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I SENSI E L’INCONSCIO –
 INTRODUZIONE Per Bion la verità è il cibo che fa crescere la mente. Non solo: ciò che muoverebbe gli esseri umani sarebbe una vera e propria pulsione di verità. Ma quali sono le verità
dell’inconscio? Come le possiamo cogliere? Che l’atteggiamento dobbiamo tenere per intuire i fatti dell’inconscio? E di che inconscio parliamo? E` l’inconscio rimosso di Freud o quello
estetico di Bion? Infine, cosa può dire la psicoanalisi sul concetto di verità scientifica? Questo libro prova ad articolare alcune risposte a questi quesiti. Essi sono divenuti ancor
più fondamentali in un’epoca, com’è quella in cui viviamo, che si situa sotto il segno della
decostruzione della ragione positiva e in cui tutti i valori sono visti come relativi. Va sottolineato tuttavia che se ritengo essenziale ampliare gli orizzonti della psicoanalisi ai temi
più attuali della contemporaneità e praticare con prudenza un’arte della contaminazione, resto fedele al principio freudiano dello Juntkim, all’indissolubile ann
odarsi di metodo, riflessione teoretica e pratica clinica. A mio avviso, infatti, è nella dimensione conoscitiva ed
etica della cura che la psicoanalisi resta insuperata. L’occasione da cui è nato il libro è stata il
congresso IPA di Città del Messico del 2011. Ero stato incaricato di partecipare al panel
inaugurale sull’inconscio. Sentivo una grande responsabilità e feci un impegnativo lavoro di
preparazione. Mi resi subito conto con una certa apprensione di come il familiare concetto di inconscio mi divenisse man mano più estraneo. Più mi ci avvicinavo, più sembrava sfuggirmi.
In effetti più lo studiamo e più il quadro si fa oscuro, l’intrico delle diverse concettualizzazioni
quasi impenetrabile. Già in Freud si pone il problema del passaggio dalla prima alla seconda topica; si devono poi considerarne le riformulazioni principali, da Lacan a Laplanche, passando per Klein e Bion; per non parlare delle varie ibridazioni tra teorie psicoanalitiche e i vari modelli del funzionamento cerebrale correnti nelle neuroscienze. Provare a mappare alcuni dei nodi essenziali della rete concettuale che si è sviluppata a partire dalla nozione chiave della psicoanalisi mi è costato non poca fatica, ma mi ha permesso di redigere un
piccolo atlante dell’incoscio (nasce da qui l’idea di corredare il testo con alcuni degli schemi
ideati da Freud per raffigurare la psiche): per quanto provvisorio e impreciso, spero sia utile ai lettori per proseguire in esplorazioni che in spirito mi piacerebbe fossero caute ma anche coraggiose. I
n questa ideale cartografia, il primo dei luoghi in cui ci imbattiamo è “l’inconscio inaccessibile”, secondo la formulazione di Bion, un inconscio che risale alla vita fetale e i cui
effetti possono farsi sentire potentemente in quella adulta. Il tema che affronto in questo capitolo inaugurale è come possiamo dare una figurabilità ai traumi primitivi inscritti in questo inconscio che non è fatto di rappresentazioni.La mia ipotesi è che una via percorribile possa
consistere nell’adozione di una teoria del campo analitico e nell’uso disciplinato della rêverie da parte dell’analista. Ma ci può aiutare anche “sognare nel corpo”, ciò che nel capitolo
successivo teorizzo con la nozione di rêverie corporea. A differenza dei concetti di Ogden di
“rêverie sensoriale”, che viene percepita come tale quasi immediatamente, e di “azione interpretativa”, che è caratterizzata da un’ovvia intenzionalità, la rêverie corporea non è né intenzionale né cosciente. Si tratta piuttosto di un’azione o di una sequenza di azioni cui so
lo a posteriori possiamo attribuire il significato di una interpretazione mimata, un comprendere o un sognare nel corpo il significato che assume la relazione in un dato istante o in un lasso di tempo più ampio. Neppure parlerei di enactment, termine tropp
o legato all’idea di una scarica
irriflessa di spinte pulsionali o di proto-emozioni, e non necessariamente attraverso un comportamento. Il concetto di enactment inoltre è pur sempre inserito nella cornice di una teoria che vede due soggetti separati in interazione tra di loro e che a rigore non ha un carattere autenticamente intersoggettivo. Nel capitolo successivo tento di chiarire perché
dovremmo affidarci al sogno, e come ciò rifletta una diversa idea dell’inconscio rispetto a
quella classica. La capacità umana di sognare sia di notte sia nella veglia può essere vista
come l’attività di costruzione di una pellicola di significato che funziona da schermo para
-eccitatorio rispetto alla traumaticità del reale. La pelle psichica che il sogno produce è la mas
chera di autoinganno o finzione, nel senso etimologico di “fingere” (figurare/pensare), che ci permette di diventare persone. In latino “persona” vuol dire maschera, appunto. Il sognare
esprimerebbe così una capacità poetica della mente. Come la poesia, il testo onirico mira a
ricomporre ogni volta un’armonia tra corpo e mente, a ridare corpo alla mente oppure a reinsediare la mente nel corpo; con le parole di Winnicott, a “personalizzare”, ossia a
mandare avanti il processo di soggettivazione. Collegato al sognare è anche il tema del quarto capitolo, dove affronto il concetto di Bion di trasformazione in allucinosi. Bion descrive
 
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la trasformazione in allucinosi come una difesa psicotica, come l’attività allucinatoria che
infiltra fisiologicamente la percezione e permette di conoscere la realtà contrastandola su uno sfondo di familiarità, e infine, sorprendentemente, come lo stato mentale ideale in cui deve
entrare l’analista per intuire i fatti dell’analisi. Se l’analista sa usare intenzionalmente la sua
capacità negativa, può approssimarsi allo stato di passività che lo renderà permeabile alle
rêverie. Quando poi si sveglia dall’allucinosi, ossia recupera una sufficiente distanza critica, si
produce una trasformazione che si trasmetterà inevitabilmente al campo analitico e al paziente.  A questo punto
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 dopo aver descritto i nuovi attrezzi concettuali che possiamo impiegare
nella clinica: la rêverie in relazione all’inconscio inaccessibile, la rêverie corporea, il sogno
inteso come creazione poetica della mente e la trasformazione in allucinosi -provo a riformulare con una certa ampiezza e su un piano prettamente teorico le differenze tra la
concezione freudiana dell’inconscio e quella di Bion. Parto, per questo, da un neologismo introdotto da Bion: “inconsciare”, termine che esprime l’idea che nella cura non si tratti tanto di rendere conscio l’inconscio bensì del contrario, ossia di rendere inconscio il conscio, di “fare/produrre” inconscio. Per “rendere inconscio”, Bion intende ammettere l’infante nell’area
della significazione simbolica, far crescere la sua mente, aiutarlo in sostanza a vedere il mondo utilizzando la retorica del sogno già evidenziata da Freud. Dare un senso
all’esperienza e sognarla diventano sinonimi.
 Ci immergiamo quindi nella clinica per riscoprire la continuità tra esperienza inconscia e
cosciente. L’inconscio non è più visto come un’area in cui sono ristrette le rappresentazioni rimosse perché incompatibili con l’Io, ma come una funzione psicoanalitica della personalità
deputata alla creazione di senso. Esperienza inconscia e cosciente trapassano di continuo
l’una nell’altra senza soluzione di continuità. L’inconscio non sta più sotto o dietro il conscio, ma semmai dentro l’esperienza cosciente. Per rendersene conto però occorre essere ri
cettivi, il che non è affatto scontato, neppure per un analista. Ci inoltriamo poi per alcuni luoghi ancora più impervi anche se affascinanti: il puzzle del passaggio dal corpo alla mente e le asperità della metapsicologia che cercano di spiegarlo. Da quella freudiana, basata su una psicologia del soggetto come isolato e studiato nel suo funzionamento intrapsichico, a quella di Bion, che parte invece da una teoria radicalmente socialedi come nasce la soggettività. Ma se vogliamo chiarirci le idee su come funziona la cura non possiamo non passare di lì, dallo studio di come la mente si insedia nel corpo per la prima volta. Un altro luogo che a prima vista ci appare inospitale è la Griglia di Bion. Ma anche qui vale la pena di sostare il tempo necessario per g
uardare da un’angolatura così inusuale, ma
di fatto sorprendente, ai temi della verità e della pulsione di verità. Ideata come uno strumento che doveva servire semplicemente per siglare le sedute, la Griglia si rivela straordinariamente suggestiva se vistacome una mappa aggiornata della psiche.
Lasciata la Griglia, ci addentriamo in un’area psicoanalitica per antonomasia: la psicoanalisi si occupa specificamente di processi intermedi. Freud chiama quest’areadas
Zwischenreich
, il regno di mezzo, il “qualcosa
 
tra”: l’
in-between
o l’
half-way region
delle
traduzioni inglesi. In psicoanalisi ciò che potremmo definire come “il paradigma dell’intermedietà” è assolutamente centrale. La teoria del campo analitico ne rappresenta la
declinazione più recente, coerente e radicale. Dire intermedietà è come dire campo del
simbolico: quel che ci distingue dagli animali è l’intervallo che riusciamo a frapporre tra
stimolo e risposta, lo spazio-tempo del simbolo.
L’itinerario lungo il quale ci siamo avventurati per esplorare l’inconscio si chiude infine con la rilettura di un breve ma intenso scritto di Bion del 1976, “Evidenze”, che è
assolutamente rilevante per il tema
dei sensi e della ricettività dell’analista ai derivati dell’inconscio. Il tema centrale di questo testo –
 c
he ci offre anche l’opportunità di vedere
Bion al lavoro, nella descrizione di due sedute
 –
 
è quali sono le evidenze dell’analisi, i fatti di
cui ci occupiamo; di come possiamo essere sicuri di afferrare davvero quello che succede; di come intuirlo, visto che i sensi ci servono a poco
 –
 
ma i “sensi” del titolo alludono anche alla pluralità dei significati che l’inconscio genera
-. Si tratta di eventi che non si vedono e che non si sentono direttamente. Intrecciato al tema della ricettività è quello dello stile. Di come trasmettere al paziente la comprensione che si è raggiunta e parlargli con un linguaggio che possa toccarlo. Bion lascia intendere che in certi casi lo stile è davvero questione di vita o di morte. Nel suo discorso scrivere, leggere e interpretare convergono nello stesso punto: tutti sono significativi se rivolti ad afferrrare ciò che è vero e se riflettono una capacità di
apprendere dall’esperienza. Ecco tracciato il percorso attraverso il quale proseguo la ricerca
 
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avviata soprattutto con
La violenza delle emozioni 
 e con
Perdere la testa
, ossia
un’esplorazione dell’inconscio estetico. Cosa intendo con questo termine? Perché lo uso? Non tanto per rinviare alla teoria o allo spazio dell’arte, ma più nell’accezione prettamente
heideggeriana di modo della sensibilità in generale (
aísthesis
) e di riflessione sui processi
esperienziali. Ciò che è “estetico” dell’inconscio è l’aspetto espressivo
-creativo per come si riflette, per esempio, nella retorica del sogno. È pur vero che, immediatamente, questo tema
rimanda anche all’esperienza estetica in senso proprio, cioè come modello felice di creazione
del senso e del significato.
L’esperienza estetica nell’arte, l’esperienza dell’immersione nel mondo onirico, l’istante
-miracolo in cui in analisi affiorano
le evidenze/verità dell’inconscio oppure accade l’evento si
riannodano così in una essenziale unitarietà dello psichico. Sensibilità e intelletto, intuizione e concetto, semiotica e semantica, senso e significato si ricongiungono. Non è un caso se, nel tentativo di trascendere le cesure di queste coppie di opposti, la ricerca psicoanalitica più attuale muove verso il corpo e il qui e ora. La familiarità con
l’inconscio, cardine della teoresi e della pratica freudiana, si fa pratica dell’apertura al mondo, dell’apprendimento al vedere, della visione che trasmuta in immagine e nutre la facoltà dell’immaginazione. Neppure è un caso se al cuore della psicoanalisi bioniana e postbioniana si trova una poetica della rêverie. L’enfasi sulla verità dell’istante viss
uto richiama i versi di Rilke, che ci descrive come ignari e attoniti innanzi al cielo stellato della nostra vita. Ma meglio, egli esorta, vivere questa vertigine piuttosto che rifugiarsi in una vita inautentica:
“Ignaro davanti al cielo della mia vita / m
e ne sto attonito [...] abituerò il mio cuore al suo orizzonte più lontano. Meglio / vive nello sgomento delle sue stelle / che in un finto riparo,
acquietato da una vicinanza”.
 

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