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Cineforum
Via Pignolo, 123
24121 Bergamo
Anno 51 - N. 3 Aprile 2011
Spedizione in
abbonamento postale
DL 353/2003 (conv.in
L.27/2/2004 n. 46)
art. 1, comma 1 - DCB
Poste Italiane S.p.a.
8,00
!"#$%&'()*+,-.)' 01,+12,33 2,4-543,
MODALITA DI PARTECIPAZIONE
I concorrenti dovranno far pervenire a
Fondazione TRA - Teatro Comunale di Alessandria
Segreteria del Premio Ferrero - Via Savona, 1 - 15121 Alessandria (Tel. 0131/52266)
entro e non oltre il 15 giugno 2011:
- un modulo di iscrizione scaricabile dal sito internet www.teatroregionalealessandrino.it
in cui dovranno essere chiaramente indicati: generalit anagrafiche, residenza, numero
telefonico , e-mail, curriculum studi, attivit ed eventuali progetti;
- la tassa di iscrizione di 25,00 il cui pagamento potr avvenire tramite:
assegno circolare o vaglia postale, intestati a Fondazione TRA(da allegarsi alla domanda).
I concorrenti dovranno inoltre allegare, in 6 copie cartacee e una copia in formato digitale
(file di Word o Pdf), un solo saggio inedito e originale, di ampiezza compresa fra le 15.000
e le 30.000 battute (spazi compresi) e/o, in 6 copie cartacee e una copia in formato digitale
(file di Word o Pdf), una sola recensione giornalistica inedita e originale di ampiezza non
superiore alle 4.000 battute (spazi compresi).
I concorrenti possono partecipare, con la stessa domanda ad una o a entrambe le sezioni
ma potranno essere premiati per una sola di esse, con precedenza accordata alla sezione
saggistica.
in collaborazione con
FONDAZIONE TEATRO REGIONALE ALESSANDRINO
Uffici: Teatro Comunale di Alessandria
Via Savona, 1 - 15121 Alessandria Tel. 0131/52266 - Fax 0131/325589
info@teatroregionalealessandrino.it www.teatroregionalealessandrino.it
DELLA GIURIA DEL PREMIO FARANNO PARTE:
Lorenzo Pellizzari (Presidente), Nuccio Lodato (Coordinatore), Nino Battaglia(giornalista Rai),
Pier Maria Bocchi (critico), Carlo Cerrato (capo redattore RAI TGR Piemonte),
Giorgio Cremonini (storico e saggista), Bruno Fornara(critico) Barbara Grespi (docente di sto-
ria e critica del cinema), Roberto Lasagna (critico ed editore), Luca Malavasi (docente e critico),
Roy Menarini (docente di storia del cinema e critico), Morando Morandini (critico),
Emiliano Morreale (critico), Adriano Piccardi (direttore di Cineforum).
I testi delle recensioni saranno inoltre valutati per il particolare valore narrativo dalla
Giuria della Scuola Holden.
IL PREMIO CONSISTE IN:
Sezione saggi
1.000,00 al primo classificato - 500,00 per saggi ritenuti
meritevoli di segnalazione
Sezione recensioni
400,00 al primo classificato - 250,00 per recensioni ritenute meritevoli
di segnalazione
Premio Scuola Holden
Un corso on-line tra quelli indicati sul sito www.scuolaholden.it
La Giuria si riserva il diritto di non assegnare o di attribuire diversamente le
somme qui indicate. Il saggio e la recensione premiati verranno pubblicati sulla
rivista Cineforumche potr pubblicare altri elaborati ritenuti significativi.
Linosservanza o la non accettazione di quanto qui esposto precluderanno
la partecipazione al concorso.
AL PREMIO POSSONO PARTECIPARE GIOVANI:
che alla data del 15 giugno 2011 abbiano compiuto il sedicesimo anno di et e
non abbiano compiuto il ventottesimo; che non abbiano collaborato a quoti-
diani, periodici e riviste specializzate con diffusione nazionale; che non abbiano
conseguito il primo premio in precedenti edizioni del Ferrero.
BANDO DI CONCORSO La Fondazione Teatro Regionale Alessandrino organizza per il 2011 la trentunesima edizione del Premio, a ricordo dellopera
critica, didattica e politico-culturale che Adelio Ferrero (1935-1977) svolse ad Alessandria e a livello nazionale in qualit di critico cinematografico, docente
di Storia del Cinema presso il DAMS dellUniversit di Bologna, fondatore della rivista Cinema&Cinema, primo Presidente dellAzienda Teatrale Alessandrina.
Il Premio riservato a giovani autori di saggi e di recensioni di argomento cinematografico. Gli argomenti dei saggi dovranno riguardare il cinema (autori,
opere, tendenze, teoria, problematiche) senza alcuna limitazione di tempo, luogo, aspetto e prospettiva. Le recensioni dovranno riferirsi a film apparsi nel
circuito di prima visione italiano limitatamente al periodo 2010-2011. Saranno esclusi estratti da tesi di laurea.
FESTIVAL REALIZZATO CON IL SOSTEGNO
DEL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA CULTURALI
DIREZIONE GENERALE PER IL CINEMA
ADELIO
31 EDIZIONE
PER GIOVANI SAGGISTI
E CRITICI DI CINEMA
FERRERO
PREMIO
2011
www.cineforum.it
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Parecchio cinema italiano su questo numero. Due
speciali, Moretti (in tempi di evaporazione del padre, va
diretto al cuore del simbolico e fa conseguentemente
evaporare il Santo Padre) e Bellocchio (Bellissimo film
di frammenti [che tutto riporta] ancora una volta, al
motore insieme visivo e tematico di tutto il cinema di
Bellocchio, listituto della famiglia, inteso come schema
ordinatore dellesistenza, debito di sangue pagano,
strozzatura dellevoluzione); poi un ritorno impegnati-
vo, magari controverso rispetto alla sua utilit, del
documentario-inchiesta firmato da Faenza, cineasta
non nuovo a queste esplorazioni; e il piccolo caso
(cult, bizzarria) di un film di generazione televisiva
che, lungi dal fallire la prova, si rivela invece unintelli-
gente operazione di cinema Medio-Di-Nicchia-Ma-
Non-Poi-Cos-Tanto, che lascia il suo graffio su questa
seconda parte della stagione. Infine: dopo un saggio che
riprende alcuni titoli italiani del 2010 (pi uno uscito
nel 2007, pi un inedito realizzato in Italia da un
inquieto quanto da tempo irresoluto regista tedesco)
per lavorare sui concetti di spostamento e di territoria-
lizzazione, tra filosofia e politica; tanto per non farci
mancar niente, nella consueta rubrica dvd due film che
hanno lasciato (per motivi molto diversi) un segno
indelebile nella storia del cinema italiano, entrambi in
edizione splendidamente restaurata: La presa del pote-
re da parte di Luigi XIV di Roberto Rossellini e
Novecento di Bernardo Bertolucci.
In concorso a Cannes, questanno, il gi nominato
Moretti (a proposito, una incursione da manuale la sua
a Che tempo che fa, con Fabio Fazio pericolosamente
in bilico fra il giornalista Rai che nel film conduce la
cronaca del Conclave e la ormai leggendaria intervista-
trice in Palombella rossa mentre Moretti al termine
della conversazione lo guardava con occhi non troppo
diversi da quelli dello psicanalista quando rifila la
scopa ai cardinali avversari dopo averli distratti par-
lando dei suoi guai familiari), insieme a Paolo
Sorrentino, mentre nella Quinzaine si presenter in
esordio Rohrwacher (Alice).
Cineforum vuole sottolineare un momento favorevo-
le alla nostra cinematografia? Certo meglio non lasciar-
si andare allentusiasmo, ma non ci si pu nemmeno
lamentare. Un paio di anni fa, dopo luscita di Gomorra
e Il Divo, gi tutti a sperticarsi sul nuovo Rinascimento,
disquisendo delle basi produttive, dellautorialit matu-
rata nellesperienza pluriennale eccetera. Quando lanno
successivo le magnifiche sorti e progressive hanno parto-
rito, in definitiva, soltanto Vincere (capolavoro) firmato
da Marco Bellocchio (e ce lo teniamo stretto), chi in pre-
cedenza gridava al nuovo corso non sapeva pi sostan-
zialmente che dire. Nel 2010 la situazione si stabilizza-
ta, nel senso che in assenza di opere clamorose ci si
accorti di quanto possa essere importante saper guarda-
re ai prodotti pi defilati, non sostenuti da grancasse
extra-cinematografiche (sia detto senza nulla togliere al
merito intrinseco dei fortunati) e lo sappiamo pena-
lizzati da una circuitazione votata preferibilmente al bot-
teghino. Non contano, in questi casi, le attenzioni festiva-
liere raccolte anche in sedi blasonate: ne sanno qualcosa
il Frammartino di Le quattro volte e il Gaglianone di
Pietro, tanto per dirne due. Ne deriva la necessit del-
lesercizio di una caccia al tesoro che i nostri lettori, lo
sappiamo, praticano con passione; ne conseguono anche,
come da copione, le parole del neoministro per i Beni e
le Attivit Culturali, che esorta Cinecitt a favorire la
distribuzione di opere prime e seconde il fatto che ne
abbiamo gi sentite a sfinirci di queste dichiarazioni
dintenti. Fosse la volta buona, per qualit e quantit, ne
saremmo comunque felici.
Adriano Piccardi
DOLCE CASA?
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CINEFORUM IN LIBRERIA
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SOMMARIO
EDITORIALE
Adriano Piccardi/Dolce casa? 1
SPECIALE HABEMUS PAPAM
Pier Maria Bocchi/Le nostre prigioni 4
Bruno Fornara/???????????? 8
Emanuela Martini/Cambia, todo cambia 11
Giorgio Cremonini/In lutto per la nostra vita 13
Fabrizio Tassi/Risucchiati nel vuoto (santo) 15
Roberto Chiesi/Libert e depressione del flneur 17
SPECIALE SORELLE MAI
Luca Malavasi/Riconosci te stesso 20
Paolo Vecchi/A Bobbio! A Bobbio! A Bobbio!. Bellocchio rebours 23
Alice Cati/Seguire le tracce dei temi generatori 25
I FILM
Dario Tomasi/Poetry di Lee Chang-dong 29
Anton Giulio Mancino, Giacomo Manzoli/Silvio Forever
di Roberto Faenza e Filippo Macelloni 32
Pier Maria Bocchi/Non lasciarmi di Mark Romanek 38
Chiara Boffelli/Boris Il film di Giacomo Ciarrapico,
Mattia Torre e Luca Vendruscolo 41
Simone Emiliani/Offside di Jafar Panahi 44
Federico Gironi, Anton Giulio Mancino/The Ward di John Carpenter 47
Lorenzo Leone, Giampiero Frasca, Emilio Cozzi, Simone Emiliani, Lorenzo
Donghi, Roberto Manassero/Ju tarramutu - Lo stravagante mondo di Greenberg
Kick-Ass - Frozen - La fine il mio inizio - The Next Three Days 52
FOCUS PORCO ROSSO
Fabrizio Liberti/Il volo del maiale 58
La strana coppia intervista a Marco Pagot 61
FOCUS LOCCHIO DEL CICLONE
Nicola Rossello/Sangue sulla palude 63
IL CINEMA E IL SUO DOPPIO
Sergio Arecco/Sokurov e la voce solitaria delluomo 66
SAGGI GEOGRAFIE
Alessandra Mallamo/La quarta dimensione 72
BERGAMO FILM MEETING
Andrea Frambrosi/Mostra Concorso 80
Tullio Masoni/Mondo ex 81
Francesco Portesi/Omaggio a Regina Pessoa 83
Lorenzo Rossi/Visti da vicino 84
DVD a cura di Adriano Piccardi, Martino Maccari, Arturo Invernici 85
LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato 89
LIBRI a cura di Ermanno Comuzio e Adriano Piccardi 94
INFO dal luned al venerd - 9.30/13.30 - Tel. 035 361361 - abbonamenti@cineforum.it
cineforum
rivista mensile
di cultura cinematografica
anno 51 - n. 3 - Aprile 2011
Edita dalla
Federazione Italiana Cineforum
Direttore responsabile:
Adriano Piccardi adriano@cineforum.it
Comitato di redazione:
Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttore
editoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara,
Luca Malavasi, Emanuela Martini, Angelo
Signorelli, Fabrizio Tassi
Gruppo di lavoro: Francesco Cattaneo,
Jonny Costantino, Giuseppe Imperatore,
Arturo Invernici
Collaboratori:
Sergio Arecco, Alberto Barbera, Alessandro
Bertani, Paolo Bertolin, Marco Bertolino,
Francesca Betteni-Barnes D., Matteo Bittanti,
Pier Maria Bocchi, Andrea Bordoni, Massimo
Causo, Rinaldo Censi, Carlo Chatrian, Ermanno
Comuzio, Emilio Cozzi, Giorgio Cremonini,
Alberto Crespi, Lorenzo Donghi, Simone
Emiliani, Michele Fadda, Davide Ferrario,
Andrea Frambrosi, Giampiero Frasca, Leonardo
Gandini, Cristina Gastaldi, Federico Gironi,
Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato, Pierpaolo
Loffreda, Anton Giulio Mancino, Giacomo
Manzoli, Michele Marangi, Matteo Marino,
Mattia Mariotti, Tullio Masoni, Emiliano
Morreale, Alberto Morsiani, Umberto Mosca,
Luca Mosso, Lorenzo Pellizzari, Alberto
Pezzotta, Francesco Pitassio, Piergiorgio Rauzi,
Giorgio Rinaldi, Nicola Rossello, Lorenzo Rossi,
Alberto Soncini, Antonio Termenini, Dario
Tomasi, Paolo Vecchi, Alberto Zanetti.
Progetto grafico e impaginazione:
Paolo Formenti - PiEFFE Grafica*
Amministrazione:
Cristina Lilli, Sergio Zampogna
Redazione e amministrazione:
Via Pignolo, 123
IT-24121 Bergamo
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stampato presso la Stamperia Stefanoni
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Iscritto nel registro del Tribunale di
Venezia al n. 307 del 25-5-1961
associato allUSPI
Unione Stampa Periodica
Italiana
In copertina:
Habemus Papam
di Nanni Moretti
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Questo film di Nanni Moretti parla delle prigioni
delle parti in cui viviamo e che indossiamo.
PRIGIONE #1
la prigione del ruolo sociale. Lontano da facili
condanne o da prevedibili messe in burla, Habemus
Papam guarda alla persona come a unimmagine di
cui farsi carico e responsabili. Spesso nostro mal-
grado. La persona qualunque, la persona di potere:
entrambe sono simulacri di un vivere che ci hanno
insegnato dover essere civile. E la civilt impone di
aderire a dei vestiti fatti da altri su misura. Gli altri
sono le tradizioni, le convenzioni, le aspettative. Ma
la misura talvolta va stretta. I sarti non sbagliano,
piuttosto seguono londa. Gli obblighi sono morali:
labito fa il monaco. E in Habemus Papam di
monaci ce ne sono molti: c il monaco psicanali-
sta, ci sono i monaci cardinali, c il monaco guar-
dia svizzera e c il monaco Papa. Tutti fanno quel-
lo che gli si chiede, ci che i rispettivi ruoli impon-
gono. Tutti, alla fine, si svestono, restando nudi: non
solo il re, ma pure i fanti e le regine.
morale portare il capo dabbigliamento al quale
si destinati, ma altrettanto morale pi morale
HABEMUS PAPAM Nanni Moretti
SPECIALE
LE NOSTRE PRIGIONI
Pier Maria Bocchi
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infine toglierselo. Questo ci dice Habemus Papam.
Sfilarsi il vestito non segno di rinuncia, un primo
passo verso il cambiamento. In questo modo, la
societ ricomincia da zero. Se perfino il Papa
abbandona i propri abiti, vuol dire che si pu. Yes,
we can. Rinunciatario, Moretti? Non direi:
Habemus Papam mi sembra un invito commovente
a ripartire, a trovare nuove strade, a smettere i
credo secolari e a smetterla con le attese pi ovvie.
Ecco il vero Papa di tutti! Quello che nessuno
saspetta: un uomo che confessa di non farcela. Dio
non centra, come non centrano le varie chiamate:
un Papa che lascia di fronte al mondo (il popolo,
la piazza, gli sguardi dei fedeli), non ai cieli. Eresia?
Solo per i poveri di spirito e per chi non capace di
uscire dalla porta e aprire le finestre.
Questa terra (la terra, s) talmente abitudinaria
da avere un armadio per ogni stagione. Com che si
dice? Morto un Papa, se ne fa un altro. Ecco, appun-
to. Moretti per ci propone una responsabilit
diversa: non quella di fare ci che dobbiamo fare,
ma la responsabilit di scegliere una via alternativa,
la differenza, la disuguaglianza. La scelta della dif-
formit. Il Papa di Habemus Papam osa cogliere
lopzione numero due, dire di no. Allo stesso modo
gli altri, lo psicanalista, i cardinali, addirittura il
portavoce del Vaticano: dicono di no agendo in
maniera differente, abbandonandosi al momento,
giocando, mentendo. Lo psicanalista lascia presto
da parte ruolo e compito per giocare a carte e orga-
nizzare un torneo di pallavolo; i cardinali sfruttano
limpasse del conclave aderendo con entusiasmo ai
giochi; il portavoce del Vaticano diventa un bugiar-
do cronico e un gran regista teatrale (con la messa
in scena della guardia svizzera negli appartamenti
del Papa). Tra le mura segrete della societ vatica-
na, si indossano nuovi vestiti. Peccato sia un evento
passeggero: poi torna la normalit, lo psicanalista
resta deluso, i cardinali anche. E pensare che
lOceania avrebbe potuto dire la sua al gioco, e piaz-
zarsi una volta tanto tra i paesi pi forti! Che
come dire che linusuale e linaspettato avrebbero
avuto finalmente una possibilit, prima che tutto
rientrasse nei ranghi. Per un po, lo psicanalista si
scrolla di dosso lombra della moglie, del deficit
daccudimento e del primato sul campo; per un po,
il tempo di qualche partita, i cardinali non lasciano
labito talare ma lasciano quello pi torvo dellap-
prensione, dellinquietudine religiosa, del rispetto
delle regole; per poco, la durata della finzione, la
guardia svizzera sveste i panni del proprio ruolo per
fare lattore al soldo del portavoce del Vaticano,
mangiando il cibo del Papa e ascoltando la musica
del Papa, con lunico sforzo di smuovere regolar-
mente le tende alla finestra del Papa; per un po, il
portavoce irrequieto del Vaticano costretto dagli
eventi a spogliarsi degli abiti di factotum indefesso
e nascondersi dentro quelli di metteur en scne, per
il bene del pubblico dei confratelli e del mondo (non
esclusivamente cattolico). Le alternative durano
quel tanto che basta a renderle ipotesi di vita. Il
discorso finale del Papa, ben diversamente dal
discorso di re Giorgio VI dInghilterra, la preghie-
ra semplice e diretta per un ripensamento: rinun-
ciando, egli suggerisce unaltra via. Quella che pro-
babilmente potrebbe spalancare le sbarre di questa
prigione sociale.
PRIGIONE #2
la prigione delle differenze. Quelle tra i ruoli ma
anche tra le arti. qui che Moretti pi sapido. Ed
qui che ha maggiormente infastidito certa critica,
pronta a condannarlo di morettismo. La straordina-
ria sequenza a teatro non soltanto spiega la scena
ufo dellhotel che la precede, ma chiarisce le inten-
zioni di un film che credo voglia togliere di mezzo lo
scarto tra realt e sua rappresentazione.
Per inseguire una nuova soluzione, una nuova
risposta, Moretti insegue il suo Papa per le strade di
Roma. La citt e la vita fuori fanno morire e fanno
rinascere (non risorgere) il Papa. Un sogno? Forse,
come per il Moro nel finale di Buongiorno, notte. O
forse no. In Habemus Papam non c pi diversit
tra immaginazione e realt. Il Papa simmagina di
ritrovare se stesso, di ricordare, di decidere, e finisce
da solo su due palchetti, prima a teatro, mentre si
recita quel Cechov che nel corso degli anni lui ha
mandato a memoria, poi su piazza San Pietro,
davanti ai fedeli in attesa. A teatro avviene ci che
per tutto il film stato rimandato e scansato, lo
spettacolo delle parti. Con accumulo pittorico e con
tensione crescente, Moretti riempie a poco a poco il
luogo di suore e di cardinali in abito rosso sangue,
che invadono la platea alla ricerca del loro Papa. Lo
vedono, lo ritrovano, lo applaudono. Dove comincia
la finzione? E dove finisce la realt?
Per ripartire, c bisogno di guardare alle cose in
maniera diversa. Guardare allarte come a uno stru-
mento di vita (attraverso le parole di Cechov, il Papa
ricorda linfanzia e la sorella), guardare alla vita come
a un ideale artistico, il meglio dellarte, la perfezione.
Faccio lattore: la risposta del pontefice in incogni-
to quando la psicanalista gli chiede qual il suo lavo-
ro. C bisogno di annullare le divisioni. Dentro le
mura del Vaticano, lo psicanalista arbitro e stratega
organizza partite di pallavolo tra i cardinali. Moretti,
nel frattempo, sorride di s, del ruolo che riveste e dei
vezzi morettiani ai quali non resiste. Cos facendo, e in
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maniera decisiva, regista e personaggio servono a
creare un mondo diverso dai soliti mondi e dai mondi
noti. Non pi una critica del mondo cos come lo cono-
sciamo e lo viviamo, non pi la sua presa per i fondel-
li, bens un vero e proprio new world dove realt e illu-
sione trovano sinergia coerente. Lo si diceva, no, che
larte migliora la vita? La scena a teatro insieme la
sintesi e la celebrazione di un film in cui gli interventi
dellarte (anche la propria, nel caso del Moretti attore)
sulla realt operano a fin di bene. Altro che lezioni cri-
stiane! Per creare, non necessario distruggere, basta
reinventare, smuovere le pedine, dar loro un tono e dei
colori inconsueti e imprevisti. Unopera darte!
Limprovvisazione! Daltronde, sul tram il Papa parla
da solo come un vecchio rimbambito, improvvisando
un discorso, cercando le parole giuste, e nessuno lo
biasima per questo. La recita infiltra dunque il reale,
la rappresentazione si fa largo tra la folla. Tutta una
finta, allora? Nientaffatto: Habemus Papamusa tra le
altre cose il morettismo per ridefinire i contorni e, se
possibile, per cancellarli. Per non un ingenuo,
Moretti: non crede e non vuol credere alluguaglianza
di tutti gli uomini e allappianamento delle diversit,
ma auspica un mondo in cui lintraprendenza, il genio
e il potere (nella sua forma pi morale possibile) pos-
sano coesistere e aiutarsi. Attraverso larte, dentro di
essa: perch se non vogliamo ritrovarci da soli e mori-
re (lo psicanalista si ritrova di nuovo da solo e un po
muore, quando il torneo di pallavolo viene interrotto),
dobbiamo assolutamente riscoprire limportanza della
partecipazione allarte. Viverla, non vivere come den-
tro un film, c una bella differenza.
PRIGIONE #3
la prigione dello sguardo della critica sul cine-
ma di Nanni Moretti. Che equivale alla prigione del
personaggio. Nel tempo, il destino degli autori forti
quello di formare un totem al quale i critici non
resistono. Nel bene e nel male. Cos viene preserva-
to dallimbarbarimento il culto autoriale dei fan
integralisti e contemporaneamente e spesso paral-
lelamente si delinea il rifiuto di chi comincia a
nutrire qualche dubbio sulla necessit dello stesso.
successo con Woody Allen. Sta succedendo con
Moretti. Del quale sempre pi spesso gli appassio-
nati gradiscono i continui birignao attoriali, da per-
sonaggio, difendendoli a spada tratta e ridendone a
comando, mentre i perplessi sottolineano lapparen-
te ripetizione di un copione ormai abusato. Da una
parte e dallaltra, il rischio di perdere di vista la
ragione. Tanto che le battute e le gag diventano pesi
e misure unici ed esclusivi per calcolare efficacia e
fastidio. Fede ed eresia. Papaboy vs. satana.
Con Habemus Papam, lerrore critico di prospetti-
va trova il suo apice. Il film franto in due, di qui le
vicende dello psicanalista in Vaticano, di l la deriva
Regia: Nanni Moretti. Sceneggiatura: Nanni Moretti,
Francesco Piccolo, Federica Pontremoli. Fotografia:
Alessandro Pesci. Montaggio: Esmeralda Calabria.
Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Paola
Bizzarri. Costumi: Lina Nerli Taviani. Interpreti:
Michel Piccoli (il cardinale Melville), Nanni Moretti
(il professor Brezzi), Jerzy Stuhr (il portavoce della
Santa Sede), Renato Scarpa (il cardinale Gregori),
Francesco Graziosi (il cardinale Bollati), Camillo
Milli (il cardinale Pescardona), Roberto Nobile (il
cardinale Cevasco), Ulrich Von Dobschtz (il cardina-
le Brummer), Gianluca Gobbi (la guardia svizzera),
Margherita Bui (la ex moglie del professor Brezzi),
Camilla Ridolfi, Leonardo Della Bianca (i bambini),
Dario Cantarelli (lattore che recita Il gabbiano in
hotel), Teco Celio (il direttore della compagnia teatra-
le), Manuela Mandracchia, Rossana Mortara,
Roberto De Francesco, Chiara Causa (gli attori),
Mario Santarella (il cerimoniere), Tony Laudadio (il
capo della Gendarmeria vaticana), Enrico Ianiello (il
giornalista), Cecilia Dazzi (la mamma), Lucia
Mascino (la commessa), Massimo Verdastro (il vatica-
nista), Maurizio Mannoni (se stesso). Produzione:
Nanni Moretti, Domenico Procacci, Jean Labadie per
Sacher Film/Fandango/Le Pacte/France 3 Cinma/
Rai Cinema. Distribuzione: 01. Durata: 104.
Origine: Italia/Francia, 2011.
Alla morte del Papa, viene indetto il Conclave. Dopo
vare fumate nere, eletto il cardinale Melville.
Questi, per, cade subito preda di ansie e insicurez-
ze, al punto da indurre gli altri cardinali, dietro la
regia del portavoce della Santa Sede, a rimandare la
proclamazione e a convocare il prefessor Brezzi, il
migliore degli psicanalisti di Roma. La situazione si
mette subito in stallo, finch Melville riesce a eludere
la sorveglianza e prende a girovagare per la citt
come un qualsiasi turista. Lincontro con una com-
pagnia di attori risveglia in lui lantica passione per
il teatro. Intanto, mentre il portavoce tiene nascosta
ai fedeli la situazione e manda avanti spasmodica-
mente le ricerche del cardinale fuggiasco, il professor
Brezzi e gli altri porporati trovano la maniera di
impiegare il tempo
HABEMUS PAPAM Nanni Moretti
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del Papa. Diversi sono i toni, diverso lo spessore.
Eppure ho la sensazione che la leggerezza delle sce-
nette tra Moretti personaggio e i cardinali faccia
riflettere sulla prigionia dei ruoli quanto se non di
pi dellansia da prestazione del pontefice. Se lo psi-
canalista gradatamente si adegua al luogo, e con
grande entusiasmo per giunta, abbandonando tem-
poraneamente il proprio ruolo e vestendo quello di
giullare di corte, significa che Moretti ben consape-
vole del fascino del suo personaggio (un personaggio
tipico). Il doppio grado di sguardi (che chiamerei
metacinematografico se non mi censurassi da solo)
testimonia di unautoanalisi: cardinali primo pub-
blico e spettatori del film secondo pubblico ser-
vono tutte due a Moretti per capire sia di non poter
fare a meno dellidentit che s costruita, sia che
essa la sua prigione. unidentit prigioniera della
critica medesima, e che questultima fa prigioniera.
Se mai Nanni Moretti ha fatto un film autoanalitico
e autocritico, questo senzaltro Habemus Papam, e
in forma definitiva. Dalle sbarre del personaggio
impossibile scappare; purtroppo, molto difficile
scappare anche dalle sbarre della critica. Che piutto-
sto dovrebbe chiedersi se a Moretti stato utile, e a
cosa stato utile, fare il suo personaggio tra le mura
del Vaticano. Cio: stato un fallimento? Visto come
sinterrompe bruscamente il torneo di pallavolo, e
vista la reazione dello psicanalista allalzata di mano
dei cardinali per andare tutti insieme a riprendersi il
Papa, forse s, stato tutto un fallimento, le cose non
sono cambiate, i ruoli non sono cambiati. Ma se in
quei momenti di spensieratezza birbante, tra una
scopa e una battuta, il Moretti personaggio riusci-
to a immaginare unalternativa (alla norma, alla
noia, allansia), allora anche soltanto per una breve
parentesi avvenuta una rottura. Il lungo ralenti
della partita a pallavolo sembra indicare uno stato di
sogno, qualcosa che va a una velocit non comune, a
una velocit che non appartiene alla realt. Un sogno
reale, un sogno lungo qualche giorno: quanto basta
per immaginare altro e immaginarsi altri. In questo
caso, dunque, per Moretti essere personaggio funzio-
na come carcere ma soprattutto come valvola di
sfogo. una prigione, ma dalla quale si pu discute-
re (senza urlare) di una trasformazione. Transitoria
fin che si vuole, per accaduta.
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Limmagine del balcone senza papa da dove il papa
avrebbe dovuto affacciarsi su piazza San Pietro, con
le ante del finestrone aperte sul corridoio interno
vuoto e scuro quellimmagine, Moretti la ripete, la
sottolinea. Il finestrone si apre sul vuoto di un corri-
doio. Al cardinale che si rivolgeva al festante popolo
di Dio con la formula Nuntio vobis gaudium
magnum. Habemus Papam aveva fatto eco dal cor-
ridoio un urlo straziante, di impotenza e inadegua-
tezza, anche di istintiva ribellione, del papa neoelet-
to e scappato via: dietro la finestra restava, appunto,
il vuoto. Habemus Papam? Non habemus Papam?
Habemus et non habemus Papam.
Ai lati del finestrone, ai lati del vuoto, ci sono
delle tende. Il vento le gonfia. Che lo spirito stia sof-
fiando? Si sa che lo spirito soffia dove e quando
vuole: ma com che lo spirito soffia proprio adesso
che (finalmente?) un papa (finalmente!) se n scap-
pato via? Nel Vangelo di Giovanni, al capitolo tre,
c un lungo dialogo tra Ges e Nicodemo, membro
del sinedrio, un capo dei giudei, esperto di cose di
fede. Nicodemo viene a trovare Ges di nascosto, di
notte, per non farsi vedere dai suoi. Crede che Ges
sia stato mandato da Dio come maestro, nessuno
pu fare i segni che fa Ges se Dio non con lui.
Discutono di questioni teologiche. Ges sostiene che
bisogna nascere di nuovo e nascere dallalto. Il
testo greco dice nothen, dallalto; il testo latino
dice denuo, di nuovo, una seconda volta. Comunque
sia, dallalto o di nuovo, bisogna rinascere.
????????????
Bruno Fornara
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Nicodemo, sornione, ribatte che non si pu mica
rientrare nel ventre della madre. Ges risponde che
bisogna rinascere dallacqua e dallo spirito, e poi:
Non meravigliarti che ti abbia detto: voi dovete
nascere dallalto. Il vento soffia dove vuole, senti la
sua voce, ma non sai da dove viene n dove va. La
voce del vento, nel testo greco, fon (proprio come
la fon di Carmelo Bene). Si muovono su in alto
le tende del balcone, gonfie come vele, la barca di
Pietro lascia gli ormeggi, il papa non vuole essere
papa, lo spirito soffia allegro e gagliardo.
Habemus Papam allunga la lista dei bei film che
riflettono sulla storia e sul presente di noi italiani: e
Vaticano e Chiesa sono ben dentro la nostra storia e
il nostro presente. Bei film che ripensano le tre Italie
degli ultimi centocinquantanni della nostra ben pi
lunga storia: la prima Italia risorgimentale e liberale,
la seconda mussoliniana, la terza repubblicana.
Quando il nostro cinema parla di questo ultimo seco-
lo e mezzo afferma nei titoli qualcosa che viene poi
messo in discussione nei film. Il titolo dice, del nostro
Risorgimento, Noi credevamo, e il film si pone la
domanda: in cosa credevamo? di far nascere quale
Italia? Il titolo Vincere diventa Vincere? cosa mai
abbiamo vinto, oltre a due mondiali di calcio, lungo
i due decenni abissali della dittatura fascista? Il tito-
lo Il Divo: quale divo? un mostro pietrificato, piut-
tosto. Lultimo esemplare, per ora!, del bestiario par-
torito dalla nostra storia Il Caimano: un caimano?
s, potente e grottesco. Non abbiamo una gran storia:
linizio non si sa bene quando, come e se c stato, poi
Mussolini per ventanni, Andreotti per cinquanta, un
intermezzo craxiano e questi ventanni con laccop-
piata tuttora regnante Berlusconi-Bossi (veloci ed
effimere le apparizioni di Prodi, fatto fuori dagli stes-
si che avrebbero dovuto sostenerlo). Non si accet-
tano scommesse su chi e come proseguir la serie.
Puntata troppo facile: molto probabile che si conti-
nuer cos.
Anche Habemus Papam non ha, nel titolo, punti
interrogativi, ma ne arrivano subito: perch il papa
non fa il papa? perch scappa? Le risposte, per gran
parte del film, sembrano essere fiduciose. Sembra
che, seguendo alla lettera il consiglio di Cristo, il
papa rinasca di nuovo e proprio dallalto: dallalto
di quel balcone abbandonato. Soffia vivace lo spiri-
to, spinge il papa a fare il papa in unaltra maniera,
non vestito cos, non affacciandosi al balcone, non
con discorsi e benedizioni allurbe e allorbe. Lo fac-
cia piuttosto, suggerisce lo spirito, vestito da perso-
na qualunque, recitando Cechov in battute semplici
e vere, andando dal fornaio la mattina presto a
prendersi una brioche, parlando a un silenzioso gio-
vanotto in autobus. Sorprendente questo papa,
umile e inadeguato, libero e sconosciuto.
Il papa non ha neppure scelto il nome da papa. Di
suo si chiama Melville: e fa esattamente quello che
fa, o meglio non fa il Bartleby di Herman Melville.
Bartleby, the Scrivener. A Story of Wall Street,
1853, racconta dello scrivano che, con modesta e
incomprensibile ostinazione, si rifiuta di fare quello
che dovrebbe fare. La sua risposta, ripetuta ripetu-
ta ripetuta, la stessa del Melville eletto papa: I
would prefer not to. Preferisce di no. E se gli chie-
dono perch, risponde ancora: I would prefer not
to. La storia di Bartleby si chiude con due sospiri e
punti esclamativi: Ah Bartleby! Ah humanity!.
Ah, questo papa, umano, troppo umano!
Papa Melville, come Bartleby, forse un depresso.
Tutti i cardinali sono depressi e prendono psicofar-
maci, anche pesanti. In Vaticano pensano che uno
psicanalista possa servire. E arriva linvenzione che
innerva il racconto. Prima che il film uscisse, si dice-
va fosse la storia di un papa in crisi, esistenziale e
religiosa, e che uno psicanalista doveva tirarlo su di
morale e di fede. Visto il film, le cose sono diverse.
Non lo psi a risollevare il pontefice. lo spirito
che soffia nelle tende sul versante affettuoso di
Habemus Papam (perch ce n un altro di versan-
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te: oscuro) a far risorgere dallalto non solo il
papa ma anche lo stesso psicanalista, che rinasce
meno dallalto del papa ma pur sempre un po in
alto, sulla predella di arbitro di pallavolo.
Il papa non fa il papa e lo psi fa solo per poco lo
psi. Incontra per brevi momenti il suo eminentissi-
mo paziente, sotto il controllo dei cardinali in circo-
lo (che vogliano guarire anche loro?), lo psi non pu
parlare di sogni desideri infanzia mamma sesso: e
lanalisi non neppure cominciata che il papa
Melville-Bartleby se ne va perch preferisce di no.
Lo psi resta senza paziente e il paziente, appena
fuori per le strade di Roma, se la cava bene con
tutti, anche con lex-moglie dello psi, psi anche lei,
fissata sul deficit di accudimento. La coppia psica-
nalista-paziente si scioglie subito, ognuno rinasce
prendendo una sua strada, il papa a spasso, lo psi a
giocare con i cardinali. Lo spirito sta soffiando alle-
gramente e fortissimo.
!!!
Questi punti esclamativi se li merita la novit
assoluta che c nel film. Che il papa se ne sia anda-
to gi, per lui, per lo psicanalista e per la Chiesa
cattolica, apostolica e romana, una vera benedizio-
ne. Ma succede qualcosa di ancora pi sorprenden-
te, per noi che conosciamo da tanti film Nanni
Moretti. Succede addirittura, roba da non crederci,
che Moretti in persona, regista-attore, non si indi-
gna! Non si indignano, non battono ciglio sia lo
psicanalista Moretti sia il Moretti regista di chapli-
niana sobriet. Non lo fanno, i due Moretti, quan-
do si ritrovano senza paziente, non si indignano
quando li tengono sequestrati in una stanzettina
spoglia, quando non possono parlare di sogninfan-
ziasessomamma, quando devono lasciar perdere
quel bel confronto-scontro inconscio-anima, quan-
do non possono litigare su darwinismo-creazione.
Del tutto semplicemente, larmamentario psicanali-
tico e le questioni di fede vengono messi da parte.
Moretti, nelle parti sovrapposte di personaggio e di
lui persona, preferisce di no, preferisce non indi-
gnarsi, non accusa nessuno, gioca e fa giocare.
Gioca a scopa con le eminenze, organizza un mon-
diale di pallavolo tra porporati, applaude i tre car-
dinali australiani quando segnano il loro unico
punto. Nasce di nuovo. Lo psi-non-psi e il papa-
non-papa rinascono, si mettono a soffiare insieme
allo spirito. Si accorgono del mondo, ci vivono den-
tro. Niente macerazioni. Il campetto della pallavolo
vaticana non la piscina di Palombella rossa
(1989), film che aggiungeva uninfinit di punti
interrogativi e di dubbi al titolo. Palombella
rossa???, chi ero? chi sono? dove vado? siamo
uguali? siamo diversi? siamo ugualidiversi? In una
elegante disposizione a chiasmo, il papa rinchiuso
si liberato, lo psi chiuso dentro e gioca. Nessun
buueliano angelo sterminatore blocca le porte
aperte dei palazzi apostolici. A tenere l lo psi e i
cardinali una guardia svizzera, golosa e annoiata.
Tutti credono che il papa stia riflettendo, invece
un papa-ombra a muovere ogni tanto le tende della
stanza. Una guardia svizzera imita il soffio dello
spirito. O anche (perch no?): lo spirito si diverte a
farsi passare per guardia svizzera...
???
Ma proprio cos? Troppo bello: un papa se ne va
e nella Chiesa prende a soffiare lo spirito. C un
versante oscuro del film, dove si incontrano punti
interrogativi nascosti. Nella prima immagine, si
intravede un elicottero che volteggia sopra i palazzi
vaticani: come lelicottero che apre La dolce vita
(1960) e vola sui ruderi degli acquedotti romani,
sulle terrazze con le ragazze in bikini, sui palazzoni
della speculazione edilizia. Sotto lelicottero fellinia-
no era sospesa la statua di un Cristo benedicente.
Sotto a quello di Habemus Papam non sospeso
nessun Cristo. Quando poi papa Melville gira tran-
quillo per Roma, vengono in mente altre immagini,
molto simili, quelle di Aldo Moro che cammina libe-
ro per Roma, in una sequenza visionaria di
Buongiorno, notte (2003), sequenza in cui
Bellocchio mostra il desiderio allucinatorio di una
liberazione dello statista (senza condizioni, come
aveva chiesto, lo si ricorder, il pontefice Paolo VI in
un drammatico appello agli uomini delle Brigate
Rosse) (P. Montani, Limmaginazione intermedia-
le, Laterza, 2010, p. 28).
Unallucinazione liberatoria. E se Habemus
Papam, Non habemus Papam, Habemus Papam?
fosse proprio unallucinazione liberatoria? Lo sug-
gerisce quel finale secco e duro. Il papa torna nel
palazzo, tiene un breve discorso al balcone: La
Chiesa ha bisogno di grandi cambiamenti
Chiedo perdono per quello che sto per fare La
guida non sono io. Si volta e si ritira nel buio,
stavolta per davvero. E cala il nero come una man-
naia, si affonda nello schermo scuro, senza pi sof-
fio, senza nessun vento, la fon tace. Qui comincia
il film che Moretti non ci mostra. La domanda
nascosta nelle tenebre: cosa succede a questa
Chiesa che non sa cambiare? Prologo del Vangelo
di Giovanni: In lui era la vita e la vita era la luce
degli uomini; e la luce nelle tenebre brilla e le tene-
bre non la compresero.
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Una pesantezza continua, la testa troppo piena.
come se avessi una specie di sinusite psichica. A
chi non capitato, e continua a capitare ciclicamen-
te? Al di l dei sintomi pi vistosi, e gravi, della
malattia chiamata depressione, questo senso di stor-
dita inquietudine, di passiva insofferenza, di eccita-
ta impotenza, , credo, uno degli stati pi diffusi del
nostro vivere quotidiano. Non sappiamo che fare, e
dove andare, non vediamo sponde e aperture, non
abbiamo fatto quello che avremmo voluto, abbiamo
dimenticato troppe cose della nostra vita, abbiamo
bisogno di tempo per ricordare. Non siamo pronti
per quello che gli altri si aspettano da noi; ma, forse,
nemmeno gli altri sono pronti. E tutto si ferma.
Un Papa che non vorrebbe essere Papa, e che
allimprovviso ricorda che avrebbe voluto fare lat-
tore teatrale. Uno psicoanalista che il pi bravo di
tutti, ma che ha una famiglia sfasciata. Cardinali
che di notte hanno gli incubi e chiamano la
mamma, cardinali che usano ansiolitici, stabilizza-
tori del tono dellumore, tranquillanti maggiori, car-
dinali che, chiusi nel conclave, implorano in silenzio
Non io. Non io, Signore!, un attore che, insieme
alle battute del Gabbiano di Cechov, recita senza
soluzione di continuit le indicazioni di regia e che,
senza soluzione di continuit, passa dalla clinica
psichiatrica al palcoscenico. E fuori, sul sagrato di
piazza San Pietro, o dentro, nella platea di un tea-
tro, il pubblico aspetta la rappresentazione, lim-
personazione giusta, aspetta qualcuno che gli dia
una mano a vivere, a superare la terribile bellezza
del darwinismo, la certezza, cio, che la vita non ha
alcun senso. Soprattutto qui e ora, si sarebbe tenta-
ti di aggiungere. Non io, non io, che non ce la faccio
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CAMBIA, TODO CAMBIA
Emanuela Martini
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nemmeno a superare il mio personale deficit di
accudimento; e che perci mi abbandono ai bom-
boloni alla crema appena sfornati, come il Papa in
giro in incognito per Roma, o alle marmellate, alle
torte alla panna e alle sacher, come la giovane guar-
dia svizzera che sta rinchiusa negli appartamenti
vaticani a fare la controfiguradel Papa, con linca-
rico di passeggiare davanti alle finestre chiuse e di
muovere ogni tanto le tende.
Habemus Papam non un film sul Papa e sul
Vaticano, anche se si apre con le riprese di reperto-
rio dei funerali di Papa Wojtyla e se racconta le
umane debolezze e lo spirito competitivo dei prelati
attraverso la descrizione della tormentata notte in
Vaticano e della loro voglia di vincere, nelle scom-
messe dei bookmaker inglesi, a scopone o a pallavo-
lo. Habemus Papam un film su tutti noi, o almeno
su chi arriva a un punto della vita in cui lanagrafe
o qualche avvenimento esterno lo costringono a fare
i conti con se stesso, a guardare indietro, a chieder-
si cos diventato, cosa avrebbe voluto, cosa ancora
pu fare o non fare e, soprattutto, se se la sente. Gli
ottantacinque anni di Papa Melville (come Jean-
Pierre e perci come Herman, dal quale il regista
francese prese lo pseudonimo) o i quasi sessanta di
Nanni Moretti fanno poca differenza: sono snodi,
momenti chiave, attimi di rendiconto. La maturit a
qualcosa serve, anche ad ammettere con noi stessi
che no, non diventereno mai attori teatrali, o balle-
rini, o campioni di pallavolo, che a sessantadue anni
abbiamo sbagliato vita, come in una commedia di
Cechov, che avremmo voluto vivere in citt e invece
stiamo in campagna e portiamo addosso, vestiti
sempre di nero, il lutto per la nostra vita. In pratica
ci sentiamo, come dice lo psicoanalista del Papa,
vulnerabili ma anche (almeno un po, ognuno di
noi) narcisisticamente eccezionali.
Ammettere di non farcela non significa necessa-
riamente (come stato rimproverato a Moretti
anche da alcuni estimatori del suo film) essere
rinunciatari, abbandonare una vita maldestra e illu-
sioni mal riposte. Significa, anche narcisisticamen-
te, accettare la propria inadeguatezza. Chiedere
aiuto. E magari non trovarlo, come accade a Papa
Melville, costretto alla solitudine di un ruolo (unico,
monolitico, che non concede la possibilit di recita-
re anche le indicazioni di regia) che, da solo, sa di
non potere assolvere. E significa chiedere di potersi
specchiare in altri, in una moralit collettiva, in idee
condivise, in dubbi uguali ai nostri. Non ci sono
risposte per Papa Melville che, coerentemente, se ne
va; lascia vuoto quel balcone, mentre la musica cre-
sce e, per la prima volta, assume accenti drammati-
ci che rimandano a quelli della sequenza conclusiva
di Il Caimano (2006). La gente, il pubblico, questa
volta non mette a ferro e fuoco il Palazzo di giusti-
zia, ma resta muta e disorientata, mentre i cardina-
li si abbandonano a una palese disperazione. Ma,
forse, la gente, il pubblico, questa repentina abdica-
zione se l meritata, non nella gentilezza dei singo-
li individui, ma nellacquiescenza indistinta della
massa. E questo ci riguarda tutti.
Resta una voce, una voce femminile calda e
appassionata che ci assicura che tutto cambia:
Cambia lo superficial / Cambia tambin lo profun-
do / Cambia el modo de pensar / Cambia todo en
este mundo. Mercedes Sosa, La Negra, la grande
cantante argentina scomparsa nel 2009, che ha rac-
contato al mondo el Sur e i suoi drammi, che ha
parlato di libert, damore e di lotta: ancora una
volta, quando la sua voce si alza dalle stanze vatica-
ne, come se una ventata daria libera si diffondes-
se sopra Roma, tra i personaggi prigionieri in
Vaticano e tra i passanti per strada in mezzo ai
quali cammina in incognito Melville, per un
momento non pi Papa, ma un turista qualunque,
sollevato da una canzone dal suo buco nero. come
se un pensiero collettivoattraversasse il film, a tra-
smettere unipotesi di speranza. Chiss.
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Se si dovesse sintetizzare in uno slogan lultimo
film di Nanni Moretti, Habemus Papam, mi verreb-
be da dire: la leggerezza della commedia e la pro-
fondit del pensiero. Il che mi riporta alla memoria
un saggio che anni fa scrissi sul suo cinema, intito-
landolo La forma comica del pensiero, ma allo
stesso tempo mi suggerisce una sorta di connubio
tra Billy Wilder, Stanley Kubrick e Luis Buuel. Ma
se la leggerezza un dono e uno stile e come tali
caratterizzano il film e la sua forma, la profondit e
il pensiero si collocano, come negli esempi citati, o
come nel Keaton caro a Moretti, in un sottotesto a
pi linee, che si sfiorano, sintrecciano, si abbando-
nano, vengono riprese in un affastellarsi di motivi
tematici di cui colpiscono innanzitutto lincongruit
e le divagazioni calcolate. Nessuna sequenza sepa-
rata dal resto, a partire dalla funzione cardinale su
cui si costruisce il film, la consapevole ritrosia del-
leletto ad agire da Papa, a essere Papa.
Questa inadeguatezza tutta umana viene rivelata
in una doppia gag: gli elettori che sussurrano in
coro Non io, non io, anche se non chiaro fino a
che punto siano sinceri (dopo tutto potrebbe essere
solo una forma di civetteria, non necessariamente di
malafede); le urla di terrore che per un attimo
sovrastano lannuncio Habemus Papam davanti a
una folla che da festante si fa allibita. Il resto un
percorso, pi zigzagante che rettilineo, presente pi
nel pensiero che nella trama, verso la rinuncia in
una chiusura malinconicamente a spegnere ben lon-
tana da quella minacciosa e crudele di Il Caimano
(2006). Il senso si costruisce in progress, per allu-
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IN LUTTO PER LA NOSTRA VITA
Giorgio Cremonini
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sioni e implicazioni apparentemente disperse, eppu-
re conseguenti e logiche, necessarie.
La rinuncia finale il corollario lucido di un
ambiente, come quello pontificio, in cui lassunzio-
ne al trono di Pietro avviene in un microcosmo in
cui il Potere al livello massimo o non . Lo confer-
mano il dogma dellinfallibilit del Papa e il rigore
rituale e piramidale della gerarchia che vi domina (e
che viene messo in ridicolo dalla sostituzione della
vorace guardia svizzera a un Papa che solo una
figura lontana, come una tenda che si muove: il
simulacro bassomimetico basta per qualche giorno
a surrogare unassenza travestita da presenza, ma
soprattutto a rivelarcene la fatuit e il vuoto). Il ful-
cro del film limpraticabilit di un potere divenu-
to troppo ingombrante, troppo vischioso: il potere
della chiesa, s, ma soprattutto il potere in s.
Che il rituale maschera per eccellenza del pote-
re sia lespressione pi evidente della chiesa-pote-
re trova per altro riscontro nellanalogia che con
esso disvela il papa/non papa, quando dichiara di
essere un attore, cio il comprimario di una finzio-
ne: solo che la finzione di Il gabbiano di Cechov
sincera (fino alla follia, come mostra lattore che
non si frena pi e viene portato via in ambulanza),
comporta lassimilazione completa del ruolo, men-
tre la finzione rituale solo portatrice di falsit, di
allontanamento dalla vita. Lattrice apre la pice
dicendo: Vesto di nero perch sono in lutto per la
mia vita. Come qualche volta succede, le citazioni
sono una parte rivelatrice del discorso: il teatro si
mescola alla vita, la illumina il rito la uccide.
La fuga, la paura e la rinuncia non sono dettate
da specifiche condizioni di sopravvivenza, ma da
una vita collettiva trasformata alle radici: lo svela-
mento di unontologia del potere, di fronte al quale
il neo non-papa Melville tocca con mano dentro di
s tutta la propria inadeguatezza prima ancora di
sperimentarla. La logica che muove lo smarrimento
del Papa molto di pi di un Domine, non sum
dignus: non si rivolge tanto al Dominus, quanto a
se stesso e agli uomini. Non in gioco una inade-
guatezza personale, invano perlustrata dagli psica-
nalisti di turno con formule che non possono schiu-
dere il mondo, ma la discrasia che separa luomo e
il potere dal mondo: limpraticabilit etica del siste-
ma. Bastano tre giorni (numero non casuale) a far-
gli capire che il mondo e la gente vivono, ancorch
lontani, e che basta poco per sperimentare il contat-
to: il Papa che si aggira in borghese fra bimbi che
bisticciano, in un albergo, su un bus, che usa il suo
cellulare, uno di noi, toccato non da grazie o even-
ti straordinari, ma da una normale quotidianit.
Quanto Il Caimano era una distopia, puntualmen-
te verificabile nella recente attualit, Habemus
Papam unutopia: il primo apparteneva al politi-
co, lultimo appartiene alletica e alla coscienza. Qui
lapprossimativo confronto con Kubrick, Wilder e
Buuel scivola via: nel film di Moretti non c irri-
sione, lironia non caustica e condannatrice, nem-
meno nella scoperta del gioco da parte dei prelati; lo
svelamento di una imprescindibile natura ludica
dellumano (anche fare un solo punto in una parti-
ta a pallavolo in condizioni disperate, tre contro sei,
diventa occasione di festa e di gioia; anche una can-
zone pu essere gioia) non prepara una conclusione
minacciosa, ma una liberazione.
Linvocata lacerazione di una socialit tutta risol-
ta nellottundimento del confronto troppo
alto/troppo basso (o troppo autoreferenziale/trop-
po estraneo) sta nella rinuncia pi personale e al
tempo stesso pubblica, appartiene a tutti, anche ai
prelati che si riversano nel teatro, e pi ancora a
coloro che in piazza fanno seguire un silenzio atto-
nito al fragore rituale degli applausi. La scena pu
cambiare. Deve cambiare. Perch todo cambia la
chiesa e questo mondo. La coscienza ci rende vili, s,
ma verit e libert.
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Camminano mesti, ordinati, verso il luogo del
conclave, ed come se venissero risucchiati nel
nulla. Ti immagini un burrone, un varco spazio-tem-
porale, un gigantesco imbuto che digerisce i cardi-
nali e li risputa su un nastro trasportatore, pronti a
diventare carne da santo (magari...!). Le guardie
svizzere sono schierate in fila, a protezione del fuo-
ricampo. I cardinali attraversano linquadratura e
poi spariscono oltre quella soglia, alla sinistra dello
schermo. Uno stacco in campo medio (che quasi
un totale) sottolinea il passaggio traumatico. Dove
se ne vanno i porporati? Fisicamente, lo sappiamo:
nella Cappella Sistina. Ma psicologicamente?
Spiritualmente? Moralmente parlando? Se ne vanno
letteralmente fuori dal mondo, per (provare a)
comunicare con Dio. Se ne stanno lontani dalle stra-
de, i ristoranti, i teatri, gli studi degli psicanalisti,
perch potrebbero inquinare la loro scelta con
qualcosa di troppo umano: dubbi, desideri, paure,
chiacchiere da bar e dialoghi di Cechov, sane malin-
conie e insani entusiasmi. Tutta quella roba, insom-
ma, che il Dio-Uomo cristiano (in teoria) venuto a
nobilitare, fin nei suoi pi infimi recessi, ma che
luomo-dio cattolico (in pratica) ha bisogno di met-
tere tra parentesi, per dare un che di eterno e asso-
luto e buono e giusto nei secoli dei secoli a tutta
quella recita (Melville lo sa di essere un attore).
E sia chiaro che Moretti queste cose non le dice
(clericali e anticlericali ne usciranno scornati, vaga-
mente insoddisfatti, o peggio, genericamente solle-
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RISUCCHIATI NEL VUOTO (SANTO)
Fabrizio Tassi
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vati). Lui si limita a far sfilare i cardinali in unaltra
dimensione, un mondo con regole tutte sue (anche
se poi scopriamo che la parodia di quello terreno,
un po elezione scolastica coi bigliettini, un po tom-
bolata), in una delle immagini pi abili ed eloquen-
ti di questo film, in cui la messinscena ha unimpor-
tanza (letterale e metaforica) che non ricordiamo di
aver visto in altre pellicole di Nanni Moretti. Fino a
questo punto, ogni cosa sembra molto formale e
solenne, se non fosse per quei giornalisti lasciati l a
sbavare e blaterare mentre i vescovi passano sul
tappeto rosso, manco fosse la notte degli Oscar,
nomination comprese. Poi si arriva alla porta magi-
ca abracadabra, bididibodidib attraversata
solo dagli uomini che Dio ha scelto attraverso il suo
uomo pi fidato. Poco importa che sia lultimo
erede di una santa investitura evangelica, o di un
formidabile equivoco storico e teologico. Importa
che l fuori, l dentro, venga investito il Papa, da cui
dipendono un miliardo di fedeli, svariate migliaia
di attivit (sociali, educative, finanziarie), un buon
numero di uomini politici influenti e un patrimonio
di idee e principi potenzialmente destabilizzante,
ma tradizionalmente passatista. Quanto bene
potrebbe fare un Papa deciso a portare grandi
cambiamenti, a capire le cose del mondo, ad
ammettere le colpe della Chiesa?. Melville lo sa, e
non regge il peso di quella responsabilit. Melville
appare schiacciato da quelle pareti ciclopiche e
affreschi preziosi. Il suo corpaccione da vescovo
attempato occupa un terzo o poco pi dellaltezza
dellinquadratura, quando non ridotto al primo e
primissimo piano della propria gentile, disperata
incredulit. Il Papa non ha sesso e non ha madre,
non ha pi uninfanzia, figuriamoci se ha dei sogni.
Il Papa perde perfino il proprio nome.Visto nel caos
del traffico, invece, nelle forme disordinate della vita
extra-vaticana, Melville sembra solo un vecchio. Ed
qui, spogliato dai paramenti, che pu ritrovare il
passato e immaginare un futuro, pu riscoprire
ricordi, desideri, rimorsi, fragilit, turbamenti,
imbarazzi. La cacofonia dellumano (le voci al risto-
rante). Altra che ora pro nobis, tutti in coro, tutti
in fila, tutti a onorare le vite perfette dei santi, e a
sperare nel Papa che ci guida e ci insegna.
Lo Spirito soffia l fuori, come sempre, dove
vuole. Dentro ci sono rimaste le tende mosse da una
controfigura che si strafoga di torte e cioccolato, il
cui compito mettere in scena il Papa orante (come
potrebbe inscenare facilmente quello che benedice
la piazza, che scomunica il teologo libertario, che
difende la vita imponendola a chi ridotto a un
vegetale). Mentre i vescovi, spogliati dei riti e miti
dellelezione di Pietro, tornano a essere fragili, buffi,
infantili esseri umani. Lo psicanalista ateo impone
altre regole, non meno ordinate e non pi assurde di
quelle di un conclave, e si gioca tutti insieme a pal-
lavolo. Ma a questo punto i cardinali non sono pi
anonime comparse di una scenografia troppo gran-
de per la loro effimera umanit. Ricevono perfino la
grazia di un rallenti. Non sono ancora pronti, per,
a capire quel balcone vuoto, quello spazio nero in
cui si rivela lassenza del Papa. Ha una potenza
mitografica che apprezzeremo solo con gli anni,
quella scena in cui il vescovo, dopo aver capito che
non habemus Papam, si ritira nel buio delle stan-
ze vaticane, camminando allindietro, in una sorta
di tragicomico rewind che sconquassa il nostro
immaginario, pi o meno cattolico (rivista alla tv, fa
anche pi effetto). il segno di qualcosa che non
riesce pi ad accadere (come una messinscena che
ha vissuto troppe repliche, e ormai troppo uguale
a se stessa) e che Melville trasformer in scelta con-
sapevole. Consapevole che ci che si aspettano da
lui (lo stemma!) non ci che potrebbe dare: dub-
biosa, tenera, contraddittoria umanit. E sia chiaro
che la Chiesa un pre-testo. Nel vuoto di quel bal-
cone, che angoscia (abbiamo bisogno di af-fidarci
a qualcuno) ma anche speranza (e se ci andassimo
noi sul balcone? e se il balcone lo tirassimo gi?),
che solitudine (chi ci guider?) ma anche comuni-
t (siamo soli, diamoci una mano), che umano ed
certamente sacro, ci potete mettere ci che pi vi
ispira o vi spaventa.
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Nelle interviste rilasciate per Habemus Papam, Nanni
Moretti dichiara di avere sempre pensato a Michel Piccoli
per il ruolo del cardinale Melville. Limmagine di Piccoli,
quindi, sarebbe stata subito indissociabile da quella di un
monsignore angosciato dalla nomina a pontefice che lo
ha investito.
Ma unimmagine non mai innocente e tantomeno lo
quella di un attore come Piccoli. Ossia un grande atto-
re che non soltanto ha una carriera lunga quasi settan-
tanni e duecento film (dallesordio come figurante in
Sortilges [Silenziosa minaccia, 1945)] di Christian-Jaque
e in un piccolo ruolo di Le point du jour [1948] di Louis
Daquin), ma che soprattutto rappresenta un simbolo
delle grandi stagioni del cinema europeo (innumerevoli i
film memorabili sotto la regia di Buuel, Melville non
a caso il nome assegnatogli da Moretti Godard,
Cavalier, Varda, Costa-Gavras, Chabrol, Deville, Petri,
Tavernier, Demy, Malle, Rivette e molti altri). In partico-
lare, Piccoli lultimo sopravvissuto di quel glorioso
quartetto di attori (con Tognazzi, Mastroianni e Noiret),
complici diretti da Ferreri in leggendari attentati cinema-
tografici contro la morale borghese (si pensi a La grande
bouffe [La grande abbuffata, 1973]). anche uno degli
ultimi ad avere incarnato, soprattutto negli anni
Sessanta, Settanta e Ottanta, unimmagine elegante, com-
plessa e ambigua della borghesia in film di Buuel,
Sautet, Chabrol, Deville e Granier-Deferre.
Ma, al di l di queste reminiscenze che la presenza di
Piccoli evoca spontaneamente, ci sembra che il cardinale
Melville nasca da due matrici. La prima, pi esteriore,
una figura di Moretti: il vecchio Sigmund Freud (interpre-
tato da Remo Remotti) del film nel film (La mamma di
Freud) che il regista Michele Apicella sta girando in Sogni
doro (1981).
Il vecchio Freud era un doppio di Michele, una sua
emanazione senile: come il regista, anche lillustre padre
della psicoanalisi viveva ancora con la mamma e come
lui non si era liberato da un infantilismo che esprimeva
in modo buffonesco, con smorfie e moine alla madre.
Dopo trentanni, il personaggio impersonato da Moretti
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LIBERT E DEPRESSIONE DEL FLNEUR
Roberto Chiesi
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in Habemus Papam, lo psicoanalista interpellato dal
Vaticano per curare il disagio del papa, nuovamente
confrontato a un vecchio, solo come lui. appunto la vec-
chiaia una vecchiaia di solitudine (ricordate la ragge-
lante frase che concludeva Bianca [1984]: triste mori-
re senza figli), langoscia che lo psicoanalista dalla barba
ingrigita non esprime e non confessa ma che ci sembra di
intravedere dietro la sua ansia trattenuta.
La specularit fra Melville e lo psicoanalista Moretti
pi sotterranea rispetto a quella fra il cineasta e il
suo Freud (che in effetti finiva per essere pi una
caricatura dellartista da vecchio, che non una sua
emanazione). Ma non un caso se, nel momento in cui
Melville riesce a fuggire dallaurea reclusione in
Vaticano, prigioniero lo diventa lo psicoanalista, cui
viene interdetto il ritorno al proprio domicilio finch
non si risolve lincresciosa situazione del nuovo papa.
unambigua prigionia, perch il personaggio moret-
tiano non sembra cos ansioso di ritornare alla solitu-
dine della sua normalit ( stato lasciato dalla moglie
anni prima e ne soffre ancora). Sembrerebbe quasi una
sostituzione se non fosse che riguarda solo il suo desti-
no ma non il suo ruolo, rimasto immutato e che, pro-
prio come il personaggio di Sogni doro, prevede una
ludica regressione allinfanzia, con la partita di palla-
volo organizzata con cura maniacale coinvolgendo i
cardinali.
Forse non solo un caso se una volta che il Papa ha
fatto ritorno in Vaticano in effetti, un falso movimento
perch latto che precede la rinuncia a quel ruolo lo
psicoanalista di Moretti scompare nel nulla.
UN IO NOMADE
Ma esiste un altro personaggio e un altro film che,
soprattutto, ci sembrano avere nutrito limmagine di
Piccoli-Melville: il Gilbert Valence di Vou para casa
(Ritorno a casa, 2001) di Manoel de Oliveira. Un vecchio
attore che, mentre recita Le roi se meurt di Jonesco,
colpito da un lutto atroce (la morte accidentale della
moglie, della figlia e del genero). La tonalit che il film di
de Oliveira condivide con quello di Moretti la depressio-
ne. Habemus Papam e Vou para casa possono essere
considerati (anche) due grandi film sulla depressione.
La depressione si insinuava in Valence dopo una tregua
apparente, colpendolo in seguito a brutali intrusioni della
realt esterna (il furto delle scarpe appena acquistate, dei
soldi e dellorologio a opera di un balordo). Lo colpiva
soprattutto nella perdita della memoria, che lo esponeva
a situazioni imbarazzanti durante le riprese di un film
tratto dallUlisse di Joyce. Dopo qualche dfaillance coi
gesti e le battute della sua scena, Valence si arrendeva e
abbandonava bruscamente il set per tornarsene a casa.
Limprovvisa vulnerabilit della sua memoria si univa
forse a una ribellione inconscia contro un boulot non
voluto (un ruolo secondario di vecchio, Buck Mulligan, in
un adattamento impossibile).
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Le sequenze di Habemus Papam, in cui Moretti segue
Piccoli/Melville mentre vaga per le strade romane, sco-
prendo uninaspettata libert nellassenza di responsabi-
lit, nella latitanza dalla propria identit, e un rapporto
finalmente immediato con le cose, possono essere con-
frontate a quelle in cui Piccoli/Valence deambulava per le
strade parigine in Vou para casa. Potrebbe essere unal-
lusione a quel film e a quel ruolo, anche la bugia di
Melville che racconta alla psicoanalista Margherita Buy
di essere un attore (e conosce a memoria Cechov). Una
bugia che come una sottile citazione. probabile che
Moretti sia rimasto colpito da quellimmagine di depres-
sione magistralemente evocata da Piccoli in una recita-
zione tutta interiorizzata di cui ritroviamo una splendida
prova anche in Habemus Papam, con laggiunta di un
soliloquio in autobus, mentre dai finestrini sfila una visio-
ne notturna della Citt eterna. Melville vaga senza fissa
dimora e a poco a poco ritrova un benessere che aveva
perduto nelle stanze vaticane.
Anche Valence, colpito da un lutto immedicabile come
lo psicoanalista Giovanni di La stanza del figlio (2001),
si abbandonava alla casualit del flneur, ritrovando il
senso dellesistenza nel flusso della quotidianit. In
Melville la libert, che ottiene grazie alla sua evasione,
lo conduce a trovare il coraggio di rifiutare quello che gli
altri cardinali (e i fedeli) credono leffetto di una scelta
divina. Lio depresso che cammina e vaga in una ricerca
silenziosa di cose e persone, , del resto, una figura pecu-
liare del cinema di Moretti: si pensi al nomadismo di
Bianca (in particolare alla scena in cui Michele entra nel
bar), o agli errabondaggi di don Giulio in La messa fini-
ta (1985), per non parlare delle corse ginniche del padre
in La stanza del figlio, che non avevano meta ma solo lo
scopo di spossare il corpo oppresso dai rimorsi.
Forse nellultimo film di Moretti aleggia anche il fanta-
sma di un altro film: Ludienza (1972) di Marco Ferreri,
con il segreto intimo e non svelato di Amedeo, lomino
(Enzo Jannacci) che voleva incontrare il papa e diventava
prigioniero di un implacabile ingranaggio che lo soppri-
meva lentamente e senza colpo ferire. Bisogna ricordare
che in quel film appariva anche Piccoli, in un ruolo che
lesatta antitesi del Melville di Moretti: lelegante e suaden-
te monsignor Amerigo, rappresentante dellanima pro-
gressista della Chiesa, dove si trova perfettamente a suo
agio, sinuoso e sfuggente. Una figura dove Piccoli adden-
sava ogni possibile ambiguit, come in altri personaggi di
ministri, industriali e dignitari che ha interpretato.
Per Ferreri, Piccoli sar anche il missionario bretone
Jean-Marie di Come sono buoni i bianchi! (1987), scon-
fitto dalla vittoria del Corano fra le popolazioni africane
che ha tentato di convertire. Con sarcasmo, Ferreri lo
mostra mentre benedice senza convinzione un bambino
agonizzante.
Un religioso in crisi anche il cappellano militare
Benetandi che Piccoli impersona nellunico film diretto
da Luciano Tovoli, Il generale dellarmata morta/
Larmata ritorna (1983) (dal romanzo di Ismail Kadare),
anche co-sceneggiato e prodotto dallattore. Un ruolo che
lo confronta allamico e complice Mastroianni (il genera-
le Ariosto), in una missione ingrata e amara che diventa
loccasione per un sottile teatro psicologico e nuanc fra
i due grandi attori.
Ricordiamo, infine, che a segnare lincontro fra
Piccoli e Buuel era stato proprio un film dove lattore
impersonava un prete: padre Lizzardi in La Mort en ce
jardin (La selva dei dannati, 1956). Fu lo stesso Piccoli
(come racconta nel libro Michel Piccoli le provoca-
teur di Robert Chazal, ditions France-Empire, Parigi
1989) a proporsi al maestro spagnolo per quel ruolo
che in origine era lontanissimo da lui (il personaggio
avrebbe dovuto avere quindici anni di pi rispetto
allet dellattore e doveva essere piccolo e rotondetto).
Come scrive Alberto Farassino, elegante, vestito in cler-
gyman bianco, con un prezioso orologio dono di una
compagnia petrolifera, Lizzardi sicuramente una figu-
ra non gradevole, pi o meno consapevolmente alleato
del potere, ma con una sua complessit e anche con-
traddittoriet che lo rendono interessante. Leleganza
attoriale di Michel Piccoli ne fa in ogni caso un corpo
estraneo fra gli avventurieri e soldatacci fra i quali si
muove (1).
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(1) Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buuel, Baldini &
Castoldi, Milano 2000, pp. 219-220.
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Gli ultimi film di Bellocchio sono, pi o meno
apertamente, tutti storico-biografici; o, quantome-
no, il filo conduttore della narrazione rappresenta-
to dal tempo di una vita (in) particolare, racconta-
ta, studiata, ricostruita. Nel caso di Vincere, quella
di Benito Mussolini, a cui sintrecciano le esistenze
allombra del potere del figlio e della Dalser; in
Buongiorno, notte, la parentesi insieme breve e lun-
ghissima di Moro prigioniero; in Lora di religione,
lesistenza in attesa di canonizzazione della madre
forse santa di Ernesto Picciafuoco, il modello di
biografo pi vicino al narratore di Sorelle Mai: scet-
tico e fin troppo consapevole degli inevitabili pro-
cessi di falsificazione che la scrittura biografica
porta con s, perch radicalmente contraria nel
suo mettere ordine e dare forma e rendere interes-
sante alla disordinata complessit dellesistenza
umana. Non a caso, poi, in quel film il dietro le
quinte della morte della forse santa era preso pari
pari dal primo (e adesso, ci si rende conto, insieme
ultimo e definitivo) film del regista, I pugni in tasca,
che torna in Sorelle Mai disseminato qua e l,
soprattutto nella prima parte, chiamato direttamen-
te per analogia visiva dal nuovo film. Torna con
moltissimi valori diversi: una firma; un genius
loci, indissolubilmente legato a Bobbio e al rappor-
SORELLE MAI Marco Bellocchio
SPECIALE
RICONOSCI TE STESSO
Luca Malavasi
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to tra Bellocchio e il piccolo paese piacentino in cui
nato; il motivo nella tappezzeriadi tutto il cine-
ma del regista; il simbolo di una protesta violenta
mai risolta, contro tutto ci che Bobbio e la sua
gente e la sua storia rappresentano (e che in Sorelle
Mai viene detto e ripetuto grazie a Cechov); il fil-
tro salvifico posto dal regista alla difficolt di
appartenere a qualcuno e a qualcosa, una famiglia e
un luogo; , rispetto a Sorelle Mai, il principio dor-
dine di un progetto quello di Fare Cinema che si
retto, nel corso degli anni, su due soli elementi di
continuit: la presenza del regista e Bobbio; la pre-
senza del regista nella sua Bobbio. Quindi, appunto,
I pugni in tasca. Come se la relazione tra Bellocchio
e la sua citt natale il semplice stato in luogo
fosse sufficiente a risvegliare quel primo e mai esau-
rito gesto di ribellione e devastazione fatto esplode-
re una prima volta nellesordio.
Il problema dellappartenenza a un luogo, a una
storia, a una relazione affettiva (amorosa o parenta-
le) si trasforma cos, inevitabilmente, nel collante di
questo bellissimo film di frammenti, riportando
tutto, ancora una volta, al motore insieme visivo e
tematico di tutto il cinema di Bellocchio, listituto
della famiglia, inteso come schema ordinatore del-
lesistenza, debito di sangue pagano, strozzatura
dellevoluzione. Attorno ai due totem rappresentati
dalle sorelle del titolo, ferme, fisse, inseparabili dai
luoghi, ruotano le esistenze inquiete dei nipoti,
Giorgio e Sara, che a quei luoghi possono apparte-
nere in modo solo intermittente: starvi, tornarvi,
viverci, significherebbe entrare a far parte di quella
gente senza talenti di cui parla Cechov e con cui
Giorgio, pi apertamente di Sara, si confronta
allinizio e alla fine del film. E quando riescono a
sedersi tutti insieme attorno a un tavolo Sara,
Giorgio, le zie, ma anche la piccola Elena, figlia di
Sara, e il funzionario(questo s davvero cecoviano)
Gianni per parlare di morte e sepoltura (lacqui-
sto di una nuova cappella funeraria accanto a quel-
la gi posseduta dalle zie, diventata col tempo un
po troppo affollata). La morte e la sepoltura delle
devotissime zie, ma anche quella dei nipoti e dei
loro figli e compagni: discorso di soldi e scartoffie,
preceduto da un discorso analogo e contrario, la
vendita della parte di casa bobbiese di propriet di
Sara; Bellocchio ricorda cos ai suoi che quella
terra, alla fine, li avr comunque, e per sempre, den-
tro un albero genealogico di cadaveri; e che non
basta andare via, vendere tutto, liberarsi di zie e
case, per essere liberi: un sottotesto insieme miti-
co e pagano, che parla di origine e appartenenza e
che assegna un ulteriore valore a quei frammenti
saltati da I pugni in tasca: che servono a rinnovare
e a ribadire la separazione, il desiderio della non
appartenenza (cecoviana) ma, al tempo stesso, per il
solo fatto di rendersi necessari a distanza di cin-
quantanni, formalizzano qualcosa che somiglia alla
sconfitta o forse, semplicemente, a una per quan-
to non pacifica presa datto; frammenti che danno,
al contempo, una diversa lettura di quella pagina di
Cechov, riferita a quello che sar. E lambiguit di
quel Mai, nel titolo, non vale diversamente.
E lasciamo pure perdere le realt biografiche
Giorgio che il figlio Piergiorgio, Elena che la
figlia del secondo matrimonio di Bellocchio con la
sua montatrice, le zie che sono le Sorelle, e poi le
attrici (la Finocchiaro e la Rohrwacher) che valgono
un po di pi che semplici prestacorpi e prestavoci,
per non dire dellonnipresente Schicchi. Anche a
voler ignorare la questione giustificandola in parte
con la condizione spontanea, didattica, low budget
e per lappunto famigliare caratteristica dei labora-
tori di Fare Cinema , Sorelle Mai comunque un
film di famiglia: non perch Bellocchio vi raccon-
ta la sua famiglia, e i luoghi a cui essa, da genera-
zioni, appartiene, ma perch ha riunito con legge-
rezza poetica gli appunti di un diario filmato nel
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corso degli anni, scoprendo e riconoscendo se stes-
so nella facilit con cui tessere tanto diverse si
sono infine trovate e legate insieme. Questa dimen-
sione propria dei materiali che compongono Sorelle
Mai, che insieme biografica e di poetica, che parla
di ossessioni e continuit dispirazione, dona al film
non tanto una dimensione collettiva, famigliare,
appunto, ma lo rende estremamente privato e solita-
rio: (auto)biografico, come molti altri film dellulti-
mo Bellocchio. Che, si capisce, usa la famiglia
listituzione e il caso di specie per mettere in scena
la sua storia: che, alla fine, sia sul piano biografico,
sia sul piano artistico, tutta una questione di
famiglia. Il film di famiglia, allora, non , nel caso
di Bellocchio, una forma o un genere tra gli altri,
con buona pace della critica psicoanalitica (che qui
potrebbe felicemente sbizzarrirsi, per esempio
dilungandosi a ragionare sul rapporto, piuttosto
sadico, tra il regista e il figlio); no, il film di fami-
glia vale per Bellocchio come unica forma possibi-
le di autobiografia artistica e, insieme, dichiarazio-
ne di poetica, in cui la famiglia non costituisce il
tema ma il mezzo per parlare di s, per dissemi-
narsi, per guardarsi da un punto di vista moltiplica-
to, per testimoniarsi. Si capisce, allora, la necessit,
tutta cinematografica, di una serie di fragilissime
falsificazioni piccoli slittamenti nei nomi, sostitu-
zioni di corpi, velature sui luoghi e i tempi; e si capi-
sce la necessit di usare il cinema gi realizzato I
pugni in tasca , unico mezzo per entrare nel nuovo
film. Si capisce la necessit stilistica di cancellare i
corpi e le storie nel nero, nel ralenti, nellellissi, fino
a trasformarli in macchie di colore, in fantasmi, in
doppi evanescenti, sospendendo, gi sul piano del-
limmagine, la referenzialit sempre troppo ingom-
brante e didascalica dellhome movie.
Bellocchio sa come si racconta la storia (vera) di
un uomo, la sua per primo. Non con le date e i dati
e la correttezza filologica altrimenti, come avreb-
be potuto far rinascere Moro? Bellocchio lultimo
grande regista surrealista della storia del cinema,
che da una decina danni a questa parte lavora
come nessun altro sa fare sulla penombra della real-
t, sulle verit nascoste, sulla materia dellimmagi-
ne luci, corpi, colori, tempi, movimenti Sorelle
Mai il suo diario onirico e notturno, la sua auto-
biografia allucinata e inevitabilmente contraffatta a
cui affida lideale chiusura di un percorso comincia-
to nel 1965. Chiude e riapre: se Moro rinasceva
dalla sua morte nellalba di una Roma deserta,
Sorelle Mai chiude con un battesimo pagano che
coincide con la definitiva scomparsa nel luogo e il
riconoscimento di dover appartenere a una terra da
cui si inseparabili, e a cui, in fondo, si pu anche
essere grati perch se la terra non fosse stata cos
arida, e la famiglia tanto sterile, la ribellione non
avrebbe avuto senso e forza, e larte non avrebbe
posseduto una cos potente necessit.
Regia e sceneggiatura: Marco Bellocchio. Fotografia:
Marco Sgorbati, Gian Paolo Conti (sequenze girate
nel 1999). Montaggio: Francesca Calvelli. Musica:
Carlo Crivelli, Enrico Pesce. Scenografia: G. Maria
Sforza Fogliani. Costumi: Daria Calvelli. Interpreti:
Pier Giorgio Bellocchio (Giorgio), Elena Bellocchio
(Elena), Donatella Finocchiaro (Sara), Letizia
Bellocchio, Maria Luisa Bellocchio (le zie di Sara e
Giorgio), Gianni Schicchi (Gianni), Valentina Bardi
(Irene), Silvia Ferretti (Silvia), Alberto Bellocchio (il
preside), Alba Rohrwacher, Irene Baratta, Anna
Bianchi (le professoresse). Produzione: Irma
Misantoni per Kavac/FareCinema/Provincia di
Piacenza/Comune di Bobbio/Rai Cinema.
Distribuzione: Teodora. Durata: 105. Origine: Italia,
2011.
Sara Mai unattrice e vive a Milano, cercando di
affermarsi, mentre sua figlia, la piccola Elena, passa
gran parte del tempo nella casa di famiglia a
Bobbio, dove accudita dalle due anziane zie. A
Bobbio torna spesso anche il fratello di Sara,
Giorgio, sempre pi inquieto e incerto sul proprio
futuro. Giorgio e le due zie sono ormai la famiglia
di Elena, finch un giorno, dopo aver ottenuto una
parte importante, Sara decide di portare la figlia
con s a Milano, e trasferrirsi in una casa pi gran-
de. A questo scopo, torna a Bobbio per formalizza-
re la vendita della sua parte della casa, trovando in
Giorgio un alleato prezioso, malgrado i rapporti dif-
ficili intercorsi in passato tra i due. Gli anni passa-
no, Elena cresce e si ritrova di nuovo a vivere con le
zie, che ospitano anche una giovane professoressa
di liceo che, travolta dalla sua angoscia damore,
durante gli scrutini finali, per assenza rischia di
far bocciare un suo studente. Anche Giorgio fa
ritorno a Bobbio, in fuga dai debiti e inseguito da
due personaggi loschi: stavolta sar la sorella ad
aiutarlo. La famiglia al completo si riunisce infine
sulla riva del Trebbia per assistere a una rappresen-
tazione ideata dallamico Gianni, che, vestito in
frac, si immerge nelle acque dellantico fiume del
paese dove tutti i personaggi sono nati e dove hanno
trascorso la loro prima giovinezza
SORELLE MAI Marco Bellocchio
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Con una certa periodicit a partire da Vacanze in
Val Trebbia (1980), Marco Bellocchio frequenta i
luoghi dellinfanzia e delladolescenza limmutabi-
le nato borgo selvaggio, le sue viuzze, il palazzo
avto, i meandri del fiume nel tormentato quanto
necessario recupero di una stagione con la quale
forse non si mai illuso di avere fatto definitivamen-
te i conti. Immaginiamo che le motivazioni e le
urgenze che stanno dietro questo eterno ritorno
vadano ben oltre il laboratorio Farecinema, una
scuola estiva di regia e recitazione che si tiene da
anni a Bobbio, affiancata da un piccolo festival le cui
proiezioni si svolgono nel chiostro dellabbazia di
San Colombano. Sorelle Mai, che del laboratorio
figlio, un po la sintesi, forse destinata a ulteriori
sviluppi, di un articolato work in progress.
Pur essendo solo in parte autobiografico, il film
accumula laboriosamente e con fatica le stratificazioni
di un vissuto, anche cinematografico. Per questo alcu-
ne corrispondenze vengono sottolineate da fulminee
citazioni di I pugni in tasca (1965), che funzionano in
qualche modo da flashback. Ma ben presto i richiami
al capolavoro desordio, la cui iterazione avrebbe potu-
to diventare ingombrante, vengono abbandonati in
funzione di un addio del passato che anche recupero
del passato stesso, o di un approccio pi maturo lega-
to allet e alle esperienze. Come sapevano i classici, la
comprensione passa attraverso la sofferenza, solo il
A BOBBIO! A BOBBIO! A BOBBIO!
BELLOCCHIO REBOURS
Paolo Vecchi
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dolore pu aprire a una prospettiva di pacificazione. Il
processo si incardina nel riconoscimento di quella sag-
gezza antica personificata dalle zie e dallamico di sem-
pre dal nome pucciniano, Gianni Schicchi, ma anche
nella rivisitazione di colori, profumi e sensazioni lega-
te ai luoghi. Curiosamente ma non troppo, Bellocchio il
nichilista, lanarchico, leversore, sembra avvicinarsi
per certi versi al (quasi)corregionale Pascoli nella
disarmata e diretta semplicit della rievocazione se
non del rimpianto, introiettando la sua poetica del
fanciullino che contempla attonito le cose con uno
sguardo vergine e primigenio.
Contemporaneamente, per, il regista piacentino
rimane attaccato a unidea di complessit maturata
attraverso anni e stratificazioni culturali, ad esempio
assumendo il fiume come elemento amniotico ma
anche luogo della purificazione (la magnifica sequen-
za in cui Sara recita la scena della pazzia di Lady
Macbeth sotto la pioggia, mentre Giorgio nuota in
quelle stesse verdi acque del Trebbia in cui la sorella
cerca di lavarsi forsennatamente le mani). Pur carat-
terizzandosi come ibrido giocato sullesiguit dellin-
treccio e su immagini ostentatamente povere, Sorelle
Mai riesce dunque a toccare corde profonde. Lo fa,
anche, servendosi di rimandi ad autori da sempre
congeniali a Bellocchio.
Cechov innanzitutto, letto nelle prime battute da
Giorgio, modellato in parte sullo Andrej di Le tre sorel-
le. Di questo capolavoro il film condivide senso di fru-
strazione e derive esistenziali, anche se ne inverte la vet-
torialit: mentre Olga, Masa e Irina sognano gli splendo-
ri di Mosca come riscatto della mediocrit provinciale, il
regista, come anticipavamo, sembra piuttosto impegnato
in un itinerario rebours, di riappropriazione di quell-
humus di paese e famiglia contro il quale pi di quattro
decenni fa si era abbattuta la sua rabbia iconoclasta. Poi
Verdi, nella rappresentazione en plein air nel corso della
quale vengono eseguite due tra le pi celebri romanze del
Trovatore, che in altro contesto avrebbero rischiato di
sembrare (alla maniera di Bertolucci?) stucchevoli, ma
qui sono percepite come tessere necessarie per la ricom-
posizione di un mosaico identitario. Infine Kleist, gi fre-
quentato tangenzialmente in Il sogno della farfalla
(1994), direttamente in Il principe di Homburg (1997),
per quelle accensioni febbrili, quei tempi sospesi, quelle
atmosfere subliminali che costituiscono uno dei pezzi
forti dellarmamentario poetico del regista: si vedano la
sequenza della ragazza che ha conosciuto Giorgio tredi-
cenne, con il quale si scambiata una promessa e che lo
bacia non venendo riconosciuta, o quella davvero straor-
dinaria delluscita di scena di Gianni Schicchi, ineffabile
uomo in frac che si inabissa nel fiume mettendo una
(provvisoria?) pietra tombale alla vicenda.
Al di l di un atteggiamento esistenziale mutato, in
Sorelle Mai, a nostro avviso uno dei momenti alti nella fil-
mografia ricca ma altalenante di Bellocchio, ci sono tutta-
via due aspetti nuovi che meritano una veloce sottolinea-
tura. Innanzitutto, alcuni momenti di schietta comicit,
merce rara in un autore votato semmai al grottesco (cfr. in
particolare La Cina vicina [1967]): lo show di un inse-
gnante che, nel corso di un consiglio di classe surreale ma
non poi pi di tanto, prima recita linvettiva del tenente
Mahler nel pre-finale di Senso (1954), poi si lancia in uno
haendeliano Alleluia!, o il cocciuto interesse di zia
Letizia per lacquisto di una cappella del cimitero limitro-
fa a quella di famiglia, mentre il notaio sta stipulando la
ben pi importante vendita dellappartamento di Sara.
Quasi che il film, oltre allapprodo a una considerazione
pi pacificata di se stesso, significhi per lautore il recupe-
ro di un senso dellumorismo altrove poco praticato.
Poi, laspetto in qualche modo metalinguistico, figlio
forse delloccasione e delle modalit realizzative. Pur non
essendo un vero e proprio film teorico sul cinema, come
lo sono, ad esempio, Rear Window (La finestra sul corti-
le, 1954) o Peeping Tom (Locchio che uccide, 1960),
per limitarci a due esempi grandissimi, Sorelle Mai riesce
comunque a riflettere e a far riflettere, spettatori e allie-
vi della scuola sul proprio farsi, procedimento miraco-
losamente risolto in quella che potremmo chiamare com-
patta frammentazione, su necessit di budget che sanno
diventare virt di idee e creativit, oltre che equilibrio
nella direzione di attori e non attori, sui quali Bellocchio,
grazie a un girato che copre un decennio, pu mostrare
davvero la morte al lavoro.
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La scrittura del romanzo famigliare coltiva lambi-
zione di costruire affreschi organici e unitari, allinter-
no dei quali la trama si disegna secondo forme ricono-
scibili, pressoch geometriche e prevedibili. La narra-
zione si avviluppa infatti attorno ad alcuni grandi temi
generatori, riconducibili ai valori che la famiglia incar-
na e alle sorti che hanno atteso il suo destino. Storie di
riscatti, di ricomposizione della crisi, di ritorni inatte-
si, di conciliazioni in seguito a scissioni ideologiche o
a drammi storici, e via di seguito (1).
Nel suo ultimo film, Sorelle Mai, Marco Bellocchio
lavora su un ripensamento radicale del concetto stes-
so di tema generatore, trattandolo cio nella sua
doppia valenza: da una parte come snodo narrativo
genealogico, capace di dare voce e visibilit alla storia
di famiglia; dallaltra, come principio generativo, atto
appunto a generare, a dar vita a un vero e proprio pro-
cesso creativo, che solo parzialmente parte della cele-
brazione di una micro-comunit (di sangue) per esten-
dersi alla costituzione di una nuova comunit forse
solo temporanea culturale.
Nato in seno ai laboratori condotti per la scuola estiva
Fare Cinema, attiva dal 1997 a Bobbio, sui colli piacenti-
ni, il film cuce insieme sei cortometraggi, realizzati in col-
laborazione con gli studenti, in un lasso temporale che va
dal 1999 al 2008 (2). Ciascun progetto si presenta non sol-
tanto come addestramento formativo per gli allievi che
partecipano ai corsi, ma anche come deposito di temi cari
al regista, nonch come luogo di sperimentazione visuale,
nella prospettiva dei lungometraggi a venire (3). In Sorelle
Mai, la conversione dei singoli progetti in episodi che pale-
sano una tenuta narrativa data innanzitutto dalla pre-
senza di due anziane zie, interpretate dalle sorelle del regi-
sta, Letizia e Maria Luisa Bellocchio, attorno alla cui casa
gravitano le esistenze dei nipoti: la piccola Elena (Elena),
che vede fiorire la propria adolescenza tra la penombra
delle mura della residenza famigliare e le acque del fiume
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SEGUIRE LE TRACCE DEI TEMI GENERATORI
Alice Cati
(1) Duccio Demetrio, Album di famiglia. Scrivere i ricordi di casa,
Meltemi, Roma 2002, p. 79.
(2) In particolare, due sono i documentari gi presentati pubblicamente da
Bellocchio, Sorelle (1999) e Sorelle (Il Matrimonio) (2004).
(3) Sara Leggi, Gli ultimi cortometraggi in Adriano Apr (a cura di),
Marco Bellocchio. Il cinema e i film, Marsilio,Venezia 2005, pp. 223-226.
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Trebbia; sua madre Sara (Donatella Finocchiaro), attrice
di teatro, che fugge dal luogo di origine, staccandosi dalla
figlia piccola, a rischio di inseguire un sogno vano; e lin-
quieto e stralunato Giorgio (Piergiorgio Bellocchio), che
legge e rilegge Cechov, alla ricerca di una risposta al richia-
mo costante, esercitato dai luoghi della memoria. Alle
spalle di tutti, veglia in modo paterno Gianni (Gianni
Schicchi), il quale amministra interessi materiali e affetti-
vi, con uno sguardo attento allimpalpabile ragnatela che
tiene insieme il passato famigliare e londivago procedere
dei suoi membri.
Il film cattura pertanto lo spettatore per le sue implica-
zioni familiari. Ma gli episodi del film sono popolati, nel
loro insieme, da attori di famiglia, non semplicemente
perch Giorgio ed Elena sono interpretati dai figli del regi-
sta, n tanto meno perch le zie non sono altro che le zie
reali. Anche gli altri volti e corpi attoriali appartengono
infatti alla storia cinematografica del regista, in quanto gi
interpreti dei suoi film. Addirittura gli ambienti trasudano
dellautentica aura famigliare dei Bellocchio quando si
scorgono, ad esempio, sulla credenza della sala da pranzo
i ritratti di famiglia, oppure quando Giorgio incalza la zia
Mariuccia, ponendole domande sulla figura della nonna e
sulla sua giovinezza. Lombra del padre/regista , in que-
sto modo, chiamata obliquamente in causa, quasi a presie-
dere linvocazione degli avi.
Tuttavia, il film appare molto di pi come lesito di un
gioco di rimandi e interventi davanti e dietro la macchina
da presa, il cui implicito obiettivo quello di far slittare il
racconto autobiografico e lo sguardo autoreferenziale in
una logica partecipativa e composita, premessa necessaria
a unappropriazione comunitaria. Se difatti nellautobio-
grafia personale lautore si assume il compito di ridarsi
unidentit, nella composizione di temi generatori, lo
scopo precipuo consiste nel voler restituire senso di s al
gruppo, anche a prezzo di eclissare la personalit stessa
dellautore. Per attendere a una simile intenzione, la scrit-
tura deve per seguire un iter di elaborazione che fissi pre-
cisi passaggi, appigli utili al richiamo e alla ricognizione
memoriale. La procedura prevede, di consueto, lindivi-
duazione di alcuni luoghi della memoria, che siano stati la
cornice di eventi, situazioni e relazioni passate.
Di certo, i luoghi di Bobbio rappresentano i topoi nar-
rativi, in interno ed esterno, comuni ai sei episodi. Nella
casa, troviamo la sala da pranzo, dove si celebra il rito del-
lospitalit e dellaccoglienza, da parte delle zie nei con-
fronti dei nipoti, che spesso sollecitano aneddoti dei tempi
andati; la stanza di Elena, sempre resistente al sonno e
vorace di chiarimenti sulla vita e i rapporti amorosi dello
zio e della madre, cos lontani dal riuscire a legarsi a qual-
cuno; il giardino, quale ambiente di convivialit e svago,
primo contatto con la campagna bobbiese. Andando fuori
dal cancello domestico, si districano le viuzze del paese; la
piazza dove si allestisce Il Trovatore di Verdi, che racco-
glie in una serata estiva lintera comunit; per non dimen-
ticare le acque del Trebbia, dentro le quali i personaggi si
tuffano come attratti da una forza ipnotica, rituale che cul-
mina tra lonirico e il simbolico, a chiusura del film, nel-
limmersione di Gianni in frac e cilindro, sulle note di
Domenico Modugno, senza pi riemergere.
Quando dunque si parla di memoria dei luoghi, si
ricorre a unespressione ricca di suggestioni. Se, da un
lato, possibile affermare che ogni memoria ha per ogget-
to il luogo, dallaltro, non si pu negare che essa stessa sia
localizzata nei luoghi. Ci significa che i luoghi possono
essere allo stesso tempo soggetti e portatori del ricordo, e
magari, avere a disposizione una memoria che trascende
gli uomini (4). Proprio in questo modo esemplare,
aggiungerei, i luoghi sono mostrati da Bellocchio in quan-
to forieri di un senso che travalica la dimensione stretta-
mente familiare, per canalizzare una memoria ancestrale.
Alla dialettica tra passato e presente si accompagna ine-
luttabilmente quella che coinvolge la vita e la morte, come
viene rappresentato dallopposizione tra il luogo dei vivi
la casa di famiglia e il luogo dei morti la cappella.
Ferme sulla soglia del tempo, quasi imbalsamate in una
dimensione che odora di naftalina, le anziane zie si pongo-
no come guardiane della discendenza, la cui presenza nel
mondo da perpetuare attraverso la conservazione delle
reliquie. Pregano nel secondo episodio leterno riposo nel
cimitero che si apre sulla vallata; mentre nel terzo, le
vediamo richiamare i nipoti per lacquisto di una seconda
cappella di famiglia, resasi disponibile grazie allestinzio-
ne della stirpe dei precedenti proprietari. Confidando sem-
pre in un ritorno alla terra dorigine di tutti i membri
dispersi della famiglia, ancora oltre le sorelle sollecitano
ossessivamente lacquisto della cappella durante la seduta
con il notaio, mentre Sara ha deciso di vendere la propria
parte della casa di famiglia.
Se fin qui risulta chiaro il lavoro genealogico del regista,
sottotraccia rimasto il discorso generativo. Seppur sotto-
posto con il montaggio a un intervento di chiusura del cer-
chio, nel film permane la filigrana della bozza di lavoro.
Simile alle annotazioni dei processi ideativi, la continuit
narrativa spesso si libera di capitolo in capitolo dal rigido
controllo delle drammaturgie cinematografiche canoni-
che, compiute nelle loro strutture testuali e ripulite dalle
tracce visibili della loro elaborazione. A un primo impat-
to, Sorelle Mai colpisce per le sue imperfezioni formali,
date dallalternanza di pellicola e digitale, la cui resa foto-
grafica sgrana luci e colori, cui si aggiungono le incoeren-
ze, o meglio i disorientamenti di sceneggiatura.
Esattamente in queste esitazioni risiede, per, il pregio
dellopera. Essa infatti mantiene il polimorfismo dellim-
pegno collettivo, che ha coinvolto in modo discontinuo
soggetti diversi, tutti chiamati a contribuire incasellando il
proprio frammento dentro il mosaico filmico. Non stupi-
sce pertanto lepisodio che sembra interrompere il filo
della storia di famiglia, con protagonista Alba
Rohrwacher nei panni di uninsegnante afflitta da pene
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damore che la distolgono dai doveri degli scrutini scola-
stici. Qui il tema generatore sviluppato sembra rispondere
alla domanda: a chi si aperta la porta di casa, dopo la
partenza di Elena con la madre a Milano e la vendita del-
lappartamento? Come si relazionano le zie innanzi allele-
mento estraneo? Quale vita si conduce al di fuori delle
pareti domestiche?
I vari capitoli non servono che da gioco preparatorio, da
materiale abbozzato, per poi giungere alla stesura di quel
volume che riguarder non solo il racconto famigliare, ma
la storia pi estesa del borgo in cui la famiglia vissuta.
Perch se la famiglia soprattutto comunit, anche altre
possono essere, senza cognomi e riconoscibilit immedia-
ta, le comunit da immortalare. Il film quindi raggiunge
un indice di libert, spontaneit, per non dire di improvvi-
sazione percepibile nellinterpretazione delle zie, che
irrompono con il loro lessico famigliare nelle conversazio-
ni di scena, generando un innesto di reale nel tronco fin-
zionale. Eppure, laccento che potremmo definire docu-
mentaristico evapora sempre di pi nellincedere degli epi-
sodi, quando si aprono a situazioni surreali, come lhappe-
ning teatrale per le stradine di Bobbio, oppure nella rap-
presentazione dellincubo di Giorgio, con la proiezione di
ombre cinesi. Anche in questo caso si allentano i freni ini-
bitori della scrittura filmica, consentendo al pensiero crea-
tivo di affiorare liberamente.
Infine, non resta che interrogarsi sulle forme assunte
dallimpulso autobiografico, che giace alla radice di
Sorelle Mai. Per quanto infatti i temi generatori si svilup-
pino in unottica di trascendenza della semplice memoria
individuale, diventando canovaccio per un racconto a pi
voci, le marche autoriali si mostrano come un residuo
indissolubile. Non si tratta solo del fatto che il film nasce
da unesperienza autobiografica (la direzione della scuola
di cinema), oppure che ambientato nel paese che ha visto
i natali del regista, bens tali marche riguardano limpasto
stesso della memoria visuale. Il cinema di Bellocchio ne
lingrediente dominante, in termini sia di archivio di
immagini, sia di calco impresso sui luoghi della rappresen-
tazione. Girate nella medesima casa di I pugni in tasca
(1965), alcune sequenze sono inframmezzate dalle fugaci
immagini del primo film del regista. evidente che qui la
famiglia riappaia non solo come motivo poetico, del quale
si ricordano, oltre agli ambienti, anche i significati (lalie-
nazione, la violenza, la claustrofobia, il desiderio di fuga),
ma soprattutto come configurazione dello sguardo.
Tuttavia, Bellocchio in questo ultimo lavoro vuole compie-
re un salto: una riflessione sulla famiglia come spazio limi-
nare, allo stesso tempo individuale e sociale. Come direb-
be Maurice Halbwachs (5), le traiettorie che la memoria
percorre allinterno di questo spazio si tracciano per gradi:
la mia memoria, la memoria dei miei familiari e, infine, la
memoria degli altri. Negli scarti tra questi tre stadi si inse-
risce la metamorfosi o meglio lapertura della memoria
privata verso quella sociale e collettiva. Tale processo di
apertura si esplica nel lavoro sperimentale cui hanno par-
tecipato non solo i parenti del regista, ma persino gli stu-
denti dei corsi di cinema.
Sorelle Mai racconta in fondo come la memoria sia
capace di indossare diversi abiti, sagomando un corpo
che, anche in procinto della fine, veste un costume di
scena. Per affrancarsi dai vincoli del passato, o meglio per
conciliarsi con esso, basta forse immergersi in un fiume,
lasciando a galla solo il proprio cilindro.
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(4) Aleida Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria
culturale, il Mulino, Bologna 2002.
(5) Maurice Halbwachs, Memorie di famiglia, Armando Editore,
Roma 1996.
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Quinto film di Lee Chang-dong, e suo secondo, dopo
Oasis, a essere distribuito sugli schermi italiani,
Poetry consacra finalmente il regista sudcoreano come
uno degli autori di maggior rilievo del cinema asiatico
contemporaneo. Gi autore di opere premiate a
Venezia e Cannes (come il gi citato Oasis e Secret
Sunshine), Lee Chang-dong non appartiene, coi suoi
film, a quelle roboanti estremit che hanno caratteriz-
zato certe figure emergenti del suo paese, come Kim
Ki-duk o il Park Chan-wook di Old Boy. Per quanto le
sue trame siano spesso altrettanto forti di quelle dei
registi appena citati, i suoi film fanno un uso pi mor-
bido della violenza, spesso relegata nei vuoti del fuori
campo e dellellissi (come accade per lo stupro e il con-
seguente suicidio della vittima, eventi che fanno da
motore narrativo a Poetry). I fatti, per Lee Chang-
dong, contano soprattutto per ci che essi significano
per coloro che li vivono.
Quello del regista sudcoreano , innanzitutto, un cine-
ma di personaggi. Tutto Poetry costruito intorno a Mi-
Titolo originale: Shi. Regia e sceneggiatura: Lee Chang-
dong. Fotografia: Kim Hyun-seock. Scenografia: Shin
Jeom-hui. Costumi: Lee Choong-yeon. Montaggio: Kim
Hyun. Interpreti: Yun Jung-hee (Yang Mi-ja), David Lee
(Yang Jong-wook, il nipote), Kim Hee-ra (il signor
Kang), Ahn Nae-sang (il padre di Kibum), Kim Yong-
taek. Produzione: Lee Joon-dong per Pinehouse Film.
Distribuzione: Tucker. Durata: 139. Origine: Corea del
Sud, 2010.
Mi-ja una donna di sessantasei anni, che abita nei
dintorni di Seoul col nipote, Jong-wook, la cui madre
vive e lavora a Pusan. Nel corso di una visita medica,
Mi-ja scopre di essere affetta dal morbo di Alzheimer,
a uno stadio ancora iniziale. Dopo essersi iscritta a un
corso di poesia, la donna apprende che il nipote, insie-
me con altri cinque suoi compagni, ha violentato una
ragazza, che si poi tolta la vita. I padri degli altri figli
coinvolti cercano, con la collaborazione della scuola, di
mettere tutto a tacere, offrendo del denaro alla madre
della vittima. Mi-ja
non sa come fare per
trovare i soldi del
dovuto. Mentre conti-
nua a seguire il suo
corso di poesia e a fare
le pulizie presso la casa
del vecchio Kang, la
donna si rende conto
che qualcosa non sta
andando per il verso
giusto. Dopo aver final-
mente trovato il denaro
necessario, e quando
tutto sembra essersi
risolto nel migliore dei
modi, Mi-ja decide di
denunciare laccaduto
alla polizia, costringen-
dola cos ad aprire
unindagine.
POETRY Lee Chang-dong
La poesia del tempo sospeso
Dario Tomasi
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ja, una donna di sessantasei anni che sta ammalandosi di
Alzheimer. Se si escludono la sequenza iniziale e quella
finale, tutte le altre scene del film ruotano intorno alla
presenza di Mi-ja. La macchina da presa di Lee la brac-
ca, coi suoi movimenti a spalla, senza sosta, dallinizio
alla fine, mettendo in scena, con rara intensit, il suo ane-
lito a trovare nella poesia una ragione di vita pi auten-
tica, ma anche una possibile via di fuga dai drammi e
dalle fatiche della vita quotidiana.
Poetry scandisce con rigore la vita di Mi-ja, strutturan-
do il proprio intreccio nel succedersi di una serie di situa-
zioni (e luoghi che le incarnano) che rappresentano le
diverse realt della sua condizione esistenziale.
Lappartamento di Mi-ja, che la donna condivide col
nipote adolescente, il luogo in cui ella costretta a con-
frontarsi con la colpa di questi (il gi citato stupro col
conseguente suicidio della vittima), e il dolore che tutto
ci provoca in lei. Le sale dattesa degli ospedali e gli
studi medici danno corpo alla sua incipiente malattia
(che lei finge di ignorare, e su cui tace al telefono con la
figlia). I locali pubblici, dove incontra i padri degli altri
ragazzi coinvolti nello stupro, hanno a loro volta il com-
pito di esplicitare il problema relativo al denaro che Mi-
ja deve in qualche modo procurarsi, senza sapere come,
per trovare un accordo con la madre della ragazza che si
tolta la vita. Lappartamento del vecchio Kang, in cui la
donna si reca pi volte per fare le pulizie, , dal canto
suo, il luogo in cui in cui Mi-ja scopre, senza alcun pia-
cere, di poter essere ancora loggetto del desiderio sessua-
le di un uomo (cosa che le permetter di racimolare il
denaro necessario al compromesso). Laula del corso di
poesia e la sala dei reading, infine, sono lo spazio in cui
prende forma il suo anelito alla poesia, a una dimensio-
ne in grado di trascendere le logiche e le fatiche del quo-
tidiano (come accade anche in quei diversi momenti in
cui la donna, soprattutto allaperto, cerca di trarre ispira-
zione dal contatto con la natura), ma sono anche lo spa-
zio, soprattutto la sala dei reading, in cui la donna matu-
ra quanto la sua idea di poesia come bellezza e purezza
danimo sia alquanto inappropriata.
La storia di Mi-ja , infatti, la storia di una crescita,
dellacquisizione di una consapevolezza. un roman-
zo di formazione che ha per protagonista una donna
di sessantasei anni. Mi-ja scopre nel suo cammino, e in
particolare attraverso lincontro col poliziotto e aspi-
rante poeta Park, che la poesia anche altro da ci che
lei ingenuamente immagina. Che essa non pu sottrar-
si dallincontro con tutti gli aspetti dellumanit,
anche quelli che lei considera pi torbidi e svilenti. La
poesia braccata dalla realt, non solo in quanto que-
sta, che per certi aspetti il suo contrario, la rende dif-
ficile (come faccio a far poesia quando devo procurar-
mi a tutti i costi quattro milioni di won?), ma anche
perch la poesia stessa non pu fare a meno della real-
t, non pu vivere in una dimensione separata da essa,
ma deve in qualche modo farla propria.
Ci che Mi-ja apprende , da una parte, che la poe-
sia non pu essere un alibi per fuggire dalla realt (e
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cos, quando tutto sembra ormai risolto per il meglio,
i soldi sono stati trovati e la madre della suicida ha
accettato il compenso in denaro, la sua coscienza la
spinge a denunciare alla polizia il nipote, provocando
larresto di questi e lapertura delle indagini); e, dal-
laltra, che la stessa poesia non pu che trovare la sua
forza a partire da uno stretto legame con la realt (e
cos la lirica, che alla fine trover finalmente la forza
di scrivere, non parla di fiori o uccelli, bens del dram-
ma della ragazza che si tolta la vita).
Di particolare importanza, a questo riguardo, sono
le scene finali del film, quando, dopo che la voce nar-
rante della ragazza ha preso il posto di quella di Mi-
ja nella recitazione della poesia che la donna ha com-
posto, le immagini che ripercorcorrono il gesto suici-
da della giovane vittima, sino allavvicinarsi al ponte
da cui si era gettata, si sospendono in un frame stop
della ragazza che, dopo aver guardato lacqua del
fiume, si volge verso la macchina da presa e, in un
primo piano assai coinvolgente, interpella diretta-
mente lo spettatore. Quasi che la forza di quelle
parole, di quella poesia, riuscisse a modificare il pas-
sato, o almeno a sospenderne il corso un attimo
prima che lirreparabile accada. La poesia (larte, il
cinema) non pi come fuga dalla realt, ma come
strumento per incidere sulla realt.
Autore nel senso forte della parola, Lee Chang-dong
ha dato corpo, attraverso la sua filmografia, a un uni-
verso assai coerente che Poetry non fa che ribadire. In
un saggio scritto prima delluscita di questultimo film
(che potete leggere in Marco Dalla Gassa, Dario
Tomasi, Il cinema dellEstremo Oriente, Utet, Torino
2010, pp. 182-191) individuavo alcuni luoghi di pas-
saggio che caratterizzano lopera del regista sudcorea-
no. In primo luogo i suoi film tendono a concentrarsi
su personaggi di intrusi, segnati da un drammatico
passato. In Green Fish e Oasis, ad esempio, i due pro-
tagonisti ritornano, allinizio del film, in seno a una
famiglia che non li vuole pi, e devono confrontarsi
luno col frantumarsi del proprio gruppo familiare,
avvenuto durante la sua assenza, e laltro con le con-
seguenze dellessere stato in prigione.
Anche Mi-ja unintrusa, come dimostra, fra il
resto, il suo rapporto con i padri dei compagni del
nipote, colpevoli anchessi di stupro: non solo lei
oggettivamente diversa da loro ( una donna e gli altri
sono uomini, una nonna e gli altri sono padri, pi
anziana e non ha i soldi necessari a compensare la
madre della vittima), ma ogni volta che si riunisce con
loro se ne estranea, non partecipando alla discussione
o addirittura andandosene. Il drammatico passato che
segna la vita degli altri protagonisti dei film di Lee, in
Poetry assume la forma di un drammatico futuro, rap-
presentato dallincipiente morbo di Alzheimer.
Unaltra caratteristica comune ai personaggi del
regista il loro essere senza famiglia, come la prota-
gonista di Secret Sunshine, che ha perso il marito e il
figlio, o come quello di Peppermint Candy, separatosi
anchesso dai suoi cari. Non diversa la realt di Mi-
ja, come testimoniano lassenza di un marito, cui mai
si fa cenno, quella della figlia, che vive e lavora lonta-
no, e il rapporto fatto di soli silenzi col nipote. Questa
assenza di una vera famiglia spinge i personaggi di
Lee a crearsene una artificiale, a entrare a far parte di
un gruppo che li accolga e di cui possano sentirsi
parte: la banda di gangster per il protagonista di
Green Fish, la polizia per quello di Peppermint Candy,
o il gruppo religioso per quella di Secret Sunshine.
Una scelta analoga fa anche Mi-ja, quando entra a far
parte della comunit degli aspiranti poeti. Ma anche
lei, come gli altri personaggi di Lee, si trover poi in
attrito con tale nuova famiglia, come accade nella
scena del ristorante, in cui la sua ingenua adesione alla
poesia come bellezza derisa dal giovane, affermato, e
ubriaco poeta che le siede di fronte.
Un altro tratto comune ai personaggi del regista
lesistenza di un sogno che essi in qualche modo rie-
scono a realizzare, a volte anche dopo la loro morte
(come il ricomporsi della famiglia in Green Fish, o il
ritorno alla purezza originaria in Peppermint Candy).
Anche Mi-ja realizza, come gi abbiamo visto, il suo
sogno: lei lunica fra i partecipanti del suo corso a
scrivere una poesia; una poesia che riuscir a sospen-
dere nel tempo il suicidio della ragazza, in un epilogo
che, come ancora accade molte volte nel cinema di
Lee, pi che chiudere il racconto in se stesso sembra
aprirlo a nuovi e possibili destini.
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Luce, duce, pagaci la luce. Re, re, pagaci il caff!
(Marcello Mastroianni in Enrico IV di Marco Bellocchio)
Non facile occuparsi di un film che nella miglio-
re delle ipotesi crediamo dar maggiormente i
suoi frutti tra qualche anno. Del resto gi succes-
so. Sono trascorsi esattamente trentatre anni dal-
luscita in sala di Forza Italia, che ha poi precorso
limpianto dei film di Michael Moore. Ed evidente
che Roberto Faenza abbia concepito Silvio Forever
come unopera gemella, anzi una prosecuzione idea-
le, cronologica, persino logica di Forza Italia.
Limpianto discorsivo lo stesso, non perch lauto-
re, che firma il film con Filippo Macelloni, non sia
stato in grado di immaginarne uno diverso, nuovo,
originale. Al contrario: limpressione che la ripeti-
tivit appena differenziata degli eventi, delle circo-
stanze, dei ruoli in commedia abbia daccapo richie-
sto una modalit di racconto consimile, una struttu-
ra inveterata ma adeguata per uninchiesta retro-
spettiva, la cui strategia forse oggi risulta persino
pi chiara, importante, utile di quanto non sia acca-
duto nel cos lontano/vicino 1978.
Certo cambiato il tipo di rappresentanza su cui
si concentra la rappresentazione stessa: dalla cora-
lit immobile e sempre uguale dal 1945 al 1978
dello stato maggiore democristiano di Forza Italia si
passati in Silvio Forever alla singolarit di un pre-
sidente-padrone altrettanto inamovibile, perduran-
te, autoreferenziale dal 1994 a oggi. Donde la scelta
di costruire il racconto come racconto inevitabil-
mente di s, mito biografia, affidata alla voce del
protagonista, voce simulata (di Neri Marcor) su
testi autentici (di Silvio Berlusconi). La differenza di
vertice, tra un modello dominante di potere da
prima repubblica in Forza Italia a uno impostosi
successivamente, viene compensata in Silvio
Forever dallartificiosa propensione berlusconiana
alla moltiplicazione, alla riproposizione, alla palin-
genesi di se stesso allinfinito.
Ecco perch il Forever del titolo non suona n
come una minaccia, n come una constatazione ras-
Regia: Roberto Faenza, Filippo Macelloni. Sceneggiatura:
Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo. Montaggio: Riccardo
Cremona. Con: Silvio Berlusconi, Rosa Bossi Berlusconi,
Ugo Gregoretti, Roberto Benigni, Marco Travaglio, Noemi
Letizia, Dario Fo, Indro Montanelli, Raimondo Vianello,
Ambra Angiolini, Mike Bongiorno, Neri Marcor (voce
narrante simulata di Silvio Berlusconi). Produzione: Ad
Hoc Film. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 85.
Origine: Italia, 2011.
e poi, col tempo, tutto ha cominciato a ruotare sempre
pi intorno a lui. Solo a lui. Ossessivamente a lui: Silvio
Berlusconi. Che, comunque la si pensi, al di l dei meriti
per cui lo osannano e dei demeriti per cui lo disprezzano,
uno strepitoso personaggio della commedia dellarte,
capace di offrire miriadi di spunti per una avventura cine-
matograficamente immaginabile. Piaccia o non piaccia,
nessuno pi rappresentativo dellItalia di oggi quanto il
Cavaliere. Destinato per le sue gesta, che mandano in
delirio chi lo adora e fanno inorridire chi lo detesta, a rap-
presentarci in patria e allestero per molto tempo. Anche
indipendentemente dalla tenuta del suo governo e dal suo
destino personale, che alcuni sognano al Quirinale, altri
ai Caraibi
(sinossi dal sito ufficiale del film www.silvioforever.it)
SILVIO FOREVER - AUTOBIOGRAFIA NON AUTORIZZATA DI SILVIO BERLUSCONI
Roberto Faenza e Filippo Macelloni
Storia di un italiano di (s)fiducia
Anton Giulio Mancino
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segnata. Piuttosto rientra nellironia della sorte, che
implica pienamente la consapevolezza dellinvolonta-
rio protagonista del film, ma volontario protagonista
della storia italiana dellultimo trentennio (senza
contare il pregresso che il film non esclude come base
politica, culturale, sociale e antropologica) a incarna-
re anche simultaneamente, a seconda dei casi, delle
necessit, dei luoghi e delle circostanze, ogni sorta di
personaggio concepibile: mimetizzandosi, egli
maschera se stesso e nel contempo maschera di con-
tinuo la verit, ne ripropone la sostanza variando di
volta in volta la forma, lapparenza, sostituendosi da
solo, con il proprio abile spirito trasformista, allim-
mutabilit collegiale di un ormai antico, ma non tra-
montato stampo democristiano.
Lassolo prolungato e a senso pressoch unico di
un Berlusconi mammone e libertino nello stesso
tempo, bigotto per necessit, anticomunista fuori
tempo massimo, tutto e il contrario di tutto, che crea
senza contraltari credibili o stabili il suo popolo a
immagine e somiglianza (a immagine e somiglianza
dei suoi fantasmi, delle sue pulsioni, del suo immagi-
nario pruriginoso, consumistico e edonistico), diven-
tandone di conseguenza il leader incontrastato, equi-
vale oggi a quella che fu la recita collettiva della con-
grega assortita dei comprimari delllite democristia-
na. Questo aspetto cangiante ma in sostanza, sotto
mentite spoglie, fisso del protagonista assoluto e plu-
ridecennale italiano consente a Faenza di inaugurar-
ne il decorso del suo ultimo film, come in Forza
Italia, con lalba repubblicana, devozionale, vitello-
nesca, pronta alla massificazione gaudente e al mira-
colo economico. La storia italiana si rispecchia ed
rispecchiata da un fenomeno esemplare, modulare,
riproducibile: il berlusconismo, prima, durante e pro-
babilmente dopo Berlusconi medesimo, inteso come
paradigma autoreferenziale e collettivo senza solu-
zioni di continuit. Ragion per cui le qualit semina-
li di Silvio Forever risulteranno probabilmente pi
apprezzabili, come si suol dire in gergo sportivo,
sulla distanza.
Anche Forza Italia, al di l dellostilit manifesta,
della carica dirompente, provocatoria, antidemocri-
stiana di allora, con il passare del tempo ha guada-
gnato efficacia, offrendosi sempre pi come docu-
mento storico puntuale, strumento conoscitivo pre-
ciso. Pi austero e meno goliardico di quanto non
fosse (apparso) nel 1978. Un progetto estetico coe-
rente e distanziato che, per, aveva bisogno in quel
momento di sedimentarsi, di essere elaborato luci-
damente da parte degli spettatori, dei critici e della
classe politica del tempo: di quella giusta distanza,
di strumenti e capacit di lettura che tornano oggi-
giorno a mancare, per ragioni altrettanto compren-
sibili, di fronte a Silvio Forever. Detto altrimenti,
lultimo film di Faenza risente (pur)troppo dellef-
fetto presente di saturazione, della sovraesposizione
mediatica del personaggio Berlusconi.
Gli spettatori italiani, a qualsiasi livello di consa-
pevolezza, appartenenza culturale e politica, non
sono nelle condizioni di rapportarsi a questo pro-
getto cogliendone, qui e ora, lo spessore. Lo dimo-
stra latteggiamento contenutista, ugualmente stru-
mentale sui due fronti contrapposti, che ha accom-
pagnato luscita in sala del film, la visione, il dibat-
tito pubblico. Limpressione che, sommersi di
immagini di ogni tipo del premier, questo film non
differisca tanto da una qualsiasi antologia, da una
puntata di Blob (non va dimenticato che anche a
Moore, diretto erede di Faenza, in Italia stato
ugualmente rimproverato di non aver fatto granch
di pi di una delle tante puntate del variet Le
iene), da una delle quotidiane sintesi che persino
un telegiornale riconsegna a quella opinione pubbli-
ca assuefatta, critica, consenziente, indignata. Lo
spettatore italiano, che oggi coincide con il telespet-
tatore, reagisce a Silvio Forever credendo di aver gi
visto tutto, di sapere gi tutto, se non di pi.
Molte recensioni o interventi a vario titolo, tiepi-
damente, riconoscono al film un valore direttamen-
te proporzionale a un bagaglio conoscitivo pregres-
so, individuale, indipendente dal film stesso. Come
se Silvio Forever fosse esattamente ci che ciascuno
ritiene che sia, che dica. E vi si possa leggere esatta-
mente ci che c dentro, quantitativamente. Lo si
interpreta in relazione a ci che gi si pensa. Si
cerca, di conseguenza, nel film conferma delle pro-
prie convinzioni, pro o inevitabilmente contro il per-
sonaggio Berlusconi. Ammesso e non concesso che
Faenza labbia concepito per prestarsi al gioco delle
parti o del come tu mi vuoi, speculare e parallelo
allatteggiamento camaleontico dello stesso prota-
gonista onnipresente, Silvio Forever rischia di ridur-
si a semplice supporto dellesistente, di un dibattito
pseudo politico che si trascina, ripetitivo e sempre
pi stanco, di talk show in talk show.
Invece, al di l di qualsiasi connotazione imme-
diata, contingente, italiana, il film di Faenza un
oggetto che ha, avr bisogno di tempo per essere
identificato appieno, interpretato, compreso pro-
fondamente. Non nemmeno un caso che quasi
sempre nelle trasmissioni televisive a parlarne
siano stati chiamati non i registi Faenza e
Macelloni ma, in qualit di sceneggiatori-autori, i
giornalisti Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Non
dimentichiamo che questultimo aveva gi curato
lintroduzione del volume che accompagnava la rie-
dizione in dvd di Forza Italia. N che gi Forza
Italia era stato scritto da due giornalisti, Antonio
Padellaro e Carlo Rossella, oggi inimmaginabili
allinterno di un progetto comune. A riprova di
come di Silvio Forever interessi, per ora, lesclusiva
componente giornalistica, di come venga preso in
considerazione per le cose che dice o si vorrebbe
che dicesse, in una fase diuturna e congiunturale in
cui, peraltro, gioca a svantaggio della lucidit criti-
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ca leccesso e non il difetto di quote informative, di
notizie clamorose, cui lo stesso premier contribui-
sce concedendo forse con chiara cognizione di
causa, lascia intendere il film, che infatti costrui-
to sullimbarazzo della scelta dei materiali di reper-
torio quotidianamente nuovi spunti, nuove ester-
nazioni. Mettendo cio sempre pi carne, in tutti i
sensi, a cuocere.
Silvio Forever, con buona pace di fraintendimenti
o di considerazioni mirate e di convenienza, esprime
sin dal titolo questa cognizione del problema, lenti-
t del problema, che di portata storica. Laspetto
esplicitamente auto-promozionale del personaggio
centrale, pressoch unico, venditore incontenibile di
se stesso, che riduce tutti gli altri al rango di com-
parse, figure confinate sullo sfondo, sostenitori e
detrattori, corrisponde per certi versi a una logica
che potrebbe essere riassunta da una nota campa-
gna pubblicitaria della telefonia mobile secondo la
quale pi si chiama lutente e pi la scheda si rica-
rica. Per poter esserci sempre e comunque,
Berlusconi ha bisogno di essere chiunque, essere
uno qualunque, essere dappertutto e comunque.
Ragion per cui, sin dal principio, il Faenza scopre le
carte. Infatti la sequenza dei titoli di testa esibisce
un modello di famiglia o di clan allargato in cui
ogni membro un sosia del premier di lunga dura-
ta: uomini, donne, bambini, anziani, genitori, figli,
parenti di ogni tipo, hanno il volto di Silvio
Berlusconi, come in Essere John Malkovich di Spike
Jonze (salvo che l si trattava di un incubo immagi-
nario, di una visione psichica della realt, qui di
realt tout court).
E Silvio Berlusconi medesimo rilancia, sta al
gioco, conduce e si fa condurre dal gioco cercando,
contro ogni buon senso, contro ogni remora, misura
o forma di contegno, di dichiarare, millantare di
aver preso parte a tutti i passaggi chiave della sto-
ria repubblicana (lo conferma il ricorso indiretto ma
pertinente in Silvio Forever di stralci di cinegiorna-
li dellIstituto Luce). Sostiene di aver fatto tutto lui,
in qualsiasi momento, sfidando qualsiasi condizione
concepibile, mentendo sistematicamente: allitalia-
na. In virt di un principio della conoscenza appiat-
tita su un presente mediatico usa e getta, in cui solo
la successione insensata di cose dette e smentite, poi
riaffermate e nuovamente smentite, vanificando
anche il principio di non contraddizione, introduce
un fattore di trasformazione, per non dire di muta-
zione, non tanto politica, sociale e culturale, quanto
addirittura antropologica.
In questo Silvio Forever molto vicino a
Videocracy di Erik Gandini, altro film poco favori-
to dalla sovraesposizione incessante di notizie sem-
pre pi aggiornate, sempre pi incredibili e nondi-
meno digerite, metabolizzate. Su una comune base
di materiali di repertorio disponibili su cui non c
che limbarazzo della scelta, e che in Silvio Forever
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equivalgono allintero spazio della rappresentazio-
ne, mentre in Videocracy fanno parte di uno schema
intermediale, leffettivo quadro complessivo tra-
scende i confini, anche nazionali, del racconto stori-
co come dellinchiesta giornalistica, per suggerire
altro: una visione dinsieme ai limiti della fanta-
scienza distopica, che sociologicamente allude a un
avvenire sconcertante, prefigura uno scenario pros-
simo venturo che per gi presente.
Ancora una volta ci sembra questa la chiave pi
emblematica della seconda parola del titolo, quel
Forever che fa seguito automaticamente al nome
proprio del protagonista-paradigma, Silvio, depri-
vato del cognome in quanto riferito a un personag-
gio collettivo indistinguibile dalle ragioni favorevoli
o contrarie. Il Silvio nazionale ha autorizzato la
confidenza nei suoi confronti da parte dellitaliano
medio, generico, comune. Il tu dato a chiunque
diventa il tu confidenziale assegnato al premier-
padrone. Anche rispetto a Il Caimano di Moretti,
che enunciava a parole il problema per bocca dello
stesso regista (nel ruolo di un suo possibile se stes-
so, salvo poi visualizzarne le estreme, gotiche conse-
guenze nel finale, sospeso tra realt e finzione), la
scelta compiuta in Silvio Forever di far rivedere e
risentire tutto ci che si crede di aver gi visto e sen-
tito troppe volte, permette di interrogarsi sul grado
perverso di assuefazione allamico/nemico che,
come un anfitrione occulto, a latere o eccessivamen-
te palese di un decorso storico ultradecennale, ha
condizionato, ipotecato, costruito un mondo come
un mad doctor di fantascientifica memoria, un
Mabuse moderno, un mostro di una categoria
mostruosa da commedia (all)italiana: una figura
che sembra uscita da un vecchio film di Risi o
Monicelli, un novello Sordi plurivalente e prismati-
co che, infine, ha potuto rimettere assieme tutti i
suoi sketch, i suoi personaggi pi celebri, le sue
parti in commedia e ricavare un film di montaggio
che potrebbe durare ore e ore, svilupparsi orizzon-
talmente a tempo indeterminato.
Il noto programma-omaggio di Alberto Sordi e
Giancarlo Governi si intitolava infatti Storia di un
italiano. Di un italiano, dunque, non di un attore,
quellattore, Sordi, o della galleria di personaggi
sordiani. Proprio come Silvio Forever, emblematica,
ideale copia di quel film antologico (cui abbiamo
nel titolo di questo intervento aggiunto parte di
quello indovinato di un racconto di Tullio Kezich,
sul cinema: Luomo di sfiducia). Solo che, allora,
litaliano rappresentato era un prodotto cinemato-
grafico, umoristicamente verosimile; ora un com-
mediante vero. Anche perch, come i padri della
commedia italiana hanno spesso sostenuto, i loro
mostri o mattatori erano scomparsi dagli schermi, si
erano resi non pi proponibili se non tristemente,
tragicamente e malinconicamente, in quanto nel
frattempo nuovi, altri, veri mostri avevano inva-
so la vita pubblica, si erano materializzati come
maschere non riproducibili di una farsa reale.
Perch mai una certa commedia dautore, dopo
aver tenuto banco dagli anni Cinquanta ai primi
anni Settanta, cambia pelle, si trasforma, termina
proprio tra la met e la fine degli anni Settanta?
Perch da questo momento le commedie comincia-
no a far meno ridere, a diventare pi canagliesche,
cattive, cupe e persino pi volgari? La risposta, pre-
figurata da Faenza nei suoi saggi pubblicati in volu-
me, poi in Forza Italia, sul versante della non-fic-
tion, e in Si salvi chi vuole, su quello della fiction,
andava ricercata nel potere delle immagini mediali
e nellavvento delle tv private, quindi lungo la stra-
da che avrebbe condotto quel sintomatico padrone-
commediante in carne e ossa a proseguire in modo
compulsivo la tradizione della commedia cinemato-
grafica nella realt. Una realt che per eccesso ripe-
titivo di visibilit, non per difetto, per questa capa-
cit di armonizzarsi con le menzogne e il menzogna-
re italiano appare oggi un drammatico dj vu sor-
diano. O risiano, monicelliano. N con il senno di
poi c da sorprendersi pi di tanto se quello che nel
1978 era stato scelto come titolo irrisorio di un film
anti-democristiano, Forza Italia, sia diventato il
nome del partito del protagonista di Silvio Forever.
Che perci, come si diceva allinizio, in tutti i sensi
la fisiologica, cronologica, logica prosecuzione testi-
moniale del precedente film di Faenza.
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Dopo almeno un secolo che se ne parla, ancora non
dato sapere se esista davvero quella cosa che si soliti
chiamare spirito del tempo. Lo Zeitgeist, quella strana
comunanza di sentire e pensare fra persone completa-
mente scollegate fra loro, che sconfina nelle suggestioni
psicomagiche che Jung definiva sincronicit e che da
Richard Dawkins in poi ha preso la strada della cosid-
detta memetica.
Che siano le cose distanti ad assomigliarsi o che sia loc-
chio tendenzioso dellosservatore a cogliere e dare signifi-
cato a elementi solo casualmente convergenti, poco impor-
ta. Alla fine, ci che conta sono le relazioni che i soggetti
instaurano con i singoli oggetti o con gruppi di essi, asso-
ciati in maniera sempre pi arbitraria, nel disperato tenta-
tivo di ricavare un senso dal flusso incontrollato delle
informazioni e delle sensazioni.
Ad esempio, pu capitare di trovarsi perturbati dalla
visione, in un periodo relativamente ravvicinato, di due
film che pi distanti fra loro non potrebbero essere. Il
primo un film americano, realizzato dai due maggiori
talenti del cinema contemporaneo, remake di un western
cos crepuscolare da poter essere letto come un anti-
western o un sous-sous-western, per rifarsi a una definizio-
ne classica. Cinema narrativo di finzione, Global
Hollywood, frontiera e sparatorie che si dissolvono nella
fiaba e nel romanzo di formazione.
Il secondo un film che la critica ha definito docu-fic-
tion. Di certo un film local, che affronta il pi inspiegabil-
mente italiano dei fenomeni della triste storia nazionale
recente, mettendo assieme materiali darchivio raccolti da
due dei maggiori giornalisti del momento (Stella e Rizzo)
e assemblati assieme da un regista discontinuo e bizzarro,
portato a essere dialetticamente permeabile dalle influen-
ze del contesto internazionale (Faenza).
Ma proprio la distanza siderale che separa Il Grinta da
Silvio Forever, distanza geografica, produttiva, forse perfi-
no ideologica, estetica e strutturale a rendere interessante
un tratto comune, un fenomeno che siamo riusciti a con-
cettualizzare grazie a una intuizione di Elisa Battistini (Il
Fatto Quotidiano) nella sua recensione al film dei Coen
Bros.: I protagonisti sono impegnati in estenuanti con-
trattazioni. Mercanteggiano su tutto e non esiste accordo
che non passi per un lungo negoziare dialettico, di cui
Mattie incontrastata regina. In effetti, gli speach acts del
film sono per la stragrande maggioranza atti che riguarda-
no il contrattare, mercanteggiare, negoziare. Non c rela-
zione fra i personaggi che non sia mediata dai meccanismi
che attengono allattribuzione di un valore prettamente
economico (valore di scambio). Detto in altri termini, non
c una sola azione gratuita fino al compimento dellinte-
ra parabola, laddove il diavolo (il serpente) si presenta a
reclamare il prezzo della vendetta compiuta e Jeff Bridges
interviene a strappare un prezzo vantaggioso per quella
che nel frattempo diventata la sua protetta (un brac-
cio in cambio di una vita, lultimo affaredi una ragazzi-
na troppo agguerrita). Si negozia la restituzione di un
cavallo, il costo della sella, un posto letto assieme a una
insopportabile compagna; una prestazione lavorativa, una
cooperazione, i cadaveri, presi per intero o smembrati per
componenti (come fossero aziende in fallimento: e per ben
due volte). Si negoziano le modalit di pagamento, i termi-
ni delle prestazioni, una resa, la giustizia, un accordo,
unamicizia, il rischio della vita, la vita stessa.
Questa ossessione commerciale/negoziale afferma una
coincidenza assoluta fra economia e politica che produce
unatmosfera bellica latente, e umilia componenti della
vita relazionale come la fiducia, lo slancio spontaneo, la
simpatia, lempatia e la convinzione fini a se stesse, soprat-
tutto un sistema organico e gerarchico di valori (dove il
valore duso e quello di scambio siano almeno bilanciati
da una scelta di carattere umano). Questo spirito apparen-
temente weberiano la cifra della frontiera e della wilder-
ness, qualcosa di profondamente arcaico, e saremmo por-
tati a considerarlo premoderno, se non fosse che lo ritro-
viamo identico in un film che racconta una storia iniziata
di fatto nel secondo dopoguerra, e narrata con un
tempo che somiglia present perfect inglese (geniale defi-
nizione di un passato che non vuole smettere e continua a
insistere come un destino sul presente).
Silvio Forever infatti narrato in prima persona da un
personaggio che sta a met fra il Pinocchio di Collodi (il
bugiardone irresponsabile) e quello di Fellini (il
Casanova) ma che anche una specie di piccolo eroe alla
Roald Dahl. Un bambino allevato da una banca, si dice-
va di Charles Foster Kane di Orson Welles, ma in questo
caso un bambino che pare partorito direttamente dalla
fantasia malata di una schiera di economisti britannici.
Un bambino che negozia su qualunque cosa e su qualun-
que cosa commercia. Non un olividado, non vive in
una discarica ma nelle case della piccola borghesia,
eppure si aggira come il protagonista di Germania Anno
Zero per un paese povero e devastato in cerca di carta e
di ogni tipo di rimasuglio (restituire valore agli scarti,
rivalutare) per poterne ricavare un profitto.
Profitto che ritroviamo come ossessione dominante in
ogni sua attivit: quando fa i compiti finisce in fretta per
poter vendere il tempo di studio rimasto (plusvalore?) ai
compagni in difficolt, con la garanzia di rimborso se non
saranno promossi. Cos allUniversit, dove la sua princi-
pale preoccupazione redigere appunti cos appetibili da
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Il giusto prezzo
Giacomo Manzoli
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poter essere rivenduti sul mercato clandestino del sapere
ridotto e standardizzato il giorno stesso in cui lesame
stato verbalizzato. Perfino il rapporto con la creativit
simbolica tipicamente giovanile (la musica) sottoposto
alle medesime procedure e si traduce nel suonare in cro-
ciera, dove si giunge alla perfezione: pagato per cantare,
ovvero per esprimersi, fare le vacanze e accoppiarsi, tutte
attivit che lui compie in modo ossessivo e dimostrativo,
privilegiando costantemente la dimensione del riconosci-
mento (formidabile la foto che lo ritrae mentre mostra i
muscoli, in stile Maciste) a quella della cura di s, dellar-
ricchimento interiore, dellarmonia e della qualit della
vita. Cos sar per tutto: lo sport, lintrattenimento, il
matrimonio, la paternit, lidentit nazionale, la sessuali-
t, perfino la morte. Non c dimensione dellesistenza che
il piccolo eroe non converta nel comune denominatore del
valore di scambio per ridurla a possibile oggetto di con-
trattazione e profitto.
Se vero che lo spirito del capitalismo borghese nasce
nella Firenze del Boccaccio, con Andreuccio da Perugia
che finisce nella merda per tre volte e per tre volte risorge,
recuperando il suo tesoro e traendone un vantaggio, pos-
siamo dire che il principio trova una sua sinistra e paros-
sistica sublimazione in questa figura patetica, tragicomica,
e nel suo grottesco anti-esistenzialismo, che fa persino del
vitalismo tipico della sua classee del suo tempo una spe-
cie di ansiogena caricatura, talmente reificata da divenire,
appunto, mortuaria. Nella merda, letteralmente, questo
mutante che pare geneticamente modificato dalla
Umbrella Corporation, nella merda ci sta benissimo, e
anzi, trover certamente il modo di farla fruttare con ter-
movalorizzatori immaginari o altre diavolerie.
La Mattie del Grinta, per la sua sete di vendetta e la sua
formidabile ossessione negoziale paga un prezzo altissimo.
La perdita del braccio destro, e con essa la prospettiva di
una vita normale, e rester per sempre malinconicamen-
te legata al filo di quellaffetto gratuito e disperato con cui
il feroce ma elementare Rooster Cogburn scende allinfer-
no per strapparla dalle mani del demonio. Il giovane
Silvio, invece, pagher con la perdita di qualsiasi residuo
di dignit e umano rispetto la sua adesione (in)condizio-
nata alla legge innaturale e diabolica del mercato totale, in
base alla quale nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto
pu e deve essere fonte di profitto.
Il mercato globale in unepoca di crisi sembrano
dirci questi due film legati assieme e letti uno alla luce
dellaltro (ma altri film recenti si potrebbero collegare al
medesimo discorso: Devil di John Erick Dowdle, Non
lasciarmi di Romanek, Buried di Cortes e perfino genia-
li cartoons come Cattivissimo Me e Megamind) somi-
glia tremendamente al paleocapitalismo selvaggio nella
sua fase aurorale come lo descrivono i vari filosofi neo-
marxisti, da Badiou a