prodotti e del lavoro necessario per crearli, che non sia quindi stabilito da intermediari o esportatori (che adottano spesso pratiche di speculazione), o dalle continue fluttuazioni della Borsa. Le transazioni commerciali effettuate allinsegna dei principi del CES intendono finalizzare lautogestione dei produttori dei PVS e stimolare processi di sviluppo nelle realt in cui vivono, reinvestendo i ricavi in tecnologia (strumenti e mezzi per la coltivazione) e infrastrutture necessarie per un miglioramento delle condizioni sociali (scuole per i propri figli, ospedali, formazione lavoro). Rimane inteso che lesistenza dei canali CES viene meno nel momento in cui i produttori raggiungono unautonomia.
58 United Nations Conference on Trade and Development (in it. Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) lorganismo delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, istituito nel 1964. Lorganizzazione ha come missione quella di incrementare le opportunit commerciali, di investimento e sviluppo dei paesi in via di sviluppo e aiutare tali paesi ad integrarsi nell'economia mondiale su basi giuste.
31 utile individuare i fattori distintivi del CES, che costituiscono le condizioni imprescindibili affinch si possano stabilire relazioni commerciali eque e solidali.
3.1.1 Il prezzo equo
il fattore chiave delle relazioni eque e solidali, perch permette di perseguire quella logica di equa remunerazione dei fattori produttivi di questo mercato alternativo: si tratta di un prezzo tendenzialmente giusto 59 rispetto al costo del lavoro necessario per produrlo, e in grado dunque di garantire il minimo vitale in guadagno e in condizioni dignitose per il produttore, oltre la soglia di povert (lontano da ogni forma di elemosina, perch il guadagno del produttore legato a unattivit produttiva). A seconda dei casi, il prezzo equo viene concordato tra i produttori e gli importatori del CES, quindi frutto di una ricerca comune, possibile grazie alla mediazione tra le parti coinvolte e le rispettive esigenze, e viene stabilito sulla base del costo delle materie prime, del costo del lavoro locale e della retribuzione dignitosa e regolare, contro lo sfruttamento del lavoro minorile e il ricorso allusura come fonte di credito immediato. In altri casi, quando possibile, si fa riferimento a un prezzo minimo stabilito da FLO 60 , Fairtrade Labelling Organization, lente internazionale senza scopo di lucro che si occupa principalmente della certificazione dei prodotti equosolidali. O ancora, in altri casi il prezzo viene determinato sulla base degli standard internazionalmente riconosciuti (come le quotazioni della Borsa), sotto il quale non pu mai scendere e a cui si aggiunge una maggiorazione 61 , chiamata in inglese fair trade premiuim, il cui ammontare viene destinato a fini sociali e di sviluppo della comunit di produttori secondo progetti controllati dai certificatori (finanziamento di strutture come scuole, assistenza medica di base, programmi per il miglioramento della qualit e la conversione al biologico per i prodotti alimentari).
59 Non si tratta di un dato determinabile aprioristicamente.
60 Cfr. paragrafo 3.6.4.
61 Ad esempio, al prezzo minimo per il caff, che si basa su quei 120 dollari per 100 libre fissati come prezzo minimo negli accordi internazionali, viene aggiunto un premio e, nel caso di coltivazione biologica, il premio pi alto.
32 Prescindendo dalle fluttuazioni del mercato, il prezzo equo viene mantenuto anche nei casi in cui crolli, garantendo al produttore, grazie alleliminazione di tutte quelle intermediazioni speculative dalla filiera produttiva e distributiva, un guadagno concreto. Si arriva cos a stabilire un pagamento ai produttori nettamente superiore a quello di mercato (anche di 6 volte), e inoltre il pagamento viene effettuato in date predefinite con lintento di agevolare la programmazione delle spese nel bilancio dei produttori. In definitiva, con il termine prezzo equo ci si riferisce a un prezzo socialmente sostenibile (comprensivo di una remunerazione dignitosa del lavoro), ecologicamente sostenibile (comprensivo dei costi per una produzione ecocompatibile), e inoltre economicamente efficiente (competitivo sul mercato nel rapporto qualit-prezzo) 62 . chiaro che talvolta anche il prezzo finale proposto al consumatore occidentale superiore rispetto ai prezzi medi di mercato, ma include un valore aggiunto che i prodotti tradizionali non hanno: la soddisfazione sociale di sentirsi partecipi di un progetto di sviluppo a sostegno di una comunit di produttori del Sud del mondo. Questo valore aggiunto andato perso nelleconomia capitalistica, che spoglia di ogni valenza sociale il rapporto tra venditore e compratore, ridotto a mero consumatore che ricerca il miglior rapporto qualit/prezzo o lo status symbol dato da un prezzo maggiorato senza motivazioni apparenti. Grazie alla trasparenza dei rapporti solidali, inoltre, lo stesso consumatore che pu constatare come stato determinato il prezzo del prodotto che sta acquistando attraverso lo schema del prezzo trasparente, solitamente allegato a ogni prodotto artigianale, che riporta le percentuali delle voci che concorrono a formare il prezzo finale (prezzo pagato al produttore/artigiano, costo trasporto e distribuzione, spese doganali, margine dei rivenditori). in via di studio da parte degli operatori dellAGICES, lAssemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale, la procedura per rendere sempre disponibile questa fonte di informazioni rivolta al consumatore equosolidale.
62 Roozen N., van der Hoff F. (2003), Max Havelaar. Lavventura del commercio equo e solidale. Milano: Feltrinelli.
Tabella 1. Confronto prezzo tradizionale e prezzo equo lungo la filiera del caff (dati in euro, riferiti ad una confezione di 250 g di caff). Fonte: Depperu D. e Todisco A. (2007), Sistemi di creazione di valore nelle filiere equo solidali in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo cit., p. 115.
Lidea del giusto prezzo costituisce uno degli aspetti distintivi del commercio solidale ed in assoluta controtendenza rispetto alle classiche leggi del mercato capitalistico 63 che, perseguendo il principio della massimizzazione de profitto, tende a stabilire un prezzo oligopolistico perch controllato dalle maggiori imprese che cercano di raggiungere un margine extraprofitto, a discapito sia dei produttori (costretti ad accettare le condizioni imposte dagli speculatori che approfittano della loro condizione di dipendenza), che dei consumatori finali (vittime di una mancanza di trasparenza e di informazione sulla filiera produttiva, costretti allacquisto come atto privo di qualsiasi valore sociale, senza possibilit di influenzare e condizionare il prezzo di vendita).
63 il prezzo delle merci che si determina oggi sul mercato capitalistico sempre meno un prezzo legato al gioco della libera concorrenza tra le imprese, e sempre pi un prezzo oligopolistico, controllato da poche grandi imprese che lucrano sul crescente scarto informativo tra produttori e consumatori (Perna T. (1998), Fair Trade cit., p. 99).
34 3.1.2 La sostenibilit ambientale e sociale
Lattenzione del CES rivolta a ricercare e realizzare modalit di produzione socialmente ed ecologicamente compatibili. Per sostenibilit sociale sintende offrire ai produttori e lavoratori condizioni di lavoro dignitose, un ambiente di lavoro salubre, la promozione di una reale partecipazione alle decisioni attraverso unit produttive locali, basate sullorganizzazione sociale di una comunit, un villaggio o una cooperativa, e in ultimo la promozione di pari opportunit di lavoro e la non discriminazione di alcuni gruppi della popolazione (donne, disabili o i pi svantaggiati). Per garantire la sostenibilit ambientale, si privilegiano processi produttivi a basso impatto ambientale, si evita di ricorrere allimportazione di materie prime scarse o difficilmente reperibili e si ricorre dove possibile allagricoltura biologica. In questo senso, si sta registrando una tendenza sempre pi crescente da parte dei produttori nelladozione della produzione biologica, stimolata dagli importatori, che in questo possono ottenere una doppia certificazione (equa e biologica) che aumenta il valore aggiunto dei prodotti, rendendoli poi molto pi competitivi e differenziabili sui mercati del Nord del mondo.
3.1.3 Linvestimento in beni pubblici locali
Attraverso progetti concordati tra rappresentanti locali dei produttori e gli importatori delle filiere del CES, si stimola linvestimento del surplus ricavato dai produttori, dovuto ai maggiori introiti derivanti dallo scambio equo e solidale, in attivit che incrementino la produzione di beni pubblici locali di rilevante impatto sociale, da destinare alla comunit per servizi primari, come istruzione e sanit. Il rispetto di questo criterio garantisce concretamente lo sviluppo di una comunit locale, che pu accedere e realizzare servizi che migliorino le condizioni di vita e che rendano possibili prospettive di crescita economica. Questo modello dintervento a favore dei PVS particolarmente interessante perch si differenzia dalle forme di cooperazione internazionale, in quanto vengono stabiliti progetti che rispondano effettivamente alle necessit delle comunit locali, liberi da intermediazioni e vincoli economici, quindi pi diretti ed efficaci. 35 3.1.4 Lassistenza tecnica e finanziaria
Dove possibile si agevolano forniture di materie prime, come sementi e fertilizzanti, etichette e materiale per imballi, mentre invece il prefinanziamento della commessa un criterio imprescindibile del CES: al momento in cui viene effettuato lordine, limportatore anticipa generalmente fino al 50 per cento del pagamento complessivo, riducendo cos il rischio che vincoli finanziari o problemi di accesso al credito possano bloccare lattivit produttiva, condizioni diffuse tra i produttori del Sud del mondo che spesso sono costretti a rivolgersi ai moneylenders locali che impongono tassi dinteresse elevati (usurai). Inoltre, ulteriore parametro che contraddistingue le partnership commerciali del CES dato dalla durata dei contratti tra produttori e importatori dei circuiti equi e solidali: pluriennali e a lungo termine (durata minima: 2 anni). Per esempio, gli importatori si impegnano a garantire ogni anno lacquisto di un quantitativo equivalente almeno all80 per cento di quello dellanno precedente. Questa tipologia di contratto implica limpegno da parte degli importatori di CES non solo a offrire prezzi adeguati, ma a mantenerli stabili nel tempo, assicurando cos i produttori contro eventuali riduzioni nei prezzi dovuti a fattori incontrollabili, come condizioni atmosferiche avverse al raccolto, variazioni nei gusti dei consumatori del Nord, o ingresso sui mercati di nuovi produttori. Si cura anche il trasferimento di conoscenze tecnologiche di processo di prodotto, consulenze di marketing che avvicinano i produttori ai loro mercati di sbocco, e servizi allexport che consentono ai produttori di conoscere gli standard richiesti per lesportazione (learning by trading) 64 .
Per una visione completa dei criteri dettagliati riconosciuti dalle organizzazioni italiane di CES, utile fare riferimento ai 16 punti contenuti nellarticolo 3 della Carta Italiana dei Criteri del CES 65 redatta dallAssemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale nel 1999.
64 Becchetti L. e Costantino M. (2007), Leconomia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili, in C. Pepe (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo cit., p. 60.
65 Cfr. appendice 1.
36 3.2 Compatibilit tra CES e economia di mercato
Secondo Leonardo Becchetti e Marco Costantino, il CES pu essere definito come moderna impresa sociale di mercato 66 perch capace di competere con le imprese tradizionali, per differenziandosi da esse per i suoi obiettivi: non sono quelli della massimizzazione del profitto, ma dellinclusione sociale dei produttori marginalizzati del Sud del mondo. Inoltre, provvede sia a controbilanciare gli effetti dellimperfezione del mercato internazionale 67 (mancanza di una reale concorrenza dovuto al dominio di importatori con maggiore potere contrattuale, presenza di barriere doganali) sia a distribuire il profitto lungo tutta la filiera proprio grazie alla maggiorazione del prezzo pagato ai produttori, che consente di trasferire redditi dai consumatori verso i produttori 68 . Lambizione quella di modificare dallinterno le regole del commercio internazionale, immettendo un nuovo livello di coscienza 69 allinterno dei meccanismi delleconomia liberista: il CES opera a fianco delle filiere tradizionali, senza implicare il sovvertimento delle dinamiche che dominano il mercato internazionale, in quanto intende proporsi come alternativa valida praticabile. In questo senso, Tonino Perna puntualizza che il movimento per un commercio equo non nasce da unideologia che si vuole imporre alla realt, ma dalla sperimentazione e incarnazione di un bisogno di giustizia che come tale continuamente soggetto ad aggiustamenti e riflessioni critiche 70 . Una definizione del CES, largamente riconosciuta e utilizzata, viene fornita da FINE 71 nel rapporto del 2001 dellEFTA 72 : il CES una partnership economica basata
66 Becchetti L. e Costantino M. (2007), Leconomia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili, in C. Pepe (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo cit., p. 49.
67 Secondo la teoria classica, le condizioni di mercato perfetto sono date da un numero molto elevato di agenti sia sul fronte della domanda che su quello dellofferta, informazione perfetta, assenza di rischio, assenza di barriere allingresso (ibid. p. 57).
68 Ibid. p. 58.
69 Pepe C. (2007), Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo cit., p. 16.
70 Perna T. (1998), Fair Trade cit., p. 11.
71 Struttura informale nata nel 1998 che rappresenta i diversi operatori del CES a livello internazionale, composta da FLO, IFAT, NEWS!, EFTA (le cui iniziali ne costituiscono lacronimo), con le funzioni di scambio di informazioni, il coordinamento e la definizione di criteri uniformi. Cfr. paragrafo 3.6.3. 37 sul dialogo, la trasparenza e il rispetto, che mira ad una maggiore equit nel commercio internazionale; contribuisce ad uno sviluppo sostenibile complessivo attraverso lofferta di migliori condizioni economiche e assicurando i diritti dei produttori marginalizzati dal mercato, specialmente nel Sud del mondo. Le organizzazioni del commercio equo, col sostegno dei consumatori, sono attivamente impegnate a supporto dei produttori, in azioni di sensibilizzazione e in campagne per cambiare regole e pratiche del commercio internazionale convenzionale. Da questa definizione si pu cogliere una duplice finalit: a livello microeconomico, stabilire una relazione tra consumatori responsabili del Nord e i produttori marginalizzati del Sud attraverso lacquisto di prodotti che salvaguardino i diritti di questi ultimi; a livello macroeconomico, appoggiare i produttori svantaggiati attraverso la pressione politica esercitata verso gli altri cittadini e le istituzioni per ottenere nel lungo periodo cambiamenti significativi e durevoli nelle politiche del commercio internazionale, ma anche nei confronti delle imprese tradizionali, che per effetto della maggiorazione del prezzo del CES, se applicato su vasta scala, si vedono costrette a incrementare i prezzi di pagamento per non perdere i fornitori 73 . Sul fronte macroeconomico, sono state mosse alcune critiche al CES da parte dellEconomist 74 , accusandolo di essere assistenzialista, perch con la sua politica di prezzi fissi e impegni a lungo termine induce a non diversificare la produzione quando non pi competitiva, e a perseguire una logica fuori mercato. A questa critica, non sono tardate le risposte dai sostenitori del CES, con le quali stato puntualizzato che i produttori delleconomia solidale sono gi esclusi dal mercato tradizionale, a prescindere dalloperato del CES. Alcuni specialisti hanno voluto valorizzare il ruolo correttivo del commercio equo, segnalando che spesso lancia le basi di un vero mercato, rompendo monopoli, stimolando la concorrenza anche nelle aree pi isolate, superando
72 European Fair Trade Association, associazione di centrali dimportazione europee. Cfr. paragrafo 3.6.3. (EFTA, Krier J.-M. (2001), Fair Trade in Europe 2001. Facts and figures on the Fair Trade sector in 18 European countries. http://www.european-fair-trade-association.org/efta/Doc/FT-E-2001.pdf).
73 Ibid. pp.57-58.
74 Articolo dal titolo Ethical Food pubblicato dal celebre settimanale economico-finanziario il 7/12/2006.
38 la mancanza di un sistema di credito con i prefinanziamenti, a cui va aggiunta la funzione di formazione e miglioramento tecnico rivolto ai produttori 75 . Inoltre, negli ultimi ventanni, linterazione con soggetti economici lontani dal CES lulteriore riprova della validit delleconomia solidale e di come possa correggere il mercato verso un riequilibrio delle forze, cambiando in senso pi sostenibile le relazioni fra paesi arretrati e mercati avanzati.
3.3 Cenni storici e culturali sulla nascita del CES
Le prime manifestazioni di un commercio alternativo si hanno negli Stati Uniti nel corso degli anni 40 nelle comunit protestanti mennoniti 76 , ma si tratta di pratiche da considerarsi pioneristiche e circoscritte, perch non hanno prodotto ripercussioni considerevoli al di fuori del loro contesto dorigine. Nella forma che conosciamo oggi, il CES nasce e continua a essere promosso da organizzazioni non profit sorte nei paesi industrializzati del Nord del mondo, nelle vesti di importatori e distributori, e la loro configurazione giuridica prevalente quella di cooperative e associazioni. Queste organizzazioni sorgono e prendono slancio negli anni 60 nei paesi del Nord Europa, come Paesi Bassi, Germania e Regno Unito, prendendo il nome di Alternative Trade Organizations (ATOs), che in italiano vengono chiamate comunemente centrali dimportazione. Madre della prima centrale dimportazione stata la fondazione olandese SOS Wereldhandel 77 , promossa a Kerkrade da un gruppo di giovani del Partito cattolico olandese nel 1959 78 , impegnati in campagne per la raccolta di viveri da destinare alle popolazioni in situazioni di emergenza alimentare (per esempio, la prima iniziativa fu la raccolta di latte in polvere a favore delle popolazioni povere della Sicilia), nel pieno del
75 Zanuttini P. (2007), Dal produttore al consumatore, le vie del mercato sono infinite, Il Venerd di Repubblica, supplemento de La Repubblica del 11/05/2007.
76 Comunit che predicano un ritorno alle origini vivendo parcamente in gruppi sociali virtuosi, nei quali bandita ogni forma di lusso (Marrese E. (2007), LItalia scopre i prodotti equo solidali, La Repubblica Affari & Finanza del 18/6/2007).
77 Divenuta poi Fair Trade Organisatie nel 1967, oggi la pi importane centrale dimportazione in Olanda.
78 Perna T. (1998), Fair Trade cit., p. 80.
39 fermento del cosiddetto nuovo catechismo olandese 79 . Lazione di questa fondazione era volta a stimolare la collettivit ad agire nel proprio piccolo per offrire aiuto, seguendo la strategia della crescita dal basso, poi divenuta uno dei pilastri del modello di consumo del CES, intesa come spinta al cambiamento prodotta da comuni cittadini sensibili alle problematiche legate alla mancanza di sviluppo nei paesi del Sud del mondo, rese note e divulgate a partire dalla fine degli anni 50 attraverso i primi reportages sui mass media. Questa prima esperienza di carattere assistenziale insegn che gli aiuti offerti dalle azioni e campagne della fondazione SOS Wereldhandel non portavano ai cambiamenti sperati nei paesi a cui si rivolgeva, perch non andavano a incidere sulle reali cause della povert. Per questo si inizi a sperimentare unaltra forma di aiuto: il denaro raccolto dalla fondazione fu utilizzato per finanziare piccoli progetti di sviluppo, per stimolare nuove forme di imprenditoria locale in aree economicamente arretrate. Il problema non fu tanto lavvio delle attivit, ma la vendita dei prodotti che si realizzavano: per questo, si diede inizio allacquisto dei prodotti da parte della fondazione, con lidea di rivenderli nel mercato interno olandese. In questa maniera, venne a costituirsi il primo nucleo di CES: unassociazione situata in un paese economicamente avanzato si impegna a finanziare lo sviluppo di un progetto imprenditoriale in un paese economicamente arretrato, garantendo un mercato di sbocco ai suoi prodotti. La loro vendita fu inizialmente organizzata attraverso mostre e mercatini di opere missionarie, per corrispondenza, o attraverso i gruppi di azione Terzo Mondo, ossia associazioni che si impegnavano a predisporre banchetti di vendita presso manifestazioni cittadine e sagre parrocchiane. Nel corso degli anni 70 sorsero associazioni 80 in altri paesi europei che gestivano circuiti commerciali alternativi sul modello della fondazione olandese, attraverso le quali venivano acquistati prodotti del Sud del mondo direttamente da contadini e artigiani a un prezzo che garantisse un guadagno grazie al quale vivere dignitosamente,
79 Si tratta di un movimento di credenti che determina linizio del dissenso diffuso poi in Europa rispetto sia alla struttura gerarchica della Chiesa, sia ai suoi tab in campo sessuale. In pochi anni, anche per effetto del 68, il movimento si avvicin alla politica, dando origine alle comunit di base e ai cristiani per il socialismo.
80 Vanno citate le pi importanti: le franco-svizzere Artisans du Monde (1974) e OS3 (1976), la tedesca GEPA (1974), linglese Oxfam-Tradecraft (1968).
40 e inoltre veicolare nei prodotti stessi valori riconoscibili dai consumatori finali, in modo da farli sentire partecipi di una catena costruita appositamente per stimolare lo sviluppo. doveroso fare un accenno anche al contributo per la nascita di circuiti commerciali alternativi dato dallesempio di Oxfam alla fine degli anni 50, quando al direttore dellONG inglese venne lidea, durante una visita ad Hong Kong, di vendere i prodotti artigianali confezionati dai profughi cinesi nei negozi di Oxfam dislocati in Europa. Nel corso degli anni successivi, questo canale di commercializzazione andato consolidandosi, tanto da arrivare nel 1964 alla creazione di una centrale dimportazione 81 . La prima Bottega del Mondo (BdM) viene inaugurata nella primavera del 1969 a Breukelen, piccola citt in Olanda, da un gruppo di giovani. In pochi anni, si diffusero altri negozi simili nel Nord dellEuropa, coinvolgendo migliaia di volontari e centinaia di associazioni, arrivando a contagiare anche i paesi industrializzati di altri continenti, con la nascita di associazioni nordamericane, giapponesi, canadesi e australiane. Per comprendere la nascita del movimento equo utile fare riferimento anche al clima culturale del 68, che vede il costituirsi di un movimento variegato e mosso da pi istanze, non solo da gruppi studenteschi e operai mossi da ideologie politiche sorte dalle alternative storiche (socialismo reale), ma anche nuovi movimenti paralleli, come quello delle donne, degli ecologisti e dei pacifisti, sorti verso la fine degli anni 70, rilanciando il principio di spinta dal basso come regola che prevede la partecipazione di tutti per produrre cambiamento. Questo atteggiamento partecipativo, insieme a unapertura verso visioni pi critiche rispetto alle ideologie tradizionali per la ricerca di nuove idee rispetto ai problemi imposti dal cambiamento tecnologico, economico e culturale, definisce quella parte del movimento del 68 da cui ha avuto origine lo sviluppo del CES e delle nuove forme di solidariet internazionale. Proprio dal movimento ambientalista e per i diritti umani inoltre verr adottata lattenzione per limpatto ambientale e le colture biologiche, insieme alla maggiore importanza dellorganizzazione (partecipazione delle donne, democrazia interna). Tonino Perna spiega che, in questo contesto culturale, rimasto forte il focus primario che ha fatto nascere il movimento per un commercio equo: la libera associazione dei produttori e dei consumatori per la ricerca di un prezzo dei prodotti del lavoro umano che risponda di
81 EFTA, Krier J.-M. (2001), Fair Trade in Europe 2001. Facts and figures on the Fair Trade sector in 18 European countries.
41 pi ai bisogni vitali e meno alle cosiddette leggi di mercato. [] Il movimento del fair trade punta a incidere sia sul mercato capitalistico, sia sulle istituzioni, attraverso un meccanismo di campagne di sensibilizzazione e lobbying, e, nello stesso tempo, costruendo hic et nunc delle alternative concrete 82 . Se nel corso degli anni 70 la vendita dei prodotti attraverso i canali commerciali alternativi del CES gestiti dalle prime centrali dimportazione e dalle BdM veniva considerata come forma daiuto ai poveri (secondo Francesco Fontana, questa fase iniziale pu anche essere denominata entusiasmo empirico), nel corso degli anni 80 si decise di intraprendere vere campagne di informazione al lato della vendita (per Fontana, fase della solidariet politica), basata su una gamma sempre pi ampia di prodotti, inizialmente costituita solo dallartigianato, e approdata solo in seguito ai prodotti agroalimentari. Nel corso degli ultimi due decenni, sono state adottate tecniche commerciali in grado di attirare lattenzione dei consumatori, come alcune tecniche di marketing del mercato tradizionale, facendo leva sulla peculiarit del prodotto CES (fase della professionalit e coordinamento) e sullaffermarsi di un consumo responsabile. Da qui sorta la necessit di ampliare la distribuzione commerciale, agevolando lentrata dei prodotti nei canali distributivi tradizionali garantendo per la loro riconoscibilit attraverso i marchi di certificazione 83 .
3.4 Dal punto di vista della dottrina economica
Molti specialisti si sono impegnati nel definire il fenomeno del CES dal punto di vista della dottrina delleconomia politica, ricercando le sue potenzialit e i suoi limiti rispetto al sistema produttivo capitalistico. evidente la tendenza a normalizzare il fenomeno CES utilizzando i parametri consueti della dottrina ufficiale, inglobandolo nel mercato internazionale come fenomeno di nicchia (approccio marginalista) dal punto di vista quantitativo (il fatturato del CES praticamente irrilevante rispetto al valore degli scambi di beni e servizi a
82 Perna T. (1998), Fair Trade cit., p. 86.
83 Per questi ultimi cenni storici generici, mi sono basata sul contributo di Fontana F. (1997), Il commercio equo solidale in Europa in Amatucci F. Il commercio cit., pp. 78 83. 42 livello mondiale). Questa visione tende a minimizzare le potenzialit di crescita del commercio equo. Adottando questo approccio, alcuni specialisti, come Borgonovi, spiegano la capacit del CES di affiancarsi al modello capitalistico come una delle varianti al modello interpretativo del funzionamento delleconomia che non necessariamente devono negare i fondamenti logici e tecnici del modello capitalistico 84 . Seguendo questo filone, Lorenzi 85 aggiunge che il CES ha un ruolo decisamente funzionale rispetto al mercato perch ne corregge le imperfezioni e ne permette un funzionamento migliore: questa funzione si esaurisce nel momento in cui i produttori del Sud del mondo riusciranno a rapportarsi autonomamente con il mercato. La visione di Passarelli 86 si avvicina a questo approccio ma riconosce il ruolo dellintegrazione del commercio equo allinterno delleconomia capitalistica per il merito e la funzione di riequilibrare le forze del mercato, rendendo pi concorrenziali quei mercati oggi dominati da oligopoli/oligopsoni (come quello delle banane e del caff) che creano enormi svantaggi per i paesi esportatori. Altri specialisti hanno paragonato loperato delle organizzazioni occidentali di commercio equo a delle incubatrici dimpresa, perch mirano a mettere in piedi imprese, consorzi e cooperative di produttori, curandone e proteggendone la loro produttivit, di modo che possano raggiungere una propria maturit e autonomia nel mercato mondiale. Per Bell 87 , partendo da unindagine IRER-Lombardia dedicata al mercato del caff, utile sintetizzare in tre punti il ruolo del CES rispetto al nostro modello produttivo prevalente: contrastare i mercati oligopolistici attraverso il sovrapprezzo pagato ai produttori che serve da fonte di finanziamento per far crescere una concorrenza reale, promuovere lo sviluppo di una determinata regione, e, in ultimo, stabilizzare nel breve periodo i prezzi dei prodotti commodities, per aumentare le prospettive di crescita dei
84 Borgonovi E. (1997), Le ragioni dello sviluppo del commercio equo e solidale, in Amatucci (a cura di), Il commercio cit., p. 33.
85 Lorenzi L. (1996), Idee in transito, in LAltromercato, dicembre 12/1996.
86 Passarelli F. (1997), Relazioni verticali importatore non profit, distributore profit: oltre il volontariato, in Amatucci (a cura di), Il commercio cit., pp. 41-49.
87 Bell L. G. (1997), Commercio equo: analisi comparata della produzione e distribuzione del caff, in Istituto Regionale Ricerca della Lombardia, Il commercio equo solidale. La cooperazione per lo sviluppo ecosostenibile: lesperienza italiana e svizzera, pp. 42 46.
43 produttori marginalizzati dal mercato capitalistico. Questa visione riduce la capacit del CES a promozione imprenditoriale delle organizzazioni di produttori come funzione che si limita alla sfera economica, senza per valutare nel lungo periodo le possibilit di sopravvivenza rispetto al mercato internazionale. per questo che alcuni specialisti preferiscono coniugare una visione pluridisciplinare del fenomeno, includendo principi sociologici e antropologici, per individuare la portata sociale e i fattori che aiutano a definire il fenomeno stesso. Per esempio, Perna 88 sottolinea come la forza e novit del commercio equo sia quella di ricreare un primato delle relazioni sociali sulla sfera economica: in primo luogo, le relazioni del mercato equo si basano sulla crescita della fiducia tra gli operatori delle filiere solidali, e la fiducia rappresenta una componente pi importante della crescita del fatturato, in quanto verrebbe meno se non ci fosse fiducia. Inoltre, le organizzazioni CES del Nord del mondo stabiliscono clausole commerciali con i produttori del Sud per proteggere e stimolare la loro produttivit, firmando contratti di collaborazione e partnership pluriennali, finanziando in anticipo la merce commissionata (solitamente si prefinanzia la met del valore) e offrendo anche supporto di carattere tecnico. In questa maniera, si viene a creare un network complesso di relazioni sociali basate sulla fiducia che va dalle relazioni a lungo termine tra produttore e importatore, per arrivare ai negozi specializzati nella vendita dei prodotti equi, fino al consumatore finale. In secondo luogo, le transazioni non hanno nessun tipo di carattere assistenziale ed evitano deliberatamente ogni tipo di dono unilaterale (sganciato da qualunque rapporto di reciprocit) 89 , ma anzi intendono stimolare uno sviluppo autonomo per rafforzare le economie del PVS attraverso relazioni paritarie con i loro produttori e artigiani, offrendo la possibilit ai rappresentati di questi settori economici, seppur ridotti, dei paesi del Sud, di riscattarsi dalla condizione marginale di svantaggio rispetto al mercato internazionale. Per questo motivo, i prezzi dei prodotti equi sono agganciati a costi reali e nelle transazioni commerciali non si instaura nessun tipo di rapporto di dipendenza per fondi o fonti di sussistenza. Si potrebbe individuare una componente simile al dono da
88 Perna T. (1998), Fair Trade cit., pp. 114 116.
89 Sahlins definisce con lespressione reciprocit negativa ogni tipo di dono senza contropartite; in questo senso, ci si riferisce agli aiuti internazionali a pioggia, spesso mal impiegati, o allelemosina che pu provocare effetti negativi per chi la riceve (in Sahlins M. (1980), Economia dellet della pietra, Milano: Bompiani).
44 parte del consumatore che disposto a pagare un prezzo superiore il prodotto equo, ma non si tratta di un dono unilaterale perch in cambio il consumatore riceve una soddisfazione addizionale e si sente partecipe di quel network che alimenta la coscienza del diritto di chi produce a vivere con pi dignit. Per quanto riguarda le potenzialit di crescita e diffusione del CES come fenomeno socio-economico, alcuni specialisti si sono soffermati a riflettere che un prodotto equo capace di veicolare un insieme di valori (etica, rispetto, informazione, trasparenza) che rispondono alla domanda di giustizia e sostenibilit dei consumatori occidentali pi critici: le transazioni del commercio equo acquistano una valenza etica che le distingue dal mercato tradizionale, svuotato di ogni valore e basato sulla mercificazione che pervade ogni settore. In questo senso, il CES ha dalla sua parte un notevole potenziale, perch pu incidere sui consumi che caratterizzano il mercato capitalistico: se sar in grado di inserire i propri valori nelle dinamiche dei consumi odierni (ora motivati dallinnovazione, status symbol 90 , differenziazione, marketing) potr guadagnare quote di mercato maggiori, trasformando in bisogno la scelta etica del consumatore 91 : la domanda di prodotti sostenibili per lambiente e rispettosi dei diritti umani, insieme alla trasparenza dei sistemi di produzione potrebbero cos diventare requisiti indispensabili per il mercato. Il consumatore non si soffermer a controllare prezzo e qualit nel momento in cui chiamato ad acquistare: un criterio di scelta per comprare sar il contenuto etico del prodotto. Sarebbe utile individuare altri parametri per poter meglio valutare fenomeni economici come il CES, il microcredito e la finanza etica, in cui la sfera economica sintreccia con quella sociale e culturale. Perna, riferendosi nello specifico al CES, insiste affermando che proprio per questo che tale fenomeno non pu essere analizzato usando categorie tradizionali della scienza economica contemporanea. [] Cos le campagne dinformazione e di denunzia in difesa dei produttori del Sud non possono
90 Sono i significati intangibili dei beni a divenire progressivamente pi importanti tanto da far affermare, provocatoriamente, () che viviamo nella societ meno materialistica che sia mai esistita. Appunto perch lindividuo orientato ad apprezzare, e scegliere, le proposte del mercato sulla base dei loro significati immateriali. Fabbris G. (1994), La pubblicit: teorie e prassi, Milano: Franco Angeli, pp. 31 sg., riportato in Perna T. (1998), Fair Trade cit., p. 122.
91 Perna T. (1998), Fair Trade cit., p. 123.
45 essere misurate in termini aziendali tradizionali perch rappresenterebbero solo un costo con scarsi ritorni del medio periodo 92 .
3.5 Rilevanza e diffusione attuale in Italia e in Europa
Il CES cresciuto sorprendendo anche gli stessi operatori equosolidali, ed entrato a far parte ormai stabilmente nel costume della vita economica dei nostri giorni. Secondo un rapporto 93 pubblicato nel 2008, le organizzazioni che lavorano nella realt italiana del CES sono state quantificate al 2005 in 379, che includono 11 centrali dimportazione, mentre le restanti costituiscono associazioni o imprese impegnate nella distribuzione e attivit associativa, come le Botteghe del Mondo, e il fatturato totale ammonta a 103 milioni di euro. A livello europeo, lultimo rapporto di FINE e lassociazione olandese di BdM 94
pubblicato nel 2007 annuncia che la crescita del CES negli ultimi 4 anni si praticamente triplicata, con un volume stimato in 832 milioni di euro nel 2004, lievitato a 2.381 milioni di euro nel 2007 (a cui vanno aggiunti la stima di 265 milioni di euro di prodotti equosolidali non certificati), dato significativo in senso assoluto, ma ancora pi considerevole se confrontato con le stime relative ai 5 anni precedenti, che risalgono al 1999-2000, quando si sono attestate intorno ai 260 milioni di euro. Questa crescita dovuta in maniera considerevole allampliamento delle reti distributive, che oggi contano quasi 120.000 negozi in 33 paesi del mondo (di cui 28 europei), tra Botteghe del Mondo, negozi tradizionali e supermercati che rivendono i prodotti CES. Il dato che rende efficacemente lidea della diffusione del CES la penetrazione che hanno conosciuto alcuni prodotti, come le banane e il caff, nel mercato tradizionale di alcuni paesi europei (tabella 2): per esempio, la quota di mercato raggiunta dalle banane
92 Ibid. p. 114.
93 Gruppo di lavoro del Master Lavorare nel non profit, in collaborazione con Lunaria e Agices (2008), Tutti i numeri dellequo - Le dimensioni del commercio equo e solidale in Italia, working paper, Urbino: Universit degli Studi di Urbino Carlo Bo.
94 Krier J.-M. (2007), Fair Trade 2007: new facts and figures from an ongoing success story. A report on Fair Trade in 33 consumer countries. Bruxels: Dutch Association of Worldshops, FINE Advocay Office.
46 eque in Svizzera del 55 per cento, il che significa che oltre la met delle banane vendute in Svizzera proviene dal CES.
prodotti equi certificati
paesi
BANANE
CAFF Svizzera 55 % 4 % Regno Unito 5,5 % (*) 20 % (*) Finlandia 5 % (*) 0,4 % (*) Belgio 4 % (*) 1,7 % (*) Austria 20 % 2,3 % Danimarca 0,9 % (*) 2 % (*) Norvegia 70 % (#) 1,3 % Irlanda 1,5 % 3,5 % Olanda 4,5 % 3 % Svezia 2 % 2% Germania 2 % 1 % Francia n/d 7 % (*) 2004 (#) solo banane biologiche Tabella 2. Quote di mercato raggiunte da alcuni prodotti CES certificati nei mercati europei
Fonte: Krier J.-M. (2007), Fair Trade 2007: new facts and figures from an ongoing success story. A report on Fair Trade in 33 consumer countries. Bruxels: Dutch Association of Worldshops, FINE Advocay Office.
47 A livello di consumi, il mercato europeo costituisce il maggior mercato di vendita dei prodotti equi, perch viene acquistato tra il 60 e il 70 per cento di tutti i prodotti CES realizzati a livello globale.
paese fatturato complessivo fatturato pro capite STATI UNITI 730.800 2,43 REGNO UNITO 704.300 11,57 FRANCIA 210.000 3,31 SVIZZERA 158.100 21,06 GERMANIA 141.700 1,72 CANADA 79.600 2,42 AUSTRIA 52.800 6,36 OLANDA 47.500 2,90 SVEZIA 42.500 4,66 DANIMARCA 39.600 7,27 ITALIA 39.000 0,66 BELGIO 35.000 3,31 FINLANDIA 34.600 6,56 IRLANDA 23.300 5,40 NORVEGIA 18.100 3,87 AUSTRALIA NUOVA ZELANDA 10.800 0,44 GIAPPONE 6.200 0,05 SPAGNA 3.900 0,09 LUSSEMBURGO 3.200 6,72
Tabella 3. Fatturato complessivo e pro capite (in euro) dei prodotti del CES venduti in 19 paesi del mondo.
Fonte: Krier J.-M. (2007), Fair Trade 2007: new facts and figures from an ongoing success story. A report on Fair Trade in 33 consumer countries. Bruxels: Dutch Association of Worldshops, FINE Advocay Office.
48 I mercati nazionali che in assoluto registrano i fatturati pi alti sono quello statunitense e britannico, rispettivamente con il 31 e 30 per cento delle vendite di prodotti equosolidali certificati venduti nel mondo. Il consumo pro capite pi alto di prodotti equosolidali si registra in Svizzera, dove si stima una spesa annua per ciascun cittadino di poco pi di 21 euro, seguiti dai cittadini del Regno Unito (11,57 euro) e dai cittadini dei paesi del Nord Europa, come Danimarca (7,27 euro), Finlandia (6,56) e Svezia (4,66). La portata economica del fenomeno CES si spiega per il suo carattere pratico e funzionale: a differenza delloperato di associazioni e ONG che si concentrano su azioni di denuncia e sensibilizzazione 95 , le organizzazioni di commercio equo coniugano denuncia e informazione alla pratica di uneconomia alternativa nel panorama del commercio internazionale. grazie a questo aspetto che si spiega la crescita ed espansione del fenomeno, che ha incontrato non solo consensi tanto nei consumatori occidentali quanto di produttori del Sud del mondo, ma ha prodotto risultati quantitativi considerevoli, chiamando lattenzione di economisti e specialisti. Un ulteriore dato interessante costituito dalla diffusione della conoscenza del CES a livello mondiale, reso disponibile da unindagine dopinione rivolta ai consumatori rispetto alleconomia solidale, pubblicata dalla Nielsen dellottobre del 2008: il 70 per cento dei consumatori europei afferma di conoscere il CES, mentre solo la met dei consumatori dellAmerica Settentrionale afferma di averne sentito parlare, e rispondono nello stesso modo il 43 per cento dei consumatori asiatici e dellarea pacifica, il 25 per cento rispettivamente di quelli sudamericani e dei mercati mediorientali e africani 96 . Il valore delliniziativa del CES stata riconosciuta anche dalle istituzioni, come la Comunit europea che, attraverso diverse risoluzioni 97 , ha invitato la Commissione europea a riconoscere il CES come valida politica comunitaria di cooperazione allo sviluppo e come strumento per il raggiungimento degli obiettivi al Trattato Ce perch favorisce lo sviluppo sostenibile dei PVS, in particolare di quelli pi svantaggiati;
95 Relative alle problematiche dei rapporti di scambio impari Nord-Sud, lo sfruttamento minorile, il ruolo perverso della finanza internazionale, la mercificazione e svendita delle risorse ambientali, ecc
96 Nielsen (2008), Corporate Ethics and Fair Trading. A Nielsen global consumers report. New York: Environmental Change Institute of the University of Oxford and the Nielsen Company, p. 9.
97 Per esempio, le prime risoluzioni del Parlamento Europeo furono la A3 0373/93 e la A4 198/98, insieme alla risoluzione della Commissione Europea 619/1999.
49 linserimento armonioso e progressivo dei PVS nelleconomia mondiale; la lotta contro la povert nei PVS. 98 La risoluzione pi recente 99 del Parlamento Europeo in merito al sostegno del CES e alle sue ripercussioni pratiche sullo sviluppo dei PVS stata deliberata nel 2006, mettendo in primo piano il CES come esempio di come le pratiche e relazioni commerciali possano contribuire a colmare il divario tra paesi sviluppati e PVS, e favorire lintegrazione di questultimi nelleconomia mondiale, e allo stesso tempo come possa anche rappresentare un modello di consumo che contribuisce allo sviluppo dei PVS. A livello nazionale, le istituzioni che hanno riconosciuto la validit delle iniziative di CES si sono limitate a deliberare mozioni, come quelle dei consigli comunali di diverse citt italiane (come Milano, Roma, Bologna) e di consigli regionali (Friuli Venezia Giulia, Toscana, Marche), e infine quella del Senato e della Camera dei Deputati del 29/05/2003, che allinterno dei propri centri di ristorazione ha adottato prodotti CES. Una proposta di legge 100 stata avanzata nel 2003, proponendo detrazioni fiscali per le famiglie per la spesa di prodotti CES, meccanismi premiali e incentivi per la vendita, come una riduzione dellIva al 4 per cento. Nel dicembre del 2004 si costituita unassociazione di parlamentari, chiamata Associazione dei parlamentari per il Commercio Equo (AIES), con lo scopo di agevolare lingresso delle tematiche relative al CES nelle commissioni legislative dedicate a redigere una legge per regolare il CES in Italia: sarebbe la prima a livello europeo.
98 Ibid. p. 55.
99 Risoluzione del Parlamento Europeo 2245/2005: invita la Commissione a presentare una raccomandazione sul Commercio equo e solidale, riconoscendo che un atto legislativo non vincolante , in questo momento, un tipo di atto pi adeguato e che non implica il rischio di un eccesso di regolamentazione e la invita altres ad esaminare la possibilit di presentare una raccomandazione sulle altre iniziative commerciali soggette a controlli indipendenti che contribuiscono a rafforzare le norme sociali ed ambientali.
100 Proposta di legge 3892 di Fioroni, Bindi, Franceschini.
50 3.6 Gli attori e intermediari del CES
3.6.1 Produttori del Sud del mondo
Sono le figure centrali nel CES perch ne rappresentano i protagonisti indiscussi: si tratta di contadini proprietari di appezzamenti e artigiani dotati di un proprio laboratorio. Sono generalmente organizzati in strutture produttive piuttosto limitate, come singole famiglie, piccole imprese autogestite o comunit contadine, che, per le loro dimensioni ridotte, tendono a riunirsi in organizzazioni economiche di livello superiore (le associazioni), che possono raggiungere anche dimensioni rilevanti. Questi raggruppamenti permettono di essere riconosciuti dagli enti di certificazioni internazionale del CES. Ci che accomuna i produttori dei PVS la difficolt ad accedere al mercato internazionale, e per farlo sono costretti spesso a ricorrere a intermediari locali che speculano sul loro potere contrattuale (praticamente inesistente) acquistando la loro merce a prezzi bassi, o alle grandi imprese multinazionali, che detengono gli oligopoli che caratterizzano i mercati dei beni coloniali (banane, caff, cacao, t).
3.6.2 Associazioni, cooperative e consorzi di produttori
Rappresentano i produttori che singolarmente non sarebbero in grado di gestire le fasi di esportazione o commercializzazione dei propri prodotti, specie nel caso di derrate agricole, perch non dispongono delle competenze o delle risorse necessarie: per questo, le associazioni svolgono la funzione di interlocutori con le centrali dimportazione, ossia le organizzazioni di trader (esportatori o importatori) dei circuiti del CES. Le associazioni di produttori che rispettano i criteri del CES vengono accreditate dagli enti di certificazione, come FLO International. Alcune di queste associazioni sono sorte in autonomia nei paesi del Sud del mondo, e oggi stanno assumendo un ruolo sempre pi rilevante perch stanno promuovendo circuiti equi senza lappoggio di organizzazioni non profit del Nord del mondo, occupandosi delle esportazioni senza la mediazione delle centrali dimportazioni. Per 51 esempio, la federazione ecuadoriana MCCH, che raccoglie 400 associazioni di produttori di cacao in 21 provincie, esporta prodotti alimentari verso i mercati occidentali, e recentemente arrivata a concludere una relazione commerciale diretta con Ferrero.
Si tratta di organizzazioni che curano le relazioni dimportazione direttamente con le associazioni di produttori, e per questo vengono denominate anche con il termine pi generico di traders. La loro funzione principale quella di favorire ed effettuare il trasferimento di beni dai paesi di produzione ai paesi di consumo. In Italia, la pi nota e importante per fatturato CTM Altromercato, seguita da Commercio Alternativo, Roba dellAltro Mondo, Equomercato, Libero Mondo, Altra Qualit, Equoland, Mondo Solidale. Prima in Germania Gepa, mentre in Spagna le maggiori ATOs sono Alternativa3, Intermon Oxfam e Ideas, in Francia SolidarMonde e Artisans du Monde, in Svizzera Claro Fair Trade, in Austria Eza, nel Regno Unito CafDirect, Traidcraft, Oxfam, mentre negli Stati Uniti Ten Thousand Villages e SERRV International. Il coordinamento internazionale delle centrali dimportazione curato dallIFAT, International Federation for Alternative Trade, fondata nel 1989 e oggi costituita da circa 300 membri tra centrali dimportazione e associazioni di produttori di oltre 60 Paesi. La sua funzione preminente quella di mettere in contatto importatori dei canali CES e produttori, attraverso il Registro Internazionale dei produttori, che raccoglie tutti quei produttori che vogliono instaurare un progetto di commercializzazione dei loro prodotti con una centrale di importazione europea. A livello europeo presente EFTA, European Fair Trade Association, creata in via formale nel 1987 e registrata come fondazione europea nel 1990 riunendo 12 centrali dimportazione in 9 paesi (Austria, Belgio, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Regno Unito, Svizzera). La collaborazione tra le centrali dimportazione permette unottimizzazione degli sforzi da parte di ognuna di essa: si tende, per esempio, a unificare a livello centrale i rapporti con una medesima cooperativa o consorzio di produttori, cos che una sola centrale dimportazione si incarica di gestirne 52 le relazioni, tagliando sui costi di spedizione, imballaggio, giacenza in porto franco, e soprattutto permettendo di realizzare forme di economia di scala. Lunione sinergica delle centrali dimportazione agevolata anche dai marchi di certificazione, che fungono da veicolo di scambio di informazioni.
3.6.4 Enti e marchi di certificazione
Si tratta di organizzazioni senza scopo di lucro che hanno il compito di controllare e certificare leticit sia dei produttori dai quali vengono effettuate le esportazioni, sia le filiere dimportazione gestite dai traders, e garantire inoltre la conformit dei prodotti commercializzati come equi e solidali secondo gli standard e i criteri del CES. Per questa ragione, la certificazione assume un ruolo fondamentale nei canali del commercio alternativo, perch costituisce una tutela per il consumatore, a cui si assicura il rispetto dei principi del CES, soprattutto per quanto riguarda la redistribuzione del profitto lungo tutta la filiera (adeguata remunerazione lungo tutti i passaggi produttivi e distributivi), e la garanzia di acquisto di un prodotto ad alto contenuto di valore, frutto di un processo sostenibile a livello sociale e ambientale. Lente di certificazione pi importante FLO International (FLO-I), FairTrade Labelling Organiztion International, associazione senza scopo di lucro fondata nel 1997 in Germania allo scopo di coordinare le iniziative in materia di certificazione, elaborare criteri internazionali per ciascun prodotto 101 e presiedere al controllo dellosservanza di tali criteri da parte di produttori e traders. Questa organizzazione 102 funge da ombrello per le varie agenzie di certificazione operanti a livello nazionale, ad essa
101 Sinora FLO ha creato standard quasi esclusivamente nel settore delle derrate alimentari (banane, cacao, caff, t, zucchero di canna, riso, frutta secca, frutta e verdura fresca, succhi di frutta, spezie, uva da vino, quinoa e miele), con leccezione di pochi beni agricoli non alimentari, come i fiori recisi, le piante ornamentali e il cotone, e di un solo prodotto manifatturiero, i palloni da gioco.
102 FLO in realt costituita da due diverse organizzazioni: unassociazione senza scopo di lucro di diritto tedesco (FLO-I), cui aderiscono 20 organizzazioni (le Iniziative nazionali) localizzate in 15 paesi europei oltre che in Australia, Canada, Giappone, Messico e Stati Uniti, che determina gli standard necessari ad ottenere la certificazione di produttore del CES e la licenza del marchio Fairtrade; una societ (FLO-Cert Ltd), controllata dallassociazione, che ha il compito di sorvegliare i soggetti che hanno ottenuto la certificazione o la licenza duso del marchio Fairtrade e che segue gli standard ISO di certificazione. (Barbetta G. P. (2006), Il commercio equo e solidale in Italia, Universit Cattolica del Sacro Cuore, Centro di ricerche sulla cooperazione e il non profit, Working paper n.3, Milano, p.6).
53 affiliate. Inoltre, FLO ha introdotto attraverso FLO-CERT, sua controllata che si occupa solo di indagini per la certificazione, il marchio Fairtrade, unico marchio internazionale per i prodotti del CES. Dal 1997, il marchio Fairtrade ha sostituito i 4 marchi prima riconosciuti e impiegati a livello nazionale in Europa, con i suoi rispettivi enti di certificazione, tuttoggi esistenti con funzioni specifiche: Transfair in Italia, Germania, Austria, Lussemburgo, Canada, Giappone, Stati Uniti; Max Havelaar in Svizzera, Olanda, Belgio, Danimarca, Francia, Norvegia; Fairtrade Mark in Irlanda e Regno Unito; Rttvisemrkt o Reilu kauppa/Rejl Handel, rispettivamente in Svezia e Finlandia. Sono queste le organizzazioni nazionali che, sentita lesigenza di un unico marchio e di unadeguata struttura di certificazione mondiale, hanno dato vita a FLO International.
Figura 5. Marchi nazionali Figura 6. Marchio internazionale
Per quanto le relazioni con i produttori e rispettiva certificazione, FLO stabilisce gli standard che debbono essere rispettati per poter ottenere il marchio Fairtrade: la certificazione dei produttori viene svolta direttamente da FLO (attraverso la controllata FLO-CERT Ltd) con una indagine iniziale, che attribuisce il marchio al produttore, e successivamente con un insieme continuativo di controlli ed ispezioni (almeno una allanno per ogni produttore) che garantisce il mantenimento degli standard previsti dal
54 sistema e certifica la destinazione a fini sociali e comunitari del premio pagato dai traders, il cosiddetto fair trade premium. Il produttore deve pagare una tariffa a FLO per ottenere la certificazione iniziale (con un costo minimo di circa 2.000 euro, applicato alle organizzazioni pi piccole che richiedono la certificazione di un solo prodotto, e varia al crescere delle dimensioni del produttore e del numero di prodotti ed impianti certificati). Una ulteriore tariffa (con un costo minimo di circa 1.000 euro, che aumenta al crescere delle dimensioni e del grado di rischio del produttore) richiesta per il rinnovo annuale della certificazione, che comporta almeno una ispezione diretta da parte di FLO. Invece, le centrali dimportazione e, pi in generale, i traders che vogliono commercializzare prodotti del CES, ricevono la licenza duso del marchio Fairtrade una volta iscritti al registro dei licenziatari del marchio stesso, a patto che soddisfino i criteri basici del CES. Concretamente, la licenza alluso del marchio viene rilasciata dalle organizzazioni nazionali, socie di FLO International (per esempio, per lItalia il consorzio Fairtrade Transfair Italia, costituito da 20 organizzazioni attive nel campo della cooperazione internazionale e del non profit) a fronte del pagamento di royalties che si aggirano intorno all1,5 - 2 per cento del prezzo al consumo dei prodotti sui quali viene utilizzato il marchio. Va precisato che le royalties hanno lo scopo di sostenere le attivit di FLO International e delle organizzazioni nazionali. Tra i compiti delle organizzazioni nazionali associate a FLO, oltre alla concessione della licenza alluso del marchio, vi sono anche il monitoraggio delle dimensioni complessive del CES, la creazione di campagne di sensibilizzazione ed informazione rivolte sia al pubblico che alle imprese e la verifica del rispetto delle condizioni contrattuali legate alluso del marchio da parte dei licenziatari. Le modalit di svolgimento di questa attivit sono attualmente in corso di ri-definizione, soprattutto a partire dallesigenza di garantire processi con caratteristiche comuni in tutti i paesi. Va aggiunto che non tutti i prodotti che ricevono la denominazione equo e solidale che si trovano in commercio presentano il marchio di certificazione, e questo dovuto a ragioni diverse. In primo luogo, alcuni operatori del CES (come le centrali dimportazione o altri traders) collaborano con produttori talmente svantaggiati e marginalizzati da non essere in grado di rispettare tutti i requisiti richiesti da FLO per ottenere la certificazione; in questi casi, sono gli importatori a farsi da garanti del rispetto dei principi del CES, offrendo inoltre azioni di assistenza che puntano a far 55 crescere le competenze tecniche, commerciali e amministrative necessarie per rispettare i requisiti imposti dal processo di certificazione di FLO. E qui sorge problema di un evidente conflitto di interessi per loperatore del CES che svolga simultaneamente sia il ruolo di importatore e distributore di un prodotto, sia quello di certificatore del processo produttivo. In secondo luogo, non sono stati ancora concordati standard per la certificazione di tutti i prodotti CES, soprattutto per i beni dellartigianato, per via della complessit delle produzioni, per definizione non standardizzate e peculiari di ogni contesto culturale in cui si svolge. In ultimo, alcuni soggetti del CES (soprattutto in Italia, alcune centrali dimportazione, come Ctm Altromercato) hanno manifestato perplessit su alcuni aspetti del processo di certificazione svolto da FLO o, addirittura, sulla stessa possibilit di certificare solo prodotti invece di intere filiere produttive. Per queste ragioni, la gran parte delle ATOs italiane ha deciso di non aderire alle organizzazioni nazionali che hanno promosso la costituzione di FLO e che ne rappresentano a tutti gli effetti i soci.
3.6.5 Botteghe del Mondo (BdM)/Worldshops
Si tratta di organizzazioni che si occupano di distribuire e commercializzare i prodotti attraverso punti vendita. I prodotti CES presenti nelle Botteghe generalmente vengono acquistati dalle centrali dimportazioni, ma vi sono anche casi di acquisto diretto dai PVS tramite progetti di sviluppo concordati. Funzione delle Botteghe non quindi solo quella di vendita, ma produrre materiale informativo e sostenere campagne di sensibilizzazione, traducendole in iniziative concrete sul territorio (cicli di incontri, cene, presentazione progetti presso luoghi pubblici). Sia le centrali di importazione che le BdM, in Italia, sono organizzazioni senza fini di lucro e hanno lobbligo del reinvestimento degli utili. utile fare riferimento al documento 103 redatto dallAssociazione Botteghe del Mondo, attraverso il quale si identificato il ruolo delle BdM, insieme ai loro criteri ideali e organizzativi. Nella parte introduttiva, si legge che la BdM si andr sempre pi
103 Associazione Botteghe del Mondo (2004), Carta dIdentit delle Botteghe, consultabile al sito http://www.assobdm.it/modules/wfsection/article.php?articleid=3 (per il testo integrale, si veda appendice 2).
56 identificando come un soggetto dell'economia no profit all'interno del sistema del C.E.S., dove le proposte fatte al consumatore sono di carattere complessivo in quanto non si limitano alla vendita dei prodotti provenienti dal Sud del mondo, ma propongono un modello di sviluppo alternativo all'attuale sistema economico che prevede proposte quali ad esempio il risparmio alternativo, i viaggi, le assicurazioni e quant'altro la fantasia e le nostre capacit saranno in grado di realizzare. La BdM si configurer pertanto come il terminale di una proposta complessiva e come riferimento fondamentale per lo sviluppo di quanto sopra detto. Il coordinamento a livello europeo gestito da NEWS!, Network of European World Shops, che raccoglie dal 1994 le federazioni nazionali di BdM di 13 paesi europei e rappresenta in totale circa 2700 BdM. Non tutte le BdM aderiscono ad una federazione, e la situazione varia secondo i paesi: in alcuni, tuttele Botteghefanno parte di ununica federazione, in altri ladesione parziale, in altri ancora esiste una pluralit di federazioni o di singoli consorzi.
57 3.7 La filiera del CES
Per definire le relazioni che distinguono i circuiti commerciali del CES, utile rifarsi alla teoria di filiera, sviluppata dagli economisti T. Hopkins e I. Wallerstein nel 1986, che hanno definito il concetto di filiera come un insieme di lavoro e processi produttivi, il cui risultato finale un bene di consumo 104 . Questa teoria si presta particolarmente per lanalisi del mercato equo perch si focalizza sulla sequenza di processi che si estendono dalla produzione delle materie prime ai prodotti finiti e alla loro vendita ai consumatori: di tutti questi passaggi, si analizza la natura dei flussi di beni che veicolano e la loro distribuzione geografica. Lo schema sottostante individua i passaggi che caratterizzano le filiere produttive e distributive tradizionali del CES.
Figura 7. Schema della classica filiera CES. Fonte: Pepe C. (2007), Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati, Milano: Franco Angeli, p. 28.
104 Hopkins T. e Wallerstein I. (1986), Commodities chains: construct and research, in Gereffi G. e Korezeniewics, Commodities chains and global capitalism, Westport: Praeger Publishers (riportato da Depperu D. e Todisco A. (2007), Sistemi di creazione di valore nelle filiere equo solidali in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo cit., p. 103.
58 I produttori, attraverso i consorzi accreditati da FLO, vendono alle centrali dimportazione, le quali raccolgono le materie prime in magazzini, e si incaricano della spedizione. Generalmente si tende a svolgere le fasi di imballaggio e packaging nella stessa area di produzione dei prodotti. Successivamente, le centrali dimportazione vendono e distribuiscono alla rete di BdM. Questo schema si applica ai singoli prodotti commercializzati nei circuiti equosolidali; pu risultare utile il confronto fra la filiera tradizionale del caff con quella relativa gestita dal CES, per confrontare la differenza dei passaggi distributivi (figura 8).
Figura 8. Confronto fra la filiera tradizionale del caff e quella del CES Fonte: Depperu D. e Todisco A. (2007), Sistemi di creazione di valore nelle filiere equo solidali in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati, Milano: Franco Angeli, p. 114.
La filiera CES pu essere definita come una filiera sostenibile sotto il profilo strategico ed economico, perch non stravolge la stabilit economica degli attori e intermediari coinvolti, ma soprattutto non impone la rinuncia alla redditivit realizzata nelle filiere del mercato tradizionale, anzi, capace di realizzare profitto lungo tutti i suoi passaggi, dando uguale beneficio a tutti i suoi soggetti.
59 4. Levoluzione del CES: le interazioni con leconomia e il mercato tradizionale
Negli ultimi due decenni, la direzione presa dagli operatori dei canali delleconomia solidale, attraverso la quale si inteso amplificare la forza di impatto del CES e ricercare potenzialit di sviluppo, stata quella di interagire e mediare con il mercato tradizionale, per uscire dalla dimensione di nicchia. Questo avvicinamento stato agevolato anche dallaccresciuta sensibilizzazione dei consumatori ai prodotti con una valenza etica e allinteressamento da parte di un numero sempre pi significativo di imprese tradizionali alleconomia della responsabilit sociale come fonte di vantaggio competitivo, favorendo cos le possibilit di crescita e diffusione dei principi di un commercio alternativo. Si possono rintracciare delle vere e proprie contaminazioni del CES con il mercato tradizionale, definibili sotto due profili: da un lato, la convergenza fra circuiti e soggetti differenti (relazioni con la grande distribuzione organizzata - GDO), e dallaltro lato, la diffusione di pratiche economiche etiche nelleconomia capitalistica (adozione di criteri equi e solidali da parte di imprese industriali transnazionali). Ne sono nate una serie di esperienze, come la vendita di prodotti del CES attraverso le strutture della grande distribuzione, la certificazione di filiere controllate da multinazionali convertite ai criteri dellequo e solidale, o percorsi autonomi di offerta di prodotti a contenuto etico da parte di imprese industriali e della grande distribuzione. Queste tendenze possono essere identificate come propulsori dellevoluzione del CES e della diffusione dei suoi principi, perch nel loro complesso comportano la trasformazione delle relazioni Sud-Nord allinsegna dellequit dei rapporti di scambio, il rispetto dei contesti, ladozione di una prospettiva relazionale negli scambi, e quindi di unattenzione rivolta alla qualit delle relazioni, e inoltre portano allabbandono degli automatismi del liberismo, per il raggiungimento di valori inediti nella sfera economica. I soggetti economici che hanno costituito pratiche commerciali sperimentali allinsegna dellinterazione tra mercato tradizionale e economia solidale sono multinazionali, centrali dimportazione, imprese della grande distribuzione e enti di certificazione legati alla sfera del CES. La natura cos diversa dei soggetti coinvolti rende indispensabile una mediazione per il rispetto di tutte le identit e delle loro 60 motivazioni, pi o meno rivelatrici di una coscienza sociale e ambientale, dal momento che per definizione perseguono obiettivi opposti: se la GDO e le imprese multinazionali mirano alla ricerca di strategie per aumentare la competitivit e la crescita del fatturato, il CES intende agevolare il miglioramento delle condizioni di vita dei produttori del Sud del mondo con iniziative di sostegno al reddito e progetti di sviluppo a favore delle comunit dei produttori, e, in unottica di pi lungo termine, stimolare unattivit imprenditoriale capace di competere nel mercato internazionale.
4.1 Linterazione con la GDO: nuove forme di distribuzione per il CES
Lentrata dei prodotti equi nella grande distribuzione stata adottata come strategia di crescita da parte di alcune centrali dimportazione del Centro e Nord Europa a partire dalla seconda met degli anni 80: le ATOs desideravano attivare canali di commercializzazione che consentissero ulteriori sbocchi ai prodotti certificati, nonch consentissero a tutti i cittadini di reperire una gamma di prodotti fortemente etici anche nel negozio o nel supermercato tradizionale, in particolare per quanto riguarda larea food, mantenendo al contempo delle condizioni valide e sostenibili per i piccoli produttori 105 . Gli obiettivi di questa strategia inedita non si limitavano per ad allargare i canali distributivi, fino ad allora costituiti solo dalle BdM, e rendere cos pi accessibili i prodotti del commercio equo ad una gamma pi ampia di consumatori, ma cercare anche di intervenire sulla questione rappresentata dalla formazione del prezzo dei prodotti equi. Grazie alleconomia di scala, il ricarico del prezzo della merce distribuita in un supermercato era sempre minore rispetto ai margini 106 stabiliti sui prezzi dei prodotti del commercio equo venduti in una BdM, costretta ad imporre un ricarico ben maggiore per via del suo fatturato ridotto e delle spese pi gravose. Il canale della grande distribuzione ha costituito unopportunit per aumentare i volumi dei prodotti
105 Pastore P. (1997), Marchi etici e di garanzia del Fair Trade: alla ricerca di nuovi canali distributivi in Amatucci F. (a cura di), Il commerciocit., p. 98.
106 Per esempio, secondo lindagine del 1997 condotta da Bell, intitolata Commercio equo: analisi comparata della produzione e distribuzione del caff, il margine stabilito dalle BdM per la vendita del caff di circa il 23 per cento contro l8 10 per cento che si registra nella grande distribuzione.
61 importati dalle centrali dimportazione, che si sono ritrovate a poter convogliare nei canali distributivi tradizionali assortimenti pi considerevoli, costruendo cos piccole economie di scala. Un ulteriore aspetto strategico preso in considerazione grazie allentrata del CES nei canali commerciali della GDO stato il tentativo di far passare importanti principi di regolazione del mercato capitalistico (prezzi prestabiliti e superiori a quelli vigenti, anticipo finanziario ai produttori...), anche se va constatato che la grande distribuzione ha trovato conveniente la rivendita di prodotti equosolidali come strategia di diversificazione dellofferta, senza modificare in maniera rilevante lorientamento del proprio operato sul mercato. Questo ha comportato il forte rischio di perdita e banalizzazione dei principi che distinguono il commercio equo, dovuto al fatto che molte imprese con le quali entrato in relazione continuano ad essere guidate dalla logica del profitto. Sono stati creati appositamente marchi di garanzia etica attraverso i quali certificare inizialmente un gruppo limitato di prodotti alimentari equosolidali, come caff, t e cioccolata che, arrivando sugli scaffali dei punti vendita di imprese commerciali della GDO 107 , hanno seguito il percorso di un nuovo tipo di filiera, chiamata ibrida, in cui la catena di prodotto CES confluisce nei canali distributivi della grande distribuzione, determinando linterazione e la convergenza di operatori legati a contesti economici diversi.
107 Secondo i criteri segnalati dallAssemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale (AGICES), inclusi anche dallOsservatorio Nazionale del Commercio del Ministero dello Sviluppo Economico, per Grande Distribuzione si intende: - grande magazzino: esercizio al dettaglio operante nel campo non alimentare, che dispone di una superficie di vendita superiore a 400 mq e di almeno 5 distinti reparti (oltre leventuale annesso reparto alimentare) ciascuno dei quali destinato alla vendita di articoli appartenenti a settori merceologici diversi ed in massima parte di largo consumo; - supermercato: esercizio di vendita al dettaglio operante nel campo alimentare (autonomo o reparto di grande magazzino) organizzato prevalentemente a libero servizio e con pagamento alluscita, che dispone di una superficie di vendita superiore a 400 mq e di un vasto assortimento di prodotti di largo consumo ed in massima parte preconfezionati nonch, eventualmente, di alcuni articoli non alimentari di uso domestico corrente; - ipermercato: esercizio al dettaglio con superficie di vendita superiore a 2500 mq, suddiviso in reparti (alimentare e non alimentare), ciascuno dei quali aventi, rispettivamente, le caratteristiche di supermercato e di grande magazzino; - minimercato: esercizio al dettaglio in sede fissa operante nel campo alimentare con una superficie di vendita che varia tra 200 e 399 mq e che presenta le medesime caratteristiche del supermercato; - grande superficie specializzata: esercizio al dettaglio operante nel settore non alimentare (spesso appartenente ad una catena distributiva a succursali) che tratta in modo esclusivo o prevalente una specifica gamma merceologica di prodotti su una superficie di vendita non inferiore ai 1500 mq.
62 Il primo marchio di garanzia etica stato Max Havelaar 108 istituito in Olanda nel novembre del 1988 e diffuso poi per opera delle organizzazioni locali di CES in Belgio, Norvegia, Francia, Danimarca e Svizzera 109 : queste organizzazioni sono veri e propri organismi di certificazione che stabiliscono i criteri per il riconoscimento dei prodotti CES, alcuni dei quali sono relativi ai produttori (si scelgono gruppi di produttori con scarsa o nessuna possibilit di accesso al mercato tradizionale), al prezzo (prezzo minimo che copra non solo i costi di produzione ma assicuri al gruppo di produttori un margine per investimenti di tipo sociale o produttivo, a cui si aggiunge un bonus per lincentivazione della coltivazione biologica), al supporto finanziario (prefinanziamento o credito in modo che i produttori non si trovino in difficolt prima della vendita del prodotto) e alla partnership (di lungo periodo per agevolare una pianificazione del produttore che ha cos maggiori certezze per il futuro). In seguito al mancato raggiungimento di accordi relativi alle caratteristiche di commercializzazione e di immagine, alcune ATOs appartenenti a EFTA decidono nel 1992 di creare un altro marchio e rispettivo ente di certificazione, che potesse distinguersi da Max Havelaar per criteri pi rigidi imposti ai licenzatiari (per esempio, soglia del 51 per cento di prodotto equosolidale in caso di prodotti composti). Nasce cos lassociazione di marchio Transfair, con sede a Stoccarda, composta dalle organizzazioni fondate in rapida successione in Austria, Germania, Italia, Stati Uniti, Canada, Lussemburgo e Giappone. Negli anni successivi, a opera di alcune organizzazioni inglesi, viene fondata Fair Trade Foudation nel Regno Unito, con sede a Londra, seguita da Reilun Kaupan e Rttvisemrkt in Svezia e Finlandia. A partire dallaprile 1997, spinti dalla volont di facilitare il riconoscimento dei prodotti equosolidali a livello transnazionale e agevolare la collaborazione tra le organizzazioni, tutti i marchi nazionali di garanzia vengono coordinati da FLO International, Fairtrade Labelling Organization, che basandosi su un quadro di criteri
108 Pseudonimo dellolandese Eduard D. Dekker che, al rientro in patria dopo un lungo soggiorno nelle colonie olandesi dellEstremo Oriente (Indonesia) dove lavor come impiegato statale nella seconda met del XIX secolo, decise di comporre lomonima novella per criticare la politica della Corona olandese che obbligava i contadini di quei territori a coltivare caff per lesportazione nella madrepatria, e negando quindi la possibilit di coltivarlo per il proprio fabbisogno alimentare.
109 Attualmente, con questo marchio, si possono trovare prodotti equi in quasi lintera gamma dei punti vendita della grande distribuzione svizzera.
63 unici, rilascia le licenze duso dellunico marchio di garanzia internazionale, Fairtrade, che si affianca agli enti di certificazione a livello nazionale. I sistemi di certificazione hanno contribuito non solo ad agevolare lintroduzione dei prodotti CES nei canali di consumo di massa, ma anche ad aumentare la loro credibilit e facilitarne il loro riconoscimento da parte dei consumatori allinterno dei punti vendita delle imprese commerciali di grandi dimensioni: la presenza del marchio permette infatti laccesso dei prodotti sugli scaffali, garantendone disponibilit e accessibilit diffuse ed esercitando nel contempo unimportante funzione di legittimazione agli occhi del consumatore 110 . Grazie allingresso dei prodotti CES nei canali della GDO (in tutta Europa, si contano oggi pi di 67.000 punti vendita 111 di supermercati che rivendono i prodotti equosolidali), si registrato un aumento, in termini relativi 112 , delle quote di mercato dei prodotti equi, insieme anche a un aumento delle referenze, ampliandone lassortimento. Nel penultimo rapporto di FINE/EFTA, pubblicato nel 2005, si riconosce apertamente limportanza che hanno assunto i canali distributivi della GDO nella commercializzazione dei prodotti CES: The retailers, both the specialized Fair Trade shops (the Worldshops) and the supermarket chains that prominently place Fair Trade products on their shelves, are key in the process of Fair Trade consumption 113 . Se una delle maggiori organizzazioni del CES a riportare questa constatazione, dunque indiscutibile che la commercializzazione di prodotti CES nella grande distribuzione rappresenti un canale di sviluppo considerevole: ad oggi, si ormai consolidato a livello europeo, ma rimane pi evidente in alcuni paesi (tabella 4), soprattutto dove levoluzione del settore distributivo pi avanzata, come Germania (30.836 punti
110 Zanderighi L. (1997), Offerta dei prodotti etici e grande distribuzione organizzata, in Amatucci F. (a cura di), Il commerciocit., p. 97.
111 Krier J.-M. (2007), Fair Trade 2007: new facts and figures from an ongoing success story. A report on Fair Trade in 33 consumer countries. Bruxels: Dutch Association of Worldshops, FINE Advocay Office. http://www.fairfutures.at/doku/FairTrade2007newfacts+figures.pdf
112 In termini assoluti, le quote di mercato dei prodotti CES rispetto al mercato tradizionale restano comunque marginali, anche dopo la commercializzazione nella GDO (Depperu D. e Todisco A. (2007), Sistemi di creazione di valore nelle filiere equo solidali in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondocit., p. 106).
113 Osterhaus A. (2005), introduzione al rapporto EFTA, Krier J.-M., Fair Trade in Europe 2005. Facts and figures... cit., p.5.
64 vendita tra GDO e negozi tradizionali), unico paese con una larghissima distribuzione al dettaglio dei prodotti CES, seguita da Francia (7.800), Norvegia (5.600), Austria (5.150) e Italia (4.725), al quinto posto nella classifica europea di paesi con pi punti di vendita per i prodotti del CES certificati Fairtrade. da notare che attualmente la commercializzazione dei prodotti del CES, a livello distributivo europeo, si basa su una netta prevalenza dei canali della GDO rispetto a quelli convenzionali costituiti dalle BdM e negozi convenzionali, e sono aumentati del 24 per cento rispetto al 2000, con una crescita particolarmente vivace del 32 per cento proprio nel settore della grande distribuzione. Fuori dallEuropa, il paese con un pi elevato numero di punti vendita risultano gli Stati Uniti (40.280), seguiti dal Giappone (4.170) e Australia con Nuova Zelanda (1.060).
paese punti vendita GDO BdM e negozi tradizionali totale Germania 30.000 836 30.836 Francia 7.500 300 7.800 Norvegia 5.600 n.d. 5.600 Austria 5.000 105 5.150 Italia 4.150 575 4.725 Olanda 4.000 426 4.426 Regno Unito 3.100 (*) 117 3.217 Finlandia 3.000 19 3.019 Danimarca 2.700 14 2.714 Svizzera 2.500 300 2.800 Svezia 2.500 44 2.544 Belgio 700 (*) 296 996 Irlanda 350 8 358 Spagna 95 (*) 120 215 Portogallo 9 (*) 9 (*) 18 Lussemburgo 160 7 167 65 Stati Uniti 40.000 280 40.280 Canada n.p. 50 50 Giappone 3.820 350 4.170 Australia Nuova Zelanda 1.000 60 1.060 Europa (#) 68.864 3.176 72.040 resto del mondo () 44.820 740 45.560 Mondo 113.684 3.916 117.600 (*) 2005 (#) include tutti gli attuali paesi dellUnione Europea e Svizzera, Lussemburgo, Norvegia () include i 5 paesi extra-europei indicati in tabella: Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda
Tabella 4. Numero punti vendita della rete distributiva CES nel mondo
Fonte: Krier J.-M. (2007), Fair Trade 2007: new facts and figures from an ongoing success story. A report on Fair Trade in 33 consumer countries. Bruxels: Dutch Association of Worldshops, FINE Advocay Office. http://www.fairfutures.at/doku/FairTrade2007newfacts+figures.pdf
Se si aggiungono i mercati di altri paesi del mondo dove il CES ha conosciuto una buona diffusione, il numero dei punti vendita in tutto il mondo supera i 100.000. Il mercato italiano presenta caratteristiche proprie: lunico paese in cui pi della met del fatturato totale viene generato dalle BdM, mentre le catene della GDO hanno generato solo il 44 per cento delle vendite, contro una media europea del 75 per cento 114 : nel resto dEuropa infatti la distribuzione tradizionale attraverso la GDO rappresenta il principale canale di diffusione dei prodotti equosolidali. Questa peculiarit del settore distributivo italiano si spiega da un lato per lelevato numero di BdM presenti nella rete di vendita al dettaglio nazionale, ma anche dallaltro lato dal minor sviluppo strategico e manageriale che caratterizza la GDO italiana. Barbetta segnala che la vendita di prodotti equosolidali da parte delle imprese distributrici genera un fatturato ancora estremamente modesto, forse a causa della difficolt che
114 Risso M. (2007), Il ruolo del distributore nellofferta dei prodotti a carattere etico-sociale in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo cit., p. 130.
66 sperimenta nel trasmettere ai consumatori quei contenuti valoriali che sono invece comunicati attraverso le botteghe 115 .
4.1.1 Le filiere ibride
La confluenza di filiere produttive alternative gestite dagli operatori CES con il canale distributivo rappresentato dalla GDO ha creato delle filiere ibride, che si centrano sulla partnership tra centrale dimportazione e impresa della grande distribuzione, quindi fra soggetti molto diversi, che appartengono a culture e pratiche gestionali fra loro distanti ma unite da interessi divenuti complementari.
Figura 9. Schema filiera ibrida con GDO
Fonte: Pepe C. (2007), Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati, Milano: Franco Angeli, p. 29.
Le filiere ibride rappresentano per il CES unopportunit di interazione privilegiata con soggetti che si distinguono per la forte capacit dimpatto sul mercato finale, grazie
115 Barbetta G. P. (2006), Il commercio equo e solidale in Italia, Universit Cattolica del Sacro Cuore, Centro di ricerche sulla cooperazione e il non profit, Working paper n.3, p. 44, Milano.
67 alla notoriet dei loro marchi e delle loro insegne, insieme ad un raggio dazione ampio basato su reti distributive di livello anche internazionale: per questo motivo, la possibilit di gestire relazioni commerciali con interlocutori cos evoluti e competitivi costituisce un confronto e una collaborazione particolarmente interessante per le prospettive di crescita delle pratiche di economia solidale. Se da un lato gli operatori del CES possono aumentare volumi e ampliare i propri canali di distribuzione raggiungendo una maggiore visibilit grazie a nuovi sbocchi di vendita, anche vero che dallaltro lato le imprese della GDO conseguono attraverso i canali offerti dalle filiere ibride un proprio vantaggio, grazie alla maggiore differenziazione dellofferta costituita dalla vendita dei prodotti equi e al recupero di immagine che va a beneficio di tutta la gamma di prodotti trattati col proprio marchio 116 . I distributori riescono cos a beneficiare di un ritorno dimmagine considerevole: la semplice presenza in assortimento di tali prodotti pu apparire, infatti, agli occhi del consumatore, come una presa di posizione dellimpresa verso uno sviluppo concepito secondo principi di equit, condivisione delle responsabilit e solidariet 117 . Le partnership sui cui si basano le filiere ibride comportano quindi un vantaggio condiviso dai suoi intermediari, senza implicare uno stravolgimento dei valori perseguiti: le centrali dimportazione conseguono il miglioramento delle condizioni dei produttori dei PVS attraverso canali di vendita molto pi ampi per i loro prodotti, mentre le aziende della GDO hanno modo di aumentare la propria competitivit attraverso la strategia di diversificazione della propria offerta, rendendosi pi attrattiva di fronte a una clientela che vuole aumentare le proprie possibilit di scelta e si mostra sempre pi sensibile a valori che vanno al di l del semplice bisogno di consumo. Come per segnalato da Pepe, lintroduzione di prodotti ispirati a valori sociali ed etici da parte di imprese industriali e commerciali richiede un atteggiamento innovativo, ma non comporta un cambiamento dellorientamento culturale di fondo 118 . Il CES rimane unopportunit di business per le imprese della GDO, che non sono mosse da
116 Pepe C. (2007), Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo, in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondocit., p. 29.
117 Risso M. (2007), Il ruolo del distributore cit., p. 127.
118 Pepe C. (2007), Filiere tradizionali e filiere alternative cit., p. 29.
68 una semplice vocazione a favorire un consumo responsabile, ma dallinteresse a migliorare la loro performance, legata a obiettivi di mercato e di profitto: la relazione con il CES una risposta al mercato e non un cambiamento della mission aziendale 119 . Tuttavia, non va comunque sottovalutato il valore aggiunto prodotto attraverso le filiere ibride, perch permettono di mettere in atto uninterazione proficua non solo in termini economici ma anche sociali, per via delle implicazioni generate nel contesto sociale a monte della filiera: tutto questo reso possibile grazie a un processo di mediazione degli obiettivi perseguiti dai suoi intermediari, che sono capaci di raggiungere unintesa commerciale inedita, nel rispetto di uneconomia basata sulla consapevolezza delle responsabilit e votata ad un benessere condiviso.
4.1.2 Alcuni esempi di filiere ibride
I circuiti di interazione tra economia solidale e tradizionale si sono stabiliti inizialmente grazie a questo tipo di filiera, formando i primi casi dintegrazione che si sono poi consolidati nel tempo, o sono mutati per sperimentare nuove forme di collaborazione. Questo tipo di filiera permette infatti un primo lancio sperimentale di prodotti equosolidali, senza compromettere limmagine e la produttivit dellazienda distributrice. in un momento successivo che le societ della grande distribuzione decidono se continuare questa forma di collaborazione o dare vita ad una nuova partnership con le centrali dimportazione del CES.
4.1.2.1 Il caso Esselunga Ctm Altromercato
Un caso dintegrazione tutto italiano dato dal partenariato commerciale tra Ctm Altromercato e Esselunga, rispettivamente la prima centrale dimportazione in Italia con sede a Bolzano, seconda per fatturato nel mondo, e la catena leader della grande distribuzione nel Nord e Centro Italia, seconda per fatturato dopo il colosso Coop.
119 Risso M. (2007), Il ruolo del distributore cit., p. 144.
69 La collaborazione iniziata nel febbraio del 2002, ed duplice: da un lato prevede la vendita di prodotti a marchio Ctm Altromercato in appositi spazi allinterno dei punti vendita della catena (testata di corridoio a livello iniziale-centrale dellarea alimentare); dallaltro lato, la fornitura da parte di Ctm Altromercato di materie prime alimentari che si inseriscono nellofferta della linea a marchio Esselunga Bio, che hanno lo scopo di ampliare la gamma a marchio dellimpresa distributiva, composta da prodotti alimentari ottenuti da coltivazione biologica. In questo caso, si tratta di prodotti che appaiono con private label Esselunga, dislocati allinterno delle categorie merceologiche tradizionali in cui suddivisa larea di vendita, ma in realt sono forniti e lavorati direttamente dalla centrale dimportazione Ctm Altromercato, e sono limitati alla sfera dei prodotti alimentari coloniali, come banane, zucchero di canna, t verde, cacao e caff. Lintroduzione di questi prodotti determina un ritorno dimmagine considerevole per la catena distributrice, che agli occhi del consumatore si vede impegnata nello stesso tempo ad appoggiare forme di coltivazione rispettose dellambiente e a dare un supporto concreto alleconomia solidale. Per questo, si tratta di una politica assortimentale molto diffusa, in cui i distributori mirano a rafforzare una tipologia di prodotti combinando contenuti e caratteri diversi: in questo caso, i valori etici sono abbinati alla valenza biologica. Questa scelta anche motivata dal fatto che i consumatori siano pi propensi allacquisto di prodotti etici se questi garantiscono anche il loro carattere salutare rispetto a quelli del commercio tradizionale, come stato rilevato da recenti studi di mercato.
4.1.2.2 Il caso Dico Commercio Alternativo
La partnership che ha costituito in tempi recenti una nuova filiera ibrida nel panorama distributivo italiano stata quella avviata nellottobre 2007 da Dico, catena di discount di propriet Coop Italia, e Commercio Alternativo, centrale dimportazione di Ferrara e seconda a livello nazionale. Seguendo lesempio della catena tedesca di discount Lidl, prima in Italia ad introdurre referenze equosolidali nei magazzini dei prodotti senza marca, i punti vendita Dico hanno proposto inizialmente 3 referenze (t English breakfast, t verde e cioccolata spalmabile). 70 Dopo i risultati positivi riscontrati con questa prima fase sperimentale, successivamente, nel luglio del 2008, la partnership ha previsto il lancio della linea con il nuovo marchio Equosolidale, in assortimento in tutti e 300 punti vendita, fornita direttamente da Commercio Alternativo e certificata Fairtrade Transfair Italia. La linea prevede 11 referenze che includono nuovi prodotti come caff, zucchero di canna e cacao 120 .
4.2 La responsabilit sociale nella GDO: una nuova interazione con il CES
Se un primo passo verso uninterazione tra economia solidale e mercato tradizionale stato mosso dagli operatori del CES, in un momento successivo sono state le imprese della grande distribuzione ad avvicinarsi ai temi della responsabilit sociale, relazionandosi con alcuni attori del CES. Questo orientamento innovativo 121 stato adottato prevalentemente dalle imprese della distribuzione commerciale pi lungimiranti e con una forte inclinazione al cliente, ampliando i propri obiettivi al di l dellorizzonte delle performance strettamente economiche, per dare maggiore importanza alla capacit di interagire con i suoi propri interlocutori, differenziarsi dalla concorrenza, e prestare maggiore attenzione alle esigenze di una clientela in aumento che pratica un consumo critico e responsabile. In breve, si possono riconoscere tre ordini di motivi che hanno spinto le imprese della GDO a referenziare e inserire nel proprio assortimento i prodotti equosolidali: la domanda di prodotti con una valenza etica da parte dei consumatori, interessati a trovare i prodotti del CES allinterno dei supermercati e degli ipermercati;
120 Transfair Italia (2007 - 2008), Prodotti equosolidali nei discount: anche Dico propone referenze certificate Fairtrade, articolo del 17/10/2007 e Dico e Commercio Alternativo insieme per una nuova linea equosolidale, articolo del 27/6/2008, inseriti nella sezione news del sito internet di Fairtrade - Transfair Italia (http://www.transfair.it/).
121 Alcuni esempi concreti di questo orientamento da parte delle imprese della GDO sono costituiti dalla presentazione annuale di un Bilancio Sociale (CSR report), ladozione di codici di condotta etica, soprattutto legati alla correttezza nei rapporti con la forza lavoro, e lofferta di prodotti riferiti alla sostenibilit sociale e ambientale a partire dallinizio della filiera produttiva (Risso M. (2007), Il ruolo del distributore cit., p. 125).
71 lopportunit di differenziare la propria offerta di beni e servizi, aumentando la propria competitivit rispetto le imprese concorrenti e dando risposta a nuovi segmenti di consumo: lelevata concorrenza tra diverse forme distributive (supermercato, ipermercato, discount) e tra differenti insegne che operano con la stessa forma distributiva allinterno di uno stesso bacino commerciale spinge le imprese ad ampliare gli assortimenti per limitare un confronto competitivo basato basicamente sul prezzo e salvaguardare cos il livello del margine di guadagno; in termini di fatturato e margine, i prodotti equosolidali assicurano risultati economici sia direttamente con la loro vendita che indirettamente attraverso la creazione di un maggior traffico nel punto di vendita: fuor di dubbio che la logica di mercato con cui opera la GDO non possa che valutare linserimento di questi prodotti secondo unottica economica e non di natura meramente sociale (in caso contrario, si tratterebbe di unatto di puro e semplice mecenatismo commerciale 122 . Le azioni strategiche messe in atto dai distributori sono andate oltre la partnership con le centrali dimportazione del CES, arrivando a costituire delle filiere autonome, in cui controllano e gestiscono non solo la distribuzione, ma anche i processi di produzione e trasformazione dei beni con una valenza etica, distribuiti con il marchio dellinsegna commerciale (private label), da includere nellofferta di vendita per i propri consumatori. Questo tipo di filiere sono state denominate imitative, perch intendono imitare i passaggi di filiera del CES generalmente gestiti dalle centrali dimportazione, senza per ricorrere alla loro mediazione, conservando comunque un legame con i circuiti del CES sotto il profilo della certificazione. Questo indica chiaramente che si delineata una nuova interazione tra le imprese commerciali dedicate alla distribuzione e gli intermediari del CES, basata prevalentemente sui rapporti con gli organismi di certificazione: se prima la scelta di interagire con il CES consisteva nel rivendere prodotti importati e confezionati dalle centrali dimportazione, limitandosi a introdurre sui propri scaffali prodotti a pi alto contenuto etico-valoriale attraverso la filiera ibrida, ora i distributori optano anche per linserimento nei propri assortimenti di linee di prodotti a marchio proprio certificati
122 Zanderighi L. (1997), Offerta dei prodotti etici e grande distribuzione organizzata in Amatucci F. (a cura di) Il commercio cit., p. 95.
72 secondo i criteri delleconomia solidale dagli enti preposti a garantire il rispetto degli stessi. Se da un lato questa scelta della GDO dimostra una maggior sensibilizzazione alla responsabilit sociale perch comporta investimenti pi considerevoli, dallaltro lato questa strategia permette di individuare filiere pi brevi, in modo da poter lucrare margini pi alti e sviluppare politiche commerciali pi adatte al proprio target di mercato, riducendo il numero degli operatori nella catena di fornitura e facilitando la propria predominanza. Recentemente, alcuni distributori hanno deciso di svincolarsi dagli enti di certificazione del CES, scegliendo il percorso dellautocertificazione e puntando sulla fiducia riservata dai clienti allinsegna commerciale. Questa direzione implica la dissoluzione dei legami instaurati con il CES, per perseguire lobiettivo di garantire un rapporto qualit/prezzo pi concorrenziale e di limitare lo sforzo di riconfigurazione delle filiere.
In definitiva, si possono riconoscere scelte differenti di marketing, talvolta complementari, da parte della GDO per quanto concerne lofferta di prodotti a contenuto etico 123 , a seconda del diverso posizionamento strategico dei distributori rispetto alle tematiche di responsabilit sociale: prodotti confezionati e diffusi dagli operatori del CES e rivenduti dalla GDO (attraverso le filiere ibride); prodotti a marchio del distributore certificati dagli enti di certificazione (come FLO-CERT con il marchio Fairtrade), provenienti da filiere direttamente gestite dallimpresa distributrice (le filiere imitative); prodotti a marchio del distributore autocertificati; prodotti etici a marchio industriale, che possono essere certificati o meno dagli organismi di certificazione del CES.
123 Risso M. (2007), Il ruolo del distributore cit., p. 131.
73 4.2.1 Le filiere imitative condotte dalle imprese della GDO
Negli ultimi anni, i grandi distributori sono riusciti a guadagnarsi un ruolo sempre pi predominante allinterno delle filiere prodotto, e la spiegazione di questo fenomeno duplice: da un lato, sono favoriti dal loro peso economico e dalla capacit di governare i circuiti di fornitura, detenendo una leadership di canale considerevole, mentre dallalto lato la vicinanza al consumatore e la capacit di conoscere il mercato permette di pianificare politiche di marketing efficaci, rispondendo alla richiesta di maggiore eticit e responsabilit avanzata dai consumatori pi critici. Questi due aspetti si sono rafforzati reciprocamente e hanno portato le imprese distributrici pi competitive, soprattutto in contesti evoluti come il Regno Unito o altri paesi del Centro e Nord Europa, a creare ex novo filiere produttive che imitano le filiere del CES, entrando in diretto contatto con le organizzazioni di produttori dei PVS per limportazione di una limitata gamma di beni (solitamente ristretta a caff, t, banane, ossia le referenze CES pi conosciute), di fatto sostituendosi alle centrali dimportazione del CES. Le filiere imitative sono costituite da catene di fornitura gestite dalle imprese della GDO che, sulla scia di quelle del CES, garantiscono il contenuto etico dei loro prodotti a partire dalla correttezza ed equit dei rapporti di scambio e dal rispetto del contesto sociale e ambientale dei fornitori, coerentemente con la prospettiva economica relazionale, che sottolinea la qualit della partnership, duratura e collaborativa, pi che la transazione commerciale come strumento di mercato 124 . Queste filiere permettono allimpresa distributrice di gestire in autonomia lofferta di prodotti equi e solidali, ma necessita dellintervento degli enti di certificazione del CES, che garantiscono il rispetto dei valori etici che intendono veicolare. Per questo, le imprese della GDO sono chiamate a sottoscrivere accordi per ottenere la licenza duso del marchio di garanzia etica da applicare sui propri prodotti, realizzando cos una relazione diversa con gli intermediari del commercio equo, limitata allorganismo certificatore. Il distributore che diviene licenziatario del marchio di garanzia deve pagare le rispettive royalties allente di certificazione, che svolge la funzione di controllo e garanzia anche a tutela dellacquisto del consumatore.
124 Paganetto L. (2007), prefazione del volume di Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo cit., p. 9.
74 I vantaggi conseguiti dallimpresa distributrice non si limitano ad instaurare rapporti diretti con fornitori gi accreditati dai canali CES (attraverso FLO International), ma pu riconvertire filiere di fornitura gi esistenti in modo che possano ricevere la certificazione. Coerentemente con le strategia di crescita ed espansione della GDO, i distributori sono in grado cos di differenziare e rinnovare lofferta, non limitandosi a interventi sulla composizione degli assortimenti e sul rapporto qualit/prezzo dei prodotti, ma ridefinendo direttamente le filiere produttive, incidendo anche sulla differenziazione e innovazione dellassortimento equo e solidale. Questo rappresenta il potere dinfluenza che possono raggiungere le imprese distributive, che conseguono in questo modo un ampliamento delle proprie competenze: qui che sorge il timore da parte di alcuni operatori del CES per lo sfruttamento dei principi equosolidali messo in atto dalle imprese di distribuzione di massa.
Lattenzione dei distributori commerciali ai prodotti equo e solidali decisamente in crescita, ed dimostrato dalla messa a punto di politiche di marketing mirate a cogliere le opportunit offerte dal CES: la creazione di unimmagine positiva dellimpresa e di un capitale di fiducia ispirata dallequo e solidale presso i consumatori, che tendono a identificare limmagine dellimpresa con i contenuti valoriali dei prodotti; larricchimento dellofferta attraverso linserimento di prodotti ad alto contenuto etico nella politica del marchio commerciale (solitamente il marchio insegna); il controllo della politica di prezzo interamente gestita dal distributore 125 , coerentemente con il rispetto dei valori di equit dello scambio, con la quale si tende ad armonizzare il prezzo finale a scaffale con quello della stessa categoria merceologica, con la scelta diffusa da parte delle imprese della GDO di non imporre margini di troppo superiori a quelli medi della categoria 126 ;
125 A differenza delle filiere ibride, nelle quali il prezzo al consumo dei prodotti etici provenienti dai canali del CES commercializzati dalla GDO erano generalmente imposti dalle centrali dimportazione.
126 Risso riporta che fra le imprese della distribuzione si sta comunque diffondendo una posizione per la quale il plus previsto per i prodotti fair non deve essere totalmente a carico dei consumatori e il margine sui prodotti fair non deve essere maggiore al margine medio di categoria (in Risso M. (2007), Il ruolo del distributore cit., p. 138). 75 ladozione di tecniche di merchandising mirate a migliorare la visibilit e le performance di vendita dei prodotti etici, con la tendenza a dedicare spazio nelle rispettive categorie merceologiche per stimolare processi di comparazione da parte dei clienti. Attraverso queste politiche di marketing, le aziende della GDO cercano un bilanciamento tra determinazione del prezzo, le strategie di comunicazione e la definizione degli assortimenti per sfruttare, in unottica di lungo termine, le potenzialit di diffusione dei prodotti a valenza etica, superando quellimmagine di nicchia che riveste oggi.
4.2.2 Alcuni esempi di filiere imitative condotte dalle imprese della GDO
Non possibile riconoscere un approccio unico da parte dei distributori nel proporre unofferta di prodotti a contenuto socialmente responsabile. A titolo esemplificativo, utile passare in rassegna alcuni casi emblematici, come le scelte messe in atto da Tesco plc, la maggiore catena distributiva in termini di fatturato nel Regno Unito, la diretta concorrente inglese Marks&Spencer, e il caso tutto italiano di Coop, il primo operatore per fatturato della GDO in Italia con 1158 punti vendita su tutto il territorio nazionale, e fra le prime 30 imprese distributrici in Europa 127 .
4.2.2.1 Il caso Tesco plc
La maggiore impresa del settore distributivo inglese stata tra i precursori dellinserimento di prodotti a contenuto etico negli scaffali dei punti vendita dalle grandi superfici. Se inizialmente si avvalsa dellofferta di prodotti realizzati da centrali dimportazione attraverso filiere ibride, successivamente, in tempi molto brevi, Tesco plc ha lanciato una linea di prodotti a marchio proprio costituendo proprie filiere imitative e, dove possibile, ha convertito filiere preesistenti di prodotti provenienti dal Sud del mondo ai principi dellequo e solidale, ricevendo la licenza duso del marchio
127 Cfr. appendice 4.
76 britannico Fair Trade Foundation. Nei due anni successivi, limpresa distributrice ha ampliato lofferta arrivando a proporre un assortimento di 90 referenze, includendo anche prodotti equi innovativi, come rose, mango, avocado, agrumi e biscotti. Nel solo 2005 le vendite di prodotti equosolidali della catena hanno conseguito un incremento del 60 per cento, e da sola limpresa della GDO ha rappresentato un terzo della quota di mercato equo e solidale nel Regno Unito. Anche se la linea solidale a marchio insegna non assume un ruolo centrale nella governance dellimpresa, continua a rappresentare un aspetto importante della sua offerta che contraddistingue lidentit dellinsegna 128 .
4.2.2.2 Il caso Marks&Spencer
Tra le insegne pi amate delle catene di distribuzione inglesi, la societ nata proponendo un assortimento di prodotti di abbigliamento in stile british a marchio insegna e solo in seguito ha allargato lofferta al settore alimentare. Ci che contraddistingue M&S la presenza del marchio insegna nellintero assortimento, e con il tempo questa strategia ha favorito da parte dei clienti una percezione di completa fiducia e identificazione tra prodotti e distributore. Limpresa ha sempre pianificato campagne di comunicazione orientate al rispetto di principi etici condivisi a livello internazionale in relazione al rispetto delle condizioni di lavoro, dei diritti umani e della salvaguardia ambientale: in questo senso, M&S ha sempre dimostrato un impegno nel riconoscere la propria responsabilit sociale dimpresa, ed arrivata a costituire una filiera imitativa che rispettasse tutti i criteri del CES come scelta conseguente, per riconfermare limmagine conquistata nel tempo dallimpresa e per offrire una gamma a marchio proprio equosolidale, anche perch i consumatori inglesi tendono a ricercare specificatamente i prodotti filiera contraddistinta dai valori del CES. Forte del suo rapporto con il consumatore e del suo ruolo di leader di filiera, limpresa si distinta in una prima fase nelloperare in piena autonomia rispetto ai certificatori del CES, senza richiedere la licenza duso dei marchi di garanzia, scegliendo di autocertificarsi con lintento di evitare il maggiore costo dovuto alle
128 Risso M. (2007), Il ruolo del distributore cit., p. 132.
77 royalties e di mantenere cos un buon rapporto prezzo-qualit. In breve, limpresa ha dovuto rinunciare alla strada dellautocertificazione, anche a causa della pressione mediatica e delle associazioni inglesi di CES, arrivando a richiedere la licenza duso allente certificatore Fair Trade Foundation. Lassortimento equosolidale a marchio insegna include referenze alimentari come caff, t e prodotti freschi come avocado, mango, ananas e banane, mentre per il settore non-food si limita ad alcuni capi dabbigliamento in cotone. Una peculiarit che distingue ancora una volta linsegna la vendita di caff equo: non disponibile sugli scaffali dei punti vendita, ma viene solo venduto nelle caffetterie dei negozi, usate come strutture di servizio complementare alla superficie di vendita, per cui si garantisce un caff in tazza 100 per cento equo, assicurando il consumo di un volume che raggiunge il 22 per cento di tutto il caff consumato nel Regno Unito. Questa scelta strategica dovuta al fatto che il caff venduto come prodotto in polvere risulterebbe meno appetibile per via dei costi maggiori, e inoltre non garantirebbe quel margine che limpresa ricava dalla vendita del caff in tazza, che inoltre rende pi agevole la destinazione di una quota pi consistente dei ricavi per finanziare un pagamento pi alto per i produttori.
4.2.2.3 Il caso Coop Italia
Il primo gruppo della GDO italiana ad includere nelle politiche di marketing i fondamenti della responsabilit sociale dimpresa stata Coop, che alla fine del 1995 ha costituito una prima filiera imitativa per linserimento di una miscela di caff che rispettasse i criteri equosolidali allinterno della gamma di caff a marchio proprio. I fornitori della materia prima erano piccoli produttori dei paesi del Centro America (in particolare Messico, Guatemala e Nicaragua). In seguito, la catena distributiva ha siglato contratti di acquisto (prezzi equi garantiti, prefinanziamenti agevolati, contratti di lunga durata) per altri prodotti del settore alimentare, che arrivavano sugli scaffali dei punti vendita nella linea a marchio dinsegna Per la solidariet, certificata da Trasnfair Italia. 78 Nel 1997 arriva a offrire, a fianco dei prodotti alimentari equi, anche prodotti non alimentari importati dal Sud Est asiatico, sottoposti a un controllo e certificazione etica da parte dellente certificatore italiano di CES. Nel corso dellanno successivo, Coop propone alla clientela il primo pallone di cuoio da calcio equosolidale grazie allaccordo stipulato con la societ Talon di Sialkot, in Pakistan, con il quale si impegnava a garantire commesse continuative negli anni a patto che limpresa produttrice pakistana rispettasse i principi sanciti dallOil per quanto riguarda le condizioni dei lavoratori, garantendo sicurezza e salubrit degli ambienti di lavoro, e il divieto al ricorso di manodopera minorile. Nel febbraio 2003 si inaugura la linea di prodotti equosolidali a marchio proprio con il nuovo nome Solidal, certificata sempre da Transfair Italia, consolidando le filiere stabilite con i produttori in partnership nei PVS: oggi include 61 referenze, tra prodotti alimentari freschi e confezionati e prodotti non-food 129 . Negli ultimi anni sono entrate a farne parte sia nuove referenze del comparto alimentare (riso, zucchero di canna, frutta fresca come banane e ananas) che nel settore non alimentare, come per esempio una linea dabbigliamento che include camicie e polo in cotone biologico proveniente da Africa (Camerun, Mali, Senegal, Burkina Faso), India, Nepal e Argentina, con progetti promossi direttamente da Coop 130 (alcuni dei progetti sono Tuscany Kerala Garment, una fabbrica con pi di 150 donne di Madaplathuruth, nellIndia meridionale, la catena tessile integrata creata in collaborazione con la fondazione umanitaria bioRe India, a cui aderiscono 5.000 agricoltori indiani dellIndia centrale e infine il progetto pilota con Ctm Altromercato per la produzione di T-shirt nelle fabbriche argentine occupate dai dipendenti dopo la crisi economica del 2001-2002), alcuni dei quali senza per la certificazione di Transfair Italia: in questo caso, si adottata la strategia inedita dellautocertificazione, puntando sulla fiducia instaurata con la clientela che da pi di 11 anni acquista i prodotti della linea etica gestita dallimpresa distributrice 131 . Un progetto che rientra nel settore non-food quello lanciato nel 2007 per limportazione di rose recise keniane certificate Fairtrade, che provengono da tre aziende della zona del
129 Coop Italia (2007), Bilancio dei prodotti a marchio Coop 2007. Tutti i nostri frutti, settore per settore. p. 39 http://www.e-coop.it/CoopRepository/COOP/CoopItalia/file/fil00000059310.pdf.
130 Ibid. pp. 43 44.
131 Risso M. (2007), Il ruolo del distributore cit., p.135.
79 lago Naivasha, scelte sia per le tecniche colturali a basso impatto ambientale, che per il rispetto degli standard SA 8000. Tra il 2005 e il 2007, Coop ha registrato un raddoppio delle vendite di prodotti della sua linea equosolidale nellarco di due anni, con una crescita del fatturato da 10,7 milioni a 21 milioni di euro, dimostrando unaccoglienza eccezionale da parte dei consumatori. Nei primi quattro mesi del 2007, solo per la linea dabbigliamento solidale si registrato un aumento delle vendite del 120 per cento 132 . Stando a questi dati numerici, utile tenere in considerazione che il giro daffari generato dalla vendita dei prodotti Solidal Coop incide solo per circa lo 0,5 per cento sul totale dei prodotti a marchio insegna 133 . Per completare il quadro delle strategie adottate da Coop nel campo della responsabilit sociale dimpresa, da segnalare anche la vendita di vino e altre referenze prodotte dalla cooperativa Libera Terra, che gestisce coltivazioni nel Sud Italia in terreni confiscati alla mafia.
0 5 10 15 20 25 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 vendi te in mil ioni di euro
Grafico 1. Andamento delle vendite dei prodotti delle linee Per la Solidariet e Solidal Coop
Fonte: Coop Italia (2007), Bilancio dei prodotti a marchio Coop 2007. Tutti i nostri frutti, settore per settore. p. 26 http://www.e-coop.it/CoopRepository/COOP/CoopItalia/file/fil00000059310.pdf
132 Amato R. (2007), DallAfrica al Sud America la catena della solidariet, Repubblica Affari&Finanza del 18/6/2007.
133 Didero L. (2006), Un business dal Sud del mondo, Largo Consumo, fascicolo 7/2006.
80 4.3 Le interazioni tra CES e GDO: il contesto italiano
Il variegato panorama della grande distribuzione italiana ha iniziato a proporre unofferta di prodotti con una valenza etica negli assortimenti dei generi alimentari solo nellultimo decennio, dimostrando un certo ritardo rispetto alle scelte effettuate dalle imprese che operano nello stesso settore in altri paesi europei. da sottolineare inoltre un altro aspetto che contraddistingue il settore italiano della GDO rispetto a quello europeo, per cui la collaborazione tra imprese commerciali e operatori del CES non si consolidata a partire da partenariati per la costituzione di filiere ibride ma si da subito stabilito il modello della filiera imitativa, con la creazione nel 1995 della prima linea a marchio insegna da parte di Coop Italia. Sin dalla creazione del marchio di garanzia Transfair Italia, Coop ha sempre ottenuto la licenza duso dellente di certificazione italiano. Il colosso francese Carrefour, prima impresa distributrice in Europa per fatturato 134 , si decide a inserire in 300 punti vendita del territorio italiano i prodotti equosolidali del marchio Mondovero (caff, t, cacao, cioccolata, miele) solo a partire dal 2001: si tratta della costituzione di una filiera ibrida peculiare, perch non prevede la classica interazione con una centrale dimportazione di commercio equo, ma al suo posto vi un consorzio di tre aziende tradizionali di trasformazione italiane (Pompadur, Conapi e Coind) che, dal 1998, decidono di creare un marchio di prodotti a valenza etica importando materie prime da circa 300 organizzazioni di produttori dei PVS, per potersi distinguere sul mercato della trasformazione come aziende attente a sviluppare canali produttivi ad alta responsabilit sociale. Dal 2005, il marchio Mondovero viene sostituito da quello di Alce Nero, in seguito alla partenrship con il gruppo Alce Nero & Mielizia 135 . La stessa scelta iniziale di Carrefour viene adottata anche dalle imprese della grande distribuzione italiane Pam e Conad (oggi seconda a Coop Italia per fatturato, dopo le
134 Cfr. appendice 4.
135 Cfr. paragrafo 4.4.3.
81 alleanze con Interdis e la catena francese E. Leclerc), che dal marzo 2001 ampliano lassortimento dei prodotti alimentari con le referenze di Mondovero 136 . A partire dal 2003, nei punti vendita Conad la gamma di prodotti equi si ampliata, e attualmente costituita da 58 referenze a marchio proprio, tra cui alcuni prodotti ortofrutticoli, come gli ananas importati dalla cooperativa Ghanacoop 137 , guidata dalla comunit di ghanesi (circa 3000 persone) di Modena che mira a incentivare leconomia e lo sviluppo del proprio paese dorigine con diverse iniziative, tra cui la commercializzazione di prodotti equosolidali freschi. in cantiere il progetto di costituire unazienda agricola in Ghana chiamata Migrants for Ghan-Africa, per la coltivazione di mais, pomodori e altri prodotti freschi. Al lato della commercializzazione di prodotti etici, il gruppo Conad molto impegnato anche nel finanziamento di progetti assistenziali nel campo sanitario per migliorare le condizioni di vita nei PVS. Nel marzo del 2002, dopo una fase di monitoraggio dellandamento delle vendite delle referenze equosolidali, Carrefour diffonde i prodotti a marchio Mondovero anche nei punti vendita di sua propriet a insegna GS e Di per Di: linserimento prevede il posizionamento dei prodotti Mondovero in specifici espositori visibili allintero dei punti vendita. Con questa ulteriore diffusione, i prodotti equosolidali arrivano ad essere raggiungibili complessivamente in 3.500 punti vendita della grande distribuzione 138 . Nel febbraio 2002 un altro importante operatore della grande distribuzione decide di inserire prodotti equosolidali nei propri punti vendita: Esselunga stabilisce una filiera ibrida con Ctm Altromercato, rivendendo sia i suoi prodotti in appositi spazi visibili nel
136 Transfair Italia (2001), Pam e Conad inseriscono i prodotti Mondovero garantiti TransFair Italia, articolo del 13/03/2001, consultabile alla sezione news di www.transfair.it (http://www.transfair.it/site/news/010313.html).
137 Conad (2008), Lananas pi buona si chiama Ghanacoop, articolo del 17/03/2006 e In Ghana una rete sanitaria grazie alla solidariet, articolo del 18/04/2008, consultabile alla sezione news di www.conad.it.
138 Transfair Italia (2002), Con Carrefour altri mille punti vendita per i prodotti garantiti da TransFair, articolo del 29/03/2002, consultabile alla sezione news di www.transfair.it (http://www.transfair.it/site/news/020329.html).
82 reparto alimentare, che ampliando la linea a proprio marchio biologico con materie prime fornite dalla centrale dimportazione italiana 139 . Nel marzo del 2002 i prodotti Mondovero biologici vengono adotatti da NaturaS, limpresa distributrice italiana nata nel 1992 che si distingue per la vendita di prodotti biologici attraverso catene di supermercati e superttes, sparse nel Nord e Centro Italia. A distanza di pi di un anno, nel novembre 2003, la catena NaturaS istituisce filiere imitative con la creazione del marchio insegna I prodotti della natura, certificati Fairtrade Transfair Italia, che garantiscono allo stesso tempo il rispetto dei criteri del CES e metodi di produzione sostenibili perch biologici 140 . Sul modello della linea Solidal di Coop Italia e della gamma equosolidale a marchio insegna di Conad, nel novembre 2006 Crai lancia la sua gamma equosolidale a marchio proprio in tutti i punti vendita della catena, con tre referenze che si affiancano allofferta convenzionale a marchio insegna, e altre tre che ampliano lassortimento dei prodotti private label, tutte e sei certificate da Fairtrade Transfair Italia 141 . Anche la grande multinazionale francese Auchan, con 49 ipermercati in Italia, intraprende la stessa direzione, con una linea equosolidale a marchio proprio certificata Fairtrade, che include 9 referenze 142 . Nellottobre 2007, i prodotti equosolidali arrivano anche nei discount italiani: la catena tedesca Lidl inaugura nei suoi 45 punti vendita italiani una linea a marchio proprio chiamata Fairglobe che si basa sui criteri del CES, e comprende 7 referenze alimentari 143 . Nello stesso periodo, i discount Dico di propriet Coop Italia, stabiliscono una filiera ibrida con la centrale dimportazione di Ferrara Commercio Alternativo.
139 Esselunga (2002), Esselunga e Ctm Altromercato insieme, comunicato stampa del 20/02/2002, consultabile nellarea stampa del sito www.esselunga.it (http://www.esselunga.it/default.aspx?idPage=570).
140 Transfair Italia (2003), NaturaS inaugura la nuova linea private label dedicata al commercio equo e solidale e garantita dal marchio TransFair, articolo del 4/11/2003 consultabile alla sezione news di www.transfair.it (http://www.transfair.it/site/news/031106.html).
141 Crai (2006), Crai presenta la linea equosolidale, comunicato stampa del 12/09/2006, consultabile nellarea stampa del sito www.crai-supermercati.it (http://www.crai- supermercati.it/sala_stampa/comunicati/2006/Linea-Equo-Solidale_06.pdf).
143 Transfair Italia (2007), Io faccio la spesa giusta: Lidl lancia la nuova linea equosolidale Fairglobe, articolo del 11/10/2007, consultabile alla sezione news di www.transfair.it (http://www.transfair.it/site/news/071011.html).
83
In sintesi, la strategia maggiormente adottata dalle societ italiane e straniere che operano nella GD italiana prevede la creazione di filiere imitative per la vendita di prodotti etici a marchio proprio certificati dallorganismo Fairtrade - TransFair Italia, come indicato nella tabella 2. La stragrande maggioranza delle imprese distributrici ha scelto di ampliare lassortimento dei propri prodotti scegliendo referenze equosolidali appartenenti esclusivamente al reparto alimentare (ad esclusione della linea dabbigliamento e i palloni da calcio Solidal di Coop Italia) senza la mediazione di centrali dimportazione (a parte il caso Esselunga e Dico), creando linee prodotto a marchio proprio o rivendendo prodotti di aziende che hanno convertito alcune filiere produttive al CES. Oltre allesigenza di diversificare le fonti di approvvigionamento e di non sottostare al potere di mercato delle ATOs, le imprese della GDO hanno scelto di creare filiere imitative autonome con lobiettivo di sottrarsi alle politiche commerciali delle ATOs, considerate anticompetitive e inaccettabili: un esempio di questo il prezzo di vendita imposto da parte della centrale dimportazione.
84 insegna impresa GDO anno politica adottata per linserimento di prodotti equosolidali certificazione fine 1995
filiera imitativa per prodotti a marchio proprio Per la Solidariet, denominta nel 2003 Solidal; oggi costituita da 61 prodotti alimentari e non, includendo abbigliamento e palloni da calcio
Fairtrade - TransFair Italia su quasi tutte le referenze della linea Solidal COOP 2007/2008
filiera ibrida per commercializzazione in 236 punti vendita della catena di discount Dico di prodotti della ATO italiana Commercio Alternativo, con la quale ha creato il marchio Equosolidale
Fairtrade - TransFair Italia 2001
commercializzazione in circa 300 punti vendita di prodotti equosolidali del marchio Mondovero/Alce Nero
Fairtrade - TransFair Italia CARREFOUR marzo 2002
commercializzazione nei punti vendita GS e Di per Di dei prodotti del marchio Mondovero/Alce Nero
Fairtrade - TransFair Italia PAM marzo 2001
commercializzazione prodotti del marchio Mondovero/Alce Nero in tutti i punti vendita Pam e Panorama
Fairtrade - TransFair Italia marzo 2001
commercializzazione prodotti del marchio Mondovero/Alce Nero in tutti i punti vendita
Fairtrade - TransFair Italia CONAD 2003
filiera imitativa per prodotti ortofrutticoli e non a marchio proprio composta da 58 referenze
Fairtrade - Trans Fair Italia ESSELUNGA febbraio 2002
filiera ibrida per commercializzazione prodotti Ctm Altromercato e ampliamento linea Esselunga Bio con materie prime fornite da Ctm Altromercato
autocertificata NATURAS marzo 2002 commercializzazione in 25 punti vendita di prodotti Mondovero Bio Fairtrade - TransFair Italia 85 novembre 2003
creazione di una filiera imitativa con il marchio I prodotti della natura
Fairtrade - TransFair Italia CRAI novembre 2006
filiera imitativa per i prodotti a marchio proprio Buono in tutti i sensi per una gamma di 6 referenze
Fairtrade - TransFair Italia ottobre 2007
filiera imitativa per i prodotti a marchio proprio in 49 ipermercati
Fairtrade - Trans Fair Italia AUCHAN 2007
commercializzazione prodotti equi a marchio proprio nei circa 200 punti vendita Sma, Cityper e Simply
Fairtrade - Trans Fair Italia LIDL ottobre 2007
filiera imitativa per i prodotti a marchio Fairglobe per una gamma di 7 referenze in 450 supermercati discount
Fairtrade - TransFair Italia
Tabella 5. Schema riassuntivo delle politiche di inserimento dei prodotti CES
Fonte: propria elaborazione
86 4.4 La responsabilit sociale delle imprese industriali: nuovi prodotti etici
La diffusione di criteri e pratiche uscite dai circuiti del commercio alternativo, della finanza etica e del consumo critico si stanno riproducendo allinterno di filiere governate da soggetti tradizionali e rivolte a un pi ampio mercato. Si tratta di processi di imitazione basati sullo sviluppo di filiere Sud-Nord ispirate ai valori di sostenibilit, ma che il pi delle volte non hanno collegamenti diretti con le filiere del CES: queste strategie rientrano nella logica della responsabilit sociale dimpresa, con la quale le societ tradizionali si fanno carico dellimpatto economico, sociale e ambientale delle proprie attivit. Si sono dunque costituite catene di fornitura che, sulla scia di quelle del CES (attraverso la certificazione, o la sola imitazione) garantiscono il contenuto etico dei loro prodotti, a partire dalla correttezza ed equit dei rapporti di scambio e dal rispetto del contesto sociale e ambientale, coerentemente con la prospettiva economica relazionale, che sottolinea laspetto relazionale pi che quello di mercato 144 .
4.4.1 Le filiere imitative condotte dalle imprese industriali
Liniziativa parte dalle imprese industriali del mercato tradizionale, come le multinazionali, alla ricerca di nuovi canali di fornitura pi convenienti, che permettono di eliminare fasi intermedie e di integrare uno o pi di quei valori extra-economici (soprattutto, rispetto dellambiente e diritti dei lavoratori) che hanno la capacit di rinnovare limmagine dellimpresa e soddisfare le esigenze di consumo dei gruppi di consumatori pi responsabili e critici. Questi canali di fornitura pi convenienti non sono altro che filiere imitative, simili a quelle condotte dalle imprese della grande distribuzione ma gestite direttamente o da grandi e medie imprese di trasformazione, come le multinazionali, o da piccolo-medie societ in terzismo con i marchi privati della GDO. Entrambi i soggetti possono avvalersi o meno di un ente certificatore del CES per garantire il rispetto e lattenzione ai valori etici, e quando questo avviene, costituisce
144 Paganetto L. (2007), prefazione del volume di Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo cit., p. 9.
87 lunico contatto che si instaura con la sfera del CES: generalmente, il conseguimento del marchio di garanzia un obiettivo che si pongono tutte quelle imprese industriali che sono interessate ad arricchire la propria gamma con una o pi linee di prodotti solidali. I vantaggi che comporta il marchio di garanzia sono considerevoli: per differenziarsi dalla concorrenza e conquistare unimmagine rinnovata.
Figura 10. Schema filiera imitativa
Fonte: Pepe C. (2007), Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati, Milano: Franco Angeli, p. 30.
La filiera imitativa condotta da soggetti tradizionali delleconomia di mercato prevede il contatto diretto tra imprese industriali e i produttori dei PVS accreditati da FLO. Si pu constatare una considerevole differenza tra gli attori delle filiere imitative perch rappresentano processi di integrazione asimmetrica, allinterno dei quali i soggetti non possiedono un peso economico e contrattuale identico, anche se per bisogna sottolineare che responsabilit e obbiettivi condivisi possono contribuire al raggiungimento di un equilibrio delle forze in campo, e innescare anche un processo di emancipazione dei soggetti meno evoluti, che acquisiscono una capacit di contrattazione.
88 4.4.2 Alcuni esempi di filiere imitative condotte dalle imprese industriali
Questo tipo di filiere imitative si basa sulla trasformazione distribuzione di beni alimentari a largo consumo e con una ampia diffusione nei paesi occidentali, come il caff. Un esempio particolarmente lampante e allo stesso tempo contraddittorio, che ha suscitato critiche da parte di alcuni operatori CES, il caff Aroma proposto dallaprile 2003 dai 140 negozi fast food di McDonalds in Svizzera 145 , e in 600 statunitensi 146 , certificato Max Havelaar. Nello stesso anno, unaltra catena di caffetterie e fast food statunitense, Dunkin Donuts, ha iniziato a vedere espresso equo e solidale in tazza. In seguito, la concorrente Sturbucks ha fatto inserire il marchio Fairtrade nei propri menu, ma riferito solo a una tipologia di caff su un totale di 40 proposte. Nestl si adeguata a questa tendenza nel 2005, con il lancio del primo caff istantaneo equosolidale distribuito dalla GDO. Alcuni annunciano che Wal Mart, il pi grande rivenditore al dettaglio nel mondo per fatturato, sembra intenda inserire un caff equo nei propri assortimenti. Nel mercato italiano, Lavazza, Caff Corsini e Illy hanno adottato strategie simili alle grandi multinazionali del caff, aggiudicandosi lappellativo di imprese equo- convertite. Questi risultati si devono anche allazione di sensibilizzazione condotta direttamente da Transfair Italia: grazie alla politica di informazione e comunicazione portata avanti nel 1996, si riusciti ad allargare la base dei licenziatari del marchio per quanto riguarda il prodotto caff, con larrivo sul mercato anche di aziende for-profit, interessate alla riconversione di almeno una parte dei loro prodotti, e si delineata la possibilit di licenziare ulteriori prodotti, quali t, cacao, zucchero 147 .
145 Montagut X. (2004), Commercio equo in McDonalds?, Xarxa de Consum Solidari, Barcellona, riportato in documento della cooperativa Libero Mondo, Dove va il commercio equo e solidale? Grande distribuzione e Botteghe del Mondo, supplemento di Tempi di fraternit, n. 8/2004, ottobre, p.10, consultabile nella sezione Documenti in http://www.liberomondo.it/.
146 Jacomella G. (2006), Caff corretto al supermercato? Il mondo equo-solidale si divide, Corriere della Sera, 31/10/2006.
147 Pastore P. (1997), Marchi etici e di garanzia del Fair Trade: alla ricerca di nuovi canali distributivi in Amatucci F. (a cura di), Il commerciocit., p. 102.
89 4.4.2.1 Il caso del marchio Mondovero/Alce Nero
La creazione del marchio Mondovero degna di nota perch costituisce uno dei pochi casi italiani di grande impegno da parte di imprese industriali di trasformazione verso la responsabilit sociale: gli investimenti messi in atto per la creazione di questo marchio hanno comportato la creazione di filiere imitative che si affiancano a quelle convenzionali della produzione commerciale. Questo significa che, al lato dei loro prodotti a proprio marchio, con una forte prevalenza del biologico, queste aziende propongono referenze che rispettano i criteri delleconomia solidale con una linea a marchio diversificato. Inoltre, da aggiungere che gli sforzi di queste imprese per metodi di produzione socialmente responsabili dimostrato anche dal fatto che aderiscono tutte allo standard SA 8000 di certificazione del rispetto dei diritti dei lavoratori. Il gruppo di aziende 148 di trasformazione che d vita nel 1998 a questo marchio attraverso un partenariato molto originale costituito da Co.N.Api, il Consorzio Apicoltori e Agricoltori Biologici Italiani per la lavorazione del miele dal 1978 (socia del consorzio Fairtrade Transfair Italia), da Pompadour, azienda con sede a Bolzano che lavora il t e infusi, e da Co.Ind scarl, azienda del bolognese che dal 1961 impegnata nella torrefazione di caff, specialista nei prodotti a marca commerciale. Con lacquisto di materie prime provenienti da circa 300 organizzazioni di contadini e produttori iscritte al registro di FLO International, il consorzio interaziendale italiano offre uno sbocco di vendita ai produttori del Sud del mondo, instaurando con loro rapporti diretti e pagamenti che consentano un miglioramento delle condizioni delle proprie realt produttive ed esistenziali, e comportandosi quindi come le centrali dimportazione del CES. Una delle maggiori cooperative di produttori con cui collaborano Sin Fronteras che, dal 2004, raccoglie 20 soci produttori di diversi PVS, a loro volta associati in organizzazioni nazionali in Guatemala, Costa Rica, Nicaragua, El Salvador, Panama, Per, Brasile, Argentina. Con il marchio Mondovero si commercializzano prodotti equosolidali (caff, t nero e verde, miele, cacao, zucchero e cioccolato) certificati FairTrade - Trasfair Italia
148 Transfair Italia (2001), Pam e Conad inseriscono i prodotti Mondovero garantiti TransFair Italia, articolo del 13/03/2001, consultabile alla sezione news di www.transfair.it (http://www.transfair.it/site/news/010313.html).
90 distribuiti prevalentemente nella GDO, grazie agli accordi siglati con le catene dei punti vendita di Carrefour (GS e D per D), Pam, Conad, NaturaS, insieme a punti vendita specializzati. Il fatturato del marchio raggiunge in pochi anni 1 milione di euro, incassato per il 90 per cento dalla vendita con la GDO, e per il 10 per cento tramite il dettaglio specializzato 149 . Nel 2005 avviene il passaggio al marchio Alce Nero, in seguito anche alla partnership con il gruppo Alce Nero & Mielizia 150 , con il quale si intende proporre unofferta di prodotti dalla doppia valenza, equosolidale e biologico: questo cambiamento dovuto al fatto che tutte le produzioni provenienti dalle organizzazioni di produttori dislocate nei diversi PVS vengono certificate come biologiche, e per questo si decide di dare maggiore visibilit a questa tipologia produttiva e commerciale con un nuovo marchio. Alce Nero sostituisce gradualmente Mondovero, ma continua la sua larga diffusione nella grande distribuzione con la certificazione Fairtrade con 12 referenze bioequosolidali (caff, t nero e verde, miele, cacao, zucchero, cioccolato, frollini, snacks, succhi di frutta e riso), a cui affianca una linea biologica di provenienza solo italiana.
4.5 Sostenitori e detrattori delle contaminazioni con il mercato tradizionale: le criticit e le potenzialit delle interazioni
I fenomeni di interazione del CES con i soggetti che oggi predominano leconomia di mercato hanno determinato una spaccatura di vedute e prese di posizioni contrapposte tra gli attori che lavorano nelleconomia solidale: basta prendere in considerazione le scelte operative intraprese da alcune centrali dimportazione italiane. Se da un lato le due maggiori ATOs nazionali, Ctm Altromercato e Commercio Alternativo, hanno stabilito accordi commerciali con la GDO, dallaltro lato sono state espresse perplessit nei confronti di questa strategia di distribuzione, come ha fatto la centrale
149 Didero L. (2006), Un business dal Sud del mondo, Largo Consumo, fascicolo 7/2006.
150 Impresa di api e agri coltori che gestiscono tutti i processi di produzione, dalla coltivazione, alla trasformazione e la distribuzione, di prodotti alimentari biologici in 14 paesi; i principali soci sono le cooperative Conapi (socio fondatore), Consorzio Libera Terra, Finoliva, La Cesenate, Oriza e Sin Fronteras (www.alcenero.it).
91 dimportazione Libero Mondo con un documento 151 in cui prende le distanze dai canali distributivi convenzionali e dalle aziende tradizionali che hanno convertito una o alcune delle proprie filiere al rispetto dei criteri equosolidali: si puntualizza che questa non altro che una strategia di ethical trade, che ben si distingue dal fair trade, che implica invece una conversione di tutta lattivit produttiva e distributiva, e non solo per alcuni dei suoi prodotti. Nella schiera dei sostenitori dellallargamento dei canali distributivi per i prodotti equosolidali si sono fatti sentire accademici e specialisti del settore economico, che considerano la GDO come lunico canale che in prospettiva pu consentire volumi di vendita apprezzabili e una crescita sicura. Gi nel 1997, Zanderighi segnalava che infatti lo sviluppo di una relazione commerciale con la grande distribuzione organizzata che consente ai prodotti del CES di uscire da una dimensione di mercato legata solo ai punti vendita tradizionali 152 . Un contributo pi recente a sostegno dellentrata della GDO nelle filiere dellequo contenuto nellindagine nazionale pubblicata nel 2006 da Barbetta 153 , nella quale puntualizza alcune criticit del canale distributivo del CES costituito dalle BdM: dallanalisi condotta nel documento del Centro di Ricerche sulla Cooperazione e sul Non-profit dellUniversit Cattolica del Sacro Cuore di Milano, emerge il fatto che le BdM sono per la maggior parte sottodimensionate, con una modesta redditivit e dimensioni patrimoniali ridotte che non consentono processi di espansione, condannando questi punti vendita specializzati a un ruolo marginale e residuale nel contesto locale della distribuzione commerciale in cui si inseriscono. Tutto questo penalizza la funzione culturale che perseguono attraverso la sensibilizzazione alle tematiche del CES e allo sviluppo dei paesi pi arretrati; pi in generale, la limitatezza di questi punti vendita costituisce un ostacolo alla diffusione del CES in Italia, e di conseguenza si riducono anche i possibili benefici dei produttori, rischiando di non soddisfare quella domanda potenziale di prodotti etici, segnalata dalle recenti indagini di
151 Libero Mondo (2004), Dove va il commercio equo e solidale? Grande distribuzione e Botteghe del Mondo, supplemento di Tempi di fraternit, n. 8/2004, ottobre, consultabile nella sezione Documenti in http://www.liberomondo.it/.
152 Zanderighi L. (1997), Offerta dei prodotti etici e grande distribuzione organizzata, in Amatucci F. (a cura di), Il commercio cit., p. 94.
153 Barbetta G. P. (2006), Il commercio equo e solidale in Italia, Universit Cattolica del Sacro Cuore, Centro di ricerche sulla cooperazione e il non profit, Working paper n.3, Milano.
92 mercato. Per trovare una soluzione concreta, Barbetta punta lattenzione sul miglioramento della rete distributiva, riconoscendo una compatibilit tra i punti vendita specializzati, come le BdM, e quelli della GDO: la vocazione per una funzione culturale, testimoniata anche dalla natura giuridica delle Botteghe (per larga maggioranza sono associazioni, forma giuridica inadatta allo svolgimento di attivit economiche significative), insieme alle iniziative di sensibilizzazione (fiere, mercatini stagionali, presentazioni pubbliche, brevi corsi di formazione) e la specializzazione nella vendita di prodotti alternativi da quelli tradizionali, puntando sullesotismo dellofferta darredamento e artigianato, possono costituire i punti forza che le distinguono dalla grande distribuzione, che invece concentra lassortimento di prodotti equosolidali con referenze alimentari a largo consumo (caff, zucchero, t, cacao, biscotti), pi vicini a quelli italiani, dando una maggiore visibilit e accessibilit ai prodotti delleconomia solidale e consentendo anche laffermarsi di una pratica comparativa e quindi di un consumo pi consapevole e critico. Alcuni specialisti e operatori del settore equo hanno mostrato una maggiore cautela nel concepire linterazione tra CES e GDO, e hanno voluto richiamare lattenzione soprattutto sulle conseguenze del coinvolgimento delle grandi aziende commerciali nella sfera del CES, per via dei cambiamenti che implica nelle strutture produttive e distributive: i fenomeni di contaminazione con il mercato tradizionale possono rappresentare uno stimolo considerevole alla crescita delleconomia solidale per il forte potere di contagio dei suoi principi (vedi conversione delle filiere prodotto ai criteri CES da parte di alcune multinazionali) ma non bisogna distogliere lattenzione dallobiettivo primario del commercio equo, ossia agire nellinteresse dei produttori per il loro sviluppo economico e sociale. Per questo, alcuni hanno sollevato interrogativi sulle ripercussioni generate dallottimizzazione delle filiere sia dal punto di vista della quantit sia dellefficienza dei processi di produzione, temendo delle forzature nei confronti dei piccoli produttori spinti a produrre di pi per soddisfare laumento di domanda implicita nella crescita del CES. Limpatto dellentrata della grande distribuzione sulla struttura attuale del CES (filiere ibride) e la sua possibile interazione diretta coi produttori (filiere imitative) potr incidere sulle quantit necessarie per sostenere gli approvvigionamenti e gli ordini, sui tempi necessari alla produzione e gli standard dei prodotti che da un lato possono determinare una crescita qualitativa delle capacit produttive dei gruppi di produttori, ma dallaltro lato instillare una politica 93 commerciale basata sui principi di produttivit e efficienza che non sempre si sposa con le qualit intrinseche del progetto di sviluppo alla base delle relazioni di scambio del CES, o con gli obiettivi per i quali stato immaginato e reso concreto 154 . Al lato delle riflessioni relative allespansione dei canali distributivi del CES, un altro tema che ha suscitato vedute diverse quello della certificazione, dal momento che non vi concordanza tra gli operatori italiani del CES su alcuni aspetti del processo di certificazione condotti da parte di FLO, Fairtrade Labelling Organizations, per il rilascio del marchio di garanzia Fairtrade, ragione per cui i prodotti delle ATOs storiche italiane, come Ctm Altromercato, non fanno uso di questo marchio di garanzia e non sono socie dellorganismo internazionale. A livello europeo, divisioni simili si sono avute in seguito a un caso che ha suscitato non poco clamore, non solo nella sfera del CES: si tratta della certificazione conferita dallorganismo del marchio di garanzia inglese Fair Trade Foundation a una tipologia di caff istantaneo della multinazionale svizzera Nestl nellottobre 2005 155 . Concretamente, sugli scaffali dei supermercati britannici Tesco e Sainsburys oggi possibile trovare la miscela di caff della Partners Blend Nescaf con il marchio di garanzia Fairtrade. Mettendo da parte la campagna di boicottaggio a cui sottoposta Nestl per le continue violazioni del codice di condotta dellOrganizzazione Mondiale della Sanit per la produzione di latte in polvere, e le numerose denunce provenienti da alcuni sindacati e movimenti sociali sulle condizioni di lavoro nelle filiere produttive che riforniscono la multinazionale, il rilascio della certificazione solidale a un soggetto commerciale totalmente estraneo e lontano alla realt del CES ha aperto un dibattito, tuttoggi in corso. Gli operatori che vi hanno preso parte non si sono limitati ad analizzare le ripercussioni che pu avere lentrata nella realt del CES di unimpresa transnazionale universalmente nota per il totale disinteresse a pratiche di responsabilit sociale, ma si sono concentrati sulle procedure per il rilascio del marchio di garanzia a societ tradizionali: alcuni ritengono sufficiente limitarsi a controllare solo le filiere dei prodotti per cui unimpresa industriale richiede la certificazione, altri riconoscono la necessit di investigare tutte le filiere produttive dellimpresa che intende allargare la
154 Zoratti A. (2007), Il commercio equo e solidale oltre la crisi di crescita. Prospettive future di un fenomeno in espanzione, in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo cit., p. 162.
94 propria gamma di prodotti con referenze equosolidali (tramite una o pi filiere imitative). In questultima ipotesi, si ritiene corretto rilasciare la licenza duso del marchio solo se limpresa mantiene un comportamento etico in tutte le sue fasi produttive e di trasformazione, e non solo nella filiera prodotto della referenza che intende vendere come equa e solidale. In questo senso, stata avanzata una proposta 156
sottoscritta da Agices, Transfair Italia e Ctm Altromercato, per cui si ritiene inappropriato decidere a priori sul rilascio della licenza duso del marchio di garanzia a unimpresa industriale, ma si pu concedere a fronte di un impegno da parte dellazienda di aumentare le relazioni con produttori dei PVS per una conversione graduale delle sue filiere produttive ai criteri del CES, assumendo criteri di responsabilit sociale per la sua intera attivit.
Dalla sfera del CES, vi sono spesso forti dubbi e perplessit nei confronti delle imprese commerciali che oggi dominano gli scambi: nel momento in cui si vedono chiamate a scegliere tra i produttori pi svantaggiati dal mercato tradizionale per instaurare partnership commerciali, non si certi che terranno conto pi dei progetti di alto valore sociale e ambientale rispetto alla loro efficienza e produttivit. Ma daltro canto sorprendente constatare che alcune grandi imprese transnazionali hanno affiancato alle proprie politiche commerciali alcune strategie di diversificazione dalla concorrenza orientate allofferta di prodotti etici: fino a pochi anni fa, era inconcepibile aspettarsi ladozione dei principi basici della responsabilit sociale da parte delle maggiori multinazionali che operano a livello mondiale, cos come sarebbe stato difficile vedere prodotti equosolidali in un supermercato. Si tratta di cambiamenti molto incoraggianti, anche se per il momento modesti e limitati ad alcuni esempi, ma che suscitano una speranza verso un progressivo cambiamento delle regole produttive e commerciali che caratterizzano il modello economico prevalente.
156 Jacomella G. (2006), Caff corretto al supermercato? Il mondo equo-solidale si divide, Corriere della Sera, 31/10/2006.
95
96 Appendice 1. La carta italiana dei criteri del commercio equo e solidale (Agices, 1999)
PREAMBOLO La Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e Solidale il documento che definisce i valori e i princpi condivisi da tutte le organizzazioni di Commercio Equo e Solidale italiane. La Carta viene approvata nel 1999, ed linizio di un percorso di confronto a livello nazionale tra le organizzazioni di Commercio Equo e Solidale che negli anni si andato sviluppando e approfondendo, fino a cogliere limiti e contraddizioni, frutti di un percorso molto partecipato, ma anche articolato, a volte contraddittorio. Da questo lungo confronto emersa forte lesigenza di una rivisitazione della Carta per adeguarla alla realt di un Commercio Equo e Solidale che guarda al futuro, che costruisce nuove esperienze, per rispondere sia alle esigenze dei produttori ma anche a quelle dei consumatori consapevoli. La nuova stesura della Carta, approvata nellAssemblea dei Soci AGICES di Chioggia (aprile 2005), si colloca in stretta continuit con la precedente, riconosce il valore di un documento frutto di un lavoro ampio e partecipato. Essa ne preserva i princpi, introducendo modifiche che non ne mutano lo spirito e i valori fondanti. Il concetto di filiera equa uno dei cardini che la Carta preserva e sui quali poggia. La prima Carta Italiana dei Criteri lo declinava riconoscendo due tipologie di organizzazioni di Commercio Equo e Solidale: le Botteghe del Mondo e gli Importatori. La volont di fotografare la naturale dinamicit del movimento, evitando definizioni ambigue senza escludere a priori la possibilit che il Commercio Equo e Solidale possa trovare in futuro altre forme di espressione, ha portato alla decisione di fare un passo avanti. Protagoniste del movimento, secondo la nuova Carta Italiana dei Criteri, sono oggi le organizzazioni di Commercio Equo e Solidale. Un'organizzazione di Commercio Equo e Solidale viene riconosciuta come tale in base al tipo di attivit concreta che svolge, e non pi per lappartenenza nominale ad una tipologia di struttura. Nessun criterio fondante per la tutela del valore della filiera equa stato dunque rivisto e nessun principio condiviso dal movimento stato privato del suo senso originario, tantomeno la centralit delle Botteghe del Mondo. Il Commercio Equo e Solidale si infatti sviluppato in modo orizzontale e capillare grazie alla rete delle Botteghe del Mondo. Il radicamento delle Botteghe del Mondo sul territorio, e le loro potenzialit di incidenza politica e culturale sono un patrimonio che il movimento, fin dal principio, valorizza come proprio e peculiare e si impegna ad accrescere. La Bottega del Mondo, come spazio in cui esercitare il proprio diritto ad essere cittadini, come strumento di aggregazione, di incontro, scambio e coscientizzazione immerso nel tessuto urbano, come luogo fisico di contatto tra Nord e Sud del mondo, ha l'importanza e la responsabilit di essere uno spazio pubblico nel senso pi ampio del termine. Nelle Botteghe del Mondo possibile orientare azioni concrete e coraggiose per fini comuni, sviluppare linguaggi e pensieri nuovi, per comunicare e per dimostrare che i valori dominanti non sempre sono universalmente condivisi. Nella Bottega del Mondo, laboratorio di pace e di autosviluppo, di sobriet dei consumi e di condivisione, si impara ad essere cittadini del mondo, democratici e solidali, e a contribuire al cambiamento concreto delle relazioni favorendo il lavoro in rete. La presenza della Bottega del Mondo a livello locale assicura questa possibilit di partecipazione globale, svolgendo un ruolo insostituibile di trasmissione e di evoluzione dello spirito, dei princpi e delle regole del Commercio Equo e Solidale che la Carta Italiana dei Criteri, negli articoli seguenti, definisce e custodisce.
ARTICOLO 1. Definizione del Commercio Equo e Solidale Il Commercio Equo e Solidale un approccio alternativo al commercio convenzionale; esso promuove giustizia sociale ed economica, sviluppo sostenibile, rispetto per le persone e per lambiente, attraverso il commercio, la crescita della consapevolezza dei consumatori, leducazione, linformazione e lazione politica. Il Commercio Equo e Solidale una relazione paritaria fra tutti i soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: dai produttori ai consumatori.
ARTICOLO 2. Obiettivi del Commercio Equo e Solidale 97 1. Migliorare le condizioni di vita dei produttori aumentandone laccesso al mercato, rafforzando le organizzazioni di produttori, pagando un prezzo migliore ed assicurando continuit nelle relazioni commerciali. 2. Promuovere opportunit di sviluppo per produttori svantaggiati, specialmente gruppi di donne e popolazioni indigene e proteggere i bambini dallo sfruttamento nel processo produttivo. 3. Divulgare informazioni sui meccanismi economici di sfruttamento, tramite la vendita di prodotti, favorendo e stimolando nei consumatori la crescita di un atteggiamento alternativo al modello economico dominante e la ricerca di nuovi modelli di sviluppo. 4. Organizzare rapporti commerciali e di lavoro senza fini di lucro e nel rispetto della dignit umana, aumentando la consapevolezza dei consumatori sugli effetti negativi che il commercio internazionale ha sui produttori, in maniera tale che possano esercitare il proprio potere di acquisto in maniera positiva. 5. Proteggere i diritti umani promuovendo giustizia sociale, sostenibilit ambientale, sicurezza economica. 6. Favorire la creazione di opportunit di lavoro a condizioni giuste tanto nei Paesi economicamente svantaggiati come in quelli economicamente sviluppati. 7. Favorire l'incontro fra consumatori critici e produttori dei Paesi economicamente meno sviluppati. 8. Sostenere l'autosviluppo economico e sociale. 9. Stimolare le istituzioni nazionali ed internazionali a compiere scelte economiche e commerciali a difesa dei piccoli produttori, della stabilit economica e della tutela ambientale, effettuando campagne di informazione e pressione affinch cambino le regole e la pratica del commercio internazionale convenzionale. 10. Promuovere un uso equo e sostenibile delle risorse ambientali.
ARTICOLO 3. Criteri generali adottati dalle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale Le organizzazioni di Commercio Equo e Solidale si impegnano a condividere ed attuare, nel proprio statuto o nella mission, nel materiale informativo prodotto e nelle azioni, la definizione e gli obiettivi del Commercio Equo e Solidale. In particolare si impegnano a: 1. Garantire condizioni di lavoro che rispettino i diritti dei lavoratori sanciti dalle convenzioni OIL. 2. Non ricorrere al lavoro infantile e a non sfruttare il lavoro minorile, agendo nel rispetto della Convenzione Internazionale sui diritti dell'Infanzia. 3. Pagare un prezzo equo che garantisca a tutte le organizzazioni coinvolte nella catena di commercializzazione un giusto guadagno; il prezzo equo per il produttore il prezzo concordato con il produttore stesso sulla base del costo delle materie prime, del costo del lavoro locale, della retribuzione dignitosa e regolare per ogni singolo produttore. 4. Garantire ai lavoratori una giusta retribuzione per il lavoro svolto assicurando pari opportunit lavorative e salariali senza distinzioni di sesso, et, condizione sociale, religione, convinzioni politiche. 5. Rispettare lambiente e promuovere uno sviluppo sostenibile in tutte le fasi di produzione e commercializzazione, privilegiando e promuovendo produzioni biologiche, l'uso di materiali riciclabili, e processi produttivi e distributivi a basso impatto ambientale. 6. Adottare strutture organizzative democratiche e trasparenti in tutti gli aspetti dellattivit ed in cui sia garantita una partecipazione collettiva al processo decisionale. 7. Coinvolgere produttori di base, volontari e lavoratori nelle decisioni che li riguardano. 8. Reinvestire gli utili nellattivit produttiva e/o a beneficio sociale dei lavoratori (p.e. fondi sociali). 9. Garantire un flusso di informazioni multidirezionale che consenta di conoscere le modalit di lavoro, le strategie politiche e commerciali ed il contesto socio-economico di ogni organizzazione. 10. Promuovere azioni informative, educative e politiche sul Commercio Equo e Solidale, sui rapporti fra i Paesi svantaggiati da un punto di vista economico e i Paesi economicamente sviluppati e sulle tematiche collegate. 11. Garantire rapporti commerciali diretti e continuativi, evitando forme di intermediazione speculativa, escludendo costrizioni e/o imposizioni reciproche e consentendo una migliore conoscenza reciproca. 98 12. Privilegiare progetti che promuovono il miglioramento della condizione delle categorie pi deboli. 13. Valorizzare e privilegiare i prodotti artigianali espressioni delle basi culturali, sociali e religiose locali perch portatori di informazioni e base per uno scambio culturale. 14. Cooperare, riconoscendosi reciprocamente, ad azioni comuni e a favorire momenti di scambio e di condivisione, privilegiando le finalit comuni rispetto agli interessi particolari. Per evitare azioni che indeboliscano il Commercio Equo e Solidale si impegnano, inoltre, in caso di controversie, a fare un percorso di confronto e di dialogo, eventualmente con l'aiuto di un facilitatore. 15. Garantire relazioni commerciali libere e trasparenti, promuovendo processi di sviluppo e coordinandosi nello spirito dellart. 3.14. 16. Garantire trasparenza nella gestione economica con particolare attenzione alle retribuzioni.
ARTICOLO 4. Produttori ed Esportatori 4.1 Produttori I Produttori sono organizzazioni di produzione e commercializzazione di artigianato ed alimentari che condividono gli obiettivi del Commercio Equo e Solidale e rispettano i criteri elencati nel Capitolo 3 di questa Carta. I Produttori devono: 1. Perseguire logiche di autosviluppo e di autonomia delle popolazioni locali. 2. Evitare una dipendenza economica verso lesportazione, a scapito della produzione per il mercato locale 3. Evitare di esportare prodotti alimentari e materie prime scarseggianti o di manufatti con queste ottenuti 4. Favorire luso di materie prime locali 5. Garantire la qualit del prodotto Qualora i produttori non siano in grado di esportare direttamente possono servirsi di organizzazioni di esportazione. 4.2 Esportatori Gli Esportatori sono organizzazioni che acquistano principalmente dai produttori come specificati all'art.4.1, e vendono prevalentemente a organizzazioni di Commercio Equo e Solidale; essi condividono gli obiettivi del Commercio Equo e Solidale e rispettano i criteri elencati nel Capitolo 3 di questa Carta. Gli esportatori devono: 1. Assicurarsi che i princpi del Commercio Equo e Solidale siano conosciuti dai produttori e lavorare con questi per applicarli 2. Fornire supporto alle organizzazioni di produzione: formazione, consulenza, ricerche di mercato, sviluppo dei prodotti, feedback sui prodotti e sul mercato 3. Dare ai produttori, se da questi richiesto, il pre-finanziamento della merce o altre forme di credito equo o microcredito 4. Fornire informazioni sui prodotti e sui produttori e sui prezzi pagati ai produttori 5. Garantire rapporti di continuit con i produttori
ARTICOLO 5. Organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale Le Organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale commercializzano prevalentemente prodotti del Commercio Equo e Solidale di organizzazioni di produzione e/o di esportazione e/o di altre organizzazioni di Commercio Equo e Solidale. Il ricorso a fornitori esterni al circuito del Commercio Equo e Solidale deve essere funzionale agli scopi sociali, e agli obiettivi del Commercio Equo e Solidale stesso. Le organizzazioni italiane condividono gli obiettivi del Commercio Equo e Solidale, rispettano i criteri elencati nel Capitolo 3 di questa Carta.
Le Organizzazioni italiane devono: 1. Promuovere iniziative di economia solidale al meglio delle proprie possibilit. 2. Sostenere le campagne di sensibilizzazione e pressione, condotte a livello nazionale ed internazionale, volte a realizzare gli obiettivi del Commercio Equo e Solidale 3. Essere senza fini di lucro. 4. Inserire, appena possibile, personale stipendiato allinterno della struttura, garantendo un'adeguata formazione. 99 5. Valorizzare e formare i volontari e garantire loro la partecipazione ai processi decisionali. 6. Rendere disponibile alle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale, impegnandosi alla trasparenza, l'accesso alle informazioni riguardanti le proprie attivit (commerciali e culturali) 7. Avviare e mantenere contatti diretti con esperienze marginali di autosviluppo, sia in loco che nei Paesi economicamente svantaggiati al fine di stabilire una sorta di gemellaggio equosolidale, con ogni mezzo idoneo a permettere la conoscenza di luoghi, persone, modalit di vita e di produzione che possano associarsi ai concetti con cui si definisce il Commercio Equo e Solidale. Nellattivit di acquisto e di importazione le Organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale devono: 1. Offrire ai produttori, se da essi richiesto, il pre-finanziamento della merce, e favorire altre forme di credito equo o microcredito, qualora non esistano in loco possibilit di accesso a crediti 2. Promuovere, anche attraverso la collaborazione reciproca, rapporti di continuit, per mantenere un clima di autentico scambio, per favorire una maggiore stabilit per gli sbocchi di mercato dei produttori, e per permettere un effettivo miglioramento delle condizioni di vita sul breve/medio/lungo periodo. 3. Fornire supporto alle organizzazioni di produzione ed esportazione: formazione, consulenze, ricerche di mercato, sviluppo di prodotti, feedback sui prodotti e sul mercato 4. Assicurarsi che i principi del Commercio Equo e Solidale siano conosciuti e condivisi dai produttori e lavorare con questi per applicarli 5. Favorire, laddove sussistano le condizioni, la lavorazione dei prodotti presso le organizzazioni di produttori e/o privilegiare lacquisto o limportazione di prodotti la cui lavorazione avviene anche parzialmente nei paesi di origine dei produttori 6. Dare possibilit alle altre organizzazioni di Commercio Equo e Solidale di fare viaggi di conoscenza presso i produttori (e viceversa), rispettando i criteri del Turismo responsabile espressi nel documento "Turismo responsabile: Carta d'identit per viaggi sostenibili" 7. Privilegiare i fornitori esterni al circuito del Commercio Equo e Solidale fra quelli organizzati in strutture no-profit, con finalit sociali e con gestione trasparente e democratica e che abbiano prodotti eco-compatibili e culturali. Non intraprendere relazioni commerciali con aziende che, con certezza, violino i diritti umani e dei lavoratori Nellattivit di vendita le Organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale devono: 1. Fornire ai consumatori tutto il materiale informativo disponibile, comprese le schede del prezzo trasparente 2. Mantenersi costantemente informate sui prodotti che vengono venduti, verificando che vengano rispettati i criteri del Commercio Equo e Solidale 3. Garantire ai consumatori sia in caso di distribuzione diretta che di distribuzione attraverso soggetti esterni, informazioni relative al Commercio Equo e Solidale, ai gruppi produttori che hanno realizzato il prodotto o fornito le materie prime, alla rete delle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale ed uno schema di prezzo trasparente, che fornisca almeno le seguenti informazioni: prezzo FOB pagato al fornitore, costo di gestione, importazione e trasporto, margine per la vendita. Tali informazioni possono essere indicate in percentuale od in valore assoluto, per singolo prodotto o per categoria di prodotti, o per paese di provenienza, o per gruppo di produttori. In caso di vendita allingrosso: 1. Vendere prevalentemente alle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale, ai canali di economia solidale, e/o di solidariet sociale, gruppi di autoconsumo e/o gruppi informali di solidariet 2. Fornire alle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale informazioni sui prodotti e sui produttori attraverso schede informative che contengano il prezzo trasparente dei prodotti ed essere disponibili a fornire la documentazione di supporto
ARTICOLO 6. Prodotti trasformati 100 I prodotti trasformati sono tutti quei prodotti non riconducibili ad ununica materia prima: biscotti, cioccolata, dolciumi, ecc. 1. I prodotto trasformati possono essere definiti in etichetta prodotti di Commercio Equo e Solidale solo se almeno il 50% del costo franco trasformatore delle materie prime o il 50% del peso delle materie prime di Commercio Equo e Solidale 2. L'elaborazione dei prodotti trasformati, laddove ne esistano le condizioni, dovrebbe avvenire nei Paesi d'origine. 3. La trasformazione deve essere effettuata da soggetti dell'economia solidale o comunqueda cooperative o imprese che non siano in contrasto con i principi del Commercio Equo e Solidale. 4. I prodotti trasformati devono riportare in etichetta la dicitura: "Totale ingredienti del Commercio Equo e Solidale: %" 5. Nei prodotti trasformati, la scelta degli altri ingredienti rispetto a quelli del Commercio Equo e Solidale deve ispirarsi ai criteri esposti all'art.3.5 di questa Carta.
101 Appendice 2. La carta dIdentit delle Botteghe (Associazione Botteghe del Mondo, 2004)
La Bottega del Mondo si andr sempre pi identificando come un soggetto dell'economia "no profit" all'interno del sistema del C.E.S., dove le proposte fatte al consumatore sono di carattere complessivo in quanto non si limitano alla vendita dei prodotti provenienti dal sud del mondo, ma propongono un modello di sviluppo alternativo all'attuale sistema economico che prevede proposte quali ad esempio il RISPARMIO ALTERNATIVO, i VIAGGI, le ASSICURAZIONI e quant'altro la fantasia e le nostre capacit saranno in grado di realizzare. La Bottega del Mondo si configurer pertanto come il "terminale" di una proposta complessiva e come riferimento fondamentale per lo sviluppo di quanto sopra detto.
CRITERI IDEALI 1. La Bottega dovr rispettare in tutto il proprio agire (e quindi in tutti i prodotti commercializzati) i criteri guida del C.E.S.: GIUSTIZIA, SVILUPPO, LAVORO, AMBIENTE. 2. Essa dovr sottolineare nei confronti dei consumatori quel carattere di TRASPARENZA che contraddistingue il commercio equo rispetto al mercato tradizionale con particolare attenzione alla struttura organizzativa e alle informazioni da mettere a disposizione. 3. Acquistare prodotti facendo riferimento ai criteri EFTA di valutazione e quindi alle considerazioni dei comitati progetto. auspicabile che ogni BdM riesca a realizzare uno o pi progetti nel sud del mondo: sia per quanto riguarda l'importazione sia per il coinvolgimento diretto su pi realt possibili. 4. Informare i consumatori che frequentano la Bottega sulle tematiche del C.E.S. e sul rapporto Nord-Sud, nonch su tematiche collegate: giustizia, ambiente, sviluppo sostenibile, pace, economia sociale e solidale. Partecipare a tutte le iniziative di confronto all'interno del movimento imprescindibile per una informazione adeguata. Essere una struttura NO- PROFIT, Associazione o Cooperativa i cui utili non possano essere distribuiti tra i soci, ma vengano esclusivamente reinvestiti con le seguenti priorit: a) struttura del C.E.S.; b) informazione-formazione; c) progetti nel sud del mondo. 5. Promuover come sopra detto tutte quelle iniziative a sostegno di un progetto di economia solidale che vanno dalla tutela delle Botteghe stesse, al risparmio etico e quant'altro il movimento sar in grado di realizzare e sviluppare e che in questo momento non ancora presente. CRITERI ORGANIZZATIVI 1. Le BdM, strutture associative e cooperative, cercheranno di garantire al proprio interno la pi ampia apertura alle realt affini presenti nel territorio; modalit decisionali trasparenti e democratiche che devono essere caratteristiche di base di ogni BdM. 2. I punti vendita dovranno essere in regola con le autorizzazioni richieste localmente. 3. La BdM sceglie di commercializzare prevalentemente prodotti provenienti dal sud del mondo, importati sia direttamente che attraverso le centrali di importazione del C.E.S. nazionali. 4. Se una BdM inizia un rapporto diretto di importazione da un progetto non seguito da alcuna centrale nazionale, al momento in cui la produzione diventasse tale da rifornire pi Botteghe o l'intero territorio nazionale, ed i prodotti risultassero idonei al mercato, la BdM pu chiedere che il progetto venga gestito dalla centrale di riferimento. In questo caso la BdM proponente - oltre a mantenere i rapporti a livello di "affidamento" del Progetto (scambi interpersonali, lettere, azioni di sostegno, visite, ecc.) - potr decidere se continuare anche l'importazione diretta per i propri punti vendita. 5. La BdM potr inserire in assortimento prodotti non del C.E.S. che siano coerenti con i requisiti generali richiesti e che provengano preferibilmente da cooperative sociali, ma si impegna a mantenere la priorit dei prodotti C.E.S. (es. casi di sovrapposizione tra prodotti C.E.S. e non C.E.S.). 6. Le BdM sono impegnate a mantenere i prezzi di vendita al pubblico uguali su tutto il territorio nazionale per confermare quella scelta di trasparenza del prezzo che rimane una delle scelte fondamentali del C.E.S. in Italia. Sar preoccupazione importante per le BdM mettere a disposizione dei consumatori tutto il materiale informativo generale e specifico (che le centrali 102 d'importazione sono tenute a procurare), preoccupandosi di verificarne e controllarne il contenuto e l'aggiornamento. 7. La BdM s'impegna a garantire un'apertura settimanale di almeno 20 ore. 8. Nella convinzione che i produttori del sud del mondo auspicano la realizzazione di un mercato alternativo che garantisca prezzi dignitosi per i propri prodotti si ritiene importante che le BdM promuovano pi sforzi possibili per realizzare tale intento attraverso una maggiore professionalizzazione delle Botteghe stesse da affiancare all'impegno dei volontari, che deve essere qualificato, formato e valorizzato, e, qualora il fatturato lo permetta, si auspica l'inserimento di una persona retribuita, con riferimento al contratto collettivo del settore commercio, almeno a tempo parziale. 9. La BdM tenuta a coordinarsi con le altre realt del C.E.S. presenti sul territorio uniformando le modalit di vendita, evitando forme di concorrenza sleale. ALCUNE INDICAZIONI PER LA VENDITA DEI PRODOTTI NON C.E.S. Quanto segue esprime la tensione di chi ha collaborato alla stesura del documento veso un'immagine coordinata delle BdM anche nei settori del non C.E.S.; riteniamo infatti che l'obiettivo da raggiungere sia quello di fidelizzare il consumatore che sceglier le BdM sapendo di trovarvi SEMPRE prodotti che rispondono a determinati requisiti comuni. 1. La BdM dovr preoccuparsi di conoscere l'origine dei prodotti commercializzati (la fase di produzione). Ogni BdM avr inoltre cura di verificare che i prodotti non abbiano nessuna implicazione negativa con i Paesi del sud del mondo. 2. La BdM avr cura di scegliere i fornitori dei prodotti non C.E.S. facendo riferimento alle seguenti priorit: a) strutture no-profit (o terzo settore); b) strutture con finalit sociali; c) strutture con gestione trasparente e democratica; d) prodotti eco-compatibili o culturali. Il presente documento stato approvato in questa forma dall'Assemblea soci dell'Associazione
103 Appendice 3. La torta della GD italiana al 2007: quote percentuali dei principali gruppi
Fonte: La Repubblica, Imprese&Mercati del 31/01/2007
104 Appendice 4. Graduatoria delle prime 30 imprese europee della GDO per volume di vendite nel 2004
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