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Speciali Habemus Papam / Sorelle Mai

Chang-dong, Faenza/Macelloni, Romanek,


Ciarrapico/Torre/Vendruscolo, Panahi, Carpenter
Focus Porco Rosso
.
Locchio del ciclone
La quarta dimensione
Il cinema e il suo doppio: Sokurov e la voce solitaria delluomo
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TRA I FILM NEL PROSSIMO NUMERO
MACHETE - IL COLORE DEL VENTO - SOURCE CODE
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Cineforum
Via Pignolo, 123
24121 Bergamo
Anno 51 - N. 3 Aprile 2011
Spedizione in
abbonamento postale
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L.27/2/2004 n. 46)
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MODALITA DI PARTECIPAZIONE
I concorrenti dovranno far pervenire a
Fondazione TRA - Teatro Comunale di Alessandria
Segreteria del Premio Ferrero - Via Savona, 1 - 15121 Alessandria (Tel. 0131/52266)
entro e non oltre il 15 giugno 2011:
- un modulo di iscrizione scaricabile dal sito internet www.teatroregionalealessandrino.it
in cui dovranno essere chiaramente indicati: generalit anagrafiche, residenza, numero
telefonico , e-mail, curriculum studi, attivit ed eventuali progetti;
- la tassa di iscrizione di 25,00 il cui pagamento potr avvenire tramite:
assegno circolare o vaglia postale, intestati a Fondazione TRA(da allegarsi alla domanda).
I concorrenti dovranno inoltre allegare, in 6 copie cartacee e una copia in formato digitale
(file di Word o Pdf), un solo saggio inedito e originale, di ampiezza compresa fra le 15.000
e le 30.000 battute (spazi compresi) e/o, in 6 copie cartacee e una copia in formato digitale
(file di Word o Pdf), una sola recensione giornalistica inedita e originale di ampiezza non
superiore alle 4.000 battute (spazi compresi).
I concorrenti possono partecipare, con la stessa domanda ad una o a entrambe le sezioni
ma potranno essere premiati per una sola di esse, con precedenza accordata alla sezione
saggistica.
in collaborazione con
FONDAZIONE TEATRO REGIONALE ALESSANDRINO
Uffici: Teatro Comunale di Alessandria
Via Savona, 1 - 15121 Alessandria Tel. 0131/52266 - Fax 0131/325589
info@teatroregionalealessandrino.it www.teatroregionalealessandrino.it
DELLA GIURIA DEL PREMIO FARANNO PARTE:
Lorenzo Pellizzari (Presidente), Nuccio Lodato (Coordinatore), Nino Battaglia(giornalista Rai),
Pier Maria Bocchi (critico), Carlo Cerrato (capo redattore RAI TGR Piemonte),
Giorgio Cremonini (storico e saggista), Bruno Fornara(critico) Barbara Grespi (docente di sto-
ria e critica del cinema), Roberto Lasagna (critico ed editore), Luca Malavasi (docente e critico),
Roy Menarini (docente di storia del cinema e critico), Morando Morandini (critico),
Emiliano Morreale (critico), Adriano Piccardi (direttore di Cineforum).
I testi delle recensioni saranno inoltre valutati per il particolare valore narrativo dalla
Giuria della Scuola Holden.
IL PREMIO CONSISTE IN:
Sezione saggi
1.000,00 al primo classificato - 500,00 per saggi ritenuti
meritevoli di segnalazione
Sezione recensioni
400,00 al primo classificato - 250,00 per recensioni ritenute meritevoli
di segnalazione
Premio Scuola Holden
Un corso on-line tra quelli indicati sul sito www.scuolaholden.it
La Giuria si riserva il diritto di non assegnare o di attribuire diversamente le
somme qui indicate. Il saggio e la recensione premiati verranno pubblicati sulla
rivista Cineforumche potr pubblicare altri elaborati ritenuti significativi.
Linosservanza o la non accettazione di quanto qui esposto precluderanno
la partecipazione al concorso.
AL PREMIO POSSONO PARTECIPARE GIOVANI:
che alla data del 15 giugno 2011 abbiano compiuto il sedicesimo anno di et e
non abbiano compiuto il ventottesimo; che non abbiano collaborato a quoti-
diani, periodici e riviste specializzate con diffusione nazionale; che non abbiano
conseguito il primo premio in precedenti edizioni del Ferrero.
BANDO DI CONCORSO La Fondazione Teatro Regionale Alessandrino organizza per il 2011 la trentunesima edizione del Premio, a ricordo dellopera
critica, didattica e politico-culturale che Adelio Ferrero (1935-1977) svolse ad Alessandria e a livello nazionale in qualit di critico cinematografico, docente
di Storia del Cinema presso il DAMS dellUniversit di Bologna, fondatore della rivista Cinema&Cinema, primo Presidente dellAzienda Teatrale Alessandrina.
Il Premio riservato a giovani autori di saggi e di recensioni di argomento cinematografico. Gli argomenti dei saggi dovranno riguardare il cinema (autori,
opere, tendenze, teoria, problematiche) senza alcuna limitazione di tempo, luogo, aspetto e prospettiva. Le recensioni dovranno riferirsi a film apparsi nel
circuito di prima visione italiano limitatamente al periodo 2010-2011. Saranno esclusi estratti da tesi di laurea.
FESTIVAL REALIZZATO CON IL SOSTEGNO
DEL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA CULTURALI
DIREZIONE GENERALE PER IL CINEMA
ADELIO
31 EDIZIONE
PER GIOVANI SAGGISTI
E CRITICI DI CINEMA
FERRERO
PREMIO
2011
www.cineforum.it
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Parecchio cinema italiano su questo numero. Due
speciali, Moretti (in tempi di evaporazione del padre, va
diretto al cuore del simbolico e fa conseguentemente
evaporare il Santo Padre) e Bellocchio (Bellissimo film
di frammenti [che tutto riporta] ancora una volta, al
motore insieme visivo e tematico di tutto il cinema di
Bellocchio, listituto della famiglia, inteso come schema
ordinatore dellesistenza, debito di sangue pagano,
strozzatura dellevoluzione); poi un ritorno impegnati-
vo, magari controverso rispetto alla sua utilit, del
documentario-inchiesta firmato da Faenza, cineasta
non nuovo a queste esplorazioni; e il piccolo caso
(cult, bizzarria) di un film di generazione televisiva
che, lungi dal fallire la prova, si rivela invece unintelli-
gente operazione di cinema Medio-Di-Nicchia-Ma-
Non-Poi-Cos-Tanto, che lascia il suo graffio su questa
seconda parte della stagione. Infine: dopo un saggio che
riprende alcuni titoli italiani del 2010 (pi uno uscito
nel 2007, pi un inedito realizzato in Italia da un
inquieto quanto da tempo irresoluto regista tedesco)
per lavorare sui concetti di spostamento e di territoria-
lizzazione, tra filosofia e politica; tanto per non farci
mancar niente, nella consueta rubrica dvd due film che
hanno lasciato (per motivi molto diversi) un segno
indelebile nella storia del cinema italiano, entrambi in
edizione splendidamente restaurata: La presa del pote-
re da parte di Luigi XIV di Roberto Rossellini e
Novecento di Bernardo Bertolucci.
In concorso a Cannes, questanno, il gi nominato
Moretti (a proposito, una incursione da manuale la sua
a Che tempo che fa, con Fabio Fazio pericolosamente
in bilico fra il giornalista Rai che nel film conduce la
cronaca del Conclave e la ormai leggendaria intervista-
trice in Palombella rossa mentre Moretti al termine
della conversazione lo guardava con occhi non troppo
diversi da quelli dello psicanalista quando rifila la
scopa ai cardinali avversari dopo averli distratti par-
lando dei suoi guai familiari), insieme a Paolo
Sorrentino, mentre nella Quinzaine si presenter in
esordio Rohrwacher (Alice).
Cineforum vuole sottolineare un momento favorevo-
le alla nostra cinematografia? Certo meglio non lasciar-
si andare allentusiasmo, ma non ci si pu nemmeno
lamentare. Un paio di anni fa, dopo luscita di Gomorra
e Il Divo, gi tutti a sperticarsi sul nuovo Rinascimento,
disquisendo delle basi produttive, dellautorialit matu-
rata nellesperienza pluriennale eccetera. Quando lanno
successivo le magnifiche sorti e progressive hanno parto-
rito, in definitiva, soltanto Vincere (capolavoro) firmato
da Marco Bellocchio (e ce lo teniamo stretto), chi in pre-
cedenza gridava al nuovo corso non sapeva pi sostan-
zialmente che dire. Nel 2010 la situazione si stabilizza-
ta, nel senso che in assenza di opere clamorose ci si
accorti di quanto possa essere importante saper guarda-
re ai prodotti pi defilati, non sostenuti da grancasse
extra-cinematografiche (sia detto senza nulla togliere al
merito intrinseco dei fortunati) e lo sappiamo pena-
lizzati da una circuitazione votata preferibilmente al bot-
teghino. Non contano, in questi casi, le attenzioni festiva-
liere raccolte anche in sedi blasonate: ne sanno qualcosa
il Frammartino di Le quattro volte e il Gaglianone di
Pietro, tanto per dirne due. Ne deriva la necessit del-
lesercizio di una caccia al tesoro che i nostri lettori, lo
sappiamo, praticano con passione; ne conseguono anche,
come da copione, le parole del neoministro per i Beni e
le Attivit Culturali, che esorta Cinecitt a favorire la
distribuzione di opere prime e seconde il fatto che ne
abbiamo gi sentite a sfinirci di queste dichiarazioni
dintenti. Fosse la volta buona, per qualit e quantit, ne
saremmo comunque felici.
Adriano Piccardi
DOLCE CASA?
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CINEFORUM IN LIBRERIA
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SOMMARIO
EDITORIALE
Adriano Piccardi/Dolce casa? 1
SPECIALE HABEMUS PAPAM
Pier Maria Bocchi/Le nostre prigioni 4
Bruno Fornara/???????????? 8
Emanuela Martini/Cambia, todo cambia 11
Giorgio Cremonini/In lutto per la nostra vita 13
Fabrizio Tassi/Risucchiati nel vuoto (santo) 15
Roberto Chiesi/Libert e depressione del flneur 17
SPECIALE SORELLE MAI
Luca Malavasi/Riconosci te stesso 20
Paolo Vecchi/A Bobbio! A Bobbio! A Bobbio!. Bellocchio rebours 23
Alice Cati/Seguire le tracce dei temi generatori 25
I FILM
Dario Tomasi/Poetry di Lee Chang-dong 29
Anton Giulio Mancino, Giacomo Manzoli/Silvio Forever
di Roberto Faenza e Filippo Macelloni 32
Pier Maria Bocchi/Non lasciarmi di Mark Romanek 38
Chiara Boffelli/Boris Il film di Giacomo Ciarrapico,
Mattia Torre e Luca Vendruscolo 41
Simone Emiliani/Offside di Jafar Panahi 44
Federico Gironi, Anton Giulio Mancino/The Ward di John Carpenter 47
Lorenzo Leone, Giampiero Frasca, Emilio Cozzi, Simone Emiliani, Lorenzo
Donghi, Roberto Manassero/Ju tarramutu - Lo stravagante mondo di Greenberg
Kick-Ass - Frozen - La fine il mio inizio - The Next Three Days 52
FOCUS PORCO ROSSO
Fabrizio Liberti/Il volo del maiale 58
La strana coppia intervista a Marco Pagot 61
FOCUS LOCCHIO DEL CICLONE
Nicola Rossello/Sangue sulla palude 63
IL CINEMA E IL SUO DOPPIO
Sergio Arecco/Sokurov e la voce solitaria delluomo 66
SAGGI GEOGRAFIE
Alessandra Mallamo/La quarta dimensione 72
BERGAMO FILM MEETING
Andrea Frambrosi/Mostra Concorso 80
Tullio Masoni/Mondo ex 81
Francesco Portesi/Omaggio a Regina Pessoa 83
Lorenzo Rossi/Visti da vicino 84
DVD a cura di Adriano Piccardi, Martino Maccari, Arturo Invernici 85
LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato 89
LIBRI a cura di Ermanno Comuzio e Adriano Piccardi 94
INFO dal luned al venerd - 9.30/13.30 - Tel. 035 361361 - abbonamenti@cineforum.it
cineforum
rivista mensile
di cultura cinematografica
anno 51 - n. 3 - Aprile 2011
Edita dalla
Federazione Italiana Cineforum
Direttore responsabile:
Adriano Piccardi adriano@cineforum.it
Comitato di redazione:
Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttore
editoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara,
Luca Malavasi, Emanuela Martini, Angelo
Signorelli, Fabrizio Tassi
Gruppo di lavoro: Francesco Cattaneo,
Jonny Costantino, Giuseppe Imperatore,
Arturo Invernici
Collaboratori:
Sergio Arecco, Alberto Barbera, Alessandro
Bertani, Paolo Bertolin, Marco Bertolino,
Francesca Betteni-Barnes D., Matteo Bittanti,
Pier Maria Bocchi, Andrea Bordoni, Massimo
Causo, Rinaldo Censi, Carlo Chatrian, Ermanno
Comuzio, Emilio Cozzi, Giorgio Cremonini,
Alberto Crespi, Lorenzo Donghi, Simone
Emiliani, Michele Fadda, Davide Ferrario,
Andrea Frambrosi, Giampiero Frasca, Leonardo
Gandini, Cristina Gastaldi, Federico Gironi,
Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato, Pierpaolo
Loffreda, Anton Giulio Mancino, Giacomo
Manzoli, Michele Marangi, Matteo Marino,
Mattia Mariotti, Tullio Masoni, Emiliano
Morreale, Alberto Morsiani, Umberto Mosca,
Luca Mosso, Lorenzo Pellizzari, Alberto
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Venezia al n. 307 del 25-5-1961
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Italiana
In copertina:
Habemus Papam
di Nanni Moretti
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Questo film di Nanni Moretti parla delle prigioni
delle parti in cui viviamo e che indossiamo.
PRIGIONE #1
la prigione del ruolo sociale. Lontano da facili
condanne o da prevedibili messe in burla, Habemus
Papam guarda alla persona come a unimmagine di
cui farsi carico e responsabili. Spesso nostro mal-
grado. La persona qualunque, la persona di potere:
entrambe sono simulacri di un vivere che ci hanno
insegnato dover essere civile. E la civilt impone di
aderire a dei vestiti fatti da altri su misura. Gli altri
sono le tradizioni, le convenzioni, le aspettative. Ma
la misura talvolta va stretta. I sarti non sbagliano,
piuttosto seguono londa. Gli obblighi sono morali:
labito fa il monaco. E in Habemus Papam di
monaci ce ne sono molti: c il monaco psicanali-
sta, ci sono i monaci cardinali, c il monaco guar-
dia svizzera e c il monaco Papa. Tutti fanno quel-
lo che gli si chiede, ci che i rispettivi ruoli impon-
gono. Tutti, alla fine, si svestono, restando nudi: non
solo il re, ma pure i fanti e le regine.
morale portare il capo dabbigliamento al quale
si destinati, ma altrettanto morale pi morale
HABEMUS PAPAM Nanni Moretti
SPECIALE
LE NOSTRE PRIGIONI
Pier Maria Bocchi
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infine toglierselo. Questo ci dice Habemus Papam.
Sfilarsi il vestito non segno di rinuncia, un primo
passo verso il cambiamento. In questo modo, la
societ ricomincia da zero. Se perfino il Papa
abbandona i propri abiti, vuol dire che si pu. Yes,
we can. Rinunciatario, Moretti? Non direi:
Habemus Papam mi sembra un invito commovente
a ripartire, a trovare nuove strade, a smettere i
credo secolari e a smetterla con le attese pi ovvie.
Ecco il vero Papa di tutti! Quello che nessuno
saspetta: un uomo che confessa di non farcela. Dio
non centra, come non centrano le varie chiamate:
un Papa che lascia di fronte al mondo (il popolo,
la piazza, gli sguardi dei fedeli), non ai cieli. Eresia?
Solo per i poveri di spirito e per chi non capace di
uscire dalla porta e aprire le finestre.
Questa terra (la terra, s) talmente abitudinaria
da avere un armadio per ogni stagione. Com che si
dice? Morto un Papa, se ne fa un altro. Ecco, appun-
to. Moretti per ci propone una responsabilit
diversa: non quella di fare ci che dobbiamo fare,
ma la responsabilit di scegliere una via alternativa,
la differenza, la disuguaglianza. La scelta della dif-
formit. Il Papa di Habemus Papam osa cogliere
lopzione numero due, dire di no. Allo stesso modo
gli altri, lo psicanalista, i cardinali, addirittura il
portavoce del Vaticano: dicono di no agendo in
maniera differente, abbandonandosi al momento,
giocando, mentendo. Lo psicanalista lascia presto
da parte ruolo e compito per giocare a carte e orga-
nizzare un torneo di pallavolo; i cardinali sfruttano
limpasse del conclave aderendo con entusiasmo ai
giochi; il portavoce del Vaticano diventa un bugiar-
do cronico e un gran regista teatrale (con la messa
in scena della guardia svizzera negli appartamenti
del Papa). Tra le mura segrete della societ vatica-
na, si indossano nuovi vestiti. Peccato sia un evento
passeggero: poi torna la normalit, lo psicanalista
resta deluso, i cardinali anche. E pensare che
lOceania avrebbe potuto dire la sua al gioco, e piaz-
zarsi una volta tanto tra i paesi pi forti! Che
come dire che linusuale e linaspettato avrebbero
avuto finalmente una possibilit, prima che tutto
rientrasse nei ranghi. Per un po, lo psicanalista si
scrolla di dosso lombra della moglie, del deficit
daccudimento e del primato sul campo; per un po,
il tempo di qualche partita, i cardinali non lasciano
labito talare ma lasciano quello pi torvo dellap-
prensione, dellinquietudine religiosa, del rispetto
delle regole; per poco, la durata della finzione, la
guardia svizzera sveste i panni del proprio ruolo per
fare lattore al soldo del portavoce del Vaticano,
mangiando il cibo del Papa e ascoltando la musica
del Papa, con lunico sforzo di smuovere regolar-
mente le tende alla finestra del Papa; per un po, il
portavoce irrequieto del Vaticano costretto dagli
eventi a spogliarsi degli abiti di factotum indefesso
e nascondersi dentro quelli di metteur en scne, per
il bene del pubblico dei confratelli e del mondo (non
esclusivamente cattolico). Le alternative durano
quel tanto che basta a renderle ipotesi di vita. Il
discorso finale del Papa, ben diversamente dal
discorso di re Giorgio VI dInghilterra, la preghie-
ra semplice e diretta per un ripensamento: rinun-
ciando, egli suggerisce unaltra via. Quella che pro-
babilmente potrebbe spalancare le sbarre di questa
prigione sociale.
PRIGIONE #2
la prigione delle differenze. Quelle tra i ruoli ma
anche tra le arti. qui che Moretti pi sapido. Ed
qui che ha maggiormente infastidito certa critica,
pronta a condannarlo di morettismo. La straordina-
ria sequenza a teatro non soltanto spiega la scena
ufo dellhotel che la precede, ma chiarisce le inten-
zioni di un film che credo voglia togliere di mezzo lo
scarto tra realt e sua rappresentazione.
Per inseguire una nuova soluzione, una nuova
risposta, Moretti insegue il suo Papa per le strade di
Roma. La citt e la vita fuori fanno morire e fanno
rinascere (non risorgere) il Papa. Un sogno? Forse,
come per il Moro nel finale di Buongiorno, notte. O
forse no. In Habemus Papam non c pi diversit
tra immaginazione e realt. Il Papa simmagina di
ritrovare se stesso, di ricordare, di decidere, e finisce
da solo su due palchetti, prima a teatro, mentre si
recita quel Cechov che nel corso degli anni lui ha
mandato a memoria, poi su piazza San Pietro,
davanti ai fedeli in attesa. A teatro avviene ci che
per tutto il film stato rimandato e scansato, lo
spettacolo delle parti. Con accumulo pittorico e con
tensione crescente, Moretti riempie a poco a poco il
luogo di suore e di cardinali in abito rosso sangue,
che invadono la platea alla ricerca del loro Papa. Lo
vedono, lo ritrovano, lo applaudono. Dove comincia
la finzione? E dove finisce la realt?
Per ripartire, c bisogno di guardare alle cose in
maniera diversa. Guardare allarte come a uno stru-
mento di vita (attraverso le parole di Cechov, il Papa
ricorda linfanzia e la sorella), guardare alla vita come
a un ideale artistico, il meglio dellarte, la perfezione.
Faccio lattore: la risposta del pontefice in incogni-
to quando la psicanalista gli chiede qual il suo lavo-
ro. C bisogno di annullare le divisioni. Dentro le
mura del Vaticano, lo psicanalista arbitro e stratega
organizza partite di pallavolo tra i cardinali. Moretti,
nel frattempo, sorride di s, del ruolo che riveste e dei
vezzi morettiani ai quali non resiste. Cos facendo, e in
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maniera decisiva, regista e personaggio servono a
creare un mondo diverso dai soliti mondi e dai mondi
noti. Non pi una critica del mondo cos come lo cono-
sciamo e lo viviamo, non pi la sua presa per i fondel-
li, bens un vero e proprio new world dove realt e illu-
sione trovano sinergia coerente. Lo si diceva, no, che
larte migliora la vita? La scena a teatro insieme la
sintesi e la celebrazione di un film in cui gli interventi
dellarte (anche la propria, nel caso del Moretti attore)
sulla realt operano a fin di bene. Altro che lezioni cri-
stiane! Per creare, non necessario distruggere, basta
reinventare, smuovere le pedine, dar loro un tono e dei
colori inconsueti e imprevisti. Unopera darte!
Limprovvisazione! Daltronde, sul tram il Papa parla
da solo come un vecchio rimbambito, improvvisando
un discorso, cercando le parole giuste, e nessuno lo
biasima per questo. La recita infiltra dunque il reale,
la rappresentazione si fa largo tra la folla. Tutta una
finta, allora? Nientaffatto: Habemus Papamusa tra le
altre cose il morettismo per ridefinire i contorni e, se
possibile, per cancellarli. Per non un ingenuo,
Moretti: non crede e non vuol credere alluguaglianza
di tutti gli uomini e allappianamento delle diversit,
ma auspica un mondo in cui lintraprendenza, il genio
e il potere (nella sua forma pi morale possibile) pos-
sano coesistere e aiutarsi. Attraverso larte, dentro di
essa: perch se non vogliamo ritrovarci da soli e mori-
re (lo psicanalista si ritrova di nuovo da solo e un po
muore, quando il torneo di pallavolo viene interrotto),
dobbiamo assolutamente riscoprire limportanza della
partecipazione allarte. Viverla, non vivere come den-
tro un film, c una bella differenza.
PRIGIONE #3
la prigione dello sguardo della critica sul cine-
ma di Nanni Moretti. Che equivale alla prigione del
personaggio. Nel tempo, il destino degli autori forti
quello di formare un totem al quale i critici non
resistono. Nel bene e nel male. Cos viene preserva-
to dallimbarbarimento il culto autoriale dei fan
integralisti e contemporaneamente e spesso paral-
lelamente si delinea il rifiuto di chi comincia a
nutrire qualche dubbio sulla necessit dello stesso.
successo con Woody Allen. Sta succedendo con
Moretti. Del quale sempre pi spesso gli appassio-
nati gradiscono i continui birignao attoriali, da per-
sonaggio, difendendoli a spada tratta e ridendone a
comando, mentre i perplessi sottolineano lapparen-
te ripetizione di un copione ormai abusato. Da una
parte e dallaltra, il rischio di perdere di vista la
ragione. Tanto che le battute e le gag diventano pesi
e misure unici ed esclusivi per calcolare efficacia e
fastidio. Fede ed eresia. Papaboy vs. satana.
Con Habemus Papam, lerrore critico di prospetti-
va trova il suo apice. Il film franto in due, di qui le
vicende dello psicanalista in Vaticano, di l la deriva
Regia: Nanni Moretti. Sceneggiatura: Nanni Moretti,
Francesco Piccolo, Federica Pontremoli. Fotografia:
Alessandro Pesci. Montaggio: Esmeralda Calabria.
Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Paola
Bizzarri. Costumi: Lina Nerli Taviani. Interpreti:
Michel Piccoli (il cardinale Melville), Nanni Moretti
(il professor Brezzi), Jerzy Stuhr (il portavoce della
Santa Sede), Renato Scarpa (il cardinale Gregori),
Francesco Graziosi (il cardinale Bollati), Camillo
Milli (il cardinale Pescardona), Roberto Nobile (il
cardinale Cevasco), Ulrich Von Dobschtz (il cardina-
le Brummer), Gianluca Gobbi (la guardia svizzera),
Margherita Bui (la ex moglie del professor Brezzi),
Camilla Ridolfi, Leonardo Della Bianca (i bambini),
Dario Cantarelli (lattore che recita Il gabbiano in
hotel), Teco Celio (il direttore della compagnia teatra-
le), Manuela Mandracchia, Rossana Mortara,
Roberto De Francesco, Chiara Causa (gli attori),
Mario Santarella (il cerimoniere), Tony Laudadio (il
capo della Gendarmeria vaticana), Enrico Ianiello (il
giornalista), Cecilia Dazzi (la mamma), Lucia
Mascino (la commessa), Massimo Verdastro (il vatica-
nista), Maurizio Mannoni (se stesso). Produzione:
Nanni Moretti, Domenico Procacci, Jean Labadie per
Sacher Film/Fandango/Le Pacte/France 3 Cinma/
Rai Cinema. Distribuzione: 01. Durata: 104.
Origine: Italia/Francia, 2011.
Alla morte del Papa, viene indetto il Conclave. Dopo
vare fumate nere, eletto il cardinale Melville.
Questi, per, cade subito preda di ansie e insicurez-
ze, al punto da indurre gli altri cardinali, dietro la
regia del portavoce della Santa Sede, a rimandare la
proclamazione e a convocare il prefessor Brezzi, il
migliore degli psicanalisti di Roma. La situazione si
mette subito in stallo, finch Melville riesce a eludere
la sorveglianza e prende a girovagare per la citt
come un qualsiasi turista. Lincontro con una com-
pagnia di attori risveglia in lui lantica passione per
il teatro. Intanto, mentre il portavoce tiene nascosta
ai fedeli la situazione e manda avanti spasmodica-
mente le ricerche del cardinale fuggiasco, il professor
Brezzi e gli altri porporati trovano la maniera di
impiegare il tempo
HABEMUS PAPAM Nanni Moretti
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del Papa. Diversi sono i toni, diverso lo spessore.
Eppure ho la sensazione che la leggerezza delle sce-
nette tra Moretti personaggio e i cardinali faccia
riflettere sulla prigionia dei ruoli quanto se non di
pi dellansia da prestazione del pontefice. Se lo psi-
canalista gradatamente si adegua al luogo, e con
grande entusiasmo per giunta, abbandonando tem-
poraneamente il proprio ruolo e vestendo quello di
giullare di corte, significa che Moretti ben consape-
vole del fascino del suo personaggio (un personaggio
tipico). Il doppio grado di sguardi (che chiamerei
metacinematografico se non mi censurassi da solo)
testimonia di unautoanalisi: cardinali primo pub-
blico e spettatori del film secondo pubblico ser-
vono tutte due a Moretti per capire sia di non poter
fare a meno dellidentit che s costruita, sia che
essa la sua prigione. unidentit prigioniera della
critica medesima, e che questultima fa prigioniera.
Se mai Nanni Moretti ha fatto un film autoanalitico
e autocritico, questo senzaltro Habemus Papam, e
in forma definitiva. Dalle sbarre del personaggio
impossibile scappare; purtroppo, molto difficile
scappare anche dalle sbarre della critica. Che piutto-
sto dovrebbe chiedersi se a Moretti stato utile, e a
cosa stato utile, fare il suo personaggio tra le mura
del Vaticano. Cio: stato un fallimento? Visto come
sinterrompe bruscamente il torneo di pallavolo, e
vista la reazione dello psicanalista allalzata di mano
dei cardinali per andare tutti insieme a riprendersi il
Papa, forse s, stato tutto un fallimento, le cose non
sono cambiate, i ruoli non sono cambiati. Ma se in
quei momenti di spensieratezza birbante, tra una
scopa e una battuta, il Moretti personaggio riusci-
to a immaginare unalternativa (alla norma, alla
noia, allansia), allora anche soltanto per una breve
parentesi avvenuta una rottura. Il lungo ralenti
della partita a pallavolo sembra indicare uno stato di
sogno, qualcosa che va a una velocit non comune, a
una velocit che non appartiene alla realt. Un sogno
reale, un sogno lungo qualche giorno: quanto basta
per immaginare altro e immaginarsi altri. In questo
caso, dunque, per Moretti essere personaggio funzio-
na come carcere ma soprattutto come valvola di
sfogo. una prigione, ma dalla quale si pu discute-
re (senza urlare) di una trasformazione. Transitoria
fin che si vuole, per accaduta.
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Limmagine del balcone senza papa da dove il papa
avrebbe dovuto affacciarsi su piazza San Pietro, con
le ante del finestrone aperte sul corridoio interno
vuoto e scuro quellimmagine, Moretti la ripete, la
sottolinea. Il finestrone si apre sul vuoto di un corri-
doio. Al cardinale che si rivolgeva al festante popolo
di Dio con la formula Nuntio vobis gaudium
magnum. Habemus Papam aveva fatto eco dal cor-
ridoio un urlo straziante, di impotenza e inadegua-
tezza, anche di istintiva ribellione, del papa neoelet-
to e scappato via: dietro la finestra restava, appunto,
il vuoto. Habemus Papam? Non habemus Papam?
Habemus et non habemus Papam.
Ai lati del finestrone, ai lati del vuoto, ci sono
delle tende. Il vento le gonfia. Che lo spirito stia sof-
fiando? Si sa che lo spirito soffia dove e quando
vuole: ma com che lo spirito soffia proprio adesso
che (finalmente?) un papa (finalmente!) se n scap-
pato via? Nel Vangelo di Giovanni, al capitolo tre,
c un lungo dialogo tra Ges e Nicodemo, membro
del sinedrio, un capo dei giudei, esperto di cose di
fede. Nicodemo viene a trovare Ges di nascosto, di
notte, per non farsi vedere dai suoi. Crede che Ges
sia stato mandato da Dio come maestro, nessuno
pu fare i segni che fa Ges se Dio non con lui.
Discutono di questioni teologiche. Ges sostiene che
bisogna nascere di nuovo e nascere dallalto. Il
testo greco dice nothen, dallalto; il testo latino
dice denuo, di nuovo, una seconda volta. Comunque
sia, dallalto o di nuovo, bisogna rinascere.
????????????
Bruno Fornara
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Nicodemo, sornione, ribatte che non si pu mica
rientrare nel ventre della madre. Ges risponde che
bisogna rinascere dallacqua e dallo spirito, e poi:
Non meravigliarti che ti abbia detto: voi dovete
nascere dallalto. Il vento soffia dove vuole, senti la
sua voce, ma non sai da dove viene n dove va. La
voce del vento, nel testo greco, fon (proprio come
la fon di Carmelo Bene). Si muovono su in alto
le tende del balcone, gonfie come vele, la barca di
Pietro lascia gli ormeggi, il papa non vuole essere
papa, lo spirito soffia allegro e gagliardo.
Habemus Papam allunga la lista dei bei film che
riflettono sulla storia e sul presente di noi italiani: e
Vaticano e Chiesa sono ben dentro la nostra storia e
il nostro presente. Bei film che ripensano le tre Italie
degli ultimi centocinquantanni della nostra ben pi
lunga storia: la prima Italia risorgimentale e liberale,
la seconda mussoliniana, la terza repubblicana.
Quando il nostro cinema parla di questo ultimo seco-
lo e mezzo afferma nei titoli qualcosa che viene poi
messo in discussione nei film. Il titolo dice, del nostro
Risorgimento, Noi credevamo, e il film si pone la
domanda: in cosa credevamo? di far nascere quale
Italia? Il titolo Vincere diventa Vincere? cosa mai
abbiamo vinto, oltre a due mondiali di calcio, lungo
i due decenni abissali della dittatura fascista? Il tito-
lo Il Divo: quale divo? un mostro pietrificato, piut-
tosto. Lultimo esemplare, per ora!, del bestiario par-
torito dalla nostra storia Il Caimano: un caimano?
s, potente e grottesco. Non abbiamo una gran storia:
linizio non si sa bene quando, come e se c stato, poi
Mussolini per ventanni, Andreotti per cinquanta, un
intermezzo craxiano e questi ventanni con laccop-
piata tuttora regnante Berlusconi-Bossi (veloci ed
effimere le apparizioni di Prodi, fatto fuori dagli stes-
si che avrebbero dovuto sostenerlo). Non si accet-
tano scommesse su chi e come proseguir la serie.
Puntata troppo facile: molto probabile che si conti-
nuer cos.
Anche Habemus Papam non ha, nel titolo, punti
interrogativi, ma ne arrivano subito: perch il papa
non fa il papa? perch scappa? Le risposte, per gran
parte del film, sembrano essere fiduciose. Sembra
che, seguendo alla lettera il consiglio di Cristo, il
papa rinasca di nuovo e proprio dallalto: dallalto
di quel balcone abbandonato. Soffia vivace lo spiri-
to, spinge il papa a fare il papa in unaltra maniera,
non vestito cos, non affacciandosi al balcone, non
con discorsi e benedizioni allurbe e allorbe. Lo fac-
cia piuttosto, suggerisce lo spirito, vestito da perso-
na qualunque, recitando Cechov in battute semplici
e vere, andando dal fornaio la mattina presto a
prendersi una brioche, parlando a un silenzioso gio-
vanotto in autobus. Sorprendente questo papa,
umile e inadeguato, libero e sconosciuto.
Il papa non ha neppure scelto il nome da papa. Di
suo si chiama Melville: e fa esattamente quello che
fa, o meglio non fa il Bartleby di Herman Melville.
Bartleby, the Scrivener. A Story of Wall Street,
1853, racconta dello scrivano che, con modesta e
incomprensibile ostinazione, si rifiuta di fare quello
che dovrebbe fare. La sua risposta, ripetuta ripetu-
ta ripetuta, la stessa del Melville eletto papa: I
would prefer not to. Preferisce di no. E se gli chie-
dono perch, risponde ancora: I would prefer not
to. La storia di Bartleby si chiude con due sospiri e
punti esclamativi: Ah Bartleby! Ah humanity!.
Ah, questo papa, umano, troppo umano!
Papa Melville, come Bartleby, forse un depresso.
Tutti i cardinali sono depressi e prendono psicofar-
maci, anche pesanti. In Vaticano pensano che uno
psicanalista possa servire. E arriva linvenzione che
innerva il racconto. Prima che il film uscisse, si dice-
va fosse la storia di un papa in crisi, esistenziale e
religiosa, e che uno psicanalista doveva tirarlo su di
morale e di fede. Visto il film, le cose sono diverse.
Non lo psi a risollevare il pontefice. lo spirito
che soffia nelle tende sul versante affettuoso di
Habemus Papam (perch ce n un altro di versan-
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te: oscuro) a far risorgere dallalto non solo il
papa ma anche lo stesso psicanalista, che rinasce
meno dallalto del papa ma pur sempre un po in
alto, sulla predella di arbitro di pallavolo.
Il papa non fa il papa e lo psi fa solo per poco lo
psi. Incontra per brevi momenti il suo eminentissi-
mo paziente, sotto il controllo dei cardinali in circo-
lo (che vogliano guarire anche loro?), lo psi non pu
parlare di sogni desideri infanzia mamma sesso: e
lanalisi non neppure cominciata che il papa
Melville-Bartleby se ne va perch preferisce di no.
Lo psi resta senza paziente e il paziente, appena
fuori per le strade di Roma, se la cava bene con
tutti, anche con lex-moglie dello psi, psi anche lei,
fissata sul deficit di accudimento. La coppia psica-
nalista-paziente si scioglie subito, ognuno rinasce
prendendo una sua strada, il papa a spasso, lo psi a
giocare con i cardinali. Lo spirito sta soffiando alle-
gramente e fortissimo.
!!!
Questi punti esclamativi se li merita la novit
assoluta che c nel film. Che il papa se ne sia anda-
to gi, per lui, per lo psicanalista e per la Chiesa
cattolica, apostolica e romana, una vera benedizio-
ne. Ma succede qualcosa di ancora pi sorprenden-
te, per noi che conosciamo da tanti film Nanni
Moretti. Succede addirittura, roba da non crederci,
che Moretti in persona, regista-attore, non si indi-
gna! Non si indignano, non battono ciglio sia lo
psicanalista Moretti sia il Moretti regista di chapli-
niana sobriet. Non lo fanno, i due Moretti, quan-
do si ritrovano senza paziente, non si indignano
quando li tengono sequestrati in una stanzettina
spoglia, quando non possono parlare di sogninfan-
ziasessomamma, quando devono lasciar perdere
quel bel confronto-scontro inconscio-anima, quan-
do non possono litigare su darwinismo-creazione.
Del tutto semplicemente, larmamentario psicanali-
tico e le questioni di fede vengono messi da parte.
Moretti, nelle parti sovrapposte di personaggio e di
lui persona, preferisce di no, preferisce non indi-
gnarsi, non accusa nessuno, gioca e fa giocare.
Gioca a scopa con le eminenze, organizza un mon-
diale di pallavolo tra porporati, applaude i tre car-
dinali australiani quando segnano il loro unico
punto. Nasce di nuovo. Lo psi-non-psi e il papa-
non-papa rinascono, si mettono a soffiare insieme
allo spirito. Si accorgono del mondo, ci vivono den-
tro. Niente macerazioni. Il campetto della pallavolo
vaticana non la piscina di Palombella rossa
(1989), film che aggiungeva uninfinit di punti
interrogativi e di dubbi al titolo. Palombella
rossa???, chi ero? chi sono? dove vado? siamo
uguali? siamo diversi? siamo ugualidiversi? In una
elegante disposizione a chiasmo, il papa rinchiuso
si liberato, lo psi chiuso dentro e gioca. Nessun
buueliano angelo sterminatore blocca le porte
aperte dei palazzi apostolici. A tenere l lo psi e i
cardinali una guardia svizzera, golosa e annoiata.
Tutti credono che il papa stia riflettendo, invece
un papa-ombra a muovere ogni tanto le tende della
stanza. Una guardia svizzera imita il soffio dello
spirito. O anche (perch no?): lo spirito si diverte a
farsi passare per guardia svizzera...
???
Ma proprio cos? Troppo bello: un papa se ne va
e nella Chiesa prende a soffiare lo spirito. C un
versante oscuro del film, dove si incontrano punti
interrogativi nascosti. Nella prima immagine, si
intravede un elicottero che volteggia sopra i palazzi
vaticani: come lelicottero che apre La dolce vita
(1960) e vola sui ruderi degli acquedotti romani,
sulle terrazze con le ragazze in bikini, sui palazzoni
della speculazione edilizia. Sotto lelicottero fellinia-
no era sospesa la statua di un Cristo benedicente.
Sotto a quello di Habemus Papam non sospeso
nessun Cristo. Quando poi papa Melville gira tran-
quillo per Roma, vengono in mente altre immagini,
molto simili, quelle di Aldo Moro che cammina libe-
ro per Roma, in una sequenza visionaria di
Buongiorno, notte (2003), sequenza in cui
Bellocchio mostra il desiderio allucinatorio di una
liberazione dello statista (senza condizioni, come
aveva chiesto, lo si ricorder, il pontefice Paolo VI in
un drammatico appello agli uomini delle Brigate
Rosse) (P. Montani, Limmaginazione intermedia-
le, Laterza, 2010, p. 28).
Unallucinazione liberatoria. E se Habemus
Papam, Non habemus Papam, Habemus Papam?
fosse proprio unallucinazione liberatoria? Lo sug-
gerisce quel finale secco e duro. Il papa torna nel
palazzo, tiene un breve discorso al balcone: La
Chiesa ha bisogno di grandi cambiamenti
Chiedo perdono per quello che sto per fare La
guida non sono io. Si volta e si ritira nel buio,
stavolta per davvero. E cala il nero come una man-
naia, si affonda nello schermo scuro, senza pi sof-
fio, senza nessun vento, la fon tace. Qui comincia
il film che Moretti non ci mostra. La domanda
nascosta nelle tenebre: cosa succede a questa
Chiesa che non sa cambiare? Prologo del Vangelo
di Giovanni: In lui era la vita e la vita era la luce
degli uomini; e la luce nelle tenebre brilla e le tene-
bre non la compresero.
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Una pesantezza continua, la testa troppo piena.
come se avessi una specie di sinusite psichica. A
chi non capitato, e continua a capitare ciclicamen-
te? Al di l dei sintomi pi vistosi, e gravi, della
malattia chiamata depressione, questo senso di stor-
dita inquietudine, di passiva insofferenza, di eccita-
ta impotenza, , credo, uno degli stati pi diffusi del
nostro vivere quotidiano. Non sappiamo che fare, e
dove andare, non vediamo sponde e aperture, non
abbiamo fatto quello che avremmo voluto, abbiamo
dimenticato troppe cose della nostra vita, abbiamo
bisogno di tempo per ricordare. Non siamo pronti
per quello che gli altri si aspettano da noi; ma, forse,
nemmeno gli altri sono pronti. E tutto si ferma.
Un Papa che non vorrebbe essere Papa, e che
allimprovviso ricorda che avrebbe voluto fare lat-
tore teatrale. Uno psicoanalista che il pi bravo di
tutti, ma che ha una famiglia sfasciata. Cardinali
che di notte hanno gli incubi e chiamano la
mamma, cardinali che usano ansiolitici, stabilizza-
tori del tono dellumore, tranquillanti maggiori, car-
dinali che, chiusi nel conclave, implorano in silenzio
Non io. Non io, Signore!, un attore che, insieme
alle battute del Gabbiano di Cechov, recita senza
soluzione di continuit le indicazioni di regia e che,
senza soluzione di continuit, passa dalla clinica
psichiatrica al palcoscenico. E fuori, sul sagrato di
piazza San Pietro, o dentro, nella platea di un tea-
tro, il pubblico aspetta la rappresentazione, lim-
personazione giusta, aspetta qualcuno che gli dia
una mano a vivere, a superare la terribile bellezza
del darwinismo, la certezza, cio, che la vita non ha
alcun senso. Soprattutto qui e ora, si sarebbe tenta-
ti di aggiungere. Non io, non io, che non ce la faccio
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CAMBIA, TODO CAMBIA
Emanuela Martini
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nemmeno a superare il mio personale deficit di
accudimento; e che perci mi abbandono ai bom-
boloni alla crema appena sfornati, come il Papa in
giro in incognito per Roma, o alle marmellate, alle
torte alla panna e alle sacher, come la giovane guar-
dia svizzera che sta rinchiusa negli appartamenti
vaticani a fare la controfiguradel Papa, con linca-
rico di passeggiare davanti alle finestre chiuse e di
muovere ogni tanto le tende.
Habemus Papam non un film sul Papa e sul
Vaticano, anche se si apre con le riprese di reperto-
rio dei funerali di Papa Wojtyla e se racconta le
umane debolezze e lo spirito competitivo dei prelati
attraverso la descrizione della tormentata notte in
Vaticano e della loro voglia di vincere, nelle scom-
messe dei bookmaker inglesi, a scopone o a pallavo-
lo. Habemus Papam un film su tutti noi, o almeno
su chi arriva a un punto della vita in cui lanagrafe
o qualche avvenimento esterno lo costringono a fare
i conti con se stesso, a guardare indietro, a chieder-
si cos diventato, cosa avrebbe voluto, cosa ancora
pu fare o non fare e, soprattutto, se se la sente. Gli
ottantacinque anni di Papa Melville (come Jean-
Pierre e perci come Herman, dal quale il regista
francese prese lo pseudonimo) o i quasi sessanta di
Nanni Moretti fanno poca differenza: sono snodi,
momenti chiave, attimi di rendiconto. La maturit a
qualcosa serve, anche ad ammettere con noi stessi
che no, non diventereno mai attori teatrali, o balle-
rini, o campioni di pallavolo, che a sessantadue anni
abbiamo sbagliato vita, come in una commedia di
Cechov, che avremmo voluto vivere in citt e invece
stiamo in campagna e portiamo addosso, vestiti
sempre di nero, il lutto per la nostra vita. In pratica
ci sentiamo, come dice lo psicoanalista del Papa,
vulnerabili ma anche (almeno un po, ognuno di
noi) narcisisticamente eccezionali.
Ammettere di non farcela non significa necessa-
riamente (come stato rimproverato a Moretti
anche da alcuni estimatori del suo film) essere
rinunciatari, abbandonare una vita maldestra e illu-
sioni mal riposte. Significa, anche narcisisticamen-
te, accettare la propria inadeguatezza. Chiedere
aiuto. E magari non trovarlo, come accade a Papa
Melville, costretto alla solitudine di un ruolo (unico,
monolitico, che non concede la possibilit di recita-
re anche le indicazioni di regia) che, da solo, sa di
non potere assolvere. E significa chiedere di potersi
specchiare in altri, in una moralit collettiva, in idee
condivise, in dubbi uguali ai nostri. Non ci sono
risposte per Papa Melville che, coerentemente, se ne
va; lascia vuoto quel balcone, mentre la musica cre-
sce e, per la prima volta, assume accenti drammati-
ci che rimandano a quelli della sequenza conclusiva
di Il Caimano (2006). La gente, il pubblico, questa
volta non mette a ferro e fuoco il Palazzo di giusti-
zia, ma resta muta e disorientata, mentre i cardina-
li si abbandonano a una palese disperazione. Ma,
forse, la gente, il pubblico, questa repentina abdica-
zione se l meritata, non nella gentilezza dei singo-
li individui, ma nellacquiescenza indistinta della
massa. E questo ci riguarda tutti.
Resta una voce, una voce femminile calda e
appassionata che ci assicura che tutto cambia:
Cambia lo superficial / Cambia tambin lo profun-
do / Cambia el modo de pensar / Cambia todo en
este mundo. Mercedes Sosa, La Negra, la grande
cantante argentina scomparsa nel 2009, che ha rac-
contato al mondo el Sur e i suoi drammi, che ha
parlato di libert, damore e di lotta: ancora una
volta, quando la sua voce si alza dalle stanze vatica-
ne, come se una ventata daria libera si diffondes-
se sopra Roma, tra i personaggi prigionieri in
Vaticano e tra i passanti per strada in mezzo ai
quali cammina in incognito Melville, per un
momento non pi Papa, ma un turista qualunque,
sollevato da una canzone dal suo buco nero. come
se un pensiero collettivoattraversasse il film, a tra-
smettere unipotesi di speranza. Chiss.
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Se si dovesse sintetizzare in uno slogan lultimo
film di Nanni Moretti, Habemus Papam, mi verreb-
be da dire: la leggerezza della commedia e la pro-
fondit del pensiero. Il che mi riporta alla memoria
un saggio che anni fa scrissi sul suo cinema, intito-
landolo La forma comica del pensiero, ma allo
stesso tempo mi suggerisce una sorta di connubio
tra Billy Wilder, Stanley Kubrick e Luis Buuel. Ma
se la leggerezza un dono e uno stile e come tali
caratterizzano il film e la sua forma, la profondit e
il pensiero si collocano, come negli esempi citati, o
come nel Keaton caro a Moretti, in un sottotesto a
pi linee, che si sfiorano, sintrecciano, si abbando-
nano, vengono riprese in un affastellarsi di motivi
tematici di cui colpiscono innanzitutto lincongruit
e le divagazioni calcolate. Nessuna sequenza sepa-
rata dal resto, a partire dalla funzione cardinale su
cui si costruisce il film, la consapevole ritrosia del-
leletto ad agire da Papa, a essere Papa.
Questa inadeguatezza tutta umana viene rivelata
in una doppia gag: gli elettori che sussurrano in
coro Non io, non io, anche se non chiaro fino a
che punto siano sinceri (dopo tutto potrebbe essere
solo una forma di civetteria, non necessariamente di
malafede); le urla di terrore che per un attimo
sovrastano lannuncio Habemus Papam davanti a
una folla che da festante si fa allibita. Il resto un
percorso, pi zigzagante che rettilineo, presente pi
nel pensiero che nella trama, verso la rinuncia in
una chiusura malinconicamente a spegnere ben lon-
tana da quella minacciosa e crudele di Il Caimano
(2006). Il senso si costruisce in progress, per allu-
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IN LUTTO PER LA NOSTRA VITA
Giorgio Cremonini
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sioni e implicazioni apparentemente disperse, eppu-
re conseguenti e logiche, necessarie.
La rinuncia finale il corollario lucido di un
ambiente, come quello pontificio, in cui lassunzio-
ne al trono di Pietro avviene in un microcosmo in
cui il Potere al livello massimo o non . Lo confer-
mano il dogma dellinfallibilit del Papa e il rigore
rituale e piramidale della gerarchia che vi domina (e
che viene messo in ridicolo dalla sostituzione della
vorace guardia svizzera a un Papa che solo una
figura lontana, come una tenda che si muove: il
simulacro bassomimetico basta per qualche giorno
a surrogare unassenza travestita da presenza, ma
soprattutto a rivelarcene la fatuit e il vuoto). Il ful-
cro del film limpraticabilit di un potere divenu-
to troppo ingombrante, troppo vischioso: il potere
della chiesa, s, ma soprattutto il potere in s.
Che il rituale maschera per eccellenza del pote-
re sia lespressione pi evidente della chiesa-pote-
re trova per altro riscontro nellanalogia che con
esso disvela il papa/non papa, quando dichiara di
essere un attore, cio il comprimario di una finzio-
ne: solo che la finzione di Il gabbiano di Cechov
sincera (fino alla follia, come mostra lattore che
non si frena pi e viene portato via in ambulanza),
comporta lassimilazione completa del ruolo, men-
tre la finzione rituale solo portatrice di falsit, di
allontanamento dalla vita. Lattrice apre la pice
dicendo: Vesto di nero perch sono in lutto per la
mia vita. Come qualche volta succede, le citazioni
sono una parte rivelatrice del discorso: il teatro si
mescola alla vita, la illumina il rito la uccide.
La fuga, la paura e la rinuncia non sono dettate
da specifiche condizioni di sopravvivenza, ma da
una vita collettiva trasformata alle radici: lo svela-
mento di unontologia del potere, di fronte al quale
il neo non-papa Melville tocca con mano dentro di
s tutta la propria inadeguatezza prima ancora di
sperimentarla. La logica che muove lo smarrimento
del Papa molto di pi di un Domine, non sum
dignus: non si rivolge tanto al Dominus, quanto a
se stesso e agli uomini. Non in gioco una inade-
guatezza personale, invano perlustrata dagli psica-
nalisti di turno con formule che non possono schiu-
dere il mondo, ma la discrasia che separa luomo e
il potere dal mondo: limpraticabilit etica del siste-
ma. Bastano tre giorni (numero non casuale) a far-
gli capire che il mondo e la gente vivono, ancorch
lontani, e che basta poco per sperimentare il contat-
to: il Papa che si aggira in borghese fra bimbi che
bisticciano, in un albergo, su un bus, che usa il suo
cellulare, uno di noi, toccato non da grazie o even-
ti straordinari, ma da una normale quotidianit.
Quanto Il Caimano era una distopia, puntualmen-
te verificabile nella recente attualit, Habemus
Papam unutopia: il primo apparteneva al politi-
co, lultimo appartiene alletica e alla coscienza. Qui
lapprossimativo confronto con Kubrick, Wilder e
Buuel scivola via: nel film di Moretti non c irri-
sione, lironia non caustica e condannatrice, nem-
meno nella scoperta del gioco da parte dei prelati; lo
svelamento di una imprescindibile natura ludica
dellumano (anche fare un solo punto in una parti-
ta a pallavolo in condizioni disperate, tre contro sei,
diventa occasione di festa e di gioia; anche una can-
zone pu essere gioia) non prepara una conclusione
minacciosa, ma una liberazione.
Linvocata lacerazione di una socialit tutta risol-
ta nellottundimento del confronto troppo
alto/troppo basso (o troppo autoreferenziale/trop-
po estraneo) sta nella rinuncia pi personale e al
tempo stesso pubblica, appartiene a tutti, anche ai
prelati che si riversano nel teatro, e pi ancora a
coloro che in piazza fanno seguire un silenzio atto-
nito al fragore rituale degli applausi. La scena pu
cambiare. Deve cambiare. Perch todo cambia la
chiesa e questo mondo. La coscienza ci rende vili, s,
ma verit e libert.
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Camminano mesti, ordinati, verso il luogo del
conclave, ed come se venissero risucchiati nel
nulla. Ti immagini un burrone, un varco spazio-tem-
porale, un gigantesco imbuto che digerisce i cardi-
nali e li risputa su un nastro trasportatore, pronti a
diventare carne da santo (magari...!). Le guardie
svizzere sono schierate in fila, a protezione del fuo-
ricampo. I cardinali attraversano linquadratura e
poi spariscono oltre quella soglia, alla sinistra dello
schermo. Uno stacco in campo medio (che quasi
un totale) sottolinea il passaggio traumatico. Dove
se ne vanno i porporati? Fisicamente, lo sappiamo:
nella Cappella Sistina. Ma psicologicamente?
Spiritualmente? Moralmente parlando? Se ne vanno
letteralmente fuori dal mondo, per (provare a)
comunicare con Dio. Se ne stanno lontani dalle stra-
de, i ristoranti, i teatri, gli studi degli psicanalisti,
perch potrebbero inquinare la loro scelta con
qualcosa di troppo umano: dubbi, desideri, paure,
chiacchiere da bar e dialoghi di Cechov, sane malin-
conie e insani entusiasmi. Tutta quella roba, insom-
ma, che il Dio-Uomo cristiano (in teoria) venuto a
nobilitare, fin nei suoi pi infimi recessi, ma che
luomo-dio cattolico (in pratica) ha bisogno di met-
tere tra parentesi, per dare un che di eterno e asso-
luto e buono e giusto nei secoli dei secoli a tutta
quella recita (Melville lo sa di essere un attore).
E sia chiaro che Moretti queste cose non le dice
(clericali e anticlericali ne usciranno scornati, vaga-
mente insoddisfatti, o peggio, genericamente solle-
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RISUCCHIATI NEL VUOTO (SANTO)
Fabrizio Tassi
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vati). Lui si limita a far sfilare i cardinali in unaltra
dimensione, un mondo con regole tutte sue (anche
se poi scopriamo che la parodia di quello terreno,
un po elezione scolastica coi bigliettini, un po tom-
bolata), in una delle immagini pi abili ed eloquen-
ti di questo film, in cui la messinscena ha unimpor-
tanza (letterale e metaforica) che non ricordiamo di
aver visto in altre pellicole di Nanni Moretti. Fino a
questo punto, ogni cosa sembra molto formale e
solenne, se non fosse per quei giornalisti lasciati l a
sbavare e blaterare mentre i vescovi passano sul
tappeto rosso, manco fosse la notte degli Oscar,
nomination comprese. Poi si arriva alla porta magi-
ca abracadabra, bididibodidib attraversata
solo dagli uomini che Dio ha scelto attraverso il suo
uomo pi fidato. Poco importa che sia lultimo
erede di una santa investitura evangelica, o di un
formidabile equivoco storico e teologico. Importa
che l fuori, l dentro, venga investito il Papa, da cui
dipendono un miliardo di fedeli, svariate migliaia
di attivit (sociali, educative, finanziarie), un buon
numero di uomini politici influenti e un patrimonio
di idee e principi potenzialmente destabilizzante,
ma tradizionalmente passatista. Quanto bene
potrebbe fare un Papa deciso a portare grandi
cambiamenti, a capire le cose del mondo, ad
ammettere le colpe della Chiesa?. Melville lo sa, e
non regge il peso di quella responsabilit. Melville
appare schiacciato da quelle pareti ciclopiche e
affreschi preziosi. Il suo corpaccione da vescovo
attempato occupa un terzo o poco pi dellaltezza
dellinquadratura, quando non ridotto al primo e
primissimo piano della propria gentile, disperata
incredulit. Il Papa non ha sesso e non ha madre,
non ha pi uninfanzia, figuriamoci se ha dei sogni.
Il Papa perde perfino il proprio nome.Visto nel caos
del traffico, invece, nelle forme disordinate della vita
extra-vaticana, Melville sembra solo un vecchio. Ed
qui, spogliato dai paramenti, che pu ritrovare il
passato e immaginare un futuro, pu riscoprire
ricordi, desideri, rimorsi, fragilit, turbamenti,
imbarazzi. La cacofonia dellumano (le voci al risto-
rante). Altra che ora pro nobis, tutti in coro, tutti
in fila, tutti a onorare le vite perfette dei santi, e a
sperare nel Papa che ci guida e ci insegna.
Lo Spirito soffia l fuori, come sempre, dove
vuole. Dentro ci sono rimaste le tende mosse da una
controfigura che si strafoga di torte e cioccolato, il
cui compito mettere in scena il Papa orante (come
potrebbe inscenare facilmente quello che benedice
la piazza, che scomunica il teologo libertario, che
difende la vita imponendola a chi ridotto a un
vegetale). Mentre i vescovi, spogliati dei riti e miti
dellelezione di Pietro, tornano a essere fragili, buffi,
infantili esseri umani. Lo psicanalista ateo impone
altre regole, non meno ordinate e non pi assurde di
quelle di un conclave, e si gioca tutti insieme a pal-
lavolo. Ma a questo punto i cardinali non sono pi
anonime comparse di una scenografia troppo gran-
de per la loro effimera umanit. Ricevono perfino la
grazia di un rallenti. Non sono ancora pronti, per,
a capire quel balcone vuoto, quello spazio nero in
cui si rivela lassenza del Papa. Ha una potenza
mitografica che apprezzeremo solo con gli anni,
quella scena in cui il vescovo, dopo aver capito che
non habemus Papam, si ritira nel buio delle stan-
ze vaticane, camminando allindietro, in una sorta
di tragicomico rewind che sconquassa il nostro
immaginario, pi o meno cattolico (rivista alla tv, fa
anche pi effetto). il segno di qualcosa che non
riesce pi ad accadere (come una messinscena che
ha vissuto troppe repliche, e ormai troppo uguale
a se stessa) e che Melville trasformer in scelta con-
sapevole. Consapevole che ci che si aspettano da
lui (lo stemma!) non ci che potrebbe dare: dub-
biosa, tenera, contraddittoria umanit. E sia chiaro
che la Chiesa un pre-testo. Nel vuoto di quel bal-
cone, che angoscia (abbiamo bisogno di af-fidarci
a qualcuno) ma anche speranza (e se ci andassimo
noi sul balcone? e se il balcone lo tirassimo gi?),
che solitudine (chi ci guider?) ma anche comuni-
t (siamo soli, diamoci una mano), che umano ed
certamente sacro, ci potete mettere ci che pi vi
ispira o vi spaventa.
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Nelle interviste rilasciate per Habemus Papam, Nanni
Moretti dichiara di avere sempre pensato a Michel Piccoli
per il ruolo del cardinale Melville. Limmagine di Piccoli,
quindi, sarebbe stata subito indissociabile da quella di un
monsignore angosciato dalla nomina a pontefice che lo
ha investito.
Ma unimmagine non mai innocente e tantomeno lo
quella di un attore come Piccoli. Ossia un grande atto-
re che non soltanto ha una carriera lunga quasi settan-
tanni e duecento film (dallesordio come figurante in
Sortilges [Silenziosa minaccia, 1945)] di Christian-Jaque
e in un piccolo ruolo di Le point du jour [1948] di Louis
Daquin), ma che soprattutto rappresenta un simbolo
delle grandi stagioni del cinema europeo (innumerevoli i
film memorabili sotto la regia di Buuel, Melville non
a caso il nome assegnatogli da Moretti Godard,
Cavalier, Varda, Costa-Gavras, Chabrol, Deville, Petri,
Tavernier, Demy, Malle, Rivette e molti altri). In partico-
lare, Piccoli lultimo sopravvissuto di quel glorioso
quartetto di attori (con Tognazzi, Mastroianni e Noiret),
complici diretti da Ferreri in leggendari attentati cinema-
tografici contro la morale borghese (si pensi a La grande
bouffe [La grande abbuffata, 1973]). anche uno degli
ultimi ad avere incarnato, soprattutto negli anni
Sessanta, Settanta e Ottanta, unimmagine elegante, com-
plessa e ambigua della borghesia in film di Buuel,
Sautet, Chabrol, Deville e Granier-Deferre.
Ma, al di l di queste reminiscenze che la presenza di
Piccoli evoca spontaneamente, ci sembra che il cardinale
Melville nasca da due matrici. La prima, pi esteriore,
una figura di Moretti: il vecchio Sigmund Freud (interpre-
tato da Remo Remotti) del film nel film (La mamma di
Freud) che il regista Michele Apicella sta girando in Sogni
doro (1981).
Il vecchio Freud era un doppio di Michele, una sua
emanazione senile: come il regista, anche lillustre padre
della psicoanalisi viveva ancora con la mamma e come
lui non si era liberato da un infantilismo che esprimeva
in modo buffonesco, con smorfie e moine alla madre.
Dopo trentanni, il personaggio impersonato da Moretti
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LIBERT E DEPRESSIONE DEL FLNEUR
Roberto Chiesi
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in Habemus Papam, lo psicoanalista interpellato dal
Vaticano per curare il disagio del papa, nuovamente
confrontato a un vecchio, solo come lui. appunto la vec-
chiaia una vecchiaia di solitudine (ricordate la ragge-
lante frase che concludeva Bianca [1984]: triste mori-
re senza figli), langoscia che lo psicoanalista dalla barba
ingrigita non esprime e non confessa ma che ci sembra di
intravedere dietro la sua ansia trattenuta.
La specularit fra Melville e lo psicoanalista Moretti
pi sotterranea rispetto a quella fra il cineasta e il
suo Freud (che in effetti finiva per essere pi una
caricatura dellartista da vecchio, che non una sua
emanazione). Ma non un caso se, nel momento in cui
Melville riesce a fuggire dallaurea reclusione in
Vaticano, prigioniero lo diventa lo psicoanalista, cui
viene interdetto il ritorno al proprio domicilio finch
non si risolve lincresciosa situazione del nuovo papa.
unambigua prigionia, perch il personaggio moret-
tiano non sembra cos ansioso di ritornare alla solitu-
dine della sua normalit ( stato lasciato dalla moglie
anni prima e ne soffre ancora). Sembrerebbe quasi una
sostituzione se non fosse che riguarda solo il suo desti-
no ma non il suo ruolo, rimasto immutato e che, pro-
prio come il personaggio di Sogni doro, prevede una
ludica regressione allinfanzia, con la partita di palla-
volo organizzata con cura maniacale coinvolgendo i
cardinali.
Forse non solo un caso se una volta che il Papa ha
fatto ritorno in Vaticano in effetti, un falso movimento
perch latto che precede la rinuncia a quel ruolo lo
psicoanalista di Moretti scompare nel nulla.
UN IO NOMADE
Ma esiste un altro personaggio e un altro film che,
soprattutto, ci sembrano avere nutrito limmagine di
Piccoli-Melville: il Gilbert Valence di Vou para casa
(Ritorno a casa, 2001) di Manoel de Oliveira. Un vecchio
attore che, mentre recita Le roi se meurt di Jonesco,
colpito da un lutto atroce (la morte accidentale della
moglie, della figlia e del genero). La tonalit che il film di
de Oliveira condivide con quello di Moretti la depressio-
ne. Habemus Papam e Vou para casa possono essere
considerati (anche) due grandi film sulla depressione.
La depressione si insinuava in Valence dopo una tregua
apparente, colpendolo in seguito a brutali intrusioni della
realt esterna (il furto delle scarpe appena acquistate, dei
soldi e dellorologio a opera di un balordo). Lo colpiva
soprattutto nella perdita della memoria, che lo esponeva
a situazioni imbarazzanti durante le riprese di un film
tratto dallUlisse di Joyce. Dopo qualche dfaillance coi
gesti e le battute della sua scena, Valence si arrendeva e
abbandonava bruscamente il set per tornarsene a casa.
Limprovvisa vulnerabilit della sua memoria si univa
forse a una ribellione inconscia contro un boulot non
voluto (un ruolo secondario di vecchio, Buck Mulligan, in
un adattamento impossibile).
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Le sequenze di Habemus Papam, in cui Moretti segue
Piccoli/Melville mentre vaga per le strade romane, sco-
prendo uninaspettata libert nellassenza di responsabi-
lit, nella latitanza dalla propria identit, e un rapporto
finalmente immediato con le cose, possono essere con-
frontate a quelle in cui Piccoli/Valence deambulava per le
strade parigine in Vou para casa. Potrebbe essere unal-
lusione a quel film e a quel ruolo, anche la bugia di
Melville che racconta alla psicoanalista Margherita Buy
di essere un attore (e conosce a memoria Cechov). Una
bugia che come una sottile citazione. probabile che
Moretti sia rimasto colpito da quellimmagine di depres-
sione magistralemente evocata da Piccoli in una recita-
zione tutta interiorizzata di cui ritroviamo una splendida
prova anche in Habemus Papam, con laggiunta di un
soliloquio in autobus, mentre dai finestrini sfila una visio-
ne notturna della Citt eterna. Melville vaga senza fissa
dimora e a poco a poco ritrova un benessere che aveva
perduto nelle stanze vaticane.
Anche Valence, colpito da un lutto immedicabile come
lo psicoanalista Giovanni di La stanza del figlio (2001),
si abbandonava alla casualit del flneur, ritrovando il
senso dellesistenza nel flusso della quotidianit. In
Melville la libert, che ottiene grazie alla sua evasione,
lo conduce a trovare il coraggio di rifiutare quello che gli
altri cardinali (e i fedeli) credono leffetto di una scelta
divina. Lio depresso che cammina e vaga in una ricerca
silenziosa di cose e persone, , del resto, una figura pecu-
liare del cinema di Moretti: si pensi al nomadismo di
Bianca (in particolare alla scena in cui Michele entra nel
bar), o agli errabondaggi di don Giulio in La messa fini-
ta (1985), per non parlare delle corse ginniche del padre
in La stanza del figlio, che non avevano meta ma solo lo
scopo di spossare il corpo oppresso dai rimorsi.
Forse nellultimo film di Moretti aleggia anche il fanta-
sma di un altro film: Ludienza (1972) di Marco Ferreri,
con il segreto intimo e non svelato di Amedeo, lomino
(Enzo Jannacci) che voleva incontrare il papa e diventava
prigioniero di un implacabile ingranaggio che lo soppri-
meva lentamente e senza colpo ferire. Bisogna ricordare
che in quel film appariva anche Piccoli, in un ruolo che
lesatta antitesi del Melville di Moretti: lelegante e suaden-
te monsignor Amerigo, rappresentante dellanima pro-
gressista della Chiesa, dove si trova perfettamente a suo
agio, sinuoso e sfuggente. Una figura dove Piccoli adden-
sava ogni possibile ambiguit, come in altri personaggi di
ministri, industriali e dignitari che ha interpretato.
Per Ferreri, Piccoli sar anche il missionario bretone
Jean-Marie di Come sono buoni i bianchi! (1987), scon-
fitto dalla vittoria del Corano fra le popolazioni africane
che ha tentato di convertire. Con sarcasmo, Ferreri lo
mostra mentre benedice senza convinzione un bambino
agonizzante.
Un religioso in crisi anche il cappellano militare
Benetandi che Piccoli impersona nellunico film diretto
da Luciano Tovoli, Il generale dellarmata morta/
Larmata ritorna (1983) (dal romanzo di Ismail Kadare),
anche co-sceneggiato e prodotto dallattore. Un ruolo che
lo confronta allamico e complice Mastroianni (il genera-
le Ariosto), in una missione ingrata e amara che diventa
loccasione per un sottile teatro psicologico e nuanc fra
i due grandi attori.
Ricordiamo, infine, che a segnare lincontro fra
Piccoli e Buuel era stato proprio un film dove lattore
impersonava un prete: padre Lizzardi in La Mort en ce
jardin (La selva dei dannati, 1956). Fu lo stesso Piccoli
(come racconta nel libro Michel Piccoli le provoca-
teur di Robert Chazal, ditions France-Empire, Parigi
1989) a proporsi al maestro spagnolo per quel ruolo
che in origine era lontanissimo da lui (il personaggio
avrebbe dovuto avere quindici anni di pi rispetto
allet dellattore e doveva essere piccolo e rotondetto).
Come scrive Alberto Farassino, elegante, vestito in cler-
gyman bianco, con un prezioso orologio dono di una
compagnia petrolifera, Lizzardi sicuramente una figu-
ra non gradevole, pi o meno consapevolmente alleato
del potere, ma con una sua complessit e anche con-
traddittoriet che lo rendono interessante. Leleganza
attoriale di Michel Piccoli ne fa in ogni caso un corpo
estraneo fra gli avventurieri e soldatacci fra i quali si
muove (1).
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(1) Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buuel, Baldini &
Castoldi, Milano 2000, pp. 219-220.
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Gli ultimi film di Bellocchio sono, pi o meno
apertamente, tutti storico-biografici; o, quantome-
no, il filo conduttore della narrazione rappresenta-
to dal tempo di una vita (in) particolare, racconta-
ta, studiata, ricostruita. Nel caso di Vincere, quella
di Benito Mussolini, a cui sintrecciano le esistenze
allombra del potere del figlio e della Dalser; in
Buongiorno, notte, la parentesi insieme breve e lun-
ghissima di Moro prigioniero; in Lora di religione,
lesistenza in attesa di canonizzazione della madre
forse santa di Ernesto Picciafuoco, il modello di
biografo pi vicino al narratore di Sorelle Mai: scet-
tico e fin troppo consapevole degli inevitabili pro-
cessi di falsificazione che la scrittura biografica
porta con s, perch radicalmente contraria nel
suo mettere ordine e dare forma e rendere interes-
sante alla disordinata complessit dellesistenza
umana. Non a caso, poi, in quel film il dietro le
quinte della morte della forse santa era preso pari
pari dal primo (e adesso, ci si rende conto, insieme
ultimo e definitivo) film del regista, I pugni in tasca,
che torna in Sorelle Mai disseminato qua e l,
soprattutto nella prima parte, chiamato direttamen-
te per analogia visiva dal nuovo film. Torna con
moltissimi valori diversi: una firma; un genius
loci, indissolubilmente legato a Bobbio e al rappor-
SORELLE MAI Marco Bellocchio
SPECIALE
RICONOSCI TE STESSO
Luca Malavasi
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to tra Bellocchio e il piccolo paese piacentino in cui
nato; il motivo nella tappezzeriadi tutto il cine-
ma del regista; il simbolo di una protesta violenta
mai risolta, contro tutto ci che Bobbio e la sua
gente e la sua storia rappresentano (e che in Sorelle
Mai viene detto e ripetuto grazie a Cechov); il fil-
tro salvifico posto dal regista alla difficolt di
appartenere a qualcuno e a qualcosa, una famiglia e
un luogo; , rispetto a Sorelle Mai, il principio dor-
dine di un progetto quello di Fare Cinema che si
retto, nel corso degli anni, su due soli elementi di
continuit: la presenza del regista e Bobbio; la pre-
senza del regista nella sua Bobbio. Quindi, appunto,
I pugni in tasca. Come se la relazione tra Bellocchio
e la sua citt natale il semplice stato in luogo
fosse sufficiente a risvegliare quel primo e mai esau-
rito gesto di ribellione e devastazione fatto esplode-
re una prima volta nellesordio.
Il problema dellappartenenza a un luogo, a una
storia, a una relazione affettiva (amorosa o parenta-
le) si trasforma cos, inevitabilmente, nel collante di
questo bellissimo film di frammenti, riportando
tutto, ancora una volta, al motore insieme visivo e
tematico di tutto il cinema di Bellocchio, listituto
della famiglia, inteso come schema ordinatore del-
lesistenza, debito di sangue pagano, strozzatura
dellevoluzione. Attorno ai due totem rappresentati
dalle sorelle del titolo, ferme, fisse, inseparabili dai
luoghi, ruotano le esistenze inquiete dei nipoti,
Giorgio e Sara, che a quei luoghi possono apparte-
nere in modo solo intermittente: starvi, tornarvi,
viverci, significherebbe entrare a far parte di quella
gente senza talenti di cui parla Cechov e con cui
Giorgio, pi apertamente di Sara, si confronta
allinizio e alla fine del film. E quando riescono a
sedersi tutti insieme attorno a un tavolo Sara,
Giorgio, le zie, ma anche la piccola Elena, figlia di
Sara, e il funzionario(questo s davvero cecoviano)
Gianni per parlare di morte e sepoltura (lacqui-
sto di una nuova cappella funeraria accanto a quel-
la gi posseduta dalle zie, diventata col tempo un
po troppo affollata). La morte e la sepoltura delle
devotissime zie, ma anche quella dei nipoti e dei
loro figli e compagni: discorso di soldi e scartoffie,
preceduto da un discorso analogo e contrario, la
vendita della parte di casa bobbiese di propriet di
Sara; Bellocchio ricorda cos ai suoi che quella
terra, alla fine, li avr comunque, e per sempre, den-
tro un albero genealogico di cadaveri; e che non
basta andare via, vendere tutto, liberarsi di zie e
case, per essere liberi: un sottotesto insieme miti-
co e pagano, che parla di origine e appartenenza e
che assegna un ulteriore valore a quei frammenti
saltati da I pugni in tasca: che servono a rinnovare
e a ribadire la separazione, il desiderio della non
appartenenza (cecoviana) ma, al tempo stesso, per il
solo fatto di rendersi necessari a distanza di cin-
quantanni, formalizzano qualcosa che somiglia alla
sconfitta o forse, semplicemente, a una per quan-
to non pacifica presa datto; frammenti che danno,
al contempo, una diversa lettura di quella pagina di
Cechov, riferita a quello che sar. E lambiguit di
quel Mai, nel titolo, non vale diversamente.
E lasciamo pure perdere le realt biografiche
Giorgio che il figlio Piergiorgio, Elena che la
figlia del secondo matrimonio di Bellocchio con la
sua montatrice, le zie che sono le Sorelle, e poi le
attrici (la Finocchiaro e la Rohrwacher) che valgono
un po di pi che semplici prestacorpi e prestavoci,
per non dire dellonnipresente Schicchi. Anche a
voler ignorare la questione giustificandola in parte
con la condizione spontanea, didattica, low budget
e per lappunto famigliare caratteristica dei labora-
tori di Fare Cinema , Sorelle Mai comunque un
film di famiglia: non perch Bellocchio vi raccon-
ta la sua famiglia, e i luoghi a cui essa, da genera-
zioni, appartiene, ma perch ha riunito con legge-
rezza poetica gli appunti di un diario filmato nel
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corso degli anni, scoprendo e riconoscendo se stes-
so nella facilit con cui tessere tanto diverse si
sono infine trovate e legate insieme. Questa dimen-
sione propria dei materiali che compongono Sorelle
Mai, che insieme biografica e di poetica, che parla
di ossessioni e continuit dispirazione, dona al film
non tanto una dimensione collettiva, famigliare,
appunto, ma lo rende estremamente privato e solita-
rio: (auto)biografico, come molti altri film dellulti-
mo Bellocchio. Che, si capisce, usa la famiglia
listituzione e il caso di specie per mettere in scena
la sua storia: che, alla fine, sia sul piano biografico,
sia sul piano artistico, tutta una questione di
famiglia. Il film di famiglia, allora, non , nel caso
di Bellocchio, una forma o un genere tra gli altri,
con buona pace della critica psicoanalitica (che qui
potrebbe felicemente sbizzarrirsi, per esempio
dilungandosi a ragionare sul rapporto, piuttosto
sadico, tra il regista e il figlio); no, il film di fami-
glia vale per Bellocchio come unica forma possibi-
le di autobiografia artistica e, insieme, dichiarazio-
ne di poetica, in cui la famiglia non costituisce il
tema ma il mezzo per parlare di s, per dissemi-
narsi, per guardarsi da un punto di vista moltiplica-
to, per testimoniarsi. Si capisce, allora, la necessit,
tutta cinematografica, di una serie di fragilissime
falsificazioni piccoli slittamenti nei nomi, sostitu-
zioni di corpi, velature sui luoghi e i tempi; e si capi-
sce la necessit di usare il cinema gi realizzato I
pugni in tasca , unico mezzo per entrare nel nuovo
film. Si capisce la necessit stilistica di cancellare i
corpi e le storie nel nero, nel ralenti, nellellissi, fino
a trasformarli in macchie di colore, in fantasmi, in
doppi evanescenti, sospendendo, gi sul piano del-
limmagine, la referenzialit sempre troppo ingom-
brante e didascalica dellhome movie.
Bellocchio sa come si racconta la storia (vera) di
un uomo, la sua per primo. Non con le date e i dati
e la correttezza filologica altrimenti, come avreb-
be potuto far rinascere Moro? Bellocchio lultimo
grande regista surrealista della storia del cinema,
che da una decina danni a questa parte lavora
come nessun altro sa fare sulla penombra della real-
t, sulle verit nascoste, sulla materia dellimmagi-
ne luci, corpi, colori, tempi, movimenti Sorelle
Mai il suo diario onirico e notturno, la sua auto-
biografia allucinata e inevitabilmente contraffatta a
cui affida lideale chiusura di un percorso comincia-
to nel 1965. Chiude e riapre: se Moro rinasceva
dalla sua morte nellalba di una Roma deserta,
Sorelle Mai chiude con un battesimo pagano che
coincide con la definitiva scomparsa nel luogo e il
riconoscimento di dover appartenere a una terra da
cui si inseparabili, e a cui, in fondo, si pu anche
essere grati perch se la terra non fosse stata cos
arida, e la famiglia tanto sterile, la ribellione non
avrebbe avuto senso e forza, e larte non avrebbe
posseduto una cos potente necessit.
Regia e sceneggiatura: Marco Bellocchio. Fotografia:
Marco Sgorbati, Gian Paolo Conti (sequenze girate
nel 1999). Montaggio: Francesca Calvelli. Musica:
Carlo Crivelli, Enrico Pesce. Scenografia: G. Maria
Sforza Fogliani. Costumi: Daria Calvelli. Interpreti:
Pier Giorgio Bellocchio (Giorgio), Elena Bellocchio
(Elena), Donatella Finocchiaro (Sara), Letizia
Bellocchio, Maria Luisa Bellocchio (le zie di Sara e
Giorgio), Gianni Schicchi (Gianni), Valentina Bardi
(Irene), Silvia Ferretti (Silvia), Alberto Bellocchio (il
preside), Alba Rohrwacher, Irene Baratta, Anna
Bianchi (le professoresse). Produzione: Irma
Misantoni per Kavac/FareCinema/Provincia di
Piacenza/Comune di Bobbio/Rai Cinema.
Distribuzione: Teodora. Durata: 105. Origine: Italia,
2011.
Sara Mai unattrice e vive a Milano, cercando di
affermarsi, mentre sua figlia, la piccola Elena, passa
gran parte del tempo nella casa di famiglia a
Bobbio, dove accudita dalle due anziane zie. A
Bobbio torna spesso anche il fratello di Sara,
Giorgio, sempre pi inquieto e incerto sul proprio
futuro. Giorgio e le due zie sono ormai la famiglia
di Elena, finch un giorno, dopo aver ottenuto una
parte importante, Sara decide di portare la figlia
con s a Milano, e trasferrirsi in una casa pi gran-
de. A questo scopo, torna a Bobbio per formalizza-
re la vendita della sua parte della casa, trovando in
Giorgio un alleato prezioso, malgrado i rapporti dif-
ficili intercorsi in passato tra i due. Gli anni passa-
no, Elena cresce e si ritrova di nuovo a vivere con le
zie, che ospitano anche una giovane professoressa
di liceo che, travolta dalla sua angoscia damore,
durante gli scrutini finali, per assenza rischia di
far bocciare un suo studente. Anche Giorgio fa
ritorno a Bobbio, in fuga dai debiti e inseguito da
due personaggi loschi: stavolta sar la sorella ad
aiutarlo. La famiglia al completo si riunisce infine
sulla riva del Trebbia per assistere a una rappresen-
tazione ideata dallamico Gianni, che, vestito in
frac, si immerge nelle acque dellantico fiume del
paese dove tutti i personaggi sono nati e dove hanno
trascorso la loro prima giovinezza
SORELLE MAI Marco Bellocchio
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Con una certa periodicit a partire da Vacanze in
Val Trebbia (1980), Marco Bellocchio frequenta i
luoghi dellinfanzia e delladolescenza limmutabi-
le nato borgo selvaggio, le sue viuzze, il palazzo
avto, i meandri del fiume nel tormentato quanto
necessario recupero di una stagione con la quale
forse non si mai illuso di avere fatto definitivamen-
te i conti. Immaginiamo che le motivazioni e le
urgenze che stanno dietro questo eterno ritorno
vadano ben oltre il laboratorio Farecinema, una
scuola estiva di regia e recitazione che si tiene da
anni a Bobbio, affiancata da un piccolo festival le cui
proiezioni si svolgono nel chiostro dellabbazia di
San Colombano. Sorelle Mai, che del laboratorio
figlio, un po la sintesi, forse destinata a ulteriori
sviluppi, di un articolato work in progress.
Pur essendo solo in parte autobiografico, il film
accumula laboriosamente e con fatica le stratificazioni
di un vissuto, anche cinematografico. Per questo alcu-
ne corrispondenze vengono sottolineate da fulminee
citazioni di I pugni in tasca (1965), che funzionano in
qualche modo da flashback. Ma ben presto i richiami
al capolavoro desordio, la cui iterazione avrebbe potu-
to diventare ingombrante, vengono abbandonati in
funzione di un addio del passato che anche recupero
del passato stesso, o di un approccio pi maturo lega-
to allet e alle esperienze. Come sapevano i classici, la
comprensione passa attraverso la sofferenza, solo il
A BOBBIO! A BOBBIO! A BOBBIO!
BELLOCCHIO REBOURS
Paolo Vecchi
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dolore pu aprire a una prospettiva di pacificazione. Il
processo si incardina nel riconoscimento di quella sag-
gezza antica personificata dalle zie e dallamico di sem-
pre dal nome pucciniano, Gianni Schicchi, ma anche
nella rivisitazione di colori, profumi e sensazioni lega-
te ai luoghi. Curiosamente ma non troppo, Bellocchio il
nichilista, lanarchico, leversore, sembra avvicinarsi
per certi versi al (quasi)corregionale Pascoli nella
disarmata e diretta semplicit della rievocazione se
non del rimpianto, introiettando la sua poetica del
fanciullino che contempla attonito le cose con uno
sguardo vergine e primigenio.
Contemporaneamente, per, il regista piacentino
rimane attaccato a unidea di complessit maturata
attraverso anni e stratificazioni culturali, ad esempio
assumendo il fiume come elemento amniotico ma
anche luogo della purificazione (la magnifica sequen-
za in cui Sara recita la scena della pazzia di Lady
Macbeth sotto la pioggia, mentre Giorgio nuota in
quelle stesse verdi acque del Trebbia in cui la sorella
cerca di lavarsi forsennatamente le mani). Pur carat-
terizzandosi come ibrido giocato sullesiguit dellin-
treccio e su immagini ostentatamente povere, Sorelle
Mai riesce dunque a toccare corde profonde. Lo fa,
anche, servendosi di rimandi ad autori da sempre
congeniali a Bellocchio.
Cechov innanzitutto, letto nelle prime battute da
Giorgio, modellato in parte sullo Andrej di Le tre sorel-
le. Di questo capolavoro il film condivide senso di fru-
strazione e derive esistenziali, anche se ne inverte la vet-
torialit: mentre Olga, Masa e Irina sognano gli splendo-
ri di Mosca come riscatto della mediocrit provinciale, il
regista, come anticipavamo, sembra piuttosto impegnato
in un itinerario rebours, di riappropriazione di quell-
humus di paese e famiglia contro il quale pi di quattro
decenni fa si era abbattuta la sua rabbia iconoclasta. Poi
Verdi, nella rappresentazione en plein air nel corso della
quale vengono eseguite due tra le pi celebri romanze del
Trovatore, che in altro contesto avrebbero rischiato di
sembrare (alla maniera di Bertolucci?) stucchevoli, ma
qui sono percepite come tessere necessarie per la ricom-
posizione di un mosaico identitario. Infine Kleist, gi fre-
quentato tangenzialmente in Il sogno della farfalla
(1994), direttamente in Il principe di Homburg (1997),
per quelle accensioni febbrili, quei tempi sospesi, quelle
atmosfere subliminali che costituiscono uno dei pezzi
forti dellarmamentario poetico del regista: si vedano la
sequenza della ragazza che ha conosciuto Giorgio tredi-
cenne, con il quale si scambiata una promessa e che lo
bacia non venendo riconosciuta, o quella davvero straor-
dinaria delluscita di scena di Gianni Schicchi, ineffabile
uomo in frac che si inabissa nel fiume mettendo una
(provvisoria?) pietra tombale alla vicenda.
Al di l di un atteggiamento esistenziale mutato, in
Sorelle Mai, a nostro avviso uno dei momenti alti nella fil-
mografia ricca ma altalenante di Bellocchio, ci sono tutta-
via due aspetti nuovi che meritano una veloce sottolinea-
tura. Innanzitutto, alcuni momenti di schietta comicit,
merce rara in un autore votato semmai al grottesco (cfr. in
particolare La Cina vicina [1967]): lo show di un inse-
gnante che, nel corso di un consiglio di classe surreale ma
non poi pi di tanto, prima recita linvettiva del tenente
Mahler nel pre-finale di Senso (1954), poi si lancia in uno
haendeliano Alleluia!, o il cocciuto interesse di zia
Letizia per lacquisto di una cappella del cimitero limitro-
fa a quella di famiglia, mentre il notaio sta stipulando la
ben pi importante vendita dellappartamento di Sara.
Quasi che il film, oltre allapprodo a una considerazione
pi pacificata di se stesso, significhi per lautore il recupe-
ro di un senso dellumorismo altrove poco praticato.
Poi, laspetto in qualche modo metalinguistico, figlio
forse delloccasione e delle modalit realizzative. Pur non
essendo un vero e proprio film teorico sul cinema, come
lo sono, ad esempio, Rear Window (La finestra sul corti-
le, 1954) o Peeping Tom (Locchio che uccide, 1960),
per limitarci a due esempi grandissimi, Sorelle Mai riesce
comunque a riflettere e a far riflettere, spettatori e allie-
vi della scuola sul proprio farsi, procedimento miraco-
losamente risolto in quella che potremmo chiamare com-
patta frammentazione, su necessit di budget che sanno
diventare virt di idee e creativit, oltre che equilibrio
nella direzione di attori e non attori, sui quali Bellocchio,
grazie a un girato che copre un decennio, pu mostrare
davvero la morte al lavoro.
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La scrittura del romanzo famigliare coltiva lambi-
zione di costruire affreschi organici e unitari, allinter-
no dei quali la trama si disegna secondo forme ricono-
scibili, pressoch geometriche e prevedibili. La narra-
zione si avviluppa infatti attorno ad alcuni grandi temi
generatori, riconducibili ai valori che la famiglia incar-
na e alle sorti che hanno atteso il suo destino. Storie di
riscatti, di ricomposizione della crisi, di ritorni inatte-
si, di conciliazioni in seguito a scissioni ideologiche o
a drammi storici, e via di seguito (1).
Nel suo ultimo film, Sorelle Mai, Marco Bellocchio
lavora su un ripensamento radicale del concetto stes-
so di tema generatore, trattandolo cio nella sua
doppia valenza: da una parte come snodo narrativo
genealogico, capace di dare voce e visibilit alla storia
di famiglia; dallaltra, come principio generativo, atto
appunto a generare, a dar vita a un vero e proprio pro-
cesso creativo, che solo parzialmente parte della cele-
brazione di una micro-comunit (di sangue) per esten-
dersi alla costituzione di una nuova comunit forse
solo temporanea culturale.
Nato in seno ai laboratori condotti per la scuola estiva
Fare Cinema, attiva dal 1997 a Bobbio, sui colli piacenti-
ni, il film cuce insieme sei cortometraggi, realizzati in col-
laborazione con gli studenti, in un lasso temporale che va
dal 1999 al 2008 (2). Ciascun progetto si presenta non sol-
tanto come addestramento formativo per gli allievi che
partecipano ai corsi, ma anche come deposito di temi cari
al regista, nonch come luogo di sperimentazione visuale,
nella prospettiva dei lungometraggi a venire (3). In Sorelle
Mai, la conversione dei singoli progetti in episodi che pale-
sano una tenuta narrativa data innanzitutto dalla pre-
senza di due anziane zie, interpretate dalle sorelle del regi-
sta, Letizia e Maria Luisa Bellocchio, attorno alla cui casa
gravitano le esistenze dei nipoti: la piccola Elena (Elena),
che vede fiorire la propria adolescenza tra la penombra
delle mura della residenza famigliare e le acque del fiume
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SEGUIRE LE TRACCE DEI TEMI GENERATORI
Alice Cati
(1) Duccio Demetrio, Album di famiglia. Scrivere i ricordi di casa,
Meltemi, Roma 2002, p. 79.
(2) In particolare, due sono i documentari gi presentati pubblicamente da
Bellocchio, Sorelle (1999) e Sorelle (Il Matrimonio) (2004).
(3) Sara Leggi, Gli ultimi cortometraggi in Adriano Apr (a cura di),
Marco Bellocchio. Il cinema e i film, Marsilio,Venezia 2005, pp. 223-226.
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Trebbia; sua madre Sara (Donatella Finocchiaro), attrice
di teatro, che fugge dal luogo di origine, staccandosi dalla
figlia piccola, a rischio di inseguire un sogno vano; e lin-
quieto e stralunato Giorgio (Piergiorgio Bellocchio), che
legge e rilegge Cechov, alla ricerca di una risposta al richia-
mo costante, esercitato dai luoghi della memoria. Alle
spalle di tutti, veglia in modo paterno Gianni (Gianni
Schicchi), il quale amministra interessi materiali e affetti-
vi, con uno sguardo attento allimpalpabile ragnatela che
tiene insieme il passato famigliare e londivago procedere
dei suoi membri.
Il film cattura pertanto lo spettatore per le sue implica-
zioni familiari. Ma gli episodi del film sono popolati, nel
loro insieme, da attori di famiglia, non semplicemente
perch Giorgio ed Elena sono interpretati dai figli del regi-
sta, n tanto meno perch le zie non sono altro che le zie
reali. Anche gli altri volti e corpi attoriali appartengono
infatti alla storia cinematografica del regista, in quanto gi
interpreti dei suoi film. Addirittura gli ambienti trasudano
dellautentica aura famigliare dei Bellocchio quando si
scorgono, ad esempio, sulla credenza della sala da pranzo
i ritratti di famiglia, oppure quando Giorgio incalza la zia
Mariuccia, ponendole domande sulla figura della nonna e
sulla sua giovinezza. Lombra del padre/regista , in que-
sto modo, chiamata obliquamente in causa, quasi a presie-
dere linvocazione degli avi.
Tuttavia, il film appare molto di pi come lesito di un
gioco di rimandi e interventi davanti e dietro la macchina
da presa, il cui implicito obiettivo quello di far slittare il
racconto autobiografico e lo sguardo autoreferenziale in
una logica partecipativa e composita, premessa necessaria
a unappropriazione comunitaria. Se difatti nellautobio-
grafia personale lautore si assume il compito di ridarsi
unidentit, nella composizione di temi generatori, lo
scopo precipuo consiste nel voler restituire senso di s al
gruppo, anche a prezzo di eclissare la personalit stessa
dellautore. Per attendere a una simile intenzione, la scrit-
tura deve per seguire un iter di elaborazione che fissi pre-
cisi passaggi, appigli utili al richiamo e alla ricognizione
memoriale. La procedura prevede, di consueto, lindivi-
duazione di alcuni luoghi della memoria, che siano stati la
cornice di eventi, situazioni e relazioni passate.
Di certo, i luoghi di Bobbio rappresentano i topoi nar-
rativi, in interno ed esterno, comuni ai sei episodi. Nella
casa, troviamo la sala da pranzo, dove si celebra il rito del-
lospitalit e dellaccoglienza, da parte delle zie nei con-
fronti dei nipoti, che spesso sollecitano aneddoti dei tempi
andati; la stanza di Elena, sempre resistente al sonno e
vorace di chiarimenti sulla vita e i rapporti amorosi dello
zio e della madre, cos lontani dal riuscire a legarsi a qual-
cuno; il giardino, quale ambiente di convivialit e svago,
primo contatto con la campagna bobbiese. Andando fuori
dal cancello domestico, si districano le viuzze del paese; la
piazza dove si allestisce Il Trovatore di Verdi, che racco-
glie in una serata estiva lintera comunit; per non dimen-
ticare le acque del Trebbia, dentro le quali i personaggi si
tuffano come attratti da una forza ipnotica, rituale che cul-
mina tra lonirico e il simbolico, a chiusura del film, nel-
limmersione di Gianni in frac e cilindro, sulle note di
Domenico Modugno, senza pi riemergere.
Quando dunque si parla di memoria dei luoghi, si
ricorre a unespressione ricca di suggestioni. Se, da un
lato, possibile affermare che ogni memoria ha per ogget-
to il luogo, dallaltro, non si pu negare che essa stessa sia
localizzata nei luoghi. Ci significa che i luoghi possono
essere allo stesso tempo soggetti e portatori del ricordo, e
magari, avere a disposizione una memoria che trascende
gli uomini (4). Proprio in questo modo esemplare,
aggiungerei, i luoghi sono mostrati da Bellocchio in quan-
to forieri di un senso che travalica la dimensione stretta-
mente familiare, per canalizzare una memoria ancestrale.
Alla dialettica tra passato e presente si accompagna ine-
luttabilmente quella che coinvolge la vita e la morte, come
viene rappresentato dallopposizione tra il luogo dei vivi
la casa di famiglia e il luogo dei morti la cappella.
Ferme sulla soglia del tempo, quasi imbalsamate in una
dimensione che odora di naftalina, le anziane zie si pongo-
no come guardiane della discendenza, la cui presenza nel
mondo da perpetuare attraverso la conservazione delle
reliquie. Pregano nel secondo episodio leterno riposo nel
cimitero che si apre sulla vallata; mentre nel terzo, le
vediamo richiamare i nipoti per lacquisto di una seconda
cappella di famiglia, resasi disponibile grazie allestinzio-
ne della stirpe dei precedenti proprietari. Confidando sem-
pre in un ritorno alla terra dorigine di tutti i membri
dispersi della famiglia, ancora oltre le sorelle sollecitano
ossessivamente lacquisto della cappella durante la seduta
con il notaio, mentre Sara ha deciso di vendere la propria
parte della casa di famiglia.
Se fin qui risulta chiaro il lavoro genealogico del regista,
sottotraccia rimasto il discorso generativo. Seppur sotto-
posto con il montaggio a un intervento di chiusura del cer-
chio, nel film permane la filigrana della bozza di lavoro.
Simile alle annotazioni dei processi ideativi, la continuit
narrativa spesso si libera di capitolo in capitolo dal rigido
controllo delle drammaturgie cinematografiche canoni-
che, compiute nelle loro strutture testuali e ripulite dalle
tracce visibili della loro elaborazione. A un primo impat-
to, Sorelle Mai colpisce per le sue imperfezioni formali,
date dallalternanza di pellicola e digitale, la cui resa foto-
grafica sgrana luci e colori, cui si aggiungono le incoeren-
ze, o meglio i disorientamenti di sceneggiatura.
Esattamente in queste esitazioni risiede, per, il pregio
dellopera. Essa infatti mantiene il polimorfismo dellim-
pegno collettivo, che ha coinvolto in modo discontinuo
soggetti diversi, tutti chiamati a contribuire incasellando il
proprio frammento dentro il mosaico filmico. Non stupi-
sce pertanto lepisodio che sembra interrompere il filo
della storia di famiglia, con protagonista Alba
Rohrwacher nei panni di uninsegnante afflitta da pene
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damore che la distolgono dai doveri degli scrutini scola-
stici. Qui il tema generatore sviluppato sembra rispondere
alla domanda: a chi si aperta la porta di casa, dopo la
partenza di Elena con la madre a Milano e la vendita del-
lappartamento? Come si relazionano le zie innanzi allele-
mento estraneo? Quale vita si conduce al di fuori delle
pareti domestiche?
I vari capitoli non servono che da gioco preparatorio, da
materiale abbozzato, per poi giungere alla stesura di quel
volume che riguarder non solo il racconto famigliare, ma
la storia pi estesa del borgo in cui la famiglia vissuta.
Perch se la famiglia soprattutto comunit, anche altre
possono essere, senza cognomi e riconoscibilit immedia-
ta, le comunit da immortalare. Il film quindi raggiunge
un indice di libert, spontaneit, per non dire di improvvi-
sazione percepibile nellinterpretazione delle zie, che
irrompono con il loro lessico famigliare nelle conversazio-
ni di scena, generando un innesto di reale nel tronco fin-
zionale. Eppure, laccento che potremmo definire docu-
mentaristico evapora sempre di pi nellincedere degli epi-
sodi, quando si aprono a situazioni surreali, come lhappe-
ning teatrale per le stradine di Bobbio, oppure nella rap-
presentazione dellincubo di Giorgio, con la proiezione di
ombre cinesi. Anche in questo caso si allentano i freni ini-
bitori della scrittura filmica, consentendo al pensiero crea-
tivo di affiorare liberamente.
Infine, non resta che interrogarsi sulle forme assunte
dallimpulso autobiografico, che giace alla radice di
Sorelle Mai. Per quanto infatti i temi generatori si svilup-
pino in unottica di trascendenza della semplice memoria
individuale, diventando canovaccio per un racconto a pi
voci, le marche autoriali si mostrano come un residuo
indissolubile. Non si tratta solo del fatto che il film nasce
da unesperienza autobiografica (la direzione della scuola
di cinema), oppure che ambientato nel paese che ha visto
i natali del regista, bens tali marche riguardano limpasto
stesso della memoria visuale. Il cinema di Bellocchio ne
lingrediente dominante, in termini sia di archivio di
immagini, sia di calco impresso sui luoghi della rappresen-
tazione. Girate nella medesima casa di I pugni in tasca
(1965), alcune sequenze sono inframmezzate dalle fugaci
immagini del primo film del regista. evidente che qui la
famiglia riappaia non solo come motivo poetico, del quale
si ricordano, oltre agli ambienti, anche i significati (lalie-
nazione, la violenza, la claustrofobia, il desiderio di fuga),
ma soprattutto come configurazione dello sguardo.
Tuttavia, Bellocchio in questo ultimo lavoro vuole compie-
re un salto: una riflessione sulla famiglia come spazio limi-
nare, allo stesso tempo individuale e sociale. Come direb-
be Maurice Halbwachs (5), le traiettorie che la memoria
percorre allinterno di questo spazio si tracciano per gradi:
la mia memoria, la memoria dei miei familiari e, infine, la
memoria degli altri. Negli scarti tra questi tre stadi si inse-
risce la metamorfosi o meglio lapertura della memoria
privata verso quella sociale e collettiva. Tale processo di
apertura si esplica nel lavoro sperimentale cui hanno par-
tecipato non solo i parenti del regista, ma persino gli stu-
denti dei corsi di cinema.
Sorelle Mai racconta in fondo come la memoria sia
capace di indossare diversi abiti, sagomando un corpo
che, anche in procinto della fine, veste un costume di
scena. Per affrancarsi dai vincoli del passato, o meglio per
conciliarsi con esso, basta forse immergersi in un fiume,
lasciando a galla solo il proprio cilindro.
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(4) Aleida Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria
culturale, il Mulino, Bologna 2002.
(5) Maurice Halbwachs, Memorie di famiglia, Armando Editore,
Roma 1996.
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Quinto film di Lee Chang-dong, e suo secondo, dopo
Oasis, a essere distribuito sugli schermi italiani,
Poetry consacra finalmente il regista sudcoreano come
uno degli autori di maggior rilievo del cinema asiatico
contemporaneo. Gi autore di opere premiate a
Venezia e Cannes (come il gi citato Oasis e Secret
Sunshine), Lee Chang-dong non appartiene, coi suoi
film, a quelle roboanti estremit che hanno caratteriz-
zato certe figure emergenti del suo paese, come Kim
Ki-duk o il Park Chan-wook di Old Boy. Per quanto le
sue trame siano spesso altrettanto forti di quelle dei
registi appena citati, i suoi film fanno un uso pi mor-
bido della violenza, spesso relegata nei vuoti del fuori
campo e dellellissi (come accade per lo stupro e il con-
seguente suicidio della vittima, eventi che fanno da
motore narrativo a Poetry). I fatti, per Lee Chang-
dong, contano soprattutto per ci che essi significano
per coloro che li vivono.
Quello del regista sudcoreano , innanzitutto, un cine-
ma di personaggi. Tutto Poetry costruito intorno a Mi-
Titolo originale: Shi. Regia e sceneggiatura: Lee Chang-
dong. Fotografia: Kim Hyun-seock. Scenografia: Shin
Jeom-hui. Costumi: Lee Choong-yeon. Montaggio: Kim
Hyun. Interpreti: Yun Jung-hee (Yang Mi-ja), David Lee
(Yang Jong-wook, il nipote), Kim Hee-ra (il signor
Kang), Ahn Nae-sang (il padre di Kibum), Kim Yong-
taek. Produzione: Lee Joon-dong per Pinehouse Film.
Distribuzione: Tucker. Durata: 139. Origine: Corea del
Sud, 2010.
Mi-ja una donna di sessantasei anni, che abita nei
dintorni di Seoul col nipote, Jong-wook, la cui madre
vive e lavora a Pusan. Nel corso di una visita medica,
Mi-ja scopre di essere affetta dal morbo di Alzheimer,
a uno stadio ancora iniziale. Dopo essersi iscritta a un
corso di poesia, la donna apprende che il nipote, insie-
me con altri cinque suoi compagni, ha violentato una
ragazza, che si poi tolta la vita. I padri degli altri figli
coinvolti cercano, con la collaborazione della scuola, di
mettere tutto a tacere, offrendo del denaro alla madre
della vittima. Mi-ja
non sa come fare per
trovare i soldi del
dovuto. Mentre conti-
nua a seguire il suo
corso di poesia e a fare
le pulizie presso la casa
del vecchio Kang, la
donna si rende conto
che qualcosa non sta
andando per il verso
giusto. Dopo aver final-
mente trovato il denaro
necessario, e quando
tutto sembra essersi
risolto nel migliore dei
modi, Mi-ja decide di
denunciare laccaduto
alla polizia, costringen-
dola cos ad aprire
unindagine.
POETRY Lee Chang-dong
La poesia del tempo sospeso
Dario Tomasi
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ja, una donna di sessantasei anni che sta ammalandosi di
Alzheimer. Se si escludono la sequenza iniziale e quella
finale, tutte le altre scene del film ruotano intorno alla
presenza di Mi-ja. La macchina da presa di Lee la brac-
ca, coi suoi movimenti a spalla, senza sosta, dallinizio
alla fine, mettendo in scena, con rara intensit, il suo ane-
lito a trovare nella poesia una ragione di vita pi auten-
tica, ma anche una possibile via di fuga dai drammi e
dalle fatiche della vita quotidiana.
Poetry scandisce con rigore la vita di Mi-ja, strutturan-
do il proprio intreccio nel succedersi di una serie di situa-
zioni (e luoghi che le incarnano) che rappresentano le
diverse realt della sua condizione esistenziale.
Lappartamento di Mi-ja, che la donna condivide col
nipote adolescente, il luogo in cui ella costretta a con-
frontarsi con la colpa di questi (il gi citato stupro col
conseguente suicidio della vittima), e il dolore che tutto
ci provoca in lei. Le sale dattesa degli ospedali e gli
studi medici danno corpo alla sua incipiente malattia
(che lei finge di ignorare, e su cui tace al telefono con la
figlia). I locali pubblici, dove incontra i padri degli altri
ragazzi coinvolti nello stupro, hanno a loro volta il com-
pito di esplicitare il problema relativo al denaro che Mi-
ja deve in qualche modo procurarsi, senza sapere come,
per trovare un accordo con la madre della ragazza che si
tolta la vita. Lappartamento del vecchio Kang, in cui la
donna si reca pi volte per fare le pulizie, , dal canto
suo, il luogo in cui in cui Mi-ja scopre, senza alcun pia-
cere, di poter essere ancora loggetto del desiderio sessua-
le di un uomo (cosa che le permetter di racimolare il
denaro necessario al compromesso). Laula del corso di
poesia e la sala dei reading, infine, sono lo spazio in cui
prende forma il suo anelito alla poesia, a una dimensio-
ne in grado di trascendere le logiche e le fatiche del quo-
tidiano (come accade anche in quei diversi momenti in
cui la donna, soprattutto allaperto, cerca di trarre ispira-
zione dal contatto con la natura), ma sono anche lo spa-
zio, soprattutto la sala dei reading, in cui la donna matu-
ra quanto la sua idea di poesia come bellezza e purezza
danimo sia alquanto inappropriata.
La storia di Mi-ja , infatti, la storia di una crescita,
dellacquisizione di una consapevolezza. un roman-
zo di formazione che ha per protagonista una donna
di sessantasei anni. Mi-ja scopre nel suo cammino, e in
particolare attraverso lincontro col poliziotto e aspi-
rante poeta Park, che la poesia anche altro da ci che
lei ingenuamente immagina. Che essa non pu sottrar-
si dallincontro con tutti gli aspetti dellumanit,
anche quelli che lei considera pi torbidi e svilenti. La
poesia braccata dalla realt, non solo in quanto que-
sta, che per certi aspetti il suo contrario, la rende dif-
ficile (come faccio a far poesia quando devo procurar-
mi a tutti i costi quattro milioni di won?), ma anche
perch la poesia stessa non pu fare a meno della real-
t, non pu vivere in una dimensione separata da essa,
ma deve in qualche modo farla propria.
Ci che Mi-ja apprende , da una parte, che la poe-
sia non pu essere un alibi per fuggire dalla realt (e
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cos, quando tutto sembra ormai risolto per il meglio,
i soldi sono stati trovati e la madre della suicida ha
accettato il compenso in denaro, la sua coscienza la
spinge a denunciare alla polizia il nipote, provocando
larresto di questi e lapertura delle indagini); e, dal-
laltra, che la stessa poesia non pu che trovare la sua
forza a partire da uno stretto legame con la realt (e
cos la lirica, che alla fine trover finalmente la forza
di scrivere, non parla di fiori o uccelli, bens del dram-
ma della ragazza che si tolta la vita).
Di particolare importanza, a questo riguardo, sono
le scene finali del film, quando, dopo che la voce nar-
rante della ragazza ha preso il posto di quella di Mi-
ja nella recitazione della poesia che la donna ha com-
posto, le immagini che ripercorcorrono il gesto suici-
da della giovane vittima, sino allavvicinarsi al ponte
da cui si era gettata, si sospendono in un frame stop
della ragazza che, dopo aver guardato lacqua del
fiume, si volge verso la macchina da presa e, in un
primo piano assai coinvolgente, interpella diretta-
mente lo spettatore. Quasi che la forza di quelle
parole, di quella poesia, riuscisse a modificare il pas-
sato, o almeno a sospenderne il corso un attimo
prima che lirreparabile accada. La poesia (larte, il
cinema) non pi come fuga dalla realt, ma come
strumento per incidere sulla realt.
Autore nel senso forte della parola, Lee Chang-dong
ha dato corpo, attraverso la sua filmografia, a un uni-
verso assai coerente che Poetry non fa che ribadire. In
un saggio scritto prima delluscita di questultimo film
(che potete leggere in Marco Dalla Gassa, Dario
Tomasi, Il cinema dellEstremo Oriente, Utet, Torino
2010, pp. 182-191) individuavo alcuni luoghi di pas-
saggio che caratterizzano lopera del regista sudcorea-
no. In primo luogo i suoi film tendono a concentrarsi
su personaggi di intrusi, segnati da un drammatico
passato. In Green Fish e Oasis, ad esempio, i due pro-
tagonisti ritornano, allinizio del film, in seno a una
famiglia che non li vuole pi, e devono confrontarsi
luno col frantumarsi del proprio gruppo familiare,
avvenuto durante la sua assenza, e laltro con le con-
seguenze dellessere stato in prigione.
Anche Mi-ja unintrusa, come dimostra, fra il
resto, il suo rapporto con i padri dei compagni del
nipote, colpevoli anchessi di stupro: non solo lei
oggettivamente diversa da loro ( una donna e gli altri
sono uomini, una nonna e gli altri sono padri, pi
anziana e non ha i soldi necessari a compensare la
madre della vittima), ma ogni volta che si riunisce con
loro se ne estranea, non partecipando alla discussione
o addirittura andandosene. Il drammatico passato che
segna la vita degli altri protagonisti dei film di Lee, in
Poetry assume la forma di un drammatico futuro, rap-
presentato dallincipiente morbo di Alzheimer.
Unaltra caratteristica comune ai personaggi del
regista il loro essere senza famiglia, come la prota-
gonista di Secret Sunshine, che ha perso il marito e il
figlio, o come quello di Peppermint Candy, separatosi
anchesso dai suoi cari. Non diversa la realt di Mi-
ja, come testimoniano lassenza di un marito, cui mai
si fa cenno, quella della figlia, che vive e lavora lonta-
no, e il rapporto fatto di soli silenzi col nipote. Questa
assenza di una vera famiglia spinge i personaggi di
Lee a crearsene una artificiale, a entrare a far parte di
un gruppo che li accolga e di cui possano sentirsi
parte: la banda di gangster per il protagonista di
Green Fish, la polizia per quello di Peppermint Candy,
o il gruppo religioso per quella di Secret Sunshine.
Una scelta analoga fa anche Mi-ja, quando entra a far
parte della comunit degli aspiranti poeti. Ma anche
lei, come gli altri personaggi di Lee, si trover poi in
attrito con tale nuova famiglia, come accade nella
scena del ristorante, in cui la sua ingenua adesione alla
poesia come bellezza derisa dal giovane, affermato, e
ubriaco poeta che le siede di fronte.
Un altro tratto comune ai personaggi del regista
lesistenza di un sogno che essi in qualche modo rie-
scono a realizzare, a volte anche dopo la loro morte
(come il ricomporsi della famiglia in Green Fish, o il
ritorno alla purezza originaria in Peppermint Candy).
Anche Mi-ja realizza, come gi abbiamo visto, il suo
sogno: lei lunica fra i partecipanti del suo corso a
scrivere una poesia; una poesia che riuscir a sospen-
dere nel tempo il suicidio della ragazza, in un epilogo
che, come ancora accade molte volte nel cinema di
Lee, pi che chiudere il racconto in se stesso sembra
aprirlo a nuovi e possibili destini.
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Luce, duce, pagaci la luce. Re, re, pagaci il caff!
(Marcello Mastroianni in Enrico IV di Marco Bellocchio)
Non facile occuparsi di un film che nella miglio-
re delle ipotesi crediamo dar maggiormente i
suoi frutti tra qualche anno. Del resto gi succes-
so. Sono trascorsi esattamente trentatre anni dal-
luscita in sala di Forza Italia, che ha poi precorso
limpianto dei film di Michael Moore. Ed evidente
che Roberto Faenza abbia concepito Silvio Forever
come unopera gemella, anzi una prosecuzione idea-
le, cronologica, persino logica di Forza Italia.
Limpianto discorsivo lo stesso, non perch lauto-
re, che firma il film con Filippo Macelloni, non sia
stato in grado di immaginarne uno diverso, nuovo,
originale. Al contrario: limpressione che la ripeti-
tivit appena differenziata degli eventi, delle circo-
stanze, dei ruoli in commedia abbia daccapo richie-
sto una modalit di racconto consimile, una struttu-
ra inveterata ma adeguata per uninchiesta retro-
spettiva, la cui strategia forse oggi risulta persino
pi chiara, importante, utile di quanto non sia acca-
duto nel cos lontano/vicino 1978.
Certo cambiato il tipo di rappresentanza su cui
si concentra la rappresentazione stessa: dalla cora-
lit immobile e sempre uguale dal 1945 al 1978
dello stato maggiore democristiano di Forza Italia si
passati in Silvio Forever alla singolarit di un pre-
sidente-padrone altrettanto inamovibile, perduran-
te, autoreferenziale dal 1994 a oggi. Donde la scelta
di costruire il racconto come racconto inevitabil-
mente di s, mito biografia, affidata alla voce del
protagonista, voce simulata (di Neri Marcor) su
testi autentici (di Silvio Berlusconi). La differenza di
vertice, tra un modello dominante di potere da
prima repubblica in Forza Italia a uno impostosi
successivamente, viene compensata in Silvio
Forever dallartificiosa propensione berlusconiana
alla moltiplicazione, alla riproposizione, alla palin-
genesi di se stesso allinfinito.
Ecco perch il Forever del titolo non suona n
come una minaccia, n come una constatazione ras-
Regia: Roberto Faenza, Filippo Macelloni. Sceneggiatura:
Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo. Montaggio: Riccardo
Cremona. Con: Silvio Berlusconi, Rosa Bossi Berlusconi,
Ugo Gregoretti, Roberto Benigni, Marco Travaglio, Noemi
Letizia, Dario Fo, Indro Montanelli, Raimondo Vianello,
Ambra Angiolini, Mike Bongiorno, Neri Marcor (voce
narrante simulata di Silvio Berlusconi). Produzione: Ad
Hoc Film. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 85.
Origine: Italia, 2011.
e poi, col tempo, tutto ha cominciato a ruotare sempre
pi intorno a lui. Solo a lui. Ossessivamente a lui: Silvio
Berlusconi. Che, comunque la si pensi, al di l dei meriti
per cui lo osannano e dei demeriti per cui lo disprezzano,
uno strepitoso personaggio della commedia dellarte,
capace di offrire miriadi di spunti per una avventura cine-
matograficamente immaginabile. Piaccia o non piaccia,
nessuno pi rappresentativo dellItalia di oggi quanto il
Cavaliere. Destinato per le sue gesta, che mandano in
delirio chi lo adora e fanno inorridire chi lo detesta, a rap-
presentarci in patria e allestero per molto tempo. Anche
indipendentemente dalla tenuta del suo governo e dal suo
destino personale, che alcuni sognano al Quirinale, altri
ai Caraibi
(sinossi dal sito ufficiale del film www.silvioforever.it)
SILVIO FOREVER - AUTOBIOGRAFIA NON AUTORIZZATA DI SILVIO BERLUSCONI
Roberto Faenza e Filippo Macelloni
Storia di un italiano di (s)fiducia
Anton Giulio Mancino
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segnata. Piuttosto rientra nellironia della sorte, che
implica pienamente la consapevolezza dellinvolonta-
rio protagonista del film, ma volontario protagonista
della storia italiana dellultimo trentennio (senza
contare il pregresso che il film non esclude come base
politica, culturale, sociale e antropologica) a incarna-
re anche simultaneamente, a seconda dei casi, delle
necessit, dei luoghi e delle circostanze, ogni sorta di
personaggio concepibile: mimetizzandosi, egli
maschera se stesso e nel contempo maschera di con-
tinuo la verit, ne ripropone la sostanza variando di
volta in volta la forma, lapparenza, sostituendosi da
solo, con il proprio abile spirito trasformista, allim-
mutabilit collegiale di un ormai antico, ma non tra-
montato stampo democristiano.
Lassolo prolungato e a senso pressoch unico di
un Berlusconi mammone e libertino nello stesso
tempo, bigotto per necessit, anticomunista fuori
tempo massimo, tutto e il contrario di tutto, che crea
senza contraltari credibili o stabili il suo popolo a
immagine e somiglianza (a immagine e somiglianza
dei suoi fantasmi, delle sue pulsioni, del suo immagi-
nario pruriginoso, consumistico e edonistico), diven-
tandone di conseguenza il leader incontrastato, equi-
vale oggi a quella che fu la recita collettiva della con-
grega assortita dei comprimari delllite democristia-
na. Questo aspetto cangiante ma in sostanza, sotto
mentite spoglie, fisso del protagonista assoluto e plu-
ridecennale italiano consente a Faenza di inaugurar-
ne il decorso del suo ultimo film, come in Forza
Italia, con lalba repubblicana, devozionale, vitello-
nesca, pronta alla massificazione gaudente e al mira-
colo economico. La storia italiana si rispecchia ed
rispecchiata da un fenomeno esemplare, modulare,
riproducibile: il berlusconismo, prima, durante e pro-
babilmente dopo Berlusconi medesimo, inteso come
paradigma autoreferenziale e collettivo senza solu-
zioni di continuit. Ragion per cui le qualit semina-
li di Silvio Forever risulteranno probabilmente pi
apprezzabili, come si suol dire in gergo sportivo,
sulla distanza.
Anche Forza Italia, al di l dellostilit manifesta,
della carica dirompente, provocatoria, antidemocri-
stiana di allora, con il passare del tempo ha guada-
gnato efficacia, offrendosi sempre pi come docu-
mento storico puntuale, strumento conoscitivo pre-
ciso. Pi austero e meno goliardico di quanto non
fosse (apparso) nel 1978. Un progetto estetico coe-
rente e distanziato che, per, aveva bisogno in quel
momento di sedimentarsi, di essere elaborato luci-
damente da parte degli spettatori, dei critici e della
classe politica del tempo: di quella giusta distanza,
di strumenti e capacit di lettura che tornano oggi-
giorno a mancare, per ragioni altrettanto compren-
sibili, di fronte a Silvio Forever. Detto altrimenti,
lultimo film di Faenza risente (pur)troppo dellef-
fetto presente di saturazione, della sovraesposizione
mediatica del personaggio Berlusconi.
Gli spettatori italiani, a qualsiasi livello di consa-
pevolezza, appartenenza culturale e politica, non
sono nelle condizioni di rapportarsi a questo pro-
getto cogliendone, qui e ora, lo spessore. Lo dimo-
stra latteggiamento contenutista, ugualmente stru-
mentale sui due fronti contrapposti, che ha accom-
pagnato luscita in sala del film, la visione, il dibat-
tito pubblico. Limpressione che, sommersi di
immagini di ogni tipo del premier, questo film non
differisca tanto da una qualsiasi antologia, da una
puntata di Blob (non va dimenticato che anche a
Moore, diretto erede di Faenza, in Italia stato
ugualmente rimproverato di non aver fatto granch
di pi di una delle tante puntate del variet Le
iene), da una delle quotidiane sintesi che persino
un telegiornale riconsegna a quella opinione pubbli-
ca assuefatta, critica, consenziente, indignata. Lo
spettatore italiano, che oggi coincide con il telespet-
tatore, reagisce a Silvio Forever credendo di aver gi
visto tutto, di sapere gi tutto, se non di pi.
Molte recensioni o interventi a vario titolo, tiepi-
damente, riconoscono al film un valore direttamen-
te proporzionale a un bagaglio conoscitivo pregres-
so, individuale, indipendente dal film stesso. Come
se Silvio Forever fosse esattamente ci che ciascuno
ritiene che sia, che dica. E vi si possa leggere esatta-
mente ci che c dentro, quantitativamente. Lo si
interpreta in relazione a ci che gi si pensa. Si
cerca, di conseguenza, nel film conferma delle pro-
prie convinzioni, pro o inevitabilmente contro il per-
sonaggio Berlusconi. Ammesso e non concesso che
Faenza labbia concepito per prestarsi al gioco delle
parti o del come tu mi vuoi, speculare e parallelo
allatteggiamento camaleontico dello stesso prota-
gonista onnipresente, Silvio Forever rischia di ridur-
si a semplice supporto dellesistente, di un dibattito
pseudo politico che si trascina, ripetitivo e sempre
pi stanco, di talk show in talk show.
Invece, al di l di qualsiasi connotazione imme-
diata, contingente, italiana, il film di Faenza un
oggetto che ha, avr bisogno di tempo per essere
identificato appieno, interpretato, compreso pro-
fondamente. Non nemmeno un caso che quasi
sempre nelle trasmissioni televisive a parlarne
siano stati chiamati non i registi Faenza e
Macelloni ma, in qualit di sceneggiatori-autori, i
giornalisti Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Non
dimentichiamo che questultimo aveva gi curato
lintroduzione del volume che accompagnava la rie-
dizione in dvd di Forza Italia. N che gi Forza
Italia era stato scritto da due giornalisti, Antonio
Padellaro e Carlo Rossella, oggi inimmaginabili
allinterno di un progetto comune. A riprova di
come di Silvio Forever interessi, per ora, lesclusiva
componente giornalistica, di come venga preso in
considerazione per le cose che dice o si vorrebbe
che dicesse, in una fase diuturna e congiunturale in
cui, peraltro, gioca a svantaggio della lucidit criti-
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ca leccesso e non il difetto di quote informative, di
notizie clamorose, cui lo stesso premier contribui-
sce concedendo forse con chiara cognizione di
causa, lascia intendere il film, che infatti costrui-
to sullimbarazzo della scelta dei materiali di reper-
torio quotidianamente nuovi spunti, nuove ester-
nazioni. Mettendo cio sempre pi carne, in tutti i
sensi, a cuocere.
Silvio Forever, con buona pace di fraintendimenti
o di considerazioni mirate e di convenienza, esprime
sin dal titolo questa cognizione del problema, lenti-
t del problema, che di portata storica. Laspetto
esplicitamente auto-promozionale del personaggio
centrale, pressoch unico, venditore incontenibile di
se stesso, che riduce tutti gli altri al rango di com-
parse, figure confinate sullo sfondo, sostenitori e
detrattori, corrisponde per certi versi a una logica
che potrebbe essere riassunta da una nota campa-
gna pubblicitaria della telefonia mobile secondo la
quale pi si chiama lutente e pi la scheda si rica-
rica. Per poter esserci sempre e comunque,
Berlusconi ha bisogno di essere chiunque, essere
uno qualunque, essere dappertutto e comunque.
Ragion per cui, sin dal principio, il Faenza scopre le
carte. Infatti la sequenza dei titoli di testa esibisce
un modello di famiglia o di clan allargato in cui
ogni membro un sosia del premier di lunga dura-
ta: uomini, donne, bambini, anziani, genitori, figli,
parenti di ogni tipo, hanno il volto di Silvio
Berlusconi, come in Essere John Malkovich di Spike
Jonze (salvo che l si trattava di un incubo immagi-
nario, di una visione psichica della realt, qui di
realt tout court).
E Silvio Berlusconi medesimo rilancia, sta al
gioco, conduce e si fa condurre dal gioco cercando,
contro ogni buon senso, contro ogni remora, misura
o forma di contegno, di dichiarare, millantare di
aver preso parte a tutti i passaggi chiave della sto-
ria repubblicana (lo conferma il ricorso indiretto ma
pertinente in Silvio Forever di stralci di cinegiorna-
li dellIstituto Luce). Sostiene di aver fatto tutto lui,
in qualsiasi momento, sfidando qualsiasi condizione
concepibile, mentendo sistematicamente: allitalia-
na. In virt di un principio della conoscenza appiat-
tita su un presente mediatico usa e getta, in cui solo
la successione insensata di cose dette e smentite, poi
riaffermate e nuovamente smentite, vanificando
anche il principio di non contraddizione, introduce
un fattore di trasformazione, per non dire di muta-
zione, non tanto politica, sociale e culturale, quanto
addirittura antropologica.
In questo Silvio Forever molto vicino a
Videocracy di Erik Gandini, altro film poco favori-
to dalla sovraesposizione incessante di notizie sem-
pre pi aggiornate, sempre pi incredibili e nondi-
meno digerite, metabolizzate. Su una comune base
di materiali di repertorio disponibili su cui non c
che limbarazzo della scelta, e che in Silvio Forever
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equivalgono allintero spazio della rappresentazio-
ne, mentre in Videocracy fanno parte di uno schema
intermediale, leffettivo quadro complessivo tra-
scende i confini, anche nazionali, del racconto stori-
co come dellinchiesta giornalistica, per suggerire
altro: una visione dinsieme ai limiti della fanta-
scienza distopica, che sociologicamente allude a un
avvenire sconcertante, prefigura uno scenario pros-
simo venturo che per gi presente.
Ancora una volta ci sembra questa la chiave pi
emblematica della seconda parola del titolo, quel
Forever che fa seguito automaticamente al nome
proprio del protagonista-paradigma, Silvio, depri-
vato del cognome in quanto riferito a un personag-
gio collettivo indistinguibile dalle ragioni favorevoli
o contrarie. Il Silvio nazionale ha autorizzato la
confidenza nei suoi confronti da parte dellitaliano
medio, generico, comune. Il tu dato a chiunque
diventa il tu confidenziale assegnato al premier-
padrone. Anche rispetto a Il Caimano di Moretti,
che enunciava a parole il problema per bocca dello
stesso regista (nel ruolo di un suo possibile se stes-
so, salvo poi visualizzarne le estreme, gotiche conse-
guenze nel finale, sospeso tra realt e finzione), la
scelta compiuta in Silvio Forever di far rivedere e
risentire tutto ci che si crede di aver gi visto e sen-
tito troppe volte, permette di interrogarsi sul grado
perverso di assuefazione allamico/nemico che,
come un anfitrione occulto, a latere o eccessivamen-
te palese di un decorso storico ultradecennale, ha
condizionato, ipotecato, costruito un mondo come
un mad doctor di fantascientifica memoria, un
Mabuse moderno, un mostro di una categoria
mostruosa da commedia (all)italiana: una figura
che sembra uscita da un vecchio film di Risi o
Monicelli, un novello Sordi plurivalente e prismati-
co che, infine, ha potuto rimettere assieme tutti i
suoi sketch, i suoi personaggi pi celebri, le sue
parti in commedia e ricavare un film di montaggio
che potrebbe durare ore e ore, svilupparsi orizzon-
talmente a tempo indeterminato.
Il noto programma-omaggio di Alberto Sordi e
Giancarlo Governi si intitolava infatti Storia di un
italiano. Di un italiano, dunque, non di un attore,
quellattore, Sordi, o della galleria di personaggi
sordiani. Proprio come Silvio Forever, emblematica,
ideale copia di quel film antologico (cui abbiamo
nel titolo di questo intervento aggiunto parte di
quello indovinato di un racconto di Tullio Kezich,
sul cinema: Luomo di sfiducia). Solo che, allora,
litaliano rappresentato era un prodotto cinemato-
grafico, umoristicamente verosimile; ora un com-
mediante vero. Anche perch, come i padri della
commedia italiana hanno spesso sostenuto, i loro
mostri o mattatori erano scomparsi dagli schermi, si
erano resi non pi proponibili se non tristemente,
tragicamente e malinconicamente, in quanto nel
frattempo nuovi, altri, veri mostri avevano inva-
so la vita pubblica, si erano materializzati come
maschere non riproducibili di una farsa reale.
Perch mai una certa commedia dautore, dopo
aver tenuto banco dagli anni Cinquanta ai primi
anni Settanta, cambia pelle, si trasforma, termina
proprio tra la met e la fine degli anni Settanta?
Perch da questo momento le commedie comincia-
no a far meno ridere, a diventare pi canagliesche,
cattive, cupe e persino pi volgari? La risposta, pre-
figurata da Faenza nei suoi saggi pubblicati in volu-
me, poi in Forza Italia, sul versante della non-fic-
tion, e in Si salvi chi vuole, su quello della fiction,
andava ricercata nel potere delle immagini mediali
e nellavvento delle tv private, quindi lungo la stra-
da che avrebbe condotto quel sintomatico padrone-
commediante in carne e ossa a proseguire in modo
compulsivo la tradizione della commedia cinemato-
grafica nella realt. Una realt che per eccesso ripe-
titivo di visibilit, non per difetto, per questa capa-
cit di armonizzarsi con le menzogne e il menzogna-
re italiano appare oggi un drammatico dj vu sor-
diano. O risiano, monicelliano. N con il senno di
poi c da sorprendersi pi di tanto se quello che nel
1978 era stato scelto come titolo irrisorio di un film
anti-democristiano, Forza Italia, sia diventato il
nome del partito del protagonista di Silvio Forever.
Che perci, come si diceva allinizio, in tutti i sensi
la fisiologica, cronologica, logica prosecuzione testi-
moniale del precedente film di Faenza.
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Dopo almeno un secolo che se ne parla, ancora non
dato sapere se esista davvero quella cosa che si soliti
chiamare spirito del tempo. Lo Zeitgeist, quella strana
comunanza di sentire e pensare fra persone completa-
mente scollegate fra loro, che sconfina nelle suggestioni
psicomagiche che Jung definiva sincronicit e che da
Richard Dawkins in poi ha preso la strada della cosid-
detta memetica.
Che siano le cose distanti ad assomigliarsi o che sia loc-
chio tendenzioso dellosservatore a cogliere e dare signifi-
cato a elementi solo casualmente convergenti, poco impor-
ta. Alla fine, ci che conta sono le relazioni che i soggetti
instaurano con i singoli oggetti o con gruppi di essi, asso-
ciati in maniera sempre pi arbitraria, nel disperato tenta-
tivo di ricavare un senso dal flusso incontrollato delle
informazioni e delle sensazioni.
Ad esempio, pu capitare di trovarsi perturbati dalla
visione, in un periodo relativamente ravvicinato, di due
film che pi distanti fra loro non potrebbero essere. Il
primo un film americano, realizzato dai due maggiori
talenti del cinema contemporaneo, remake di un western
cos crepuscolare da poter essere letto come un anti-
western o un sous-sous-western, per rifarsi a una definizio-
ne classica. Cinema narrativo di finzione, Global
Hollywood, frontiera e sparatorie che si dissolvono nella
fiaba e nel romanzo di formazione.
Il secondo un film che la critica ha definito docu-fic-
tion. Di certo un film local, che affronta il pi inspiegabil-
mente italiano dei fenomeni della triste storia nazionale
recente, mettendo assieme materiali darchivio raccolti da
due dei maggiori giornalisti del momento (Stella e Rizzo)
e assemblati assieme da un regista discontinuo e bizzarro,
portato a essere dialetticamente permeabile dalle influen-
ze del contesto internazionale (Faenza).
Ma proprio la distanza siderale che separa Il Grinta da
Silvio Forever, distanza geografica, produttiva, forse perfi-
no ideologica, estetica e strutturale a rendere interessante
un tratto comune, un fenomeno che siamo riusciti a con-
cettualizzare grazie a una intuizione di Elisa Battistini (Il
Fatto Quotidiano) nella sua recensione al film dei Coen
Bros.: I protagonisti sono impegnati in estenuanti con-
trattazioni. Mercanteggiano su tutto e non esiste accordo
che non passi per un lungo negoziare dialettico, di cui
Mattie incontrastata regina. In effetti, gli speach acts del
film sono per la stragrande maggioranza atti che riguarda-
no il contrattare, mercanteggiare, negoziare. Non c rela-
zione fra i personaggi che non sia mediata dai meccanismi
che attengono allattribuzione di un valore prettamente
economico (valore di scambio). Detto in altri termini, non
c una sola azione gratuita fino al compimento dellinte-
ra parabola, laddove il diavolo (il serpente) si presenta a
reclamare il prezzo della vendetta compiuta e Jeff Bridges
interviene a strappare un prezzo vantaggioso per quella
che nel frattempo diventata la sua protetta (un brac-
cio in cambio di una vita, lultimo affaredi una ragazzi-
na troppo agguerrita). Si negozia la restituzione di un
cavallo, il costo della sella, un posto letto assieme a una
insopportabile compagna; una prestazione lavorativa, una
cooperazione, i cadaveri, presi per intero o smembrati per
componenti (come fossero aziende in fallimento: e per ben
due volte). Si negoziano le modalit di pagamento, i termi-
ni delle prestazioni, una resa, la giustizia, un accordo,
unamicizia, il rischio della vita, la vita stessa.
Questa ossessione commerciale/negoziale afferma una
coincidenza assoluta fra economia e politica che produce
unatmosfera bellica latente, e umilia componenti della
vita relazionale come la fiducia, lo slancio spontaneo, la
simpatia, lempatia e la convinzione fini a se stesse, soprat-
tutto un sistema organico e gerarchico di valori (dove il
valore duso e quello di scambio siano almeno bilanciati
da una scelta di carattere umano). Questo spirito apparen-
temente weberiano la cifra della frontiera e della wilder-
ness, qualcosa di profondamente arcaico, e saremmo por-
tati a considerarlo premoderno, se non fosse che lo ritro-
viamo identico in un film che racconta una storia iniziata
di fatto nel secondo dopoguerra, e narrata con un
tempo che somiglia present perfect inglese (geniale defi-
nizione di un passato che non vuole smettere e continua a
insistere come un destino sul presente).
Silvio Forever infatti narrato in prima persona da un
personaggio che sta a met fra il Pinocchio di Collodi (il
bugiardone irresponsabile) e quello di Fellini (il
Casanova) ma che anche una specie di piccolo eroe alla
Roald Dahl. Un bambino allevato da una banca, si dice-
va di Charles Foster Kane di Orson Welles, ma in questo
caso un bambino che pare partorito direttamente dalla
fantasia malata di una schiera di economisti britannici.
Un bambino che negozia su qualunque cosa e su qualun-
que cosa commercia. Non un olividado, non vive in
una discarica ma nelle case della piccola borghesia,
eppure si aggira come il protagonista di Germania Anno
Zero per un paese povero e devastato in cerca di carta e
di ogni tipo di rimasuglio (restituire valore agli scarti,
rivalutare) per poterne ricavare un profitto.
Profitto che ritroviamo come ossessione dominante in
ogni sua attivit: quando fa i compiti finisce in fretta per
poter vendere il tempo di studio rimasto (plusvalore?) ai
compagni in difficolt, con la garanzia di rimborso se non
saranno promossi. Cos allUniversit, dove la sua princi-
pale preoccupazione redigere appunti cos appetibili da
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Il giusto prezzo
Giacomo Manzoli
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poter essere rivenduti sul mercato clandestino del sapere
ridotto e standardizzato il giorno stesso in cui lesame
stato verbalizzato. Perfino il rapporto con la creativit
simbolica tipicamente giovanile (la musica) sottoposto
alle medesime procedure e si traduce nel suonare in cro-
ciera, dove si giunge alla perfezione: pagato per cantare,
ovvero per esprimersi, fare le vacanze e accoppiarsi, tutte
attivit che lui compie in modo ossessivo e dimostrativo,
privilegiando costantemente la dimensione del riconosci-
mento (formidabile la foto che lo ritrae mentre mostra i
muscoli, in stile Maciste) a quella della cura di s, dellar-
ricchimento interiore, dellarmonia e della qualit della
vita. Cos sar per tutto: lo sport, lintrattenimento, il
matrimonio, la paternit, lidentit nazionale, la sessuali-
t, perfino la morte. Non c dimensione dellesistenza che
il piccolo eroe non converta nel comune denominatore del
valore di scambio per ridurla a possibile oggetto di con-
trattazione e profitto.
Se vero che lo spirito del capitalismo borghese nasce
nella Firenze del Boccaccio, con Andreuccio da Perugia
che finisce nella merda per tre volte e per tre volte risorge,
recuperando il suo tesoro e traendone un vantaggio, pos-
siamo dire che il principio trova una sua sinistra e paros-
sistica sublimazione in questa figura patetica, tragicomica,
e nel suo grottesco anti-esistenzialismo, che fa persino del
vitalismo tipico della sua classee del suo tempo una spe-
cie di ansiogena caricatura, talmente reificata da divenire,
appunto, mortuaria. Nella merda, letteralmente, questo
mutante che pare geneticamente modificato dalla
Umbrella Corporation, nella merda ci sta benissimo, e
anzi, trover certamente il modo di farla fruttare con ter-
movalorizzatori immaginari o altre diavolerie.
La Mattie del Grinta, per la sua sete di vendetta e la sua
formidabile ossessione negoziale paga un prezzo altissimo.
La perdita del braccio destro, e con essa la prospettiva di
una vita normale, e rester per sempre malinconicamen-
te legata al filo di quellaffetto gratuito e disperato con cui
il feroce ma elementare Rooster Cogburn scende allinfer-
no per strapparla dalle mani del demonio. Il giovane
Silvio, invece, pagher con la perdita di qualsiasi residuo
di dignit e umano rispetto la sua adesione (in)condizio-
nata alla legge innaturale e diabolica del mercato totale, in
base alla quale nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto
pu e deve essere fonte di profitto.
Il mercato globale in unepoca di crisi sembrano
dirci questi due film legati assieme e letti uno alla luce
dellaltro (ma altri film recenti si potrebbero collegare al
medesimo discorso: Devil di John Erick Dowdle, Non
lasciarmi di Romanek, Buried di Cortes e perfino genia-
li cartoons come Cattivissimo Me e Megamind) somi-
glia tremendamente al paleocapitalismo selvaggio nella
sua fase aurorale come lo descrivono i vari filosofi neo-
marxisti, da Badiou a

Zi zek, da Laclau a Bauman a


Negri e Hardt e tanti altri. Pi le frontiere diventano
porose ed evanescenti e pi si ripresenta un paradossale
spirito della frontiera, che domina la mente e il cuore dei
nostri attuali e vecchissimi governanti. Sleeping in the
Devils Bed, come cantava Daniel Lanois, non una
bella cosa e speriamo di svegliarci in fretta, prima che
venga chiuso il coperchio del sarcofago di Arcore.
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Nella seconda met degli anni Sessanta e per
buona parte dei Settanta, un film come Non lasciar-
mi sarebbe stato THX 1138. O anche Soylent
Green. O Logans Run. Era la fantascienza sociolo-
gica, quella impegnata nel civile, quella che elabo-
rava linquietudine dellepoca attraverso un genere
e delle coordinate spazio-temporali ben precise; la
fantascienza verisimile, verrebbe da dire, che pren-
deva le mosse da tematiche urgenti e la page (il
sovraffollamento, il capitalismo, lesercizio del pote-
re, lannullamento dellidentit individuale) per
costruire un panorama di desolazione, schiavit e
morte sulla Terra che servisse da monito. Si trattava
di un filone legato a doppio nodo a quello della fan-
tapolitica, ben pi che alla fantascienza vera e pro-
pria di 2001: A Space Odyssey. I film di Lucas e di
Fleischer erano laltra faccia di Klute e di The
Parallax View, la faccia che distorceva le impalca-
ture del sistema in una visione apocalittica, orwel-
liana. Era un genere molto praticato sia dai block-
buster, sia dagli investimenti pi ridotti. Il mercato
americano non ne aveva lesclusiva, per: lItalia, ad
esempio, produceva La decima vittima e i pamphlet
di Agosti, mentre in Gran Bretagna Peter Watkins,
per dirne uno, diceva la sua. Ma un genere che in
particolare ogni fan e studioso della New
Hollywood che si rispetti non pu sottovalutare (e
non amare) per capire levoluzione di unindustria e
la realt di quelle cose. Non cerano solo Easy Rider
e i drammi esistenzialisti di Bob Rafelson.
Che effetto fa oggi un film come Non lasciarmi?
Un film che termina con Carey Mulligan che aspet-
ta la sua ora davanti a un orizzonte bellissimo, un
po come nel finale di Soylent Green Edward G.
Robinson si abbandonava alla morte con le imma-
gini della bellezza perduta e dimenticata, un fiore,
lacqua, il sole, cura Ludovico al contrario? Un
effetto che turba un po, e che lascia pi depressi di
quanto si abituati. Ossia: va bene assistere alla
fine del mondo come la descrive 2012, cio proprio
come la si immagina e come ci hanno insegnato a
Titolo originale: Never Let Me Go. Regia: Mark
Romanek. Soggetto: dal romanzo omonimo di Kazuo
Ishiguro. Sceneggiatura: Alex Garland. Fotografia: Adam
Kimmel. Montaggio: Barney Pilling. Musica: Rachel
Portman. Scenografia: Mark Digby. Costumi: Rachael
Fleming, Steven Noble. Interpreti: Carey Mulligan
(Kathy), Andrew Garfield (Tommy), Keira Knightley
(Ruth), Isobel Meikle-Small (Kathy da piccola), Ella
Purnell (Ruth da piccola), Charlie Rowe (Tommy da pic-
colo), Charlotte Rampling (la signorina Emily), Sally
Hawkins (la signorina Lucy), Kate Bowes Renna (la
signorina Geraldine), Mathalie Richard (Madame),
Andrea Riseborough (Chrissie), Domhnall Gleeson
(Rodney), Hannah Sharp (Amanda), Christina Carrafiell
(Laurs), Oliver Parsons (Arthur), Luke Bryant (David).
Produzione: Alex Garland, Andrew MacDonald, Allon
Reich, Richard Hewitt per Dna Films/Film4/Fox
Searchlight Pictures. Distribuzione: 20th Century Fox.
Durata: 103. Origine: Gran Bretagna, 2010.
Kathy , Tommy, e Ruth trascorrono linfanzia nel colle-
gio inglese di Hailsham, un luogo apparentemente idillia-
co, dove scoprono un segreto oscuro e angoscioso riguar-
dante il loro futuro. Quando si lasciano alle spalle il rifu-
gio del collegio e si avviano inesorabilmente al destino
sconvolgente che li attende da adulti, essi devono anche
confrontarsi con i profondi sentimenti di amore, gelosia e
tradimento che rischiano di dilaniarli.
(dal pressbook del film)
NON LASCIARMI Mark Romanek
La sostanza e la forma
Pier Maria Bocchi
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immaginarla (bravi e cattivi maestri, religioni e
credo), va meno bene una realt che ha tutte le sem-
bianze della nostra realt, che non ha vulcani che
eruttano e strade che si squarciano e arche di No,
una realt quotidiana, di scuole e ospedali, che
parla di ragazzi e di ragazze programmati per mori-
re, non cyborg dalle fattezze umane, bens adole-
scenti in carne e ossa la cui vita destinata a inter-
rompersi poco dopo aver raggiunto la maggiore et.
Non c nemmeno pi quel ct fantapop di qua-
rantanni fa, quando si pensava al futuro con gli
abiti a mezza via tra il modernariato artistico e
lastrattismo surreale: Non lasciarmi copre le epo-
che come potrebbe farlo un film di James Ivory. Il
paradosso sta esattamente qui, nello scontro inam-
missibile tra un argomento fantasociologico (ma in
fin dei conti neanche tanto fanta) che turba e uno
stile rigoroso ed entomologico, distaccato e neutro,
che si permette di svolazzare soltanto con le musi-
che spesso ingombranti dellormai anacronistica
Rachel Portman. Romanek parla di cloni, ma ne
parla con i modi e linteresse che Ivory dimostra per
il galateo e le tazzine da t delle sue classi in costu-
me. Gi soltanto il paragone paradossale, me ne
rendo conto, per credo possa rendere lidea di un
film che coi tempi che corrono mette a disagio pi
per la forma che per la sostanza (la voglia di scomo-
dare nientemeno che Tolstoj e il suo Che cos lar-
te? forte, ma lascio stare). Insomma, oggi per
mettere in scena i replicanti si ricorre alla spettaco-
larizzazione hollywoodiana di The Island (o, quan-
do va decisamente meglio, di Il mondo dei replican-
ti), non certo a uno stampo da prodotto apparente-
mente dessai e autoriale.
Ma che autore c dietro Non lasciarmi? E, di
riflesso, che tipologia di film c? un caso che il
romanzo porti la firma di Ishiguro Kazuo, che scris-
se anche le pagine di quel The Remains of the Day
da cui Ivory trasse il film omonimo? Forse s. O
forse no. Mai avrei pensato di occuparmi dellimma-
ginario del regista californiano, eppure non riesco a
non ipotizzare una somiglianza di atmosfere e ose-
rei dire di risultati tra questo film di Romanek e
quel film (ma non quel film soltanto) di Ivory. Per
raccontare della contemporaneit, Non lasciarmi
non ha bisogno n di guerre, n di terrorismo; non
ha bisogno della suspense, della tensione per ligno-
to (sebbene atteso). Non ci sono pacchi bomba o
attentati. E non ci sono daltronde trame politiche o
truffe pi o meno organizzate. Ci che accade un
fatto quotidiano, un evento della vita come lo pu
essere fare colazione la mattina o dormire la notte.
Nascere, crescere e morire giovanissimi, dopo aver
donato un paio dorgani, normale. Tutto secondo
le regole, la legge di Stato e le decisioni del governo,
per giunta, alla larga dal mercato nero. Nessun inte-
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resse mediatico, perch lessere dentro la notizia
una condizione straordinaria, una tantum.
Con una metafora fantasociologica, Non lasciarmi fa
vedere a che punto arrivato il mondo con unimpas-
sibilit simile a quella che dimostrava il maggiordomo
di The Remains of the Day nei confronti di ci che
avveniva nella tenuta di Darlington Hall, compresa la
Storia. Per mezzo di cloni, ma senza mostrare mai i
cosiddetti Originali, Romanek mette in scena una
societ che educa e prepara a morire fin dalla tenera
et. Le intenzioni sono encomiabili ma senzaltro non
nuove, perlomeno non col cinema odierno pi impe-
gnato (al di l di ipocrisie varie) a rappresentare e
mettere allindice la corsa verso la distruzione, film di
guerra prima di tutto. Risulta inconsueto invece il
quadro generale, nel quale gli afflati mlo vengono
schiacciati da un determinismo metodico che non ha
niente di celebrativo. Difficile scambiare Non lasciar-
mi per un funerale dellidentit officiato con tutti gli
onori: il senso simbolico, solenne e definitivo, contra-
sta con una forma di severit soltanto raramente incri-
nata dalla sottolineatura musicale (e dalle due esplo-
sioni di rabbia speculari di Tommy).
Romanek adopera uno stile che oggi per le major
decisamente rischioso, quando non addirittura
improponibile. Guardate come risolve un momento
che chiaramente la classica scena madre con
rivelazione a sorpresa, lincontro di Kathy e
Tommy con la madame che dovrebbe accordare loro
la dilazione: un dialogo spiccio, una sola battuta a
effetto (Non avevamo la Galleria per guardare den-
tro le vostre anime. Avevamo la Galleria per sapere
se ne avevate una, di anima), sguardi rassegnati, la
distruzione dellillusione e la consapevolezza delle
rispettive posizioni prima suggerite tra le parole e
poi sintetizzate con una frase lapidaria (Non ci
sono dilazioni, non ci sono mai state). Le esequie
della persona trovano un contegno che sarebbe cini-
co se non fosse per lestrema tragicit di una cata-
strofe senza auto che esplodono, o aerei in picchia-
ta suicida, o ghiacciai che si sciolgono. come se
questi ragazzi andassero alla guerra senza farla e
quando essa non c. Un salto nel vuoto senza para-
cadute, condiviso e legalizzato. Daltronde, se non
guerra (con se stessi, col mondo) quella che induce
una diciottenne a cercare il proprio Originale (ci
che le ha dato la vita) tra le pagine di una rivista
pornografica, allora cos? Il risultato il medesi-
mo: la sconfitta di ogni speranza, lannientamento
della dignit, linevitabile mancanza di una rispo-
sta, il nulla. Al pari degli umani che in THX 1138
venivano identificati con una sigla e a cui venivano
proibiti i sentimenti, o di quelli ai quali in Logans
Run si prometteva la rinascita con la morte imposta
al compimento dei trentanni. Ecco, the remains of
man, quel che resta delluomo.
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Chi ha detto che la televisione fa male alla cultura? Ogni volta che
qualcuno laccende, io vado in unaltra stanza a leggere un libro.
(Groucho Marx)
Caso pi unico che raro in Italia: una serie televisiva
diventa un film. Se del processo inverso ci sono ormai
diversi casi interessanti e fortunati (Romanzo criminale di
Michele Placido e Romanzo criminale La serie di
Stefano Sollima; Quo vadis, baby? di Gabriele Salvatores
e la miniserie di sei puntate diretta invece da Guido
Chiesa), passare dalla televisione al cinema non un pro-
cesso n scontato n garantito. Diverso linguaggio, diverso
formato, diverso ritmo, diverso pubblico, diversa fruizio-
ne Eppure Boris ce la fa, funziona, eccome se funziona.
Qual lidea per reggere la prova in sala e per non tradi-
re gli spettatori di una serie divenuta ben presto un cult?
Forse una sceneggiatura robusta, attori capaci e perfetta-
mente calati nel ruolo, la riproposizione di tutti gli elemen-
ti che il pubblico ha conosciuto nella serie e che quindi si
aspetta, la capacit di non fare un puntatone della serie
e trasformare un format televisivo in uno cinematografi-
co? Probabilmente s, ma andiamo con ordine
LA SERIE
Nasce tutto nel 2005, con la puntata pilota, dal titolo
Sampras, presentata alla Festa Internazionale del
Cinema di Roma nel 2006 nella sezione Extra. La serie
televisiva, prodotta dal 2007 al 2010 da Wilder per Fox
Italia e trasmessa prima da Fox e poi da FX, e dal 2009
anche in chiaro sul canale del digitale terrestre Cielo,
porta in scena il dietro le quinte di un set televisivo nel
quale si sta girando la soap Gli occhi del cuore 2. La
serie non stata trasmessa in chiaro per quasi tre anni e
non ha mai avuto alcuno spazio sulle reti principali:
stato con il passaparola che diventata un cult, soprat-
Regia e sceneggiatura: Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre,
Luca Vendruscolo. Fotografia: Mauro Marchetti. Montaggio:
Massimiliano Feresin. Musica: Giuliano Taviani, Carmelo
Travia. Scenografia: Michele Modafferi. Costumi: Fiorenza
Cipollone. Interpreti: Francesco Pannofino (Ren Ferretti),
Caterina Guzzanti (Arianna DellArti), Alessandro Tiberi
(Alessandro), Ninni Bruschetta (Duccio Patan), Paolo
Calabresi (Biascica), Pietro Sermonti (Stanis), Antonio
Catania (Diego Lopez), Alberto Di Stasio (Sergio), Carolina
Crescentini (Corinna), Carlo De Ruggieri (Lorenzo), Roberta
Fiorentini (Itala), Luca Amorosino (Alfredo), Rosanna Gentili
(Marilita Loy). Produzione: Lorenzo Mieli, Mario Gianani per
Wildside/Rai Cinema/Sky Cinema. Distribuzione: 01.
Durata: 108. Origine: Italia, 2010.
Ci sono scene troppo brutte perfino per un regista televisi-
vo: uno struggente rallenti sulla corsa nei prati di un gio-
vanissimo Joseph Ratzinger che festeggia la scoperta di un
vaccino troppo anche per Ren Ferretti. E s che di mon-
nezza ne ha girata tanta, narcotizzanti apologie del presen-
te, inquietanti biografie di santi e tante altre ancora. E
allora basta. Meglio linsicurezza economica, meglio il
cinema. Meglio tradire tutti la Rete, la moglie in attesa di
alimenti, la impresentabile storica troupe e buttarsi nel
cinema. Tanto pi se la sfida un copione libero, serio,
forte, di denuncia, alla Gomorra. Purtroppo per, anche
con un progetto alla Gomorra, bisogna fare i conti con la
palude culturale che tutto ingloba. I committenti del salot-
to buono del cinema si rivelano, alla prova dei fatti, solo
diversamente codardi. I nuovi collaboratori solo diversa-
mente inaffidabili. E la presunta grandeur del cinema una
rogna senza fine. Come per una condanna divina, nono-
stante i suoi lodevoli sforzi, Ren Ferretti si ritrova tra i
piedi la stessa troupe scalcinata di sempre, gli stessi attori
cani, gli stessi sceneggiatori inetti e perfino lo stesso borio-
so capetto dun tempo
BORIS - IL FILM
Giacomo Ciarrapico | Mattia Torre | Luca Vendruscolo
Dopo la tv c il cinema,
dopo il cinema la radio e poi la morte
Chiara Boffelli
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tutto tra gli spettatori pi giovani, un passaparola che si
subito dilagato in Internet, su YouTube, dove il pubbli-
co ha potuto vedere tutte le tre stagioni (quattordici pun-
tate luna). stato il web a decretarne il successo, con la
nascita di blog, pagine sui social network e siti dedicati
(ad esempio www.borisitalia.it, completissimo di tutte le
informazioni, curiosit e segreti della serie, e che addirit-
tura ospita i siti delle varie soap e fiction citate nella serie
Gli occhi del cuore, Troppo Frizzante, Machiavelli
e Medical Dimension). La regia della prima stagione
di Luca Vendruscolo, a cui si affiancano Giacomo
Ciarrapico e Mattia Torre per la seconda stagione. La
regia della terza stagione di Davide Marengo.
Protagonista della serie una scalcinata troupe televi-
siva, capitanata dal regista Ren Ferretti e dalla sua assi-
stente Arianna; insieme a loro laiuto regia Alfredo, il
direttore della fotografia con problemi di dipendenza
dalle droghe Duccio, lirruento elettricista Biascica, la
sfaticata segretaria di edizione Itala e i due stagisti:
Alessandro e Lorenzo lo schiavo. Con loro il delegato di
produzione Sergio e il delegato di rete Diego Lopez.
Immancabili le star: Corinna, la cagna maledetta, lo
sfrontato e viziato Stanis La Rochelle, Cristina Avola
Burkstaller e Karin le cosce.
C unidea forte alla base: quella di raccontare deco-
struendo e destrutturando con satira pungente, il die-
tro le quinte della produzione televisiva italiana, la bassa
qualit imposta nelle fiction (la rete esige di usare unil-
luminazione di scarsa qualit, sovraesposta, inferiore a
quella che si vede in pubblicit, per evitare che il pubbli-
co cambi canale durante gli spot), i mali della tv, i suoi
peccati, le raccomandazioni, le vessazioni contro il perso-
nale, il rapporto tra televisione e potere, con riferimenti
allattualit e personaggi politici In fin dei conti lo
specchio dellItalia di oggi. Un vero e proprio grido di
disperazione contro la volgarit esasperata, lo squallore
della quotidianit dentro e fuori lo schermo, la rassegna-
zione al brutto, limpotenza di chi vuole cambiare lo
stato delle cose, i privilegi e le prevaricazioni. Boris
diventa una finestra che ci permette di penetrare nei
retroscena della tv generalista, scoprirne i segreti e le
regole del gioco, andare a fondo della mostruosit che ci
affligge e forse, amaramente, accorgerci che nulla potr
mai cambiare.
LA NASCITA DEL CULTO
Quali sono stati gli elementi principali del successo di
Boris? Che cosa lo ha reso un cult? La ripetitivit del for-
mat certamente alla base, perch stimola la memoria
dello spettatore, lo rassicura e lo prepara allepisodio
successivo, creando aspettative e attese. Le variazioni e le
novit apportate in ogni puntata appagano lo spettatore,
che ritrova la conferma a tutte le sue aspettative ma, allo
stesso tempo, un qualcosa di unico, nuovo e irripetibile,
una novit che lo pu stupire ed emozionare.
Boris ha saputo giocare bene con la serialit stesso
cast, stesse scenografie, stessa macro-storia apportan-
do, per, infinite variazioni al tema, allenando, in questo
modo, il pubblico a ogni minimo cambiamento, favoren-
done continuamente stupore e trepidazione. Tra gli stra-
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tagemmi utilizzati dagli sceneggiatori c sicuramente
linserimento, allinterno di un cast artistico stabile e
rassicurante, di numerosi camei e apparizioni di perso-
naggi celebri: Corrado Guzzanti (lindimenticabile
Mariano Giusti), Roberto Herlitzka, Laura Morante,
Cecilia Dazzi, Paolo Sorrentino, Giorgio Tirabassi,
Filippo Timi, il gorilla degli spot del Crodino (!), Giuliano
Giubilei del Tg3, il Trio Medusa e Valerio Mastandrea, nel
ruolo di un attore esordiente che tenta un provino davan-
ti a Ren Ferretti. Altra chicca: Boris il pesciolino rosso
portafortuna di Ren Ferretti, che presenzia sempre
durante le riprese. Ren ha sempre avuto dei pesciolini a
cui d i nomi di campioni del tennis: Boris per Boris
Becker, nella puntata pilota Sampras e nella terza serie
compare anche Federer.
I programmi di culto giocano sempre con lautocitazio-
ne, il metalinguaggio, prendendosi in giro e imitandosi.
Si fa ricorso anche alla citazione cinematografica: nel-
lepisodio La mia Africa (parte prima) larrivo di
Corinna ricorda larrivo di Rose al porto nel film Titanic;
nellepisodio La figlia di Mazinga il pestaggio di
Lorenzo richiama quello di Full Metal Jacket; nellepiso-
dio Il sordomuto, il senatore e gli equilibri del paese
(seconda parte) si cita Guerre Stellari Il ritorno dello
Jedi; nellepisodio Il cielo sopra Stanis, si fa chiaro rife-
rimento a Il cielo sopra Berlino; nellepisodio Nella rete
il dottor Cane offre a Ferretti una scatola blu vuota, come
in Mulholland Drive di David Lynch.
La fidelizzazione dello spettatore ha permesso un coin-
volgimento del pubblico cos significativo da modificar-
ne il comportamenti, il modo di parlare, il modo di
comunicare che solo i fedeli della serie possono coglie-
re (Smarmella, per esempio il comando che Ren d
a Duccio per avere le luci tutte aperte sul set; o il Troppo
italiano con cui Stanis definisce molte produzioni e atto-
ri; o Daidaidai con cui Ren sprona il cast). Si crea una
sorta di divisione, tra chi dentro e chi fuori, da chi
comprende e chi ignora. Questo rende linfluenza delle
serie molto pi estesa nel tempo e incontrollabile coi soli
dati auditel.
Altra carta vincente nella creazione del cult lutilizzo
della satira, intesa come decostruzione dellesistente. E
qui, la scelta di due prodigi della satira italiana, Caterina
e Corrado Guzzanti, gi conosciuti al grande pubblico,
non poteva che essere vincente. Il pubblico di Boris un
pubblico motivato, che va a scovare la propria trasmis-
sione, sia in televisione che su Internet; un pubblico
attento, che negli anni stato allevato e allenato, ormai
pronto per la prova in sala.
IL FILM
Il film graffiante, cinico, dissacrante, spoetizzante;
dipinge lindustria cinematografica come bieca, fatta
di espedienti; di sceneggiatori democratici che gioca-
no a tennis, mentre ragazzi chiusi in una cella scrivo-
no per loro; attrici vicine alla follia, che non riescono
a parlare e sussurrano solamente (come non ricono-
scere in Marilita Loy lacclamata Margherita Buy) o
totalmente dedite al sesso pur di avere una parte; atto-
ri che si fanno di eroina; segretarie arroganti e diretto-
ri della fotografia totalmente fanatici del proprio lavo-
ro. E poi, il pubblico italiano che ingurgita qualsiasi
trivialit e volgarit, attraverso il prodotto tipico del
cinema italiano: il cinepanettone. Loperazione di tra-
sferimento sul grande schermo era certamente com-
plessa e il rischio di cadere in un lungo episodio della
serie era tangibile, ma la rinuncia ai tormentoni e
laver spostato radicalmente lattenzione sul mondo
cinematografico hanno scansato il problema. Boris
un film con una dignit salda, unottima squadra di
attori, una sceneggiatura energica, che sa parlare
dellItalia di oggi senza timori o soggezioni; uno
schiaffo a unindustria che dovrebbe produrre cultura
e invece riproduce clich rozzi e spregevoli.
Boris Il film, infine, non tradisce lo spettatore, che
alla ricerca del nuovo ma allo stesso tempo lo teme:
lesatta distanza tra ci che non si mai visto e ci che
si sempre voluto vedere la chiave del prodotto di
culto. Boris Il film lascia allo spettatore la piacevole
sensazione di essersi avventurato in nuovi mondi,
senza esserne per travolto. Abbandonata la tv, siamo
ora nel cinema, ma lo spettatore ritrova la famiglia
che ha lasciato. Ritrova anche la satira, le citazioni e le
parodie (Margherita Buy, Mimmo Calopresti, Valeria
Golino, Matteo Garrone) tipiche della serie. E forse,
come dice Arianna: La ristorazione lunica cosa
seria di questo Paese!.
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Forse era nel destino di Offside di essere confinato a
una tragica clandestinit. Forse troppo intenso, troppo
pieno di realt e umanit insieme per poter entrare tutto
l dentro un film. Forse non ci riesce nemmeno, in quan-
to straborda, fa sentire anche quello che c nel fuori-
campo. Un corpo prima inquadrato che poi sparisce e
ritorna, una voce urlante e insistente della quale si vedo-
no soprattutto gli effetti su alcuni dei primi piani delle
protagoniste. Offside del 2006 ed esce solo ora nelle
sale italiane. Si tratta anche dellultimo film del cineasta
iraniano Jafar Panahi, che al Festival di Berlino di quel-
lanno si aggiudicato lOrso dargento, prima della sua
odissea giudiziaria culminata, nel dicembre scorso, con la
condanna a sei anni di reclusione e il divieto di produr-
re, girare e scrivere film e rilasciare interviste sia alleste-
ro sia in patria per i prossimi ventanni.
FUORI-GIOCO
LIran allo specchio. Con un flusso sonoro ininterrotto
che passa a volte attraverso ludito prima che allo sguar-
do, derivato certamente dal cinema di Abbas Kiarostami
(del quale Panahi stato assistente per Sotto gli ulivi del
1994), ma da cui si differenzia in quanto il suo una spe-
cie di neorealismo urbano dove i rumori della metropoli
sono importanti, e a tratti pi decisivi, dei dialoghi. C
unattenzione ossessiva per i suoni nel cinema di Jafar
Panahi. Forse non con la meticolosit maniacale di
Jacques Tati, che scriveva la colonna audio come una sce-
neggiatura a parte (come in Mon oncle); ma si ha lim-
pressione che essi vengano registrati pi volte, fatti inte-
ragire con i piani ,come se si trattasse di una canzone o
un commento musicale che, nel caso di Offside, deve
accompagnare soprattutto le paure, il coraggio, la rabbia
della ragazze a cui stato impedito di entrare sugli spal-
ti a vedere la partita. Panahi d tale importanza ai suoni
che sembra istintivamente di collegarli alle immagini. Ce
ne sono alcuni isolati (la suoneria di un telefonino, la
trombetta), altri invece persistenti (la strada, il pullman
e soprattutto lo stadio). Le stesse voci, con il tono degli
Titolo originale: id. Regia: Jafar Panahi. Sceneggiatura: Jafar
Panahi, Shadmehr Rastin. Fotografia: Mahmood Kalari.
Montaggio: Jafar Panahi. Musica: Korosh Bozorgpour.
Scenografia: Iraj Raminfar. Interpreti: Sima Mobarak Shahi
(la prima ragazza), Shayesteh Irani (la ragazza che fuma),
Golnaz Farmani (la ragazza con il chador), Mahnaz Zabihi (la
ragazza soldato), Nazanin Sedighzadeh (la ragazzina), Ida
Sadeghi (la giocatrice di calcio), Mohsen Tanabandeh (il ven-
ditore di biglietti), Reza Farhadi (luomo anziano), M.R.
Gharadaghi (il ragazzo con fuochi dartificio), Ali Baradari (il
passeggero), Safar Samandar Azari, M. Kheyrabadi Mashadi,
M. Kheymeh Kabood, Karim Khodabandehloo, Hadi Saeedi
(soldati). Produzione: Jafar Panahi per Jafar Panahi Film
Productions. Distribuzione: Bolero. Durata: 88. Origine:
Iran, 2006.
Teheran. Una ragazza, travestita da uomo, sul bus che sta
portando i tifosi allo stadio per assistere allincontro di cal-
cio tra Iran e Bahrain valevole per la qualificazione ai
Mondiali di calcio in Germania nel 2006. A causa di una
legge che impedisce alle donne di assistere alle partite in
compagnie degli uomini, viene fermata ai controlli prima di
raggiungere gli spalti, poi arrestata e rinchiusa in un recinto
proprio accanto allo stadio dove si trovano gi alcune giova-
ni tifose. L, sorvegliate dai soldati, lei e le altre sono costret-
te a seguire la partita solo attraverso i cori dei tifosi che arri-
vano dallinterno senza poter vedere nulla del match.
Portate via da un furgoncino della polizia un po prima della
fine, potranno poi festeggiare insieme la vittoria dellIran.
OFFSIDE Jafar Panahi
Il sogno che non cera
Simone Emiliani
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uomini (soldati, bagarini) che si alza allimprovviso, o
anche la radiocronaca del match, contribuiscono in
maniera decisiva ad arricchire ulteriormente un cinema
del sentire, spesso elemento caratterizzante dei pi
importanti autori iraniani, dove la vista segue quasi istin-
tivamente ludito, come si pu vedere in modo ancora pi
evidente, oltre che in Kiarostami stesso, anche in alcune
opere che possono sembrare quasi dei trattati teorici,
come, per esempio, Il silenzio (1998) di Mohsen
Makhmalbaf, su un ragazzino cieco che fa laccordatore,
o gli impeti alla Herzog di Acqua, vento, sabbia (1989)
di Amir Naderi.
Offside un film su una partita di calcio, anzi sulla
passione del calcio. Non si vede, per, mai unazione di
gioco. Si pu scorgere appena il campo verde quando
una delle ragazze fermate dalla polizia viene accompa-
gnata in bagno prima di liberarsi dal soldato che la sor-
veglia, oppure nel cancello che separa lesterno dallinter-
no, da cui per escono tutti quei rumori, quegli sbalzi
improvvisi delle reazioni del pubblico, che portano a
immaginare unazione in un modo invece che in un altro.
O, infine, uno schermo del televisore visto da lontano dal
pullman. C una partita immaginaria oltre quella che si
sta giocando. Sentire quindi, senza poter vedere. Panahi
aderisce strettamente alle emozioni istantanee delle
ragazze. Il suo film non ha nessuna deriva visionaria,
eppure si ha lidea che prenda forma un grande sogno.
Gli abbracci dopo il gol segnato (la partita Iran-Bahrain
finir uno a zero e permetter alla nazionale di qualifi-
carsi per i mondiali di calcio del 2006 in Germania) o la
festa collettiva dopo il fischio finale danno provvisoria-
mente forma a uneuforia momentanea e contagiosa,
dove i colori sembrano liberarsi dagli oggetti o dalle figu-
re dei protagonisti ed espandersi dentro linquadratura
come un dipinto impazzito, dove soprattutto il verde
che si espande sugli sfondi grigi o neri e si sprigiona
anche durante le feste in strada, mentre si suona linno
nazionale, proprio come accadeva nellottimo documen-
tario Green Days realizzato dalla figlia pi piccola della
dinastia Makhmalbaf, Hana. Presentato fuori concorso
al Festival di Venezia del 2009, quel film porta sullo
schermo le giornate di speranza dei giovani nel giugno di
quellanno prima del golpe elettorale.
Quello di Panahi un cinema realistico che diventa
improvvisamente ipnotico, che lascia vedere nella nostra
mente altro da quello che mostrato sullo schermo, che
si libera in un impeto di fuga che, per esempio, prendeva
concretamente forma in I gatti persiani di Bahman
Ghobadi, documentario e finzione insieme, che faceva
invece fuoriuscire dallinquadratura cromatismi come il
marrone e un rosso scuro che simpressionavano nella
retina proprio come il verde del film di Panahi. Offside
il Contact di Jafar Panahi. La partita, per la ragazza che
allinizio si vede sul pullman ed vestita come un uomo
per poter cercare cos di entrare allo stadio, rappresenta
per lei qualcosa di simile al luogo raggiunto da Ellie
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(Jodie Foster), dove vedere vite extraterrestri che si mate-
rializzano sotto le sembianze del padre da tempo decedu-
to. L, sul campo, non vorrebbe solo vedere il match ma
soprattutto riagganciare il contatto con il suo ragazzo
morto, come lei stesso rivela nella parte finale. Il suo
pianto si confonde con gli altri suoni, ma al tempo stes-
so intenso, quasi struggente, il segno di un desiderio
impossibile negato in un momento dove un sogno impos-
sibile rester tale.
Forse quei suoni, quei rumori sono di un altro Iran.
Non quello che c ma quello che si vorrebbe che ci fosse.
Ora ce ne sono altri. E l dentro ci sono nascosti e rivela-
ti tutti i dialoghi di un film politico, di protesta, che allin-
terno mostra anche le condizioni delle classi sociali pi
disagiate, come il soldato che viene dalla campagna con
la madre malata, verso il quale c un improvviso mira-
colo, un momento di solidariet fortemente intenso da
parte della ragazza che era scappata e poi tornata pro-
prio perch, come dice lei Ero triste per le sue bestie.
Anche il suo film precedente, Oro rosso (2003), specie di
noir astratto, era unaltra immagine allo specchio di un
Paese classista dove ad avere la peggio sono i ceti pi
poveri, film che ha lasciato il segno essendo stato proibi-
to in Patria.
UN CINEMA AL FEMMINILE
Tranne Oro rosso, quello di Jafar Panahi un cine-
ma al femminile. Il punto di vista deciso, chiara-
mente orientato anche in Offside. Ci sono figure
diverse, da quelle pi silenziose ad altre che si fanno
meno scrupoli e sfidano apertamente lautorit
maschile. In ogni caso la macchina da presa di
Panahi spesso addosso a loro, le fronteggia sul
volto, le (in)segue condividendone le ansie, come nel
momento in cui la prima ragazza cerca di superare i
controlli per entrare a vedere la partita. Non una
soggettiva, ma quasi. Standole cos appiccicato,
seguendola da dietro, quasi attaccato alla nuca, il
cineasta ne condivide tutti i battiti del cuore. Si sente
la paura addosso. Ogni persona che incrocia potreb-
be essere quella che la scopre e la smaschera. C, un
momento di straordinaria tensione ed quello in cui
cerca di comprare il biglietto dal bagarino. Si avver-
te quello che sente, tra il tentativo di provarci e la
rinuncia, prima di parlare alluomo e chiudere la
trattativa il prima possibile. Lui prima non le vuole
vendere il biglietto, poi glielo d a un prezzo ben
maggiore rispetto al precedente cliente.
Quelli di Offside sono diversi ritratti, dalla ragaz-
za vestita da soldato a quella pi aggressiva, da
quella timida che ha perso lo zio, allaltra che prova
a scappare dal soldato per vedere la partita. Una
galleria ideale, quella del cinema di Panahi, che
parte proprio dal suo primo lungometraggio. Il
pedinamento quasi zavattiniano quello di Il pal-
loncino bianco (1995) e soprattutto Lo specchio
(1997). La coralit, il tentativo di cambiare la pro-
pria vita e soprattutto la propria condizione, lim-
magine di Teheran come spazio claustrofobico da
cui impossibile scappare rimanda invece a quello
che forse il suo film pi conosciuto, Il cerchio
(Leone doro al Festival di Venezia del 2000). La
vicenda della protagoniste di Offside ripercorre
quasi quella delle otto donne di quel film. Qui lo
stadio, l la prigione e lospedale. Luoghi chiusi,
con aperture sullesterno, ma spazi strettamente
sorvegliati, dove si avverte una violenza nascosta,
fatta anche di sguardi indiscreti, di prevaricazioni
quotidiane.
Se Il cerchio conteneva insieme ribellione e rasse-
gnazione, fierezza e sottomissione, Offside invece
il film di Panahi con maggiori aperture, quello che
veramente ipotizza e sogna un Paese ideale, che si
prende gioco del regime anche con la commedia,
evidente nel modo in cui a una delle protagoniste
viene imposto di non fumare o alla motivazione che
dnno alle giovani donne sul divieto di vedere la
partita in quanto ci sono gli uomini che insultano e
bestemmiano. Una sottile leggerezza, con luso di
unironia che diventa unarma di cui servirsi, atte-
nua a tratti un dramma avvolgente, che tocca per il
modo in cui aderisce alla vita di ogni singola pro-
tagonista. Sono passati cinque anni da questopera
che, in una filmografia estremamente interessante,
forse il suo capolavoro. Forse gi proiettato nel
futuro. In attesa del suo prossimo film. Subito, non
tra ventanni.
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Quella di un neat little horror film. Cos John
Carpenter ha definito la sceneggiatura di The Ward,
firmata dai semisconosciuti fratelli Rasmussen, quel-
la che lha convinto a tornare su un set cinematogra-
fico. Laccento, in questa definizione, va sullaggettivo
neat: termine anglosassone che, a seconda delle sfu-
mature e delle frasi, si traduce con corrispettivi italia-
ni come ordinato, pulito, liscio, accurato, armonioso,
chiaro e perfino bello. L va fatto cadere laccento per-
ch il ritorno alla regia di uno dei registi pi amati
degli ultimi trentanni, a nove anni di distanza dal
sottovalutato Fantasmi da Marte, esattamente quel-
lo: neat.
Fin dallinizio, il progetto di The Ward stato cir-
condato da un lato da unelettricit palpabile dovu-
ta allattesa di un comeback sperato troppo a lungo,
dallaltro da una sottile ma palpabile vena di scetti-
cismo. Un film su commissione, si diceva. Un film
alimentare: a dimostrarlo, una trama assai poco
carpenteriana, sulla carta. Come se poi ci fosse qual-
cosa di male, in tutto questo.
Carpenter, da vecchia volpe qual , era ovviamente
consapevole di tutto questo, e con il suo film pare aver
Titolo originale: The Ward. Regia: John Carpenter.
Sceneggiatura: Michael Rasmussen, Shawn Rasmussen.
Fotografia: Yaron Orbach. Montaggio: Patrick McMahon.
Musica: Mark Kilian, John Carpentet. Scenografia: Paul
Peters. Costumi: Lisa Caryl. Interpreti: Amber Heard
(Kristen), Lyndsy Fonseca (Iris), Danielle Panabaker
(Sarah), Jared Harris (il dottor Stringer), Mamie Gummer
(Emily), Mika Boorem (Alice), Laura-Leigh (Zoey), Sean
Cook (Jimmy), Sydney Sweeney (Alice da ragazzina),
Jillian Kramer (il fantasma di Alice), Sali Sayler
(Tammy), D.R. Anderson (Roy), Susanna Burney (linfer-
miera Lundt), Mark Champberlin (il signor Hudson),
Andrea L. Petty (la signora Hudson), Tracey Schornick,
Kent Kimball (il poliziotti). Produzione: Peter Block,
Mischa Jakupcak, Doug Mankoff, Mike Marcus, Andrew
Spaulding per Echo Lake Entertainment/A Bigger
Boat/North by Northwest Entertainment/Premiere
Picture/FilmNation Entertainment/Modern VidioFilm.
Distribuzione: Bim. Durata: 88. Origine: Usa, 2010.
Kristen, una giovane donna bella e disturbata, si ritrova
coperta di lividi e di tagli, imbottita di sedativi e rinchiu-
sa contro la sua volont in un inaccessibile reparto di un
ospedale psichiatrico. completamente
disorientata e non ha idea di quale sia il
motivo per cui finita in quel posto, n
alcuna memoria della sua vita prima del
ricovero. La sola cosa che sa che non
al sicuro. Le altre pazienti del reparto,
quattro giovani donne altrettanto distur-
bate, non sono in grado di fornirle alcuna
risposta e ben presto Kristen si rende
conto che le cose non sono come sembra-
no. Laria densa di segreti e di notte,
quando lospedale buio e sinistro, sente
dei suoni strani e terrificanti. A quanto
pare non sono sole. Una a una, le altre
ragazze cominciano a scomparire e
Kristen deve trovare il modo di fuggire da
quel luogo infernale prima di diventare
anchessa una vittima.
THE WARD - IL REPARTO John Carpenter
Nel profondo dellimmagine
Federico Gironi
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coscientemente deciso di giocare sulle aspettative e i
pregiudizi. Spiazzando con malizia, lasciando che i
malevoli avessero la vita facile. Dando limpressione di
non essere affatto interessato ad aggiungere del suo in
maniera minimamente rilevante a una trama chiara-
mente derivativa e senza particolari tratti di originali-
t. Di pi: di essersi ben guardato dal lavorare su per-
sonaggi e intreccio in maniera tale da aprire la storia
a possibili letture interpretative che travalicassero o
metaforizzassero la narrazione, in senso politico,
sociologico, financo psicologico. E di aver voluto lavo-
rare in maniera quasi esclusiva su un aspetto formale
caratterizzato da uneleganza fluida e cristallina: dal-
lessere neat con straordinaria consapevolezza.
Eppure, cos facendo, firmando un film piccolo,
minore nel senso pi positivo e sfaccettato del termi-
ne, apparentemente lontano da ogni forma di car-
penterismo cos come viene tradizionalmente e
banalmente inteso facendo quasi lo shooter John
Carpenter ha fatto di The Ward unopera non solo
straordinariamente personale, ma soprattutto in
grado di riaffermarne in pieno lo statuto autoriale, e
di rebootare il concetto stesso di autorialit.
Laddove, in un film che a The Ward teoricamente
speculare come Shutter Island, Martin Scorsese cerca-
va nel sovraccarico barocco e vagamente postmoderno
la chiave per aprire (e aprirsi a) un genere, per impa-
dronirsi di coordinate narrative cos come dellatten-
zione dello spettatore, immergendosi nellintrigo fino a
risultarne prigioniero, John Carpenter (si) smantella
(da) strutture e sovrastrutture, mirando a unessenzia-
lit formale e narrativa che si traduce irrimediabil-
mente in un amplificato surplus emozionale e di ten-
sione. La pulizia e leleganza semplice e sartoriale
della forma, quindi, diventa in The Ward il luogo dove
massimamente echeggia lagitarsi convulso del conte-
nuto, entrando in risonanza per via del suo essere
costretto e ordinato.
Forte di unesperienza che gli permette di sapere a
occhi chiusi quello che non deve essere fatto, il
regista americano si appoggia quindi con sicurezza
al canovaccio narrativo a sua disposizione senza
nemmeno porsi il problema di non svelare. O non
svelarsi. Fin dal principio. Perch la splendida
sequenza iniziale dei titoli di testa nella quale
liconografia antica e moderna legata alla stregone-
ria e alla malattia mentale viene proposta in una
suadente carrellata, mentre il vetro-specchio-scher-
mo che le contiene e le propone si frantuma in mille
pezzi, e che prende il via dopo un incipit essenziale
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che si chiude con un lungo e lento carrello allindie-
tro anzi un indizio pi che esplicito di quello che
andremo a vedere e della risoluzione dellenigma
che (non) insito nella trama. E dellidea di cinema,
di immagine cinematografica, proposta dal film e
dal suo autore.
Procedendo con la storia e il dipanarsi delle vicen-
de, diventa poi chiaro che in The Ward, invece che
avventurarsi nelle profondit mentali e nelle distor-
sioni percettive della sua protagonista, come fatto
con fin troppa ansia dal gi citato Scorsese, John
Carpenter sceglie invece di esplorare la profondit
dellimmagine, del campo, dello schermo e dello
sguardo: allargando il respiro dellinquadratura,
muovendo la macchina da presa con morbidezza
inquisitiva e sinuosa, abbondando nei carrelli come
nei dolly, concedendo(si) solo la distorsione discreta
di grandangoli occasionali e mai esasperati, sempre
nel segno dellapertura.
The Ward, per e con John Carpenter, allora un
film che riafferma (anche) lo statuto primario e pri-
vilegiato dellimmagine e dello sguardo. Uno sguar-
do che nel suo caso di straordinaria limpidezza,
proprio perch puro e quindi totalmente asservito
alla storia, alla sua accurata descrizione, alle dinami-
che e alle esigenze del genere nelle sue accezioni pi
basse e popolari. E perfino a personaggi che ama
nonostante (o forse proprio perch) dichiari esplici-
tamente che la loro stessa esistenza e la loro even-
tuale morte unicamente funzionale allo sviluppo
dellintreccio, alla stimolazione di una reazione emo-
tiva e visiva in chi guarda, al procedere delle esigen-
ze filmiche e nulla pi.
Eppure lo sguardo di Carpenter (e quindi il nostro,
nella loro totale aderenza) accarezza con altrettanta
leggerezza e uguale affetto anche gli spazi
dell(in)azione, i luoghi vuoti e desola(n)ti dove loc-
chio libero di correre senza timore dimbattersi in
ostacoli, la fantasia di scatenarsi nellinterpretare
ombre e angoli bui, e dove il gimmick del facile spa-
vento a presa rapida trova il suo terreno pi fertile,
il suo parco giochi preferito. The Ward quindi
fatto tanto di figure e personaggi quanto di spazi e
luoghi: di corridoi e stanze vuote, di cortili e sgabuz-
zini, di cantine e scalinate. Perch tutto compreso
e va compreso nello sguardo che (ci) cattura, che
non lascia scampo, che comprende lo spazio e il
senso stesso dellimmagine filmica.
Cos, ecco che lo sguardo carpenteriano, apparente-
mente proteso verso unassenza di filtri personali,
metastrutturali e interpretativi, nel nome di una
purezza estetica quasi svincolata dal senso, diventa
affermazione stracarica di senso politico dellimmagi-
ne e della rappresentazione. Autoriale, appunto.
Perch pi gioca a nascondino con lo spettatore, pi
il regista di The Ward fa sentire il peso profondo e
pressante della sua presenza-assenza: quanto e pi
della fantasmatica Alice che assedia la tranquillit e
la sanit mentale e fisica della Kristen di Amber
Heard e delle sue compagne. Compagne che sono pro-
iezioni, filtri, layer di unimmagine (quella di s) che
vanno progressivamente ridotte, eliminate nel nome
di quella purezza, di quella trasparenza di sguardo
che quindi anche etica, e non solo politica.
Se alla fine del film Kristen non riesce a liberarsi
di quelle immagini, delle sovrastrutture, delle sue
proiezioni e finisce con il perire a causa di questa
sovrapposizione impossibile, ecco che John
Carpenter trova vigore e spinta vitale ed energetica
proprio nel portare allessenzialit massima laspet-
to e il contenuto del suo film. Del suo cinema e di se
stesso. Del suo essere autore. Unessenzialit che
trova calore e contatto in quelle che appaiono fred-
dezza e distanza, e che invece sono solo sintomi di
una estrema consapevolezza, di una straordinaria
comprensione di un meccanismo e del suo senso
profondo. In The Ward John Carpenter allora
lUomo invisibile, tanto pi presente e percepibile
quanto pi trasparente, tanto pi proiettato verso il
futuro quanto pi orientato verso il passato. Tanto
pi capace di fare della teoria sul genere e sui suoi
sviluppi quanto pi disinteressato alle architetture
metadiscorsive.
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Bert I.[ra] Gordon! Chi era costui? Le vecchie abitudini
sono dure a morire. Per fortuna, perch John Carpenter
non esita a rievocare un suo regista di culto come Gordon.
Continua a fare le cose che faceva trentanni fa, nonostan-
te siano intanto cambiati i modi di produzione e gli stili
collettivi. Anche The Ward risente abbastanza di un
modo di fare e di concepire limmagine, il suono e il rac-
conto decisamente mutati. Il montaggio troppo rapido,
piegato sulleffetto immediato, poco attento a prolunga-
re la suggestione rituale della singola inquadratura fissa o
in movimento. Ne risentono, ad esempio, le carrellate nel
lungo, scuro corridoio (ineluttabile corridoio della
paura) dellospedale inteso carpenterianamente come
luogo deputato di degenza/detenzione coatta, impedimen-
to fisico e perdita del controllo psichico. Dunque zona
manicomiale ad alto rischio (equivalente a quella carcera-
ria) in cui si scatena contigua la pulsione omicida (come
in In the Mouth of Madness [Il seme della follia, 1994],
certo, ma anche lintero Halloween 2 [Halloween 2 Il
signore della morte, 1981] del diligente epigono Rick
Rosenthal e la sequenza iniziale di Halloween 3: Season of
the Witch [Halloween 3 Il signore della notte, 1982] del-
lamico Tommy Lee Wallace).
Sebbene non venga adeguatamente valorizzato limpat-
to di uno dei suoi stilemi classici, lautore di The Ward rie-
sce a conservare un margine di controllo sul progetto, e
non dissimula il compromesso con istanze corrive, basate
su un gioco sterile e assai poco inquietante di azione del
film e reazione immediata dello spettatore, talmente con-
solidate da decretare la scarsa capacit da almeno ven-
tanni, salvo eccezioni e sempre pi rare, del film dellor-
rore, chiuso ormai nel vicolo cieco della serialit, della
riproducibilit, della bidimensionalit, dellusa-spaventa-
e-getta, di intercettare, (c)analizzare e restituire i fantasmi
della contemporaneit, leggere e interpretarne le paure a
essi connessi. A Carpenter non sfugge la difficolt sempre
maggiore, cronica, che i film di genere di nuova generazio-
ne hanno di durare, in tutti i sensi, dallinquadratura al
rispecchiamento storico, sociale e culturale. Ma non ne
diventa ostaggio consenziente, ben sapendo che cineasti
oramai anacronistici come lui possono fare ben poco per
arrestare una tendenza pluridecennale che ha ridotto a
puro e inoffensivo svago il fantastico cinematografico,
quanto basta per testare i riflessi giovanili i sala o davanti
a una playstation.
Poco tuttavia non vuol dire niente. E The Ward dimo-
stra come il sempre indipendente Carpenter sappia trova-
re il suo spazio persino dentro uno schema preordinato
che non sembra consentirgli una libert paragonabile a
quella pazientemente guadagnata a suon di esiti favorevo-
li al box office tra la fine degli anni Settanta e gli inizi del
decennio successivo, e ogni volta rinegoziata, rimessa in
discussione, recuperata a fasi alterne fino ai giorni nostri.
Non si tratta nemmeno di riconoscere la sua mano, secon-
do un esercizio di cinefilia sterile. N importa stabilire o
addirittura dimostrare che nel suo ultimo film egli , per
cos dire, ancora vivo e lotta insieme a noi. Occorre piut-
tosto accorgersi di come unantica propensione per quella
che Pietro Montani chiama immaginazione intermediale
offra ancora a lui, e a suoi pi o meno coetanei, lopportu-
nit di costruire un discorso che vada al di l di una vicen-
da peraltro non originale. Prova ne lutilizzo strategico
delle immagini televisive che scorrono allinterno del film,
parallelamente. Cio fare interagire brevi clip di un vec-
chio film dellamato Gordon del 1960, Tormented (intito-
lato in Italia Delitto al faro), in onda sul piccolo schermo,
con ci che accade sul grande schermo alla/e protagoni-
sta/e di The Ward.
Questo ricorso a pratiche archeologiche, filologiche,
autoreferenziali, che un tempo si sarebbero dette metalin-
guistiche o direttamente metafilmiche, onnipresenti a par-
tire dalle numerose megacitazioni hawksiane (Danilo
Arona) e che in Halloween (Halloween La notte delle
streghe, 1978) si erano tradotte nella messa in onda
ammonitrice del classico campbelliano/hawksiano The
Thing (La cosa da un altro mondo, 1951; preannun-
ciando cos lardito remake nel 1982), suggerisce fortuna-
tamente anche in The Ward la voglia di moltiplicare e
codificare, intrecciandoli, i piani mediali della rappresen-
tazione, ben oltre quelli del racconto in s, mutuato dal
lehaniano/scorsesiano, costoso, priapico Shutter Island
(id., 2010; di cui il film di Carpenter altro non che un sot-
toprodotto dichiarato, una imitazione low budget priva
per di complessi di inferiorit).
Perch, dunque, stabilire una relazione tra ci che acca-
de in quel film-contenuto (Tormented), relegato in posi-
zione subalterna, al consumo domestico, casuale, e ci che
accade nel film-contenitore (The Ward)? Innanzitutto
perch il film di Gordon riassumeva in poco pi di unora
la parabola tragica e allucinatoria di un pianista che fa
morire una fidanzata poco disposta a lasciarlo libero di
sposarsi, per essere poi perseguitato dal presunto spettro.
In questo modo The Ward svela in anticipo come la
dimensione orrorifica che agisce in superficie abbia unori-
gine mentale. Ci nonostante, proprio attraverso il richia-
mo metodico a Tormented, in cui non a caso veniva eluso
di continuo il confine tra verosimile e sovrannaturale (si
giocava cio su tutti e due i territori, senza troppa atten-
zione alla logica narrativa, secondo le regole del B-movie),
The Ward lo ospita al suo interno, proprio come il repar-
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Reparto B Movie
Anton Giulio Mancino
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to ospita le sue pazienti-detenute o, concettualmente, come
in Body Bags (Body Bags Corpi estranei, 1993), una
sorta di cosa, di ultracorpoo corpo estraneofilmico.
In questo modo insinua che la realt materiale, fisica,
istituzionale fatta di pratiche persecutorie, crudeli, vessa-
torie tipiche del potere psichiatrico tradizionale, non pu
smettere mai di spaventare. E che il vero pericolo, la vera
minaccia repressiva da sfuggire, vincere, ben pi dello
spettro-zombie omicida immaginario, sia la prigionizza-
zione come la definisce Michel Foucault qui masche-
rata da ospedalizzazione: gli emissari in camice bianco
(uomini e donne, paramedici e medici, tutti) e gli stessi
luoghi sinistri del potere (la clinica, i reparti, tutti), indi-
pendentemente dalla rivelazione finale, fin troppo prevedi-
bile dopo Shutter Island, a sua volta debitore in pectore
del Shock Corridor (Il corridoio della paura, 1963) di
Samuel Fuller, inaugurato da una ineccepibile citazione
euripidea (Dio per prima cosa rende pazzo colui che
vuole distruggere) nonch prodotto tre anni dopo dalla
stessa Allied Artists di Tormented o Il delitto del faro che
dir si voglia.
C poi un secondo motivo che spinge Carpenter a sta-
bilire un rapporto feticistico con questo piccolo film di
Gordon: lanonimato che caratterizza le presenze femmi-
nili. In Tormented, infatti, non si capisce bene perch il
protagonista dovrebbe respingere la supermaggiorata Vi,
facendola morire senza piet, per sposare laltrettanto ste-
reotipata ragazza di buona famiglia Sandy. Allo stesso
modo, ma capovolgendo lassunto gordoniano, special-
mente quando, un po come nel finale di Inland Empire
(Inland Empire Limpero della mente, 2006) di David
Lynch, ballano tutti assieme sulle note della spensierata
ma indicativa Run, Baby Run dei Newbeats, le ragazze
rivelano essere varianti culturalmente equivalenti di un
modello femminile anni Sessanta, capeggiate dalla pi
emancipata di tutte, la ribelle Kristen. Che incarna non
soltanto la capobranco ma anche la componente domi-
nante e vincente di un soggetto femminile multiplo in fuga
per la sopravvivenza.
Espressione viva di una personalit schizoide che ha
bruciato la sua casa e il passato negletto, Kristen lunica
in grado di contestare lautorit ospedaliera, affrontare le
sfide, gli ostacoli, i divieti e traghettare questa composita
serie di ragazze-oggetto, figure stereotipate e sottomesse,
modulari e riproducibili, in un clima nuovo, controcultu-
rale, sessantottino: la vicenda, originariamente concepita
per essere ambientata nel presente, stata poi spostata da
Carpenter prima negli anni Cinquanta, dove per rischia-
va troppo il confronto svantaggioso con Shutter Island,
poi nel 1966. Per lui, un anno di transizione: dai primi
cortometraggi molto indipendenti del 1961-1962, che imi-
tano la fantascienza povera o il fantasy eroico sulla falsa-
riga anche dei film di Gordon, allammissione proprio nel
1968 alla prestigiosa University of Southern California,
egli continua a esibirsi come bassista e cantante seguendo
in parte le orme paterne. Desidera infine rispecchiarsi o
richiamarsi allingenuit pur suggestiva di Tormented per
sottolineare la vocazione per un cinema, se necessario, di
serie B, orgogliosamente di serie B, ma potenzialmente
dautore, sottilmente complesso in quanto mai vittima di
una presunzione produttiva che altrimenti naufraghereb-
be nelleccesso, nellostentazione.
Insomma, The Ward non cade nella trappola di trasfor-
marsi, senza averne peraltro i mezzi, in un B-movie gon-
fiato con gli estrogeni come Shutter Island. esattamente
quello che sembra, anche malgrado lo stile un po soffoca-
to dellautore: unopera minore, semplice, di genere, non
originale. La cui intelligenza, profondit, densit semanti-
ca per fortuna inversamente proporzionale allinuti-
le presunzione di grandezza. C dentro tutto: la violenza
maschilista, premessa del trauma femminile, destinata tut-
tavia essere respinta solo momentaneamente: la ricompo-
sizione psichica-familiare-istituzionale viene contraddetta
nel finale convenzionale ma coerente con un incubo sem-
pre-aperto, ambivalente, a tempo indeterminato; la capa-
cit di saper commisurare le risorse alle aspettative e di
usare come sottotesto esplicativo un piccolo film senza
pretese che, con il suo faro, luogo del delitto, porta allo
scoperto, in chiave psicanalitica, intertestuale e interme-
diale, ambizioni eccessive quali quelle riassunte nellim-
magine simbolica, fallica del faro di Shutter Island.
Sostituito invece in The Ward dal metronomo che lo psi-
chiatra infligge alle ragazze-vittime.
E a proposito di fantasmi letali, in Tormented in un
ruolo di antipatico ricattatore cera anche un caratterista
molto caro a Stanley Kubrick, il sinistro Joe Turkel, che in
Shining sarebbe diventato la reincarnazione allucinatoria
del custode pluriomicida. Non resta che chiedersi: dopo
questa promettente mise-en-abme, a quando il remake
carpenteriano di Tormented?
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JU TARRAMUTU
Paolo Pisanelli
Regia, sceneggiatura e fotografia:
Paolo Pisanelli. Montaggio: Matteo
Gherardini. Musica: Animammersa.
Suono: Biagino Bleve, Bruce Morri-
son. Voci narranti: Antonella Coc-
ciante, Patrizia Bernardi. Produzio-
ne: Andrea Stucovitz, Paolo Pisanel-
li per Big Sur/Partner Media Inve-
stment/OfficinaVisioni. Distribuzio-
ne: ZaLab. Durata: 89. Origine: Ita-
lia, 2010.
Approdato in sala e rimasto giusto il
tempo di un paio di spettacoli, in
coincidenza con il secondo anniver-
sario della tragedia abruzzese, Ju
tarramutu di Paolo Pisanelli un
documentario con una solida vita,
innanzitutto produttivo-realizzativa,
ma anche festivaliera. Attenzione
dunque a etichettarlo come mero
prodotto celebrativo perch il lavoro
di Pisanelli, svolto invece con una
dovizia impressionante e un tocco
sensibile e rispettoso, tutto fuorch
un compendio televisivo col quale
intonare lennesimo coro al Caima-
no B., n lennesimo attacco in stile
Moore alla ricostruzione aquilana.
Distante dunque sia dai finti spot di
Vespa e del suo salotto (giustamente
definito, con mestizia tutta italiana,
la terza camera del Parlamento)
sia da Sabina Guzzanti, che col suo
Draquila LItalia che trema ha
tracciato uno spaccato cinematogra-
ficamente lodevole, anche se proba-
bilmente utile solo per chi era gi
dallaltra parte della barricata.
Pisanelli, con un lavoro sul campo
durato mesi, compie una sorta di
viaggio on the road tra le fratture di
una terra, quella abruzzese, orgo-
gliosa e fiera ma ancora ferita da un
terremoto imponente e piegata da
alcune scelte delle istituzioni che
sembrano mirate esclusivamente a
tenerne sotto controllo ogni even-
tuale reazione. Un viaggio anti-nar-
rativo, con fili che si intrecciano, che
poi non sono altro che vite, storie e
volti che si accavallano, e soprattut-
to voci, tante, impressionanti,
imperscrutabili. Un viaggio prima di
tutto tra i suoni per sentire, pi che
per capire.
Eccolo il vero quid di Ju tarramutu,
lasciare spazio alle emozioni che una
voce o un rumore possono suggerire,
piuttosto che continuare a cercare di
capire i perch e i per come di una
tragedia. Via la testa, il cervello, gli
specialisti con la loro razionalit, la
loro (dis)umanit tecnica, dentro il
cuore, la voce, le emozioni e perch
no i fantasmi di una citt intera
(LAquila) che non c pi. Ju tarra-
mutu si compone dunque con una
progressiva e naturalissima immer-
sione nelle terre abruzzesi, senza for-
zare lo spettatore a una troppo fitti-
zia identificazione, ma lasciando
invece che fosse il film stesso a coagu-
larsi intorno a esso.
Loperazione di Pisanelli sottilissi-
ma: in un certo senso si ha come
limpressione che la missio-
ne del regista sia quella di
sostituire la sovrastruttura
mercificata e soprattutto
massificata che i principali
mezzi di comunicazione
hanno contribuito a realizza-
re con una pi umana e
reale, incentrata sia sul pre-
sente, con le facce i volti e le
voci dei sopravvissuti, che
sulla memoria, con il suo
corollario di sofferenza, di
rumori terribili e di paure
ancestrali. A partire dal tito-
lo dialettale, insomma, in Ju
tarramutu chiara la scelta
di partire dal locale ed evitare, ma
anche ragionare, sulla medializza-
zione dellevento (non c dubbio
che il terremoto dellAquila sia stato
uno dei primi e pi importanti
esempi di sovraesposizione mediati-
ca di una tragedia).
Pi di una volta, infatti, Pisanelli
contrappone filmicamente la spoglia
realt di un capannone della rico-
struzione, in cui campeggia una tele-
visione, ai messaggi berlusconiani
che passano proprio su quello stesso
schermo, sui presunti viaggi-premio
e campeggi che i terremotati avreb-
bero vinto in seguito al terremoto.
Nel silenzio e nel vuoto dei contai-
ner riecheggia la propaganda del
Caimano, ma anche le delittuose (e
ormai tristemente famose) intercet-
tazioni della cricca di costruttori che
la notte del terremoto se la rideva di
gusto in attesa di rimontare un gio-
cattolo da milioni di euro.
Non cinema di sdegno n di
denuncia quello di Pisanelli, ma un
semplice testimoniare i destini di
una citt ancora preda di una miria-
de di speculazioni edilizie (ivi inclu-
se alcune dubbie operazioni perpe-
trate dalla longa manus della Chiesa
Cattolica, marginalmente dibattute
qui come gi nel lavoro della Guz-
zanti). Con lidea, fissa e quasi
dmod, di fare cinema, e non tribu-
na politica.
Lorenzo Leone
LO STRAVAGANTE
MONDO DI GREENBERG
Noah Baumbach
Titolo originale: Greenberg. Regia e
sceneggiatura: Noah Baumbach.
Soggetto: Noah Baumbach, Jennifer
Jason Leigh. Fotografia: Harris
Savides. Montaggio: Tim Streeto.
Musica: James Murphy. Scenogra-
fia: Ford Wheeler. Costumi: Mark
Bridges. Interpreti: Ben Stiller
(Roger Greenberg), Greta Gerwig
(Florence Marr), Jennifer Jason
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IN SALA
I FILM
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Leigh (Beth), Rhys Ifans (Ivan
Schrank), Chris Messina (Phillip
Greenberg), Brie Larson (Sara),
Juno Temple (Muriel), Susan Traylor
(Carol Greenberg), Merritt Wever
(Gina), Zach Chassler (Marlon),
Mina Badie (Peggy), Blair Tefkin
(Megan), Mark Duplass (Eric Bel-
ler), Jake Paltrow (Johno), Dave
Franco (Rich), Max Hoffman
(Jerry), Ramona Gonzalez (Anita),
Alessandra Balazs (Olivia), Nick
Cordella (Jordan). Produzione: Jen-
nifer Jason Leigh, Scott Rudin per
Scott Rudin Productions. Distribu-
zione: Bim. Durata: 107. Origine:
Usa, 2010.
Roger Greenberg un altro dei per-
sonaggi facenti parte della galleria
di individui smarriti nel tempo e
nello spazio proposti al pubblico da
Noah Baumbach in qualit di regi-
sta e come sceneggiatore di Wes
Anderson. Greenberg, a cui dona la
sua maschera tirata e irregolare un
insolito Ben Stiller, appena uscito
da una clinica psichiatrica a causa
di un forte esaurimento nervoso che
pare averne cancellato con un deci-
so colpo di spugna gli ultimi quindi-
ci anni di vita. Un blackout che, da
New York, citt in cui si era trasferi-
to dopo la fallita scalata al successo
con un promettente gruppo rock, lo
riporta alle origini, da dove tutto ha
avuto inizio, in una Los Angeles
assolata e caliginosa, per risiedere a
casa del fratello, partito con la fami-
glia per il Vietnam.
Visto in questottica, il film di
Baumbach asseconderebbe una let-
tura di primo livello sulle differenze
sostanziali tra lEst e lOvest, sullo
sradicamento di un newyorchese e
sulla sua logica di adattamento nella
Citt degli Angeli, contesto insolito
ed esteso in cui, davanti allocchio
stupito dellabitante della costa
atlantica, i californiani si mostrano
attenti a non eccedere nellutilizzo
del clacson pur vestendosi perenne-
mente come bambini un po troppo
cresciuti.
Quelle offerte da Baumbach tramite
linadeguatezza del personaggio
interpretato da Ben Stiller, tuttavia,
sono soltanto pennellate contestua-
lizzanti che servono a definire
caratteri e situazioni attraver-
so limmediatezza definitoria
di un dialogo o di unimmagi-
ne (come il piano dallalto che
inserisce Greenberg allinter-
no della festa all californian
del suo amico di un tempo
Beller, unica sagoma immobi-
le in maglione e giubbotto
smanicato in mezzo a una
moltitudine di t-shirt e bermu-
da in disordinato movimento).
Il discorso proposto, in realt,
si pone al di l della newyor-
chesit che anche regista e
interprete possono vantare, e
che ha fatto collocare Greenberg da
molta critica allinterno della tipica
galleria di personaggi alleniani, rife-
rimento obbligato in caso di croni-
che insicurezze e carenze emotive
con matrice nella Grande Mela.
Senza esservi completamente alieno,
Greenberg deve per il suo smarri-
mento a una personale interruzione
spazio-temporale in cui la dicotomia
est/ovest non principio fondante,
ma dinamica dislocante di una crisi
pi ampia che coinvolge la sua inca-
pacit di relazionarsi nel presente.
Anche perch, ed notazione ele-
mentare, Greenberg originario di
Los Angeles, e il suo solo un ritor-
no a casa dopo il trauma nervoso
che ha rimesso in discussione tutte
le scelte che lo hanno portato ad
abbandonare la citt tre lustri
prima. Una forma di disagio che uti-
lizza lhic per soffermarsi sul nunc e
che Baumbach, attraverso una scrit-
tura accurata e una regia attenta al
dettaglio e alla strutturazione dello
spazio, restituisce concentrandosi
sulla relativit di un tempo appa-
rentemente bloccato e sulle dinami-
che di interazione irrimediabilmente
inibite.
La messa in scena di una palese
immobilit dello spirito si inscrive
in un rapporto particolare attuato
con gli elementi profilmici, i quali,
aiutati dallevidenza dei dialoghi,
diventano lo specchio progressivo di
uno sviluppo della vicenda che altri-
menti rimarrebbe ferma al momento
della crisi e allimpossibilit di uno
spiraglio possibile.
Da un lato, il volto atarassico di Ben
Stiller si adagia in continui riferi-
menti a un passato da cui non si
mai distaccato, quasi si trattasse di
unideale et delloro oltre la quale
esiste soltanto il nulla dei valori e
delle prospettive: il suo tempo libero
da riempire costantemente con
pellicole della seconda met degli
anni Ottanta (Mannequin di Micha-
el Gottlieb e Gung Ho di Ron
Howard), il viaggio in Australia di
sua nipote si traduce in una canzone
dei Kinks del 69, la tirata di coca
alla festa dei teenagers necessita del-
laccompagnamento di The Chauf-
feur (da Rio, album dei Duran
Duran dell82).
Baumbach offre nella sceneggiatura
continui riferimenti a un passato
melmoso che funge da prigione delle
sensazioni per Greenberg, ma al
contempo ne mostra linerziale svi-
luppo relazionando metonimica-
mente il personaggio con gli oggetti
con cui entra nevroticamente a con-
tatto. Infatti, se Greenberg spesso
ostacolato nella sua interazione
verso lesterno da filtri scenografici
(vetri, finestre, stipiti, soglie din-
gresso, balconi), tramite la ripeti-
zione degli stessi elementi che espri-
me la sua torpida evoluzione, altri-
menti uniforme e indeclinabile.
Il burro di cacao come perpetua
coperta di Linus, una lettera di pro-
testa, tra le tante inviate, che infine
trova la sua giusta collocazione sulle
pagine del New York Times, oppu-
re il telefono, loggetto principale.
Veicolo di collegamento possibile
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con lesterno, diaframma di autodi-
fesa e infine, pur tra una moltitudi-
ne di dubbi, modalit per congiun-
gersi con laltro.
Baumbach narra un percorso di for-
mazione minimalista dagli sviluppi
implosi: Greenberg si dichiara a Flo-
rence, ma lo fa per mezzo della
segreteria telefonica; il suo solo un
attestato di esistenza, non una con-
quista. Una messa a fuoco da parte
dellobiettivo della macchina da
presa mentre si sta apprestando ad
attraversare una strada, non il rag-
giungimento della felicit.
Giampiero Frasca
KICK-ASS
Matthew Vaughn
Titolo originale: id. Regia: Matthew
Vaughn. Soggetto: dallalbo a fumetti
omonimo di Mark Millar e John
Romita jr. Sceneggiatura: Jane Gol-
dman, Matthew Vaughn. Fotografia:
Ben Davis. Montaggio: Eddie Hamil-
ton, Jon Harris, Pietro Scalia. Musica:
Marius De Vries, Ilan Eshkeri, Henry
Jackman, John Murphy. Scenografia:
Russell De Rozario. Costumi: Sammy
Sheldon. Interpreti: Aaron Johnson
(Dave Lizewski/Kick-Ass), Christo-
pher Mintz-Plasse (Chris
DAmico/Red Mist), Mark Strong
(Frank DAmico), Chlo Grace Moretz
(Mindy Macready/Hit-Girl), Nicolas
Cage (Damon Macready/Big Daddy),
Clark Duke (Marty), Evan Peters
(Todd), Lyndsy Fonseca (Katie
Deauxma), Michael Rispoli (Big Joe),
Garrett M. Brown (il signor Lizew-
ski), Elizabeth McGovern (la signora
Lizewski), Xander Berkeley (il detec-
tive Gigante), Omari Hardwick (il ser-
gente Williams). Produzione: Adam
Bohling, Tarquin Pack, Brad Pitt,
David Reid, Kris Thykier, Matthew
Vaughn per Plan B Entertainment.
Distribuzione: Eagle. Durata: 117.
Origine: Gran Bretagna/Usa, 2010.
Non ci sono pi i supereroi di una
volta. Sono lontani i deliri schizoidi di
Batman, le ingenuit fascistis-
sime di Superman, i sensi di
colpa (da frustrazione sessuale)
di Spider-Man. Da Alan Moore
in poi e il gruppo agguerri-
to e di non poco talento, fra
Garth Ennis e Grant Morrison,
Mark Millar e Brian Vaughn ,
lungi dallessere valvole di
sfogo dellimmaginario colletti-
vo e dal cristallizzarne lincar-
nazione in maschera e collant
dei sogni migliori, i supereroi
sono pi spesso il concentrato
di quanto di peggio la societ
possa esibire. Sono incubi, pi
che desideri (ecco perch sua
maest Moore si chiedeva chi control-
lasse i controllori).
Avremmo voluto concentrarci anche
su un aspetto solo parzialmente cine-
matografico del film di Vaughn. Lo
accenneremo qui, a mo di provoca-
zione: ben prima delluscita in sala,
Kick-Ass stato visto da qualsiasi fan
del fumetto, e non solo da lui, in modo
pi o meno consentito (lo dimostrano
centinaia di forum dedicati). Quand
che la critica comincer a occuparsi
dei nuovi ma sempre pi diffusi modi
di fruire il cinema e di come questi
stiano influenzandone anche la retori-
ca? Gli spettatori sono pronti. E gi
da un po.
La trasposizione di Matthew Vaughn
del capolavoro di Mark Millar e
John Romita jr. non va sottovaluta-
ta proprio per come si colloca e si
muove dentro un percorso in dive-
nire, in una deriva che pare segnare
la frantumazione progressiva di
certe ingenuit daltri tempi (anche
per questo curioso che al regista
sia stato affidato limminente X-
Men Linizio, versione blockbu-
ster, non parodia).
Insomma, ucciso il sogno america-
no, quello vero, da un po si attenta
anche alla sua declinazione fasulla,
cartacea, a strisce (e senza pi stel-
le). Tuttavia, si limitasse alla deni-
grazione delle illusioni superomisi-
che della cultura occidentale, il film
di Vaughn ripeterebbe pedissequo
loperazione delloriginale e a dirla
tutta, con molta meno ferocia del
fumetto. No, come lepilogo del
Watchmen di Zack Snyder, il Kick-
Ass in pellicola si discosta non poco
dalla sua fonte e va a (s)parare in
una direzione imprevista ma preci-
sa, addirittura didascalizzata dalla
messinscena in pi di unoccasione.
Se quello di Millar era uno scagliar-
si brutale contro lingenuit suppo-
sta dei nostri miraggi (eroici) con
lintento di evidenziarne i lati oscuri
e morbosi, la messinscena di Vaughn
tralascia i sogni e parla ai sognatori.
A noi, dritto in faccia. Via dallesse-
re un caleidoscopio post-moderno
che miscela citazioni pi o meno
colte e rimandi crossmediali, registri
diversi e sorgenti dogni tipo, Kick-
Ass un instant movie. un frul-
lato di cultura pop contemporanea.
E lo , soprattutto, quando abban-
dona il fumetto da cui tratto.
Lepilogo sopra le righe col jetpack, i
duelli contrappuntati ora da Morri-
cone, ora da Bad Reputation di Joan
Jett si badi bene, nella colonna
sonora c la versione delle Hit Girls,
ch oggi la musica continuo rema-
ke , la video esecuzione in diretta in
stile al-Qaeda, la sequenza in sogget-
tiva e in visione notturna appena
dopo presa di peso dallestetica di
un qualsiasi first person shooter
videoludico , luso di MySpace,
labuso di iPhone; addirittura il per-
sonaggio di Big Daddy, una parodia
del cavaliere oscuro di Christopher
Nolan che nel fumetto ha e fa tut-
taltra figura. Gli indizi sono chiari: la
realt di Vaughn la nostra, qui e
oggi. Non bastasse, c pure un car-
tellone pubblicitario di Claudia Schif-
fer, moglie del regista dal 2002.
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Ecco perch la messinscena un con-
tinuo chiamare in causa lo spettatore:
gli sguardi in camera dei protagonisti,
il voice over da noir (che a un certo
punto, guarda caso, cita pure Il viale
del tramonto e quella parabola dog-
gid che American Beauty), Red
Mist che nellepilogo ci spara in fac-
cia, Hit-Girl che poco prima aveva
chiuso la sequenza dellesecuzione
live spegnendo la telecamera (intra ed
extradiegetica) con tanto di saluto
agli astanti: Fuck you.
Brava, fottiamoci. I tizi, tutti gli
altri, che stanno a guardare mentre
qualcuno se la vede brutta dallaltra
parte dello schermo siamo noi, spetta-
tori di al-Qaeda tv, hard-core gamer
da fps online, maniaci di MySpace e
Facebook, habitu di scene con mani
di bimbo armate (Tre stronzi si sca-
gliano su un uomo mentre tutti gli
altri guardano e tu chiedi cosa non va
in me?). E se non ci sono pi i supe-
reroi di una volta, solo perch non ce
li meritiamo.
Emilio Cozzi
FROZEN
Adam Green
Titolo originale: id. Regia e sceneg-
giatura: Adam Green. Fotografia: Will
Barrat. Montaggio: Ed Marx. Musica:
Andy Garfield. Scenografia: Bryan
McBrien. Costumi: Barbara Nelson.
Interpreti: Emma Bell (Parker
ONeil), Shawn Ashmore (Joe Lynch),
Kevin Zegers (Dan Walker), Ed
Ackerman (Jason), Rileah Vanderbilt
(Shannon), Kene Hodder (Cody),
Adam Johnson (Rifkin), Christopher
York (Ryan), Peter Melhuse (lauti-
sta). Produzione: Peter Block, Cory
Neal per A Bigger Boat/Ariescope
Pictures. Distribuzione: M2. Durata:
93. Origine: Usa, 2010.
Si svuota progressivamente lo spa-
zio in Frozen. Proprio come 127 ore
di Danny Boyle, che parte da dai
titoli di testa con uneccessiva densi-
t fino a filmare il protagonista som-
merso dal paesaggio. Qui sono i tre
personaggi principali, la coppia for-
mata da Dan e Parker e lamico di
lui Joe, appassionati di snowboard,
a essere bloccati sulla seggiovia
prima dellultima discesa. Consape-
voli che limpianto non riaprir fino
al week-end successivo, i ragazzi
cercano un modo per abbandonare
la montagna prima di morire conge-
lati. Il buio della notte con il bianco
della neve sono gi un acceso con-
trasto di un horror pieno di felici
intuizioni, che ha lo spirito e lessen-
zialit quasi da B-movie, che fa sen-
tire addosso i brividi del freddo e le
continue ombre della morte che si
affacciano a pi riprese.
Per Adam Green, anche sceneggia-
tore del film, Frozen rappresenta
unaltra variazione tra le forme del
genere, dove il luogo diventa minac-
cioso come le paludi vicino New
Orleans di Hatchet, oppure con la
mente dei ragazzi che quasi anticipa
delle sconcertanti visioni (immagi-
nazioni che pur non prendendo
forma visivamente sembrano conta-
giare locchio dello spettatore facen-
dogli vedere qualcosaltro oltre
quello che inquadrato) prima che
queste accadano nella realt assimi-
labili ai detour hitchcockiani del suo
Spiral. Dagli squarci da teenager-
movie forse un po riciclato e legger-
mente tirato oltre misura, con la
marcata sottolineatura delle dinami-
che sentimentali, Frozen cambia
improvvisamente faccia dal momen-
to in cui si spengono le luci dellim-
pianto sciistico, anche se tracce di
nascosta tensione erano gi
presenti soprattutto nel
modo in cui sono amplificati
certi dettagli sonori come i
rumori della seggiovia.
Il corpo solo a contatto
con la natura. Senza per la
volontaria sfida e il flusso
esistenziale dove il futuro
cancella il passato del gran-
dioso Sean Penn di Into the
Wild. Qui in Frozen c,
invece, un tentativo dispera-
to di recuperare il passato.
Immobilizzati in quella seg-
giovia che diventata
improvvisamente crocevia
tra la vita e la morte, i tre protago-
nisti vorrebbero riprendere quella
normalit che ora ai loro occhi
straordinario miracolo. Quando si
sono addormentati e si risvegliano
hanno, per un brevissimo istante, il
desiderio che si tratti solamente di
un brutto sogno.
Green, malgrado qualche dialogo
ancora di troppo l sulla seggiovia,
riesce a far avvertire i pensieri
paralleli in una situazione di con-
creta drammaticit. Da una parte
c la mutazione del corpo, a con-
tatto col gelo, anche con il passag-
gio di una tempesta di neve, dove
ogni ulteriore scatto temporale
diminuisce progressivamente la
speranza di salvezza.
Frozen lavora in maniera esemplare
sui dettagli (il sangue sul guanto, la
mano congelata nella seggiovia),
sottolinea ogni movimento dispera-
to senza enfasi (il sedile che si sgan-
cia, uno dei protagonisti che cerca di
passare da una seggiovia allaltra)
con i rumori apparentemente inno-
cui che, per, possono diventare
simile a quelle tracce sonore infer-
mali del cinema di Tobe Hooper.
Dallaltra c invece labisso del
vuoto. Laltezza diventa incolmabile
profondit. Il salto dalla seggiovia
come vertigine. In quella sua provvi-
soria dimensione astratta dove tutto
sembra essersi fermato per sempre,
Frozen un film che ha la capacit
di aggredire direttamente, di far sen-
tire le ossa che si spezzano, il sangue
e il corpo che diventa preda per lupi
affamati.
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Il paesaggio innevato viene inqua-
drato come se fosse il mare aperto,
qui limitato ma che appare stermi-
nato, dove le vie di fuga sono ridot-
tissime. In unopera che fa recupera-
re la sintesi di un cinema artigiana-
le essenziale e dimmediato impatto,
c anche un tocco di gran bel cine-
ma come quello di non mostrare la
tragica fine di Joe, facendolo per un
attimo sparire nel nulla, dando una
provvisoria illusione a Parker. Fro-
zen non concede nulla, e ha giovani
attori ispirati, dal pi famoso Kevin
Zegers (visto in Transamerica) alla
rivelazione Emma Bell. Se dopo
tanti informi sequel del cinema hor-
ror degli anni Settanta e Ottanta, si
ripartisse da film che hanno uno spi-
rito simile a Frozen, forse c ossige-
no per una nuova possibile vitalit
nel genere.
Simone Emiliani
LA FINE IL MIO INIZIO
Jo Baier
Titolo originale: Das Ende ist mein
Anfgang/La fine il mio inizio.
Regia: Jo Baier. Soggetto: dal libro
omonimo di Tiziano e Folco Terza-
ni. Sceneggiatura: Folco Terzani,
Ulrich Limmer. Fotografia: Judith
Kaufmann. Montaggio: Claus
Wehlisch. Musica: Ludovico
Einaudi. Scenografia: Eckart Friz.
Costumi: Gerhard Gollnhofer.
Interpreti: Bruno Ganz (Tiziano
Terzani), Elio Germano (Folco Ter-
zani), Rika Pluhar (Angela Terza-
ni), Andrea Osvrt (Saskia Terza-
ni), Nicol Fitz-William Lay
(Novi). Produzione: Manfred Brey,
Ulrich Limmer per Collina
Film/B.A. Produktion/Bayerischer
Rundfunk/Sdwestrundfunk/Arte/
Dageto Film/Beta Film/Rai Cine-
ma. Distribuzione: 01. Durata: 98.
Origine: Germania/Italia, 2010.
Cerchiamo di tenere separati due
versanti: da un lato, la vita di Tizia-
no Terzani, le sue avventure di invia-
to dai fronti caldi dellAsia durante
la guerra del Vietnam o la Rivoluzio-
ne maoista, lattivit di scrittore, la
svolta mistica e il ritiro sullHima-
laya, le riflessioni in punto di morte
raccolte dal figlio Folco e pubblicate
nel libro omonimo La fine il mio
inizio (edito postumo nel 2006 per
Longanesi); dallaltro, il film di Jo
Baier, coproduzione italo-tedesca
sceneggiata a quattro mani dallo
stesso Folco Terzani e dal produtto-
re Ulrich Limmer (Terzani era infat-
ti assai popolare anche in Germa-
nia, essendo stato per trentanni cor-
rispondente per il settimanale
amburghese Der Spiegel).
Vale a dire, teniamo separati la vita
di Tiziano Terzani e il resoconto che
di essa offre il film. Non tanto nei
contenuti o nel loro valore di verit
(li immaginiamo del resto inappun-
tabili, non fossaltro poich estrapo-
lati direttamente dal libro e garanti-
ti dalla presenza del figlio nella fase
di sceneggiatura), quanto nella
forma con cui Baier cerca di tradur-
li per immagini.
Pi che al cospetto di un rapporto
intimo, quasi confessionale, tra un
padre morente e il figlio che lo rag-
giunge da lontano, pare che il film
sia modellato sulla scorta di un
intento agiografico decisamente uni-
laterale. Un esempio. Loralit tra
padre e figlio assume nel lavoro del
regista una tanto drastica quanto
esplicita radicalizzazione: quella,
per definizione univoca, del monolo-
go. Se nel libro la presenza di Folco
nascosta tra le parole del padre,
come un testimone silenzioso
cui viene concesso lonore
della ricostruzione e del mon-
taggio, il paradosso, cio, di
una delega autobiografica,
nel film il suo personaggio
perde efficacia proprio per-
ch ne viene mostrata con
tanta insistenza la funzione,
mentre, al contempo, ne
ridimensionato leffettivo
apporto narrativo. In La fine
il mio inizio, Elio Germano
poco pi di un ingombro
visivo che intervalla lo stra-
potere dellone man show
interpretato da Bruno Ganz.
Poco male, si dir, visto il rispettivo
calibro degli interessati. In realt,
pi che per demeriti attoriali, la
reiterazione di una sintassi registica
piattamente stereotipata a banaliz-
zare gli incontri e linterazione tra i
due uomini, incatenata com a un
inventario limitato di varianti filmi-
che, che non si spinge mai oltre la
ricetta di una retorica visiva povera,
o peggio standard: campo lungo
sulle verdi vallate dellOrsigna
(Appennino tosco-emiliano, dove
Terzani ha aspettato la morte,
sopraggiunta nel 2004), primo
piano sul volto guru di Ganz, come
Terzani, barba incolta e lunghi abiti
bianchi, contro-campo di servizio
sullinebetito Germano che, sotto
una pergola di vite, fissa muto loriz-
zonte, impegnato in quella che
dovrebbe essere scambiata come
unintensa contemplazione dei lasci-
ti paterni.
Il risultato s il ritratto di un uomo
eccezionale, capace cio di saper
fare eccezione rispetto a una norma-
lit intesa come vuoto di stimoli,
curiosit, idee. Un asso del giornali-
smo che ha cercato la verit nei fatti
e poi al di l di essi, verso una veri-
t pi grande che, spesso, proprio i
fatti tendono a nascondere. Ma
anche unopera monocorde e un po
stucchevole, dalleffetto pressoch
incolore. Per chi volesse farsi
unidea meno impacchettata di
Tiziano Terzani, il dvd Anam il Sen-
zanome, che contiene la sua ultima
intervista rilasciata, poco prima
della scomparsa, al regista Mario
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Zanot, rimane probabilmente lo
strumento pi incisivo.
Lorenzo Donghi
THE NEXT THREE DAYS
Paul Haggis
Titolo originale: id. Regia e sceneg-
giatura: Paul Haggis. Soggetto: dalla
sceneggiatura di Pour elle (2008), di
Fred Cavay e Guillaume Lemans.
Fotografia: Stphane Fontaine. Mon-
taggio: Jo Francis. Musica: Danny
Elfman. Scenografia: Laurence Ben-
nett. Costumi: Abigail Murray. Inter-
preti: Russell Crowe (John Brennan),
Elizabeth Banks (Lara Brennan),
Michael Buie (Mick Brennan),
Moran Atias (Erit), Remy Nozik
(Jenna), Ty Simpkins (Luke), Jason
Beghe (il detective Quinn), Aisha
Hinds (il detective Collero), Olivia
Wilde (Nicole), Helen Carey (Grace
Brennan), Brian Dennehy (George
Brennan), Toby e Tyler Green (Luke a
tre anni), Liam Neeson (Damon Pen-
nington), RZA (Mouss). Produzione:
Olivier Delbosc, Paul Haggis, Marc
Missonier, Michael Nozik per
Hwy61/Fidlit Films. Distribuzio-
ne: Medusa. Durata: 122. Origine:
Usa/Francia, 2010.
The Next Three Days, ovvero come
il cinema di genere cerchi di soprav-
vivere a se stesso. Sempre uguale,
prevedibile, magari per alcuni pure
noioso, ma, crediamo, mai cos
tanto da risultare insostenibile. Pu
sembrare implausibile quanto si
vuole, pu gettare il suo protagoni-
sta nelle pi assurde delle situazio-
ni, ma se continuasse per ore al soli-
to ritmo, pezzo per pezzo, ostacolo
dopo ostacolo, non fallirebbe mai.
Al cinema, a volte, non si chiede
altro: che faccia il cinema e magari
lo dia anche a vedere.
In The Next Three Days non c
vera azione, tutto si muove per sod-
disfare lesigenza di completezza
del racconto tornando al posto che
gli spetta: come se ogni elemento
fosse mosso da una calami-
ta. Che poi il film sia un
remake (del francese Pour
elle di Fred Cavay, inedito
in Italia) non fa che confer-
mare la meccanicit del-
loperazione di Haggis, il
suo esibito meccanismo di
sostituzione e riempimento.
Un procedimento cos ele-
mentare ed evidente da dare
un senso per quanto labile
al fatto che il regista di
Crash e Nella valle di Elah,
due film che soffrivano pro-
prio di uningombrante
autorialit, abbia rinunciato
allo status artistico per girare un
semplice thriller dazione.
The Next Three Days procede dirit-
to per la sua strada, non si ferma a
riflettere su se stesso. Visto il nome
sopra il titolo, a voler essere spetta-
tori pigri, ci si aspetterebbe qualco-
sa in pi, quel tanto di cognizione
che allontana dal cinema commer-
ciale: ma questa volta non c altra
realt oltre a quella riprodotta.
Siamo nel pieno dominio della clas-
sicit, aliena alla consapevolezza
della modernit quanto al pande-
monio del postmoderno; ci che si
mette in scena un sogno impossi-
bile noto solamente al cinema (di
genere): il sogno vecchio come Hol-
lywood che lordine delle cose possa
essere ristabilito dalla narrazione.
Le tappe del racconto si presentano
in scena come passaggi obbligati,
limmaginazione delleroe, artefice
di un piano che ha bisogno della
concomitanza di ogni sua parte, crea
un castello di ipotesi plausibili solo
se seguite da una reazione prevista.
Due pi due deve dare quattro, e
soprattutto non dar mai cinque. Ne
va della credibilit della trama (ch
tanto lincredulit abbiamo impara-
to a sospenderla) e dellillusione del-
leroe, mai come in questo caso
unica matrice del racconto. Ogni
passo che John Brennan compie da
un certo punto in poi della trama,
da quando cio olia alla perfezione,
ma solo nella sua testa, il piano per
liberare la moglie di prigione, un
pezzo che partecipa alla creazione di
un quadro finale infallibile, articola-
to e saldo come le ramificazioni
urbane di una cartina geografica.
Un percorso segnato, indicato dal
conto alla rovescia suggerito dal
titolo, che porta allo zero, alla fine
del disordine, a un nuovo inizio.
Non c fuga vera e propria, la
trama non da spezzare, come nei
racconti di jailbreaking, ma al con-
trario da ricostruire (che a voler
essere pignoli rappresenta il proce-
dimento stesso del remake, ricom-
posizione di un ordito disfatto).
John Brennan non agisce, bens
riproduce un piano gi scritto. La
trama si rivela un tracciato soffoca-
to dalla sua stessa inevitabilit e per
sua natura necessario: per liberare
una donna, per rimpossessarsi della
propria vita, per confermare a se
stessi di essere nel giusto, per torna-
re a credere, a quel livello simbolico
che rende il cinema commerciale
interessante, nellequilibrio dellim-
maginazione, nella forza di un cine-
ma che sa inscenare una palingenesi
del quotidiano.
Sar per questo, perch in fondo
un film rassicurante, che The Next
Three Days ha riscontrato un note-
vole successo in Italia (un milione di
euro alla prima uscita). Il cinema
americano ha ancora bisogno di for-
giare la realt secondo un proprio
ordine stabilito e il pubblico di
seguire orme bene in vista che por-
tano sani e salvi verso altri mondi,
verso finali scontati e nuovi inizi da
non raccontare.
Roberto Manassero
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Realizzato nel 1992 e proclamato alcuni anni fa da
una giuria di esperti come il miglior lungometraggio
della storia del Cinema di Animazione, Porco Rosso
uscito in Italia con quasi ventanni di ritardo. Il
film, ispirato al manga Hikotei Jidai realizzato
dallo stesso Miyazaki nel 1989 per la rivista Model
Graphix, per il suo autore in principio doveva esse-
re solo un mediometraggio proiettato a bordo degli
aerei della Jal, la compagnia aerea giapponese. Solo
in un secondo momento egli si convinse a farlo
diventare un film vero e proprio. Porco Rosso non
sperimenta il fantasy estremo di Tenk no shiro
Rapyuta (Laputa Il castello nel cielo, 1986), Kaze
no tani no Naushika (Nausica della Valle del Vento,
1984) e Tonari no Totoro (Il mio vicino Totoro,
1988), ma contiene in s molti temi cari al maestro
giapponese. Innanzi tutto la straordinaria passione
per tutto ci che ha unanima meccanica e in parti-
colare per gli aeroplani. Dietro a questo film c un
lavoro di documentazione davvero scrupoloso, che
ha comportato anche un viaggio in Italia per studia-
re paesaggi e colori che avrebbero fatto da sfondo
alle avventure di questo maiale volante. Un rapporto
con lItalia che risale indietro nel tempo, almeno al
1979, quando il ladro gentiluomo Lupin III si spo-
stava utilizzando una Fiat 500, orgoglio della tecnica
e del design automobilistico italico. Ancor pi impor-
tante , per, il rapporto di amicizia che nasce duran-
te i primi anni Ottanta con i fratelli Marco e Gina
Pagot, eredi del grande Studio italiano di animazio-
ne, con i quali collabora nella realizzazione per la
Rai della serie televisiva Meitantei Holmes (Il fiuto di
Sherlock Holmes, 1984-85). Molto si detto a pro-
posito dellorigine dei nomi dei due protagonisti del
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PORCO ROSSO di Hayao Miyazaki
FOCUS
IL VOLO DEL MAIALE
Fabrizio Liberti
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film; in realt si tratta della stima e di un omaggio
del maestro giapponese nei confronti dei suoi due
amici e colleghi italiani.
Della passione di Miyazaki per il volo e i velivoli si
scritto in abbondanza e probabilmente essa nasce
negli anni dellinfanzia quando il padre lavorava per
una azienda che costruiva pezzi per i famigerati
aereoplani Zero, che furono una spina nel fianco per
gli americani nella guerra nel Pacifico e sui quali
volavano anche i tristemente famosi kamikaze.
Curioso che il significato della parola giapponese
kamikaze sia traducibile come vento divino ,e che
anche il nome della casa di produzione legata ai suc-
cessi di Miyazaki sia quello di un vento, il Ghibli,
vento del Sahara ma anche appellativo del velivolo
italiano Caproni Ca. 309 che Miyazaki cita affettuo-
samente quando ne pone liscrizione sul motore che
Porco Rosso fa montare dal suo meccanico Piccolo e
da sua nipote Fio sul suo idrovolante, ricostruito
dopo essere stato mitragliato dal suo avversario
Donald Curtis. Porco Rosso, per, si trova agli anti-
podi dei kamikaze: infatti, egli il classico antieroe
con un pizzico di mistero nel suo passato, che piutto-
sto rassomiglia ad alcuni personaggi del cinema di
Hawks e Ford. Porco un pilota che non uccide ma
irride i suoi avversari, e in realt ci che ne annienta
lonore che, come per un giapponese, pi impor-
tante della vita stessa. Tornando per un attimo alla
passione del regista per i velivoli, ricordiamo in sin-
tesi le numerose e dotte citazioni contenute nel film.
Il cognome dellantagonista di Porco quasi identi-
co a quello di un progettista americano, Glenn
Curtiss, che diede il suo nome a un idrovolante che
aveva battuto nel 1925 gli italiani nella celebre
Coppa Schneider (una sorta di campionato mondiale
per idrovolanti che si svolse dal 1913 al 1934) tra i
quali uno con il motore Folgore, quello che viene
montato sul velivolo di Porco. I nomi dei due piloti
degli idrocaccia della nave passeggeri attaccata dai
pirati della banda Mamma Aiuto, sono quelli di
due eroi del volo italiani, Francesco Baracca e
Adriano Visconti. Infine, il nome della banda
Mamma Aiuto un piccolo refuso di Mammaiut,
soprannome dellidrovolante Cant Z.501, nonch
grido del 15 Stormo.
Piccoli refusi che si rincorrono nel film ma che
danno la misura del grande e meticoloso lavoro di
documentazione fatto da Miyazaki durante il suo
viaggio in Italia. Gi allinizio del film, beato al sole
sulla spiaggia della sua isoletta, Porco si diletta nella
lettura della rivista Cinema, sulla cui copertina
sbirciamo lanno 1929. Ma la celebre rivista, sulle
cui pagine scrissero alcuni dei talenti critici e registi-
ci italiani pi importanti, fu fondata solo sei anni pi
tardi. Anche Alcione, la barca di Gina, un rimando,
oltre che al nomignolo dato al trimotore Cant
Z.1007, allAlcyone di Gabriele DAnnunzio, che
proprio in quelle zone leg il suo nome a celebri
imprese belliche durante e dopo la Prima guerra
mondiale. Particolarmente dettagliata e affascinante
la ricostruzione dei Navigli milanesi, attraverso i
quali Porco e Fio sono protagonisti di una fuga moz-
zafiato con il nuovo idrovolante per sfuggire alla
polizia segreta fascista. E il fascismo non deve essere
proprio simpatico al regista, che fa dire al suo prota-
gonista, rivolto al vecchio compagno darmi che gli
rivela che la polizia sulle sue tracce, piuttosto che
diventare un fascista meglio essere un maiale. Stessa
musica quando limpiegato di banca gli consiglia di
investire i suoi soldi in titoli patriottici, e al quale
risponde tagliente Queste cose fatele tra voi umani.
Oltre alla innata passione per i macchinari in gene-
re e per i velivoli in particolare, in Porco Rosso
Miyazaki sfrutta la sua mai celata simpatia per il
maiale, esplicitata a partire dal nome dello Studio
Ghibli che in giapponese anche detto buta-ya, ovve-
ro la casa del porco , per via dellinsegna vittoriana
raffigurante un maiale che spicca sul portico delledi-
ficio che ne ospita la sede. Quindi, anche se per noi
occidentali, e pure per Marco Pagot (quando venne a
sapere di questo omaggio), un protagonista maiale
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suona un po bizzarro, per il maestro giapponese si
tratta, invece, di un atto di grande affetto. Il malefi-
cio che ha trasformato il pilota Marco Pagot in Porco
Rosso non viene mai chiarito, ma parrebbe ricondur-
si al suo disagio, quasi un disonore, di sentirsi un
sopravvissuto nei confronti dei suoi amici piloti
caduti in combattimento. Tale ipotesi sembra suffra-
gata dal sogno che egli ebbe durante un duello aereo
contro gli austriaci sui cieli dellIstria, in cui venne
abbattuto lamico Berlini che da soli due giorni era
diventato lo sposo di Gina. Spossato da quel duello,
Marco aveva sognato di entrare in una specie di nube
luccicante, una sorta di coda di una cometa che,
guardando con attenzione, era composta dagli aerei
di ogni nazione abbattuti in guerra, e che gli fa dire
con tristezza a Fio: Quelli bravi erano quelli che
sono morti. In qualche modo quella trasformazione
il fio da pagare al destino di essere sopravvissuto a
una morte che non lo aveva voluto. La figura del
maiale legata a un maleficio riapparir anche in
seguito nellopera del regista, e pi precisamente in
Sen to Chihiro no Kamikakushi (La citt incantata,
2001). Qui, per, lorigine del maleficio meno nebu-
losa, e colpisce i genitori della piccola Chihiro una
volta entrati nella citt incantata. Il maleficio li col-
pisce a causa dellingordigia con cui si gettono sui
succulenti piatti ancora fumanti nel ristorante, e solo
la purezza di spirito e di sguardo di Chihiro sar in
grado di riportarli al loro stato di esseri umani. Un
altro omaggio, il film lo rende a colleghi importanti
come i fratelli Fleischer, i grandi animatori della
Warner e Walt Disney, quando Porco si trova a guar-
dare in un cinema di Milano un film che sembra un
mix tra Plane Dippy (1936, di Tex Avery), Gertie the
Dinosaur (Gertie il dinosauro, 1914, di Winsor
McCay) e una delle Silly Symphonies.
Infine, arriviamo al personaggio della giovane Fio,
meccanico, nipote di Piccolo, che si guadagna la fidu-
cia del perplesso Porco convincendolo ad affidarle il
progetto del nuovo idrovolante. In questo personag-
gio femminile, Miyazaki continua a fare il ritratto,
che si ripete e si completa in quasi tutti i suoi film, di
una figura femminile adolescente, volitiva e che con-
tiene in s i germogli migliori della razza umana. Di
solito si tratta di una figura in cui non si palesa un
discorso n sentimentale n tantomeno sessuale, ma
in questo caso assistiamo a una parziale aporia.
Infatti, Porco spesso cerca di allontanare da s ogni
manifestazione di affetto da parte della sua giovane
assistente, nonch figlia di un suo commilitone, che
invece sembra in qualche modo subire il fascino del-
luomo adulto e sicuro di s. Come nella scena sul-
lisola di Porco, in cui la ragazza, tra il serio e il face-
to, si offre di baciarlo per vedere se quel bacio, come
nella favola del Principe ranocchio, potesse in qual-
che modo rompere il sortilegio e restituirgli le sue
fattezze umane. Porco si sente a disagio per questi
atteggiamenti, e chiaramente il regista si diverte a
fare in modo che colui che non teme neppure la
morte appaia, invece, timoroso di fronte alle caste
avances di una giovane donna. Ironia scherzosa del
regista che si palesa anche nel tratteggio che fa del
bellimbusto Curtis, innamorato di Gina, alla quale
confida che nel suo futuro egli intravede il trionfo a
Hollywood e un successivo ruolo di Presidente degli
Stati Uniti dAmerica; vi ricorda qualcuno?
PORCO ROSSO
Titolo originale: Kurenai no buta. Regia, sceneggiatura e montaggio:
Miyazaki Hayao. Fotografia: Okui Atsushi. Musica: Joe Hisaishi.
Scenografia: Hisamura Katsu. Voci: Moriyama Shichir/Massimo
Corvo (Porco Rosso), Okamura Akemi/Joy Saltarelli (Fio Pikkoro),
Kato Tokiko/Roberta Pellini (Gina), Ohtsuka Akio/Fabrizio Pucci
(Donald Curtis), Kamijo Tsunehiko/Paolo Buglioni (il boss dei
Mamma Aiuto), Seki Hiroko (la nonna). Produzione: Suzuki
Toshiom Rick Dempsey per Studio Ghibli/Tokuma Shoten/Nippon
Airlines/Ntv. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 94. Origine:
Giappone, 1992.
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Siamo curiosi di sapere quando e come avvenuto il
tuo incontro con Miyazaki Hayao
Eravamo nel 1979. Luciano Scaffa, allora dirigente
Rai che si occupava di animazione, decise di iniziare una
collaborazione produttiva con il Giappone per non essere
pi solo un fruitore del prodotto animazione. Quindi ini-
zi con il selezionare una serie di proposte italiane che
secondo lui avevano delle buone potenzialit per essere
prodotte con i giapponesi e tra queste ce nera una del
nostro Studio. Cos io parto per il Giappone con una dele-
gazione italiana, e l scopro che Tms [Tokyo Movie
Shinsha, forse lo Studio pi importante in Giappone in
quel periodo, ndr] aveva selezionato tra i vari programmi,
proprio il mio che era Il fiuto di Sherlock Holmes.
Arrivati alla Tms, mi viene presentato Miyazaki Hayao,
che per me era ancora un personaggio sconosciuto perch
fuori dal Giappone allora non era ancora cos noto.
Miyazaki fu incaricato dal presidente Tms Fujioka Yotaka
di realizzare i primi episodi di questa serie televisiva.
Fujioka voleva avere il meglio di quello che lanimazione
giapponese poteva offrire, e infatti la squadra che realizz
la serie stata giudicata per anni come la migliore qui-
pe di animazione giapponese. Mi trovo cos, abbastanza
ragazzino, a collaborare con quello che poi scopro essere
un astro nascente e successivamente un mostro sacro del-
lanimazione giapponese. Io ero entusiasta, ma anche un
po timido nei confronti dei produttori, lui invece molto
curioso di cercare di capire i gaijin, coloro che non sono
nativi del Giappone, ma comunque sempre tenendoci a
debita distanza e pure animato da un certo nazionalismo.
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LA STRANA COPPIA
Intervista a Marco Pagot a cura di Fabrizio Liberti
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Un personaggio gi allora molto sicuro di s, del suo lavo-
ro; il suo talento era gi enorme, e il fatto che bene o male
gli fossi stato imposto come capo del progetto, non che
lo rendesse felice. Lui non mi conosceva, e non sapeva
ancora che io avevo voglia di collaborare; inoltre, qualche
tempo prima, aveva avuto una brutta esperienza con i
francesi, che pretendevano di dettare legge non ascoltan-
do le richieste dei giapponesi.
E come sei riuscito a conquistare la sua fiducia?
Forse perch ero molto curioso e volevo scoprire sem-
pre nuove cose, e quindi nello spiegare il progetto cerca-
vo sempre di capire i motivi delle sue obiezioni. In realt,
il mio progetto era pi adulto e non era pensato inizial-
mente per un target di ragazzi. Era stato concepito con i
tedeschi per un target decisamente adulto. Poi, nello svi-
luppo, essendo stati sostituiti i tedeschi con i giapponesi,
ci siamo resi conto che il pubblico a disposizione per quel
prodotto era quello dei ragazzi; pertanto abbiamo modi-
ficato alcuni elementi rispetto allidea originaria. Perci
credo di avergli dimostrato una certa flessibilit e dispo-
nibilit ad accogliere anche le idee altrui.
Quanto tempo avete collaborato
Direi che la collaborazione durata per un paio di
anni, a fasi alterne, pi intensa allinizio, poi un po
rallentata, perch dopo aver realizzato lepisodio pilo-
ta, per la partenza della serie vera e propria i tempi si
allungarono.
C qualche aneddoto che ci puoi raccontare a pro-
posito della vostra collaborazione?
Be, per esempio quello di fondere le povere inter-
preti, perch eravamo due zucconi, sostenendo sempre
a spada tratta le nostre tesi, e avevamo chiaramente
bisogno di un interprete. Solo che, iniziando alle dieci
del mattino e andando avanti fino alle dieci di sera con
la sola eccezione di una pausa verso mezzogiorno per
un panino, la prima interprete a un certo punto fonde-
va e diceva Io non ce la faccio pi, perci passavamo
alla seconda Poi, quando le discussioni si infervora-
vano, lui parlando giapponese e io in italiano, la
responsabile delle interpreti Hiroko Watanabe, perso-
naggio fondamentale per il nostro lavoro e figlia di
samurai, diceva Basta! Zitti tutti e due e ascoltatevi
prima di continuare a parlare. Unaltra curiosit che
lui pensava ai personaggi del film in una forma canina,
a una donna per interpretare Mrs. Hudson, e Moriarty
per lui era un pipistrello; insomma un universo un po
diverso da quello che avevo pensato io, e tutte le volte
dovevo spiegargli le mie intenzioni e convincerlo.
Forse, la sua visione era pi matta, ma sicuramente
meno adatta al pubblico a cui era indirizzata.
Comunque nata unamicizia, tanto che Miyazaki
ti ha dedicato uno dei suoi personaggi pi famosi
Anche se non riusciamo a frequentarci molto, per
la distanza e per la difficolt della lingua, quando vado
in Giappone, se lui non ha impegni impellenti, riuscia-
mo sempre a vederci. Mi piace, per esempio, portargli
qualche libro italiano che penso lo possa incuriosire, e
posso dire che si instaurata una buona conoscenza.
Comunque, stata una sorpresa per me scoprire quel-
la dedica che, confesso, in un primo tempo mi aveva
spiazzato. Ero in Giappone e Watanabe Hiroko, con la
quale continuavo a collaborare, mi dice: Lo sai che
Miyazaki sta facendo un nuovo film?. Benissimo, le
rispondo. Dovrei dirti anche unaltra cosa e non so se
ne sarai felice, ma ci sei anche tu perch il personag-
gio principale si chiama Marco Pagotto. Che onore,
dissi io. Ma veramente il tuo personaggio un maia-
le chiamato anche Porco Rosso. Confesso che qualche
preoccupazione ce lavevo, e il fatto che venissi abbi-
nato a un rivoluzionario chiamato il Porco Rosso non
mi tranquillizzava; poi, ovviamente, quando vidi il
film mi resi conto che si trattava di una dedica molto
carina e apprezzata, e la prima visione la ebbi su un
volo della Jal.
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Regista di solida preparazione cinefila, nonch pro-
fondo ammiratore della cultura americana (cinemato-
grafica, musicale, letteraria), Bertrand Tavernier ha
inteso comporre con questa sua nuova pellicola (1)
una sorta di omaggio al cinema dei grandi maestri hol-
lywoodiani, in particolare ai maestri della serie B. La
gloriosa mitologia del genere criminale, nella fattispe-
cie del giallo a enigma, qui consapevolmente assun-
ta ed esibita nella riproposta delle sue figure canoni-
che (il poliziotto idealista, il maniaco omicida, il boss
mafioso) come pure dei suoi schemi, delle situazioni
e dei tracciati linguistici e narrativi (la voce off, la serie
dei delitti efferati, i locali equivoci, la suspense, il cre-
scendo drammatico). In particolare, la prima parte
del film, condotta sui tempi secchi ed energici della
tradizione polar, ha fatto nascere in qualcuno il
sospetto di un certo accademismo, quasi che lesecra-
ta qualit franceseavesse scelto, in questa occasione,
di svernare sul Delta del Mississippi. In realt, le scel-
te espressive con cui il regista ha inteso misurarsi con
i codici del genere (2) rispondono a un preciso disegno
autoriale e restano ben lontane dal compiaciuto
manierismo di certo poliziesco contemporaneo.
Per Tavernier si tratta di appropriarsi dei procedi-
menti abituali e convenzionali della detection story,
adottando nel contempo uno sguardo per molti aspet-
ti inedito e audace, capace di sconcertare lo spettatore
e di eludere le sue attese. Si consideri soprattutto il
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LOCCHIO DEL CICLONE
Bertrand Tavernier
FOCUS
SANGUE SULLA PALUDE
Nicola Rossello
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registro fantastico: esso si insinua di soppiatto tra gli
interstizi del racconto (le ripetute apparizioni, ai con-
fini tra lincubo e levento reale, del vecchio generale
confederato), trascinando lintrigo giallo lungo percor-
si narrativi decisamente anomali, senza che peraltro le
tecniche di ripresa consentano al pubblico in sala di
cogliere agevolmente gli slittamenti del racconto sul
fantasmatico (Io credevo alle visioni di Robicheaux,
assicura il regista a ogni buon conto). La stessa storia
criminale (un groviglio tortuoso e labirintico che
intreccia due indagini e due dimensioni temporali: la
caccia a uno spietato serial killer, oggi; la riesumazio-
ne di un delitto razziale consumato quaranta anni
addietro) passa in secondo piano rispetto alla costru-
zione dei personaggi e alla definizione dellambiente.
Ecco allora la cinepresa dilatare i tempi e i modi del-
lazione, indugiare su elementi digressivi rispetto al
congegno poliziesco, soffermarsi su particolari non
strettamente funzionali alleconomia dellinchiesta
(cosa che, a quanto pare, non piaciuta affatto ai pro-
duttori americani, i quali sono intervenuti pesante-
mente sulla versione del film distribuita direttamen-
te in dvd negli Stati Uniti). Tavernier decide dunque
di prendersi il suo tempo. Il suo interesse, del resto,
appare rivolto non gi allintrigo, ma allesplorazione
dei volti e dei luoghi entro cui ha scelto di calare la
vicenda. E cos egli procede per sottrazione dramma-
tica, prolungando le parentesi intimiste, i tempi vuoti
delle attese. Ci gli consente di assaporare i profumi,
cogliere i colori e i suoni di una Louisiana misteriosa
e sfuggente: un paesaggio dallo splendore lussureg-
giante da cui il viaggiatore straniero non pu non sen-
tirsi ammaliato.
Nel frattempo il meccanismo giallo, condotto su
scansioni ritmiche viepi nervose e vibranti, procede
dispiegando improvvise accensioni cromatiche e inser-
ti di realismo brutale (ma il film, nonostante la crudez-
za del plot, ricusa lestetica della violenza e si tiene
lontano dagli elementi splatter). Il montaggio sa esse-
re agile e tagliente, ed ellittico. Sicch la pellicola giun-
ge a scorciare efficacemente quei sintagmi esplicativi
che condurranno, infine, alla soluzione dellenigma. La
parte conclusiva del racconto conserva qualcosa di
convenzionale e di irrigidito. Lo stesso regista ne era
forse consapevole, sicch ha pensato bene di chiamare
in soccorso la propria erudizione cinefila. E cos il con-
fronto chiarificatore tra il protagonista e Twinky
LeMoyne ricorda lexplicit di La dcade prodigieuse
(Dieci incredibili giorni, 1971) di Claude Chabrol,
mentre la chiusura della pellicola sulla fotografia dei
soldati confederati che Alafair osserva su un libro di
storia un chiaro omaggio a The Shining (Shining,
1980) di Stanley Kubrick.
LA COLLERA DEL BUON SAMARITANO
Lo scioglimento poliziesco, come avviene nei migliori
romanzi gialli di Simenon, pi ancora che allanalisi
minuziosa delle tracce, degli indizi, dei dettagli, affida-
to alla conoscenza intuitiva degli uomini e delle loro
miserie. Il mio istinto mi aveva guidato bene, potr
commentare Robicheaux al termine della detection.
Dave Robicheaux, aiutante dello sceriffo di New Iberia,
Louisiana, ha un metodo tutto suo di condurre le indagi-
ni. i sono due modi di guardare al concetto di compren-
sione, confida alla moglie Uno : se non guardi, non
vedrai mai. Laltro : se guardi un po meno, puoi vedere
molto di pi. Nelle parole di Dave possibile leggere,
certamente, una precisa dichiarazione dintenti (che sem-
bra riguardare il cineasta prima ancora che il protagoni-
sta del film). Ma, forse, Dave ci sta dicendo anche qual-
(1) Tratto da un romanzo di James Lee Burke, Locchio del ciclone
stato trasmesso in Italia direttamente da Sky il 30 marzo 2011. E que-
sto nonostante la presenza di star di grande richiamo come Tommy
Lee Jones e John Goodman nei ruoli principali. Intanto le nostre sale
anche le sale dessai sono intasate da prodotti men che mediocri,
talora decisamente ignobili
(2) Gi in passato Tavernier ha affrontato il cinema criminale, con noir
dimpronta gauchiste (Lhorloger de Saint-Paul [Lorologiaio di Saint-
Paul, 1974], da Georges Simenon, ma la sceneggiatura era di Jean
Aurenche e Pierre Bost, due mostri sacri della tradizione di qualit)
o nichilista (Coup de torchon [Colpo di spugna, 1981], da Jim
Thompson, ancora con sceneggiatura di Aurenche), ovvero con polar
sui generis, di taglio documentario (L.627 [Legge 627, 1992]) o antro-
pologico (Lappt [Lesca, 1995]). Questa la prima volta, tuttavia, che
Tavernier si affida ai luoghi canonici del giallo a enigma.
(3) Il libro di Burke, scritto nel 1993, non fa parola ovviamente del-
luragano Katrina. Lidea di trasportare lazione al presente e di allu-
dere agli interventi della mafia locale sulle sovvenzioni governative
destinate alla ricostruzione di Tavernier.
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cosaltro, qualcosa che non concerne, semplicemente, il
modo pi efficace di leggere i dati di uninchiesta polizie-
sca. Forse egli vuol farci intendere che, per un poliziotto
del suo stampo, accostarsi troppo da presso a una realt
malata pu comportare dei rischi. Votato a una lotta
senza quartiere contro criminali mafiosi e assassini psi-
copatici, Robicheaux teme di smarrire la propria integri-
t morale e di lasciarsi contagiare dal male stesso che
chiamato a combattere.
Luomo della legge diviene qui una presenza ambigua,
contraddittoria. Egli consapevole di agire da una posi-
zione non rassicurante. Ossessionato da torbidi sensi di
colpa (da bambino ha assistito, impotente, a una scena di
linciaggio), vittima dei demoni di un passato doloroso,
mai del tutto sanato (ha conosciuto lorrore della guerra,
labbrutimento dellalcool), Robicheaux sa di dover com-
battere una continua battaglia contro il lato oscuro di s,
un germe insidioso, sempre in agguato, alimentato da
pulsioni distruttive, capaci di trasformare la sua inflessi-
bile sete di giustizia in momenti di violenza incontrollata.
E cos, quando sente che il marciume ha superato i limi-
ti di guardia, quando qualcuno arriva a rapire la piccola
Alafair, Dave perde il controllo di s e non esita a falsifi-
care le prove e a picchiare a sangue i testimoni reticenti,
a minacciarli di morte.
E tuttavia, accanto allo sdegno morale e alla collera, in
Robicheaux agisce lattitudine del buon samaritano (come
quando, nella stazione degli autobus, dopo aver riempito
di cazzotti un magnaccia, offre tutto il denaro che ha in
tasca a due ragazze che rischiavano di finire sulla strada).
A differenza di un Philip Marlowe, testimone distaccato di
una societ votata al disfacimento a cui sente di non
appartenere, Dave non un corpo estraneo allambiente in
cui vive e che ha deciso di difendere. La sua lotta contro
la corruzione non affatto la lotta di un eroe solitario.
Altri poliziotti (Rosie Gomez, Lou Girard) si fanno in
quattro per aiutarlo. La sua splendida famiglia lo sostiene,
circondandolo di affetto. E lumanit con cui ha a che fare
non sempre unumanit corrotta. Molti degli individui
che incrociano la sua strada divi del cinema, ex galeotti,
prostitute rivelano di essere delle brave persone: creatu-
re fragili, talora confuse e smarrite, ma brave persone.
Appare evidente allora come la determinazione che spin-
ge Robicheaux allazione nasca da un bisogno affannoso
di redenzione personale, ma anche dal desiderio di proteg-
gere dal male quel che resta del proprio paradiso perduto.
Il problema, per Dave, che il paese che egli vuole sal-
vare sembra avere definitivamente smarrito la sua inno-
cenza. Forse non lha mai davvero posseduta. La storia
della Louisiana, ci viene detto a chiare lettere nel film,
una storia di guerre, odio razziale, abiezione.
Linvestigazione stessa destinata a riportare allo scoper-
to un paesaggio lacerato, soffocato dal crimine e dalla
violenza, in cui agli orrori del presente (i corpi straziati
delle vittime del maniaco sessuale) si sommano quelli del
passato (il linciaggio delluomo di colore di cui Dave era
stato testimone da bambino; i fantasmi della guerra di
Secessione). come se sulle paludi della Louisiana gra-
vasse da sempre unoscura maledizione, la stessa che
attraverso luragano Katrina si abbattuta sui quartieri
poveri di New Orleans, devastandoli (3).
Robicheaux, lui ha deciso di dare ascolto alle parole
del generale sudista (Non compromettere i tuoi princi-
pi. Non abbandonare la tua causa) e di opporsi con ogni
mezzo alla gente venale e malvagia che sta distruggen-
do il mondo in cui nato. Ma egli sa pure che la sua
guerra non potr mai essere completamente conclusa, la
maledizione mai del tutto sconfitta.
LOCCHIO DEL CICLONE IN THE ELECTRIC MIST
Titolo originale: In the Electric Mist. Regia: Bertrand Tavernier.
Soggetto: dal romanzo Locchio del ciclone di James Lee
Burke. Sceneggiatura: Jerzy Kromolowski, Mary Olson-
Kromolowski. Fotografia: Bruno de Keyzer. Montaggio: Larry
Madaras, Roberto Silvi, Thierry Derocles (versione francese).
Musica: Marco Beltrami. Scenografia: Merideth Boswell.
Costumi: Kathy Kiatta. Interpreti: Tommy Lee Jones (Dave
Robicheaux), John Goodman (Julie Baby Feet Balboni), Peter
Sarsgaard (Elrod Sykes), Mary Steenburgen (Bootsie
Robicheaux), Kelly Macdonald (Kelly Drummond), Justina
Machado (Rosie Gomez), Ned Beatty (Twinky LeMoyne), James
Gammon (Ben Hebert), Pruitt Taylor Vince (Lou Girard), Levon
Helm (il generale John Bell Hood), Buddy Guy (Sam Hogman
Patin), Julio Cedillo (Cholo Manelli). Produzione: Frdric
Bourboulon, Michael Fitzgerald per Ithaca Pictures/Little
Bear/Tf1 International. Distribuzione: Mikado. Durata: 117.
Origine: Usa/Francia, 2009.
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Ma chi ha detto che ho una storia? Io non ho una storia
Allora, come mai siete vissuto, se non avete una storia?
Non ho affatto una storia! Sono vissuto cos, per mio conto,
completamente solo.
(Fdor M. Dostoevskij, Le notti bianche, II)
1. Il russo celovek designa luomo nel suo predicato
pi universale e impersonale: uomo in quanto umani-
t, senza specificazione di sesso o et. Odinokij glos
celoveka (La voce solitaria delluomo, 1978), il saggio
di diploma con cui Aleksandr Sokurov conclude da
esterno gli studi al Vgik di Mosca proprio perch,
secondo le autorit dellIstituto, pericolosamente
incline a unelegija generalizzata dellumanit dolente
viene tacciato di formalismo antisovietico e respinto.
Sicch Sokurov, per conseguire il diploma, deve ripe-
tere lesame, ossia realizzare un nuovo documentario,
Marija, meno esplicitamente compromesso con la sua
vocazione lirica e diaristica. Per fortuna Odinokij glos
celoveka godr di una circolazione clandestina e sar
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IL CINEMA E IL SUO DOPPIO
SAGGI
SOKUROV E LA VOCE SOLITARIA DELL UOMO
Sergio Arecco
Madre e figlio
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prima selezionato per il Festival di Locarno 1979, poi
premiato e diffuso come esempio di un cinema la cui
faktura termine non casuale dei formalisti russi degli
anni Venti deve certo molto a quella del cinema di
Andrej Tarkovskij ma si presenta nondimeno con trat-
ti talmente pronunciati di manipolazione dellimmagi-
ne intersezione tra documento e fiction, corto e lun-
gometraggio, allure grottesca e allure contemplativa,
pittura e letteratura, metafisica minimale e metafisica
subliminale, pellicola e digitale da proporsi come
costruzione autonoma. Lelemento unificante dellele-
gija, sorta di diarismo intimo applicabile non solo ai
dieci film che portano questo titolo-dicitura ma a tutte
le prosopopee del regista, assicura a sua volta uno
sconfinamento totale tra i generi e i sottogeneri, tra i
supporti e le stilistiche, tra le strutture e le scritture, e
promuove a categoria etico-estetica quellidea di flut-
tuazione perenne che leggibile, in Sokurov, sia sul
piano del profilmico sia sul piano del filmico non
sar fuori luogo ricordare che il russo intende la voce
elegija nello stesso senso fluttuante in cui la intende-
va il giapponese Kenji Mizoguchi negli anni Trenta, ad
esempio in Naniwa ereji (Elegia di Osaka, 1936).
La prosopopea la figura retorica grazie alla quale
sintroducono a parlare persone assenti o morte, o
anche cose astratte, come se fossero vive e presenti. In
quella che per noi un trittico esemplare e irripetibile
sulla religio degli affetti familiari Mat y syn (Madre
e figlio, 1997), Otec y syn (Padre e figlio, 2003) e
Aleksandra (Alexandra, 2007), ove la relazione
nonna-nipote appare non meno viscerale delle relazio-
ni intime raffigurate nei primi due la figura retorica
della prosopopea spicca tra le altre, peraltro non meno
insistenti e pervasive, per una rilevanza specifica tutta
sua, dal momento che incide sulla natura stessa della
faktura: anamorfica in Madre figlio, polimorfica in
Padre e figlio, teratomorfica in Alexandra.
2. Il denso, estenuato, totalizzante pittoricismo di
Madre e figlio rimanda certo, com opinione comune,
allimpasto pittorico di Caspar David Friedrich, al suo
perpetuo indugiare sui crepuscoli del mattino o della
sera, sugli strati di nuvole in viaggio o sui cumuli di
nuvole minacciosamente in agguato, su un sentimen-
to panico della natura capace di fondere uom