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schierare saldamente noi stessi e la nostra disciplina dalla parte dellumanit, della salvezza e della ricostruzione del mondo anche se possiamo non esser sempre sicuri di cosa ci significhi e di cosa ci venga richiesto in momenti particolari. In ultima analisi, possiamo solo sperare che i nostri celebrati metodi della testimonianza empatica e impegnata, dello stare con e dello stare l, per quanto possano apparire vecchi e stanchi, ci forniscano gli strumenti necessari per fare dellantropologia una piccola pratica di liberazione umana (ibid.)
La formulazione abbastanza appassionata ma anche abbastanza modesta da risultare convincente. Nessuno negherebbe un qualche grado di impegno nei confronti delle persone di cui si rappresentano ( o si studiano) le sofferenze; resta tuttavia aperto il problema di quali valori e obiettivi rappresentano le fedelt ultime dellantropologo. Quelli della conoscenza o quelli della partecipazione? Dellepistemologia o della politica? Per quanto non necessariamente in contrasto, questi obiettivi hanno diversa natura e possono trovarsi a confliggere anche in modo estremamente drammatico. Scheper-Hughes parte dallimplicito presupposto che la verit rivoluzionaria, e che la denuncia delle sopraffazioni e il sostegno alle vittime facciano tuttuno con la ricerca delloggettivit 11 . Questo pu essere anche vero in ultima analisi, ma i percorsi del rigore metodologico e scientifico e quelli della solidariet politica sono spesso assai diversi. Il problema si pone soprattutto in relazione alla principale fonte dellantropologia della violenza, cio i racconti delle vittime sopravvissute e dei testimoni diretti. Lepistemologia ci spinge a praticare verso questi racconti una critica delle fonti: ad esempio, a non assumerli immediatamente come resoconti realisti, a studiarne le forme di costruzione retorica e di adesione a modelli culturali, eventualmente a farne risaltare le interne inconsistenze e cos via. Ma questo rigore metodologico non serve ai fini della solidariet, e pu anzi risultare controproducente sul piano pratico e politico (si pensi ai racconti dei rifugiati e dei richiedenti asilo; v. Daniel-Knudsen 1995), e intollerabile sul piano etico: che senso hanno le sottigliezze analitiche di fronte a persone che hanno subito violenze e lutti terribili? Di fronte alla loro tragedia e alla loro sofferenza, che importanza ha come la raccontano? Latteggiamento critico sembra voler negare la verit assoluta di quelle esperienze; la sofisticazione teoretica sembra del tutto fuori posto, quasi immorale, a fronte della semplice enormit del Male e del Dolore che traspirano da quelle biografie.
Nelletnografia della violenza, questo punto espresso con grande efficacia da Antonius Robben, in un intenso testo (1995) di riflessione su una ricerca condotta in Argentina sulla memoria dei crimini della giunta militare. Robben intervista tre categorie di persone: militari coinvolti pi o meno direttamente nei crimini, ex-guerriglieri e parenti dei desaparecidos. Avverte con forza la tendenza di tutte e tre queste componenti a tirare e far schierare il ricercatore dalla propria parte, a chiedergli di condividere la propria visione del mondo: e conia per questa tendenza la nozione di seduzione (nel senso etimologico del termine) etnografica. Questultima si manifesta in modo particolarmente drammatico nel rapporto con i parenti delle vittime. Robben si sofferma ad esempio sul suo incontro col padre di uno scomparso, un ragazzo della Giovent Peronista rapito nel 1976 a diciassette anni. Luomo racconta dei suoi tentativi di avere notizie del figlio, attraverso contatti con ufficiali dellesercito. Il climax del suo racconto lincontro con un colonnello, in servizio attivo, che ha promesso attraverso la mediazione di amici di dargli informazioni:
Dopo che gli ebbi raccontato tutto, [il colonnello] disse: Guardi, immagini che suo figlio abbia il cancro [ ] e si trovi in una sala operatoria dove ci sono un macellaio e un dottore: preghi che sia il dottore a operarlo. Questuomo aveva infilato un pugnale nella mia ferita e lo rigirava dentro di me. Mi scusi, signore dissi ma lei sa qualcosa? . No, no, sto solo soppesando le possibilit e facendo una supposizione. Avrei voluto prenderlo per la gola e strangolarlo; [] per la prima volta in vita mia provavo il desiderio di uccidere qualcuno [] perch ero disperato. Non pu immaginare con quanta soddisfazione mi disse quelle cose. E lei dovrebbe analizzare il fatto che quelluomo era in servizio attivo (ibid., pp. 92-3).
Ma io ero incapace di analizzare, commenta Robben. Il testimone lo ha incorporato nel suo tormento; le domande di approfondimento che avrebbe voluto fare gli si spengono sulle labbra, e pu solo condividere in silenzio il dolore di questuomo (ibid., p. 93). Se questa partecipazione pu essere fondamentale per la comprensione della natura degli eventi studiati, essa implica tuttavia grandi rischi. Quando il ricercatore sopraffatto dallemozione, e sente di non poter fare nessunaltra domanda, perch non c nientaltro da chiedere di fronte allenormit della tragedia, allora rischia di non esser pi ricercatore. In questi momenti di completo collasso della distanza critica tra i due interlocutori, perdiamo ogni dimensione dellimpresa scientifica (ibid., p. 94); questultima implica per lappunto distanza, scetticismo, lucidit e obiettivit, valori diversi rispetto a quelli della solidariet morale e politica (v. anche Robben 1996, che rilegge il problema della seduzione etnografica alla luce dei concetti psicoanalitici di transfert e controtransfert).
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Scritto da Fabio Dei
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Malgrado le apparenze, le posizioni espresse da Scheper-Hughes e Robben non sono alternative. Esprimono invece una tensione alla quale il lavoro antropologico non pu sfuggire. Robben pensa che dalla seduzione etnografica ci si debba programmaticamente difendere: ma sa bene, lui per primo, che cederle almeno per un po una condizione della comprensione soprattutto quando ci che ci interessa non una pura conoscenza fattuale, ma il significato della violenza nella memoria e nella vita delle persone. Per quanto riguarda Scheper-Hughes, anche il suo appello allimpegno pu difficilmente essere eluso; ricordandosi per che lantropologo pu forse dare il suo piccolo contributo alla liberazione umana continuando a fare il suo mestiere, e non trasformandosi in un attivista politico tout court. Il che significa continuare a seguire le regole del metodo, della critica delle fonti, del rigore argomentativo; e anche mantenere quella certa dose di distacco da immediate finalit pratiche che sempre requisito del lavoro scientifico, e di cui il vituperato disimpegno accademico non che unespressione. In altre parole, comprensione critica, partecipazione morale e impegno politico possono magari coesistere nella stessa persona, ma sono destinati a non fondersi mai completamente gli uni negli altri: nella loro costante tensione, vorrei suggerire, risiede la forza particolare del lavoro antropologico.
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1 Peraltro, sembra eccessivo e inutile spingere questa critica fino al concetto stesso di ragione, come fa Nordstrom, o contro la tendenza antropologica alla ricerca del senso. Questultima oscurerebbe i concreti individui che vivono, soffrono e muoiono, i quali sono la guerra; e le ragioni, di fronte alle questioni di vita e di morte, sono rimpiazzate da una cacofonia di realt (1995, p. 137). A parte la vaghezza di questultima formula, non chiaro dove stia la contraddizione fra la ricerca del senso e il metodo etnografico della studiosa, centrato sulla raccolta di storie individuali e sullanalisi del simbolismo della violenza e di quello della resistenza quotidiana. Proprio il suo sforzo di attingere la realt soggettiva del dolore, del disfacimento del mondo e i tentativi di ricostruirlo con i mezzi della cultura testimonia a favore di una nozione di comprensione antropologica come elucidazione delle ragioni e dei significati che rendono umane certe pratiche. Cfr. anche Nordstrom 1997, 2004, Finnstrm 2001.
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2 1992, p. 115. Questo tema di fatto lasse portante dellintera opera dello studioso, che esplora il nesso violenza-ragione-stato in una serie assai compatta di volumi degli anni 80 e 90 (Taussig 1983, 1987, 1992, 1993, 1997, 1999).
3 A proposito dei resoconti di Handenburg e Casement sulle atrocit coloniali nel Putumayo, discussi nel saggio qui presentato, Taussig osserva come, per quanto critici nellintenzione, essi presuppongono e rafforzano quegli stessi rituali dellimmaginazione coloniale cui gli uomini soccombevano torturando gli indiani. Nel loro cuore immaginativo, queste critiche erano complici con ci a cui si opponevano (Taussig 1987, p. 133). Sulla stessa linea si collocano le osservazioni mosse da Taussig alla poetica conradiana di Cuore di tenebra .
4 Un esempio tanto noto quanto drammatico di questa ambiguit rappresentato da una foto di Kevin Carter, vincitrice nel 1993 del premio Pulitzer: una bambina sudanese denutrita, crollata a terra con un avvoltoio appostato a pochi passi di distanza. La foto, di grande impatto comunicativo, ha svolto un ruolo importante nel mobilitare lopinione pubblica internazionale attorno ai problemi della carestia provocata in quegli anni nel Sudan meridionale dalla guerra civile. Daltra parte, la stessa realizzazione della foto sembra implicare profondi problemi etici. Lo stesso fotografo ha raccontato di aver atteso venti minuti che lavvoltoio spiegasse le ali. Non ha forse strumentalizzato la situazione, anteponendo la ricerca di unimmagine di successo allimperativo dellaiuto? Inoltre, la diffusione mediale della foto non finisce per spettacolarizzarla, rendendo la stessa sofferenza della bambina una forma di intrattenimento? Il dilemma reso pi drammatico dal suicidio, nel 1994, dello stesso autore della foto un suicidio che, come hanno commentato A. e J. Kleinman (1997, p. 7), sembra disintegrare la dicotomia morale tra soggetto e oggetto di quella foto, fondendo le rispettive sofferenze.
5 Si vedano ad esempio i lavori sui guerriglieri sick di J. Pettigrew (1995) e C.K. Mahmood (1996), quelli sui terroristi nord irlandesi di Feldman (1991, 2000) e Sluka (1995a, 1995b), sul contesto israelo-palestinese di Swedenburg 1995 e Bornstein 2001.
6 Il lavoro di Bourgois (1995; v. anche Bourgois 1996) incentrato su un gruppo di spacciatori di crack portoricani. Lautore fa un lungo periodo di osservazione partecipante: diventa loro amico, ci fa sentire le loro voci, ricostruisce una cultura subalterna la cui violenza esteriore sottodeterminata dalla violenza emarginante e discriminante della cultura egemonica. Ma lempatia e la solidariet politica delletnografo vacillano quando i suoi amici iniziano a raccontargli degli stupri di gruppo che compiono abitualmente. Per quanto disgustato, continua a fare il suo lavoro, e ci offre le voci narranti degli stupratori, con il loro gusto da bravata, i loro risolini, le usuali patetiche giustificazioni ( quello che lei voleva), la loro cosmologia. Ci troviamo immersi in un universo di relazioni sociali, di rapporti uomo-donna, di principi morali particolarmente rivoltanti, e la distaccata testimonianza etnografica sconfina a tratti nella pornografia pi oscena. Assai inquietante anche il contributo dellantropologa americana Cathy Winkler (1991, 1995), che descrive uno stupro da lei stessa subito cercando di utilizzare le tecniche di osservazione etnografica, dunque con una sconcertante attenzione per il dettaglio, e con il tentativo di capire e restituire il punto di vista dellaggressore. Sono ricostruiti i gesti, i dialoghi, latteggiamento dello stupratore, il terrore della vittima. Per lautrice, questo racconto evidentemente una delle risposte possibili al trauma: oggettivare se stessi e le proprie emozioni, riconquistare la padronanza della situazione, e anche raccogliere elementi che possano servire ad ottenere giustizia. Per il lettore, una costante e dolorosa oscillazione fra lidentificazione narrativa con la vittima e una sorta di effetto morbosamente pornografico, limpressione di star assistendo a qualcosa che non si dovrebbe vedere, perlomeno non cos da vicino.
7 Per una pi approfondita discussione del rapporto tra ricordo individuale e sociale, in relazione a una ricerca sulla memoria degli eccidi nazifascisti di civili nella Toscana del 1944, rimando a Dei 2005.
8 Si vedano ad esempio le posizioni del filosofo B. Lang (1990), che ammette solo la possibilit di una cronaca fattuale degli eventi della Shoah, condannandone ogni resa attraverso un linguaggio figurato e stilizzato, o attraverso forme narrative e di emplotment , colpevoli di introdurre un significato e unintenzione autoriale estranee allautentico contesto del genocidio e irrispettose dellesperienza delle vittime. Sul piano etico, come se un persistente lutto imponesse di tenere sotto stretto controllo limpulso allespressione artistica e creativa, a favore di uno stile impersonale in cui il linguaggio per quanto possibile trasparente.
9 Fondamentali sono i saggi raccolti in Friedlander (ed.) 1992, e in particolare la discussione fra H. White e C. Ginzburg (per la traduzione italiana dei loro due testi v. White 1999 e Ginzburg 1992)
10 Chi sostiene unidea delletnografia come puro racconto pone lautorit degli studiosi (sia pure involontariamente) al servizio dei sinistri tentativi di negare lOlocausto, la guerra sporca latino-americana e altri recenti episodi di distruzione organizzata. Attraverso la lente postmoderna, essi divengono semplicemente racconti o finzioni, il che repellente in termini sia intellettuali che morali..: (Surez-Orozco, Robben 2000, p. 12 nota).
11 Una convinzione che implicitamente o esplicitamente condivisa da molte etnografie contemporanee della violenza. Si veda ad esempio il lavoro sui guerriglieri sick di C.K. Mahmood (1996), che teorizza unetnografia partigiana e militante, e in cui la ricercatrice dichiara di porsi al servizio dei suoi interlocutori ex-guerriglieri, per salvare la loro voce e contribuire cos ai loro obiettivi politici e ideologici finalit ultima, questa, della ricerca, in contrapposizione all oggettivismo degli studi accademici e dellantropologia classica. Ci si pu chiedere fino a che punto, con tali premesse, ci troviamo ancora di fronte a un libro di antropologia (lautrice dichiara persino di aver rivisto il testo sulla base delle correzioni ideologiche dei suoi interlocutori; v. Dusenbery 1997 per una critica a questi aspetti); ma soprattutto, si pu notare la contraddizione tra, appunto, la critica alloggettivismo accademico e la pretesa, pi volte riaffermata dallautrice, di parlare in nome della verit (v. anche Mahmood 2001).
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