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N. 3
Povertà come manifestazione del proprio nulla ed esplorazione, coraggiosa e discreta, del tutto di
Dio.
Se l’attesa è espressione della speranza, la povertà è espressione di fede.
Nella preghiera è povero colui che si riconosce dipendente da un altro.
Rinuncia a fondare la vita su se stesso, sui propri progetti, le proprie risorse, le proprie sicurezze,
ma le aggancia a Dio.
Il povero rinuncia a fare dei conti. Preferisce “contare” su Qualcuno!
Il povero si fida del Dio che interviene, ma anche del Dio che non si fa sentire.
Del Dio che si manifesta, come del Dio che non dà alcun segno…..
Si tratta di arrendersi ad un Dio che ti dice quando è ora di partire (subito!), ma non ti rivela quando
arriverai.
L’unica costante è la provvisorietà.
L’unico conforto la precarietà.
L’unica ricchezza una promessa.
L’unico fatto una Parola.
L’orante non è un benestante dello spirito, ma un accattone inguaribile, che elemosina frammenti,
schegge di luce.
La sua sete lo fa diffidare delle cisterne, ma lo porta a ricercare incessantemente la sorgente.
La preghiera non è degli “arrivati”, ma dei pellegrini, la cui bisaccia sforacchiata non contiene un
gruzzolo che aumenta, bensì il necessario che si esaurisce la sera stessa.
Soltanto chi è povero di tempo riesce a regalare del tempo a Dio!
Difficilmente chi possiede del tempo in abbondanza (e lo sperpera disinvoltamente) trova tempo per
pregare. Al massimo, si limita a dare gli scarti.
Il povero compie il miracolo di donare a Dio, nella preghiera, il tempo che non ha. Il tempo che gli
manca.
Il tempo necessario, non quello superfluo. E lo dà con larghezza, senza misurare.
Attraverso la preghiera, il povero si fida dell’intervento di Dio “nell’istante”.
“Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi
come discolparvi, o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che
bisogna dire”
(Lc. 12,11).
Il povero non cerca gratificazioni emotive nella preghiera. Né elemosina facili consolazioni.
Sa che l’essenza della preghiera non consiste nella gioia sensibile.
Il povero cerca Dio anche quando Dio lo delude, si nasconde, sparisce nella notte.
Lui sta lì, senza cedere alla stanchezza, aggrappato alla volontà più che al sentimento, nella fedeltà
di un amore disposto ad accettare qualunque prova.
Sa che l’incontro, qualche volta, si realizza nella festa.
Ma, più spesso, si consuma in una veglia interminabile.
La “notte oscura”, il freddo, l’angoscia, la non risposta, la lontananza, l’abbandono, il non capire
nulla, sono il “sì” più costoso che il povero è chiamato a dire nella preghiera.
Nella preghiera Dio ti fa scoprire, prima di tutto, ciò di cui non hai bisogno, di cui devi fare a meno.
C’è un “troppo” che deve lasciar posto all’essenziale.
C’è un “di più” che deve dare spazio all’unico necessario.
Pregare non significa accumulare, ma spogliarsi, per ritrovare la nudità e la verità del proprio
essere.
La preghiera è un lungo, paziente lavoro di semplificazione della propria vita.
Pregare = voce del verbo sottrarre!!
Fino a far annegare la nostra minuscola isola di soddisfazione, per lasciarci sommergere dall’oceano
di Dio, dai progetti folli del Suo Amore;
fino ad ottenere il miracolo del nulla che sfiora l’Infinito!
Il tutto di Dio si colloca unicamente in quel niente, che è uno spazio, aperto dalle mani vuote e da
un cuore puro.
Sicurezza e ricerca.
Pace e…brusco richiamo a ciò che resta da fare!
Nella preghiera restiamo sbalorditi di fronte alla grandiosità illimitata dell’invito del Padre, ma
avvertiamo la sproporzione tra la Sua offerta e la nostra risposta.
Si imbocca la strada della preghiera solo dopo aver coltivato germi d’inquietudine.
Qualcuno di noi è soddisfatto quando “ha detto le preghiere”.
Dobbiamo scoprire, invece, che l’insoddisfazione costituisce la condizione della preghiera.
“ Guai a voi che ora siete sazi!” (Luca 6.25)