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Cineforum
Via Pignolo, 123
24121 Bergamo
Anno 51 - N. 1 Gennaio/Febbraio 2011
Spedizione in
abbonamento postale
DL 353/2003 (conv.in
L.27/2/2004 n. 46)
art. 1, comma 1 - DCB
Poste Italiane S.p.a.
8,00 !
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Ci si potrebbe domandare com che Cineforum
non riesce a fare a meno di dedicare regolarmente
uno speciale a ogni nuovo film di Clint Eastwood,
quasi fosse una sorta di riflesso condizionato, una
propensione al tributo automatico che qualcuno
potrebbe ritenere dettato dal timore di non omag-
giare a sufficienza un regista troppo a lungo trascu-
rato o sottovalutato (molto tempo fa, a dire il vero).
Il fatto che negli ultimi ventanni Eastwood riu-
scito a trattare soggetti ogni volta talmente diversi
da provocare sollecitazioni intellettuali culturali e
storiche nuove e appassionanti in ciascuna occasio-
ne. Al di l della valutazione sui risultati estetici dei
singoli film (e comunque pur in presenza delle ine-
vitabili sfumature ad avercene sempre, di cos),
Eastwood sta delineando con maestria stupefacente,
a partire da Gli spietati, una sorta di scaletta perso-
nale degli argomenti sui quali intende dire qualco-
sa, non di definitivo ma di importante s: qualcosa
che non pu non attirare lattenzione di chi pensa
che il cinema sia ancora uno degli strumenti espres-
sivi indispensabili per comprendere il mondo in cui
oggi viviamo. E il paradosso-Hereafter proprio que-
sto si propone: mostrarci come ci deve essere neces-
sario non perdere di vista ci che siamo, qui e ora,
per vivere questa vita (lunica che abbiamo a nostra
disposizione) in modo da non perderla.
E tanto per ribadire che la nostra vita fatta
anche della nostra storia, individuale e collettiva,
Cineforum non poteva dimenticarsi, in un momen-
to come questo, di verificare come il cinema nazio-
nale si sia occupato, nel corso degli anni, del nostro
Risorgimento: evento senza dubbio complesso che
in molti oggi sono per interessati a rendere contro-
verso non sempre per motivi di chiarezza storica
Il discorso era gi iniziato sul n. 500 con lo specia-
le dedicato a Noi credevamo, ma ci sembra giusto
allargarlo a una considerazione, motivata e appro-
fondita, su quale rappresentazione del
Risorgimento viene data dai film: film che hanno
scandito la storia del nostro Paese e del suo cinema
durante il XX secolo, stabilendo con il loro tempo e
con il tema in questione un rapporto di volta in
volta definibile in funzione dellimmaginario chia-
mato in causa e dellapproccio ideologico a esso
relativo. Provocando di conseguenza diverse moda-
lit di accoglienza da parte di pubblici diversi per
collocazione cronologica. Non dunque un semplice
catalogo di titoli ma una ricognizione che, muo-
vendo dai film, li travalica alla ricerca degli elemen-
ti profondi che li fanno produttori di senso: e del
modo in cui tale senso si configura, a partire dal
contesto di riferimento.
Il Mondo e la Storia come il cinema sono fatti di
movimento incessante e di tempo che scorre.
Entrambi non esistono veramente se non nella nar-
razione. Entrambi sono proiettati probabilmente
verso qualcosa che assomiglia a una fine, ma nes-
suno ne pu avere la certezza. Quando perci
Ejzenstejn innalza il suo canto al moto continuo e
progressivo della macchina destinato a strappare
per sempre luniverso contadino dalla sua inerzia
oblomoviana, sa benissimo di scrivere con le sue
immagini un inno al cinema stesso, senza il quale
lebbrezza del rapimento nella dimensione colletti-
va della Storia non potrebbe essere raccontata.
Questo numero di Cineforum si misura dunque
con le categorie che costituiscono il cuore pulsante
del nostro esserci, complici il cinema e i film, come
sempre.
Adriano Piccardi
PRESENTE STORICO
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Mentre in corso la cinquantesima stagione del
Laboratorio 80, gi cineforum di Bergamo e a suo tempo
uno dei membri fondatori della Fic, a pochi giorni dal-
luscita del numero 500 della rivista Cineforum, scom-
pare Piercarlo Nolli. Improvvisamente, inaspettatamen-
te, se ne andato un personaggio importante per lazio-
ne che ha svolto tra la fine degli anni Sessanta e i tre
decenni successivi, prima di dedicarsi completamente
allesercizio cinematografico, anche qui con scelte auda-
ci e lungimiranti. Preferiamo collocare la figura di
Piercarlo in un contesto che coinvolge aspetti umani,
politici, culturali, perch pensiamo che il suo percorso si
sia dipanato attraverso una complessit di relazioni ed
espressioni, che vanno dallamicizia, dalle espressioni del
carattere, dalle contrapposizioni ambientali, alla capaci-
t intuitiva, alla sensibilit ai cambiamenti e allinsoffe-
renza per le regole, per la routine, per il conformismo.
Gi nei primi anni Settanta si lavora con lui a un
progetto di associazione nuovo, pi versatile, pi aper-
to, pi vivace: non solo cinema, ma anche teatro, musi-
ca, fumetto, grafica, video. Il Lab 80, insomma: forse
la sua invenzione pi importante e dirompente, un lie-
vito madre che porter alla creazione della Lab 80
film, la cooperativa di distribuzione nata nel 1975,
votata a far conoscere in Italia il cinema censurato
dalla distribuzione commerciale. Ma Lab 80 voleva
dire, per le persone coinvolte nel progetto, soprattutto
una scelta di vita: il lavoro a tempo pieno e labbando-
no del volontariato, lacquisizione di competenze sul
campo, lo studio delle ambiguit linguistiche insite nei
meccanismi rappresentativi, lassunzione di un vero e
proprio impegno politico per far conoscere le culture
alternative, opere e autori maledetti, lo scavo nelle
ideologie e il disvelamento degli apparati di potere.
Questa azione ininterrotta di scoperta era accompa-
gnata dallattenzione ai fermenti, ai conflitti, alle ribel-
lioni, alle contestazioni che agitavano i gruppi e le
classi sociali in Europa e nelle altre parti del mondo.
Era una scuola e un esercizio di libert, da cui veniva-
no quasi per conseguenza logica la voglia, per non dire
il bisogno, di rischiare, di non guardare in faccia a nes-
suno, di non accettare compromessi, di non acconten-
tarsi mai del lavoro fatto ma di tentare sempre strade
nuove, mettendo in gioco se stessi. Lostinazione che
derivava dallentusiasmo, lincoscienza che cresceva
con il desiderio, leccitazione che accelerava il raggiun-
gimento del sogno, linvestimento di pensieri e di ener-
gie che relegava sullo sfondo qualsiasi preoccupazione
economica.
Piercarlo stato regista e attore di una storia entu-
siasmante, in anni difficili di eventi laceranti, ma di
grandi appetiti culturali, di voglia di conoscere e di
sperimentare. Nella rivista ha portato elementi grafici
innovativi e inserito collaboratori giovani, quando
diventato esercente ha sfidato con successo i multiplex
creando una multisala di qualit in pieno centro citta-
dino, forse il primo in Italia a capire che la partita
andava giocata sul terreno dellintelligenza e non della
semplice concorrenza, che sarebbe certo risultata per-
dente. Ora che le acque ristagnano e le menti pure, che
si sta diffondendo lepidemia della rassegnazione, nel
nostro piccolo e consapevoli della nostra debolezza,
preferiamo mantenerci liberi, incoscienti e assoluta-
mente marginali. (a.s.)
IL CINEMA, CON ENTUSIASMO E INTELLIGENZA
Un autore, uninterprete, un film molto amati da Piercarlo:
Luis Buuel, Jeanne Moreau sul set di Il diario di una cameriera,1964
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SOMMARIO
EDITORIALE
Adriano Piccardi/Presente storico 1
Il cinema, con entusiasmo e intelligenza (a.s.) 2
SPECIALE HEREAFTER
Alberto Pezzotta/Andare oltre 4
Anton Giulio Mancino/LAldiqu 7
Pietro Bianchi/Una verit estranea a questo mondo 11
Pier Maria Bocchi/Il nuovo capolavoro di Clint Eastwood 14
I FILM
Pasquale Cicchetti, Fabrizio Tassi/Another Year di Mike Leigh 17
Roberto Manassero/La donna che canta di Denis Villeneuve 22
Roberto Chiesi/Tamara Drewe di Stephen Frears 25
Simone Emiliani/American Life di Sam Mendes 28
Paola Brunetta/Il discorso del Re di Tom Hooper 31
Simone Emiliani, Paola Brunetta, Lorenzo Leone, Nicola Rossello, Alberto
Pezzotta, Elisa Baldini, Giacomo Calzoni, Federico
Pedroni/Parto col folle - Gianni e le donne - Kill Me Please - Vento
di primavera - Il truffacuori - Qualunquemente - La versione di
Barney - Biutiful - I fantastici viaggi di Gulliver - The Green Hornet 34
FOCUS VALLANZASCA
Anton Giulio Mancino/Fotoromanzo criminale 44
FOCUS LISETTA CARMI, UNANIMA IN CAMMINO
Tullio Masoni/Interrogarsi sullumanit 48
I MIGLIORI DEL 2010
secondo i collaboratori di Cineforum 51
SAGGI CINEMA E RISORGIMENTO
Giuseppe Ghigi/Viva lItalia 53
IL CINEMA E IL SUO DOPPIO
Sergio Arecco/Larchitetto, il pittore e la centrifuga 63
TORINO FILM FESTIVAL
Alberto Morsiani/Concorso 70
Giampiero Frasca/Festa mobile Figure nel paesaggio 73
Chiara Borroni/Festa mobile Paesaggio con figure 75
Lorenzo Donghi, Attilio Palmieri/Onde 77
Lorenzo Rossi/Rapporto confidenziale 78
Paolo Vecchi/Retrospettiva John Huston 80
Gianluigi Bozza/Retrospettiva Vitalij Kanevskij 82
Chiara Zingariello/Figli e amanti 84
FESTIVAL
Bruno Fornara/Cinema Ritrovato: Ford! Ford! Ford! 86
DVD a cura di Roberto Chiesi e Tullio Masoni 88
LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato 91
LIBRI E SOUNDTRACKS a cura di Ermanno Comuzio 96
INFO dal luned al venerd - 9.30/13.30 - Tel. 035 361361 - abbonamenti@cineforum.it
cineforum
rivista mensile
di cultura cinematografica
anno 51 - n. 1 - Gennaio / Febbraio 2011
Edita dalla
Federazione Italiana Cineforum
Direttore responsabile:
Adriano Piccardi adriano@cineforum.it
Comitato di redazione:
Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttore
editoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara,
Luca Malavasi, Emanuela Martini, Angelo
Signorelli, Fabrizio Tassi
Gruppo di lavoro: Francesco Cattaneo,
Jonny Costantino, Giuseppe Imperatore,
Arturo Invernici
Collaboratori:
Sergio Arecco, Alberto Barbera, Alessandro
Bertani, Paolo Bertolin, Marco Bertolino,
Francesca Betteni-Barnes D., Matteo Bittanti,
Pier Maria Bocchi, Andrea Bordoni, Massimo
Causo, Rinaldo Censi, Carlo Chatrian, Ermanno
Comuzio, Emilio Cozzi, Giorgio Cremonini,
Alberto Crespi, Lorenzo Donghi, Simone
Emiliani, Michele Fadda, Davide Ferrario,
Andrea Frambrosi, Giampiero Frasca, Leonardo
Gandini, Cristina Gastaldi, Federico Gironi,
Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato, Pierpaolo
Loffreda, Anton Giulio Mancino, Giacomo
Manzoli, Michele Marangi, Matteo Marino,
Mattia Mariotti, Tullio Masoni, Emiliano
Morreale, Alberto Morsiani, Umberto Mosca,
Luca Mosso, Lorenzo Pellizzari, Alberto
Pezzotta, Francesco Pitassio, Piergiorgio Rauzi,
Giorgio Rinaldi, Nicola Rossello, Lorenzo Rossi,
Alberto Soncini, Antonio Termenini, Dario
Tomasi, Paolo Vecchi, Alberto Zanetti.
Progetto grafico e impaginazione:
Paolo Formenti - PiEFFE Grafica*
Amministrazione:
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Joo Distribuzione - via F. Argelati 35
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e-mail: lujoo@tiscalinet.it
Iscritto nel registro del Tribunale di
Venezia al n. 307 del 25-5-1961
associato allUSPI
Unione Stampa Periodica
Italiana
In copertina:
Another Year
di Mike Leigh
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Come Invictus (id., 2009), Hereafter manifesta linten-
zione di Eastwood di fare i conti con la storia recente.
Lo tsunami che ha devastato il Sud Est asiatico alla fine
del 2004 e gli attentati terroristi a Londra nel luglio
2005 non sono il centro del film, ma non sono nemme-
no un pretesto: attraversano la vita dei personaggi, e in
varia misura la cambiano. Sono lo sfondo su cui
Eastwood imposta un discorso che, come dice eloquen-
temente il titolo inglese (non cos immediatamente deco-
dificabile per lo spettatore italiano), si riferisce allaldi-
l. La strategia della sceneggiatura di Peter Morgan
chiara: partire dalle tragedie contemporanee, che siano
causate dalla natura o dalluomo, per riflettere su ci
che ci aspetta dopo la morte.
Analogamente allitaliano al di l, linglese hereaf-
ter nasce come avverbio prima di diventare nome. E
come avverbio, non ha un significato metafisico: signifi-
ca solo da qui in poi. Il concetto ancora pi laico che
in italiano, dove lespressione al di l, prima di diven-
tare un sostantivo, allude comunque a un superamento,
a qualcosa di ulteriore. Hereafter, invece, da qui in
poi, o dora in poi, qualcosa di molto pi prosaico.
In effetti, nel film, lo stesso medium George, che comu-
nica da anni con i defunti, dice di non saperne molto su
ci che effettivamente ci aspetta dopo. C un dopo, ma
cosa lo riempia non si sa.
Malgrado ci, il rischio di una deriva new age, usiamo
pure questo termine sintomo di obbrobrio, era certo
HEREAFTER Clint Eastwood
SPECIALE
ANDARE OLTRE
Alberto Pezzotta
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possibile, nel momento in cui le tragedie contingenti
della Storia fossero state messe nella prospettiva del-
leternit che tutto relativizza. Merito di Morgan, di
Eastwood o di entrambi, ci nel film non avviene. Il rap-
porto tra aldiqu e dopo, se non altro, sempre fil-
trato da una prospettiva strettamente individuale e indi-
vidualista, mai trascendente. Qui si vede molto bene
(come si vedeva in Invictus) la mentalit americana, che
esalta leccezionalit del singolo che emerge dalla
Storia. Ma questa scelta di umanesimo radicale, antisto-
rico e a-sociale, trae valore etico nel fatto che del singo-
lo Eastwood sottolinea la fragilit e la finitezza. Il singo-
lo (che anche solitario: George da tempo solo, Marie
e Marcus lo diventano), posto sul crinale tra la Storia e
ci che c dopo, rivela la sua vulnerabilit, la sua
mancanza di difese. Hereafter, pi che un film su ci che
designato dal titolo, un film sul dolore, sulla finitez-
za. In questo senso coerente e necessario nellevoluzio-
ne del cinema di Eastwood, e aggiunge anche qualcosa
di bello e di toccante ai suoi ultimi film che, come Gran
Torino (id., 2008), sembrano vette oltre le quali diffi-
cile immaginare un seguito.
A chi segue da anni la filmografia di questo regista,
fin troppo facile analizzare Hereafter alla luce delle
opere precedenti, per trovare la coerenza di uno svilup-
po tematico, e magari bearsi di rinvenire temi metafisi-
cifin dagli anni Settanta. Daccordo, il pistolero di High
Plains Drifter (Lo straniero senza nome, 1973) proba-
bilmente era un fantasma, e magari anche il giustiziere
apocalittico di Pale Rider (Il cavaliere pallido, 1985).
Eastwood ha gi girato un breve film di fantasmi, nel
1985: Vanessa in the Garden, episodio della serie televi-
siva Amazing Stories ideata da Steven Spielberg (che
di Hereafter uno dei produttori esecutivi), dove la
donna amata torna nella realt evocata dal pittore che
la dipinge. E allora? Lanalisi autorialista rinviene ricor-
renze, e in ci si autogiustifica; mentre sarebbe pi
importante sottolineare le differenze tra il lato fantasti-
co dellEastwood passato e quello odierno. Ci che sem-
bra emergere, invece, film dopo film, a almeno a partire
da Honkytonk Man (id., 1982), una riflessione sulla
fragilit della vita e limpotenza delluomo. In questa
prospettiva, la celebre frase pronunciata da Eastwood
attore in A Perfect World (Un mondo perfetto, 1993),
Io non so niente, e che nel contesto di quel film sem-
brava unautoassoluzione e una dichiarazione program-
matica un po facile, si arricchisce, di film in film, di una
sostanza umana pi profonda.
Ovvio sottolineare come il mlo, a partire da un certo
punto, e prima ancora di The Bridges of Madison
County (I ponti di Madison County, 1995), abbia gioca-
to un ruolo importante nel cinema eastwoodiano, for-
nendogli la gabbia di genere e larmamentario retorico
per parlare di temi come la perdita e la morte, evidente-
mente da lui sentiti come rilevanti. In Hereafter il mlo
affrontato direttamente e nel modo pi rischioso, nel
segmento in cui il piccolo Jason viene travolto da unau-
to mentre sta fuggendo da alcuni teppisti. La morte di
un bambino il peggio, in termini di ricatto emotivo. Ma
a differenza che in tanti film precedenti di Eastwood,
dove la morte lacrimevole avveniva alla fine, qui avvie-
ne allinizio. Non che questo sia una novit, certo, ma d
un senso pi pregnante al titolo: hereafter, da questo
momento in poi, sei solo e te la devi vedere tu. E il fatto
che il personaggio in questione sia un ragazzino, evita
ogni eroicizzazione.
Con Hereafter il cinema di Eastwood sembra fare a
meno del personaggio eroico, sacrificale e comunque
eccezionale indispensabile nel suo cinema. Walt
Kowalski di Gran Torino stato lultimo di una lunga
schiera che comprende il cantante country Red Stovall,
Charlie Parker e donne come la pugile di Million Dollar
Baby (id., 2004) e la madre ostinata di Changeling (id.,
2008), che dei film di Eastwood recenti forse il meno
compreso e pi sottovalutato. Forse solo Letters from
Iwo Jima (Lettere da Iwo Jima, 2006) faceva a meno di
eroi. Certo, si pu obiettare, il medium George porta su
di s le stimmate dellunico. Ma lo stesso non si pu dire
di Marie e di Marcus: sono individui, ma non unici.
Della prima, in realt, possiamo anche dire che non esi-
ste come personaggio, che di lei non ci importa molto, e
che nella sceneggiatura ha solo un ruolo di servizio,
quello di favorire lincontro tra Marcus e Jason. Colpa
della sceneggiatura, probabilmente, e di unattrice il cui
talento ed empatia non sono folgoranti. Ma importan-
te, allinterno del film, la mediet e normalit del perso-
naggio, che si trova eco anche nelle altri parti. Che lex
medium George sia licenziato da una fabbrica per esu-
bero di personale e sia tentato di riprendere il suo vec-
chio lavoro, non solo un tocco di realismo sociale con-
temporaneo, ma un modo intelligente di abbassare, di
togliere enfasi alla comunicazione con laldil. E il
ragazzino (Eastwood un grande direttore di ragazzini)
semplicemente perfetto e normale, senza smancerie.
Non un film privo di difetti, Hereafter. Soprattutto
nellepisodio francese, la sceneggiatura infila una serie
di scivoloni abbastanza imperdonabili, come la cial-
tronissima discussione su luci e ombre nella vita di
Mitterrand. E cos come i francesi avranno da lamen-
tarsi di quella torre Eiffel che spunta ovunque per
chiarire che siamo a Parigi, gli italiani non possono
digerire il cuoco del corso di cucina (doppiato in quel
modo, poi), che affetta pomodori con Puccini in sotto-
fondo. Cos come non un granch il finalino in cui
Marcus sembra improvvisamente dotato non solo di
capacit medianiche, ma anche del dono della preveg-
genza, e sembra vedersi in flash forward baciare holly-
woodianamente lanima gemella infine ritrovata.
Eastwood ci ha abituato a ben altri finali, penso solo
alla solitudine di Frankie Dunn alla fine di Million
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Dollar Baby. Ma per una volta si pu anche vedere
oltre, al di l.
Hereafter la risposta di Eastwood alla domanda su
come si possa e si debba continuare a fare film dopo
avere raccolto tanti allori. A Eastwood fare film, pare di
capire, sembra necessario in un mondo devasto dalla
follia e dal dolore. Ed commovente che un regista di
ottantanni voglia occuparsi del mondo presente, e con
pudore estremo parli delle tragedie che hanno sconvolto
il suo Paese. In Invictus laereo che sorvola lo stadio
innesca unombra di minaccia subito dissolta: non vuole
schiantarsi su migliaia di persone, ma solo fare gli augu-
ri alla nazionale di rugby. E innesca una nostalgia strug-
gente per un mondo, quello del 1995, in cui non si con-
cepiva che gli aerei di linea potessero essere usati come
armi distruzione di massa.
In Hereafter, levocazione di sguincio degli attentati di
Londra del 2005 un passo in pi verso lirrappresen-
tabile, l11 settembre 2001. Non a caso Eastwood sce-
glie di rappresentare lo tsunami iniziale con tutto il rea-
lismo allucinante permesso oggi dagli effetti digitali
(realizzando, tra parentesi, una sequenza emozionante e
impressionante, sobria per lassenza di musica se non
alla fine, e terribilmente bella da vedere). Al contrario, la
rappresentazione dellattentato terrorista ridotto a un
botto e a una fiammata che esce da una galleria. Lorrore
della natura appartiene pur sempre alla sfera del subli-
me che, kantianamente, ribadisce la nostra finitezza.
Mentre la morte inflitta dalluomo alluomo va oltre
ogni logica ed molto meno rappresentabile. Per questo
la sequenza il cui il piccolo Marcus rincorre il suo ber-
retto tra le gambe della folla un momento di grande
etica della visione: solo alla fine capiamo che in questo
modo evita di morire, solo alla fine ci ricordiamo che
il 7 luglio 2005 (e solo oltre sapremo che stato il
gemello morto a intervenire facendogli cadere il berret-
to). Per rappresentare una tragedia, bisogna attaccarsi a
qualcosa di molto piccolo e marginale, come un bambi-
no che si preoccupa solo di cercare il suo cappello.
Titolo originale: id. Regia e musica: Clint Eastwood.
Sceneggiatura: Peter Morgan. Fotografia: Tom Stern.
Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach. Scenografia: James
J. Murakami. Costumi: Deborah Hopper. Interpreti: Matt
Damon (George Lonegan), Ccile de France (Marie
Lelay), Frankie McLaren (Marcus), George McLaren
(Jason), Thierry Neuvic (Didier), Jay Mohr (Billy),
Richard Kind (Christos), Lyndsey Marshal (Jackie),
Bryce Dallas Howard (Melanie), Marthe Keller (la dotto-
ressa Rousseau), Tom Beard (il prete), Jenifer Lewis
(Candace), Annette Georgiou (linfermiera June), Jack
Bence (Ricky), Derek Jacobi (se stesso), Steve Schirripa
(Carlo), Mylne Jampano (Jasmine), Niamh Cusak (la
madre di Foster), George Costigan (il padre di Foster),
Paul Anthony-Barber (Nigel), Selina Cadell (la signora
Joyce), Sean Buckley (il dottor Meredith). Produzione:
Clint Eastwood, Kathleen Kennedy, Robert Lorenz per
Malpaso Productions/Amblin Enetertainment/The
Kennedy-Marshall Company. Distribuzione: Warner
Bros. Durata: 129. Origine: Usa, 2010.
Dicembre 2004. La giornalista televisiva francese
Marie, travolta dallo tsunami in Thailandia, sopravvi-
ve dopo avere avuto una breve esperienza dellaldil.
Decide di scrivere un libro sullargomento, incontrando
scetticismo e perdendo il sostegno di chi la circonda.A
San Francisco George ha smesso di fare il medium.
Essere tramite di persone in cerca di messaggi da parte
dei loro cari defunti era troppo doloroso. Lincontro
con una ragazza che frequenta con lui un corso di cuci-
na lo conferma che il suo non un dono, ma una con-
danna che lo porta inevitabilmente alla solitudine.
Dopo essere stato licenziato dalla fabbrica in cui lavo-
ra, George quasi convinto dal fratello a riprendere la
sua attivit di medium, ma alla fine molla tutto e parte.
A Londra il piccolo Marcus ha perso il fratello gemello
Jason in un incidente. Dato che la madre tossicodi-
pendente, viene affidato a una famiglia. Ma Marcus non
si d pace, ruba soldi e fugge di casa per chiedere a vari
ciarlatani di mettersi in contatto con Jason. I destini dei
tre si incrociano alla London Bookfair, dove Marie pre-
senta il libro che ha scritto. Marcus convince George a
mettersi in contatto con il fratellino defunto, che gli
rivela di averlo salvato in occasione dellattentato alla
metropolitana del 7 luglio 2005. Ma dora in poi, dice,
dovr affrontare la vita da solo. George, colpito dal
libro di Marie, fissa un appuntamento con lei. Si potr
finalmente innamorare.
HEREAFTER Clint Eastwood
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Perch mai un cineasta oltremodo maturo, consape-
vole dei propri mezzi, dovrebbe imbarcarsi in un film
sullaldil? Probabilmente perch aveva in mente di
capovolgere lassunto oltremondano, fare un film sul-
laldiqu, ribadire come non esista strada che non
conduca al presente, al tempo e al luogo presente. Hic
et nunc, qui e ora. Non c altro dopo, n si pu vive-
re sepolti nel passato, dipendenti dal passato, incapa-
ci di cambiare, comprendere, vivere il presente, nel
presente. Nessuno indispensabile, e nello stesso
tempo tutti lo sono come anelli di una catena di rap-
porti che di volta in volta si rinnova, si estende, proce-
de. Come si pu notare, quella di Hereafter una pro-
spettiva concreta, pragmatica, sostenibile. Si pu pren-
dere il film in blocco, dal principio alla fine, o passare
in rassegna ogni scena o sequenza, e risultato sar sor-
prendente. possibile rileggerlo alla luce di questa
concezione immanente dellesistenza che non ammet-
te scorciatoie mistiche, religiose, pseudo-scientifiche di
nessun tipo. Non ammette insomma nessuna religione
della Storia, nessun dover essere in funzione di un
obiettivo trascendente, nessuna teleologia. Soltanto
una visione responsabile del proprio stare al mondo,
del costruire rapporti realistici e ragionevoli, sapendo
individuare uno spazio di comunicazione e di convi-
venza semplice, diretto, sensato. Al di fuori o al di l
il caso di dire di questo spazio relazionale effettivo
e tangibile nulla assume un valore praticabile, spendi-
bile, godibile nella vita quotidiana.
Cominciamo dalla lunga sequenza iniziale dello tsu-
LALDIQU
Anton Giulio Mancino
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nami. Emozionante, efficace, grazie allequilibrio inec-
cepibile dellumano e del digitale. Ma di quale valore
aggiunto, coerente con lintero film, si fa portatrice?
Siccome questa sequenza avvia il film, ne connota la
logica sistematica, tocca al film stesso pi in l, verso
la fine provvedere a decodificarla, siglando cos una
organizzazione interna, una sorta di mutuo soccorso
tra rappresentazione e interpretazione. Marie rimpro-
vera infatti al suo ex compagno non tanto di aver
smesso di amarla e rimpiazzata con una nuova giorna-
lista televisiva, bens di non aver condiviso con lei
lesperienza pi importante, determinante, drammati-
ca: non si trovato con lei, paradossalmente, al
momento giusto, al posto giusto e per la ragione giu-
sta: in strada durante lo tsunami per comprare un
regalo ai figli. Pertanto il loro rapporto viene spazzato
via non tanto dalla catastrofe naturale, che in quanto
naturale svolge pur tragicamente una funzione preci-
sa, coerente, riequilibrante, ma dalla mancanza del-
luomo di uscire dal letto per i propri figli. E affronta-
re in strada il proprio destino, lo tsunami, in quanto
padre. Marie, alla resa dei conti, nel comprendere e
spiegare il senso fallimentare della relazione sentimen-
tale pregressa, restituisce a valle il significato simboli-
co della sequenza chiave a monte del film.
I rapporti umani nel film riflettono i rapporti
costringenti del film. Sono questi stessi rapporti,
strutturali (per quanto riguarda il film), interpersona-
li (per quanto riguarda i personaggi) a costituire las-
se portante delloperazione Hereafter, la logica pro-
fonda sottesa. Proprio come tra di loro tutti i perso-
naggi, soprattutto i tre protagonisti, elaborano sul
piano strettamente narrativo un rapporto transnazio-
nale, globale, assurgendo al ruolo di famiglia ideale
dislocata su scena planetaria: padre (George), madre
(Marie), figlio (Marcus). Non un caso che il nome
della donna, Marie, e quello del ragazzino, Marcus,
abbiano la stessa iniziale. Cos come quello delluo-
mo, George, fonicamente sia equivalente al nome del
fratello gemello e alternativo di Marcus, Jason. Quel
Jason che proprio George con i suoi poteri veri o
presunti, terapeutici e traumatizzanti, a evocare.
Magari a impersonare a fin di bene. Una famiglia che
contiene, esemplifica, sintetizza al suo interno un
modello di societ in cui i membri sono intercambia-
bili, presenti/assenti, ubiqui ma perfettamente com-
patibili, possibili, auspicabili. Compresa la strategia
che assimila il principio spettacolare ed emotivo del
film senza esserne subissata (e qui bisogna ammetter-
lo: la simbologia dello tsunami coincide con il suo
contenuto letterale), si rende percorribile la vicenda
nel suo complesso, dove appunto non conta tanto cre-
dere nellaldil, credere alle facolt paranormali di
George, credere a ci che il film mostra con i suoi
strumenti tradizionali, codificati, pertinenti (le visioni
di George le cui modalit espressive, anticipate
durante lesperienza di Marie, quindi da Marie stessa
che ne cronologicamente la precorritrice, obbedisco-
no ai consueti canoni del film fantastico).
Il punto, per Clint Eastwood, che beneficia di una
sceneggiatura sobria, poco melodrammatica e ancor
meno mistica di Peter Morgan, farsi carico del pre-
sente, credere a ci che c, adoperando il buon senso.
Anche attraverso laldil, servendosi dellaldil, confi-
dando persino nellaldil come mezzo, non come fine.
Del resto, per un fuoriclasse del suo stampo, il para-
normale di cui parla la dottoressa tedesca diventa
anche il fronte su cui il sapere non istituzionale, mar-
ginale ed emarginato sfida lestablishment della cono-
scenza ufficiale, consolidata. Laldil su cui operano i
ricercatori trasgressivi il sintomo del sentirsi,
dichiararsi indipendenti: diventa loggetto di contrap-
posizione eroica, minoritaria sul piano accademico ma
maggioritaria sul piano umano e societario, antagoni-
sta rispetto a un potere elitario che viene a essere eser-
citato, mediante il sapere, sul mondo reale, sui suoi
meccanismi interpretativi, sulla sua effettivit. Ma
anche una dimensione in cui si gioca la partita diffici-
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le e mai risolutiva della costruzione dei rapporti
umani. Laldil pi inaccessibile la stabilit di tali
rapporti, la sicurezza di poterli mantenere, far vivere,
resistere senza incomprensioni, sensi di colpa poten-
ziali che successivamente si trasformerebbero in fatto-
ri destabilizzanti permanenti. George non sa granch
della vita, ma sa tutto questo, e tanto basta. Lo sa
sulla propria pelle, sul proprio vissuto, sulla propria
quotidianit in cui il licenziamento giunge come un
fulmine a ciel sereno, ma non per questo rinuncia ai
tentativi timidi, volenterosi, pacifici di approccio affet-
tivo. Tentativi normali sconvolti puntualmente dal
paranormale. Conosce, sconta il prezzo suo malgrado
del precariato lavorativo e della precariet di ogni
relazione allorizzonte, che deve fare i conti con il pas-
sato: da un lato il suo passato di medium che sciupa
ogni equilibrio paritario con le partner; dallaltro il
passato di ogni sua partner destinato prima o poi a
ergersi a muro implacabile.
In buona sostanza la pericolosa partita si gioca su
questa terra, in questo mondo. Partita che lautore di
Changeling (id., 2008), Gran Torino (id., 2008) e
Invictus (id., 2009) insiste nellesplorare cominciando
dai pi piccoli, i bambini, figure provvidenziali, risolu-
te eppur fragili, alloccorrenza risolutive, premesse di
un progetto comunitario allargato, transcontinentale
come la vicenda medesima del film. Sono i bambini, i
figli lontani, lontani dalla Francia, ai quali luomo nel
letto dalbergo non pensa, la bambina asiatica che
diventa subito per Marie la creatura pi importante da
salvare, bambini chiamati in causa non esclusivamen-
te sul/dal piano simbolico, a generare leffetto tsunami
che dalla prima sequenza si abbatte sul resto del film.
La storia di Marcus e Jason, altrove, in Inghilterra,
riproduce su un versante sociale pi disagiato un iden-
tico, insospettabile ambito problematico, in cui unal-
tra madre, pur debilitata dalla tossicodipendenza
(come Marie a sua volta un prodotto della tv, una
teledipendenteprivilegiata, davanti alla telecamera e
ai riflettori, sui manifesti per strada), riesce a stare e a
farsi amare, amandoli, dai figli, che per lei si ribellano
allistituzione sociale, obbedendo al prototipo chapli-
niano (Charlie Chaplin era infatti, come Marcus e
Jason, nato a Londra e apparteneva alla classe bassa)
che gi in Changeling era stato esplorato con i richia-
mi allusivi alla figura di Jackie Coogan di The Kid (Il
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monello, 1921) e alla contestuale pericolosit autorita-
ria congiunta della polizia e dei servizi sociali.
Premessa fondamentale perch impone a Marcus, con
la sua ostinazione a cercare, ad andare oltre, a rifiuta-
re di conseguenza, sistematicamente, le grandi rispo-
ste, le mistificazioni ideologiche e religiose, i massimi
sistemi contemporanei, il cattolicesimo come lislami-
smo, le performance dei sensitivi da palcoscenico
tanto quanto la generosa e comprensiva ma disarma-
ta famiglia ospitante.
Donde la necessit di immettere nel sistema rela-
zionale il terzo tassello che sigla, con lingresso dello
scenario statunitense, il racconto tripartito: quello di
George, personaggio dotato di poteri straordinari e
tuttavia schiacciato da questi, addirittura infortuna-
to, poich egli non un supereroe, non un giustizie-
re n un risolutore di problemi, problemi altrui n
tantomeno di propri. Si presenta nelle vesti di perso-
na disponibile al cambiamento di status sociale (il
changeling ispira il suo modus vivendi), sottotono,
pronto a rendere accettabile la presenza degli spiriti
dei defunti grazie alle sue infauste possibilit di veg-
gente. In questo egli lemblema stesso del cinema,
sin dalle origini: un cinema griffithiano, perci per lo
storyteller classico Eastwood assolutamente paradig-
matico, che pu far coesistere epoche diverse, ricon-
giungere presenti distanti, ricomporre dimensioni
reali e fantastiche.
Attraverso Marie, Marcus, George si riflette il pre-
sente, lunico ragionevole, concepibile, dicibile in tutte
le sue componenti e i suoi limiti endemici a livello sto-
rico, politico, sociale, culturale, scientifico, che conver-
gono in un unico alveo, quello esistenziale, coinvolgen-
do il privato, il familiare, il quotidiano. Da questo pre-
sente cos riconfigurato, riassunto, essenzializzato si
ricava una misura sostenibile, concreta, fattiva di
intervento. Dove i defunti o i fantasmi dicono attra-
verso George, forse colui che parla non soltanto per
loro ma anche con loro cose dettate dal buon senso
pi che dalla eccezionalit fantastica, mistica, immagi-
nifica della situazione: parole che riavvicinano genito-
ri e figli, nonostante tutto, mariti e mogli, fratelli.
Insomma, dove tutto viene ricondotto a un principio
ispiratore fondamentale, quello della riconversione
(ancora: changeling), che ha gi segnato la svolta
eastwoodiana da decenni. E che viene quindi ribadito
da George quando, minimizzando sulla genesi doloro-
sa dei suoi poteri, precisa di aver allora scoperto le
priorit della vita. Non per niente, quando indica
Dickens come scrittore preferito, chiama in causa con-
temporaneamente sia la priorit della condizione
infantile ingrata e nondimeno forte, resistente, sia un
libro, inevitabilmente Racconto di Natale, dove i
fantasmi spaventosi dellaldil sono al servizio dellal-
diqu: del bilancio esistenziale del vecchio, tremendo
Scrooge e del suo cambio di rotta esistenziale, non in
quello ma in questo mondo.
Come non dar ragione al vecchio Clint, al suo film
deliberatamente antifrastico, quando confuta le
aspettative del tipico, convenzionale e a senso unico
film hollywoodiano alla Shyamalan? Fa dire allo spi-
rito di Jason di aver fatto saltare il suo cappellino
dalla testa del gemello Marcus non per salvarlo dal-
lattentato nella metropolitana londinese (effetto col-
laterale positivo, comunque, le cui origini violente e
profonde sono comunque da ricercare altrove, reli-
giose, ideologiche, politiche), di cui forse non sapeva
(George, come lui, al posto suo, non sapeva), ma per-
ch stanco di vederglielo ancora indossare, senza
invece imboccare una strada indipendente. Marcus
dal canto suo restituisce il favore a George adoperan-
do il solito buon senso per scoprire e segnalargli lho-
tel di Marie. Cosicch a George, non luomo che sape-
va troppo ma quello che sapeva e sa troppo poco,
non resta che (pre)vedere lunica soluzione deside-
rabile, auto-augurabile per lincontro con Marie: lin-
sorgenza di un amore. Nella speranza che sia la
buona volta. Quella giusta.
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noto che quando si ha a che fare con le traduzio-
ni non ci si possa mai limitare solamente al transito di
una parola da una lingua a unaltra lasciandone inal-
terato il significato. Si dice sempre qualcosa di pi,
qualcosa di diverso, qualcosa di inavvertito. indica-
tivo, e in qualche modo ironico, che quello che in ita-
liano chiamiamo aldil si traduca in inglese con here-
after. Non l (aldi-l) dunque nello spazio, ma quasi
lopposto: qui (here) e dopo (after). Laldil non
altrove, ma qui. Non in un altro luogo, ce labbiamo
di fronte, quando solca e definisce lo spazio e il tempo
delloggi, della vita che viviamo: non di quella che sup-
poniamo ci attenda dopo la morte. Se non si conside-
ra materialisticamente Hereafter come un film sulla
vita e sulla sua irriducibilit alla banale biologia della
materia corporea (e dunque sullincontro con una
verit che sovverte il proprio stare al mondo), si
rischia di fraintenderne il problema e lasciare che il
film derivi verso una suggestivit newage conservatri-
ce e di dubbio interesse (1). Hereafter invece ci parla
dellincontro, smisurato, estremo e drammatico, con
una verit, e di come dopo questo evento non si possa
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UNA VERIT ESTRANEA A QUESTO MONDO
Pietro Bianchi
(1) Ci pare questo lerrore di una lettura, come quella che propo-
ne Luca Doninelli (che per altro rimane un pensatore e narratore
di straordinario interesse e rigore) il quale colloca il senso di giu-
stizia eastwoodiano fuori dalla storia e dai suoi conflitti perch
misurato sullestremo individualismo tipicamente americano del
Giustiziere Solitario. Secondo Doninelli starebbe in questo errore
di sottovalutazione del ruolo della redenzione nella storia la gene-
si di quella sorta di ingenuo misticismo e di melassa buonista
che spingerebbe il film di Eastwood in una direzione conservatri-
ce. Luca Doninelli, Melassa per il duro Clint, in tysm n. 1, dicem-
bre 2010, http://tysm.org/?p=6083.
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che stare al mondo come degli estranei: stare qui come
se si fosse gi in un altro tempo.
NON CI SONO NIENTALTRO
CHE CORPI E LINGUAGGI
Il filosofo Alain Badiou, uno dei pensatori che negli
ultimi anni con pi forza ha proposto una teoria mate-
rialistica della verit, ha definito lideologia del pre-
sente come quella di un materialismo democratico
post-moderno: Non ci sono nientaltro che corpi e lin-
guaggi, sembra dirci il filisteismo dellideologo la
page. Ovvero non pi possibile immaginare una veri-
t che trascenda la limitatezza e finitezza del tempo
particolare che viviamo. Ci sono soltanto corpi e paro-
le che si incontrano e si confrontano in unorizzontali-
t dove tutto uguale a tutto. La parola chiave opi-
nione: tutti hanno opinioni e sono legittimati e invita-
ti ad averle ed esibirle. Ma guai a controbattere a que-
sta religione del relativo la parola verit! Si entrereb-
be a pieno diritto nel campo dellortodossia, del tota-
litarismo, perfino del terrorismo. Sulla centralit del
corpo invece non c neanche bisogno di spendere
molte parole, talmente la riduzione del soggetto a
mera materialit biologica (il corpo lunica verit e
autenticit: siamo coestensivi al corpo che ci portiamo
appresso) pervasiva e dominante.
Badiou contrappone a questa sentenza di liquida
rassegnazione lassioma: Non ci sono nientaltro che
corpi e linguaggi, se non che ci sono delle verit.
possibile dunque rompere il circuito delle particolari-
t e dellindifferenza attraverso lincontro con una
verit che scompagina le carte in tavola: che rende una
vita degna dessere vissuta come soggetti, elevandosi
dalla deteriore materialit che vorrebbe ridurre lesse-
re umano a mera oggettualit bio-fisiologica.
Eastwood ci accompagna in questo film attraverso tre
incontri con tre momenti di verit che sconvolgono
una vita. O meglio, che rendono una vita degna des-
sere vissuta. Che rendono una vita se stessa in quan-
to tale. E poco importa che si parli di sensitivi o di pre-
sunti contatti con laldil, perch nulla ci viene detto
di questo aldil se non del modo attraverso cui rende
dimprovviso questa vita (here) come estranea a que-
sto mondo (qualcosa di pi della riduzione del mondo
a corpi e linguaggi).
Lincontro con una verit, a differenza dellideologia
dominante che promette sempre maggiore benessere e
maggiori egoistici vantaggi, non promette di stare
meglio: promette piuttosto di sconvolgere unesisten-
za. Come quella di George Lonnegan (Matt Damon)
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che non riuscir ad avere una relazione normale con la
donna che incontra nel corso di cucina perch la sua
abilit di connettersi con la anime dei defunti lo rende
inadattabile a una qualsivoglia relazione normale
(Non un dono, una maledizione, dir al fratello).
O quella di Marie LeLay che, dopo la sconvolgente
esperienza di essere stata a un passo dalla morte
durante lo Tsumani nel Sud-Est asiatico, metter a
repentaglio la sua carriera per la volont di pubblica-
re un libro sulla sua esperienza estrema invece che
quello di sicuro successo che le era stato commissiona-
to sulla vita di Mitterand.
Chi fa esperienza di questo totale sconvolgimento
sembra non essere pi completamente in questo
mondo, sembra guardare alla normalit con locchio
di chi non riesce pi a farne parte: come quando il pic-
colo Marcus fa il giro dei vari sensitivi che non fanno
altro che rivolgersi a lui con le parole del falso, o come
quando Marie va alle riunioni della sua televisione,
tutte prese nei finti problemi della quotidianit del
mercato dei media. La verit rompe qualcosa delle
connessioni di questo mondo, le mette in crisi, le de-
completa sottraendosi a esse.
QUI OLTRE QUESTO MONDO
Il problema di Hereafter, quindi, non quello del
mondo e del suo aldil, come se ci fosse qualcosa che
vada oltre i confini di quello che c. Il problema
semmai comprendere se il mondo in cui viviamo possa
essere ridotto a una aggregazione di corpi e niental-
tro, secondo lingenuo materialismo delle scienze
cognitive pi ideologiche e ingenue (che vorrebbero
ridurre il soggetto alla materialit dei suoi processi
biochimici), o se ci sia qualcosa che pur rimanendo
qui (here) rappresenti unulteriorit: qualcosa che
rompa la piatta riproduzione del tempo del quotidia-
no. Qualcosa che renda il mondo che viviamo non
bastante a se stesso (2). soltanto in questo modo che
qualcosa come il cambiamento di una scelta possa
essere compreso, oltre al puro meccanicismo dellin-
contro di corpi e materialit necessitate.
Tuttavia Clint Eastwood, in film come Million
Dollar Baby (id., 2004) o Gran Torino (id., 2008),
articolava latto capace di cambiamento sempre sulla
soglia della vita e della morte quasi come se vi fosse
unintrinseca impossibilit e paradossalit nella sfida
alla necessit di questo mondo. Proprio in Hereafter,
invece, dove la posta in palio proprio la soglia tra
vita e morte, vediamo allopera una delicatezza quasi
minimale nel raccontarci lesperienza dincontro con
la verit e dunque del cambiamento. Quasi come se
integrare questo sconvolgimento soggettivo fosse in
qualche modo possibile. Lo vediamo nellultimissima
scena dove Marie e George si incontrano. Vediamo un
bacio immaginato diventare una carezza, e poi una
stretta di mano. In che luogo di questo mondo dovreb-
be stare un bacio che finisce per avere lapparenza di
due mani che si sfiorano? In un sogno? Nella realt?
In entrambi?
Ci pare stia in questo luogo interstiziale il pensiero
di Eastwood sullincontro con una verit che cambia
la vita. Che cosa infatti una verit, se non qualcosa
che pur facendo parte di questo mondo, non pu esse-
re ridotta a corpi e linguaggi? Qualcosa che pur esi-
stendo non riesce a essere ridotta allapparenza di
tutte le altre cose e oggetti che ci stanno attorno?
Qualcosa che pur stando qui tra noi, non si riesce a
palesare se non tramite un atto di fede. Forse questa
lessenza di un materialismo che non sia n religioso
ma neanche schiavo dellillusione che tutto si possa
ridurre alla trasparenza della materia bruta. Un mate-
rialismo che dunque non possa fare a meno di un sog-
getto che prenda la responsabilit del cambiamento.
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(2) In un intervista sul settimanale LA Weekly Eastwood dice: C
un certo aspetto ciarlatano nellaldil, di quelli che pregano nella
convinzione che ci sia un aldil. Lessere umano sembra non essere in
grado di accettare il fatto che questa vita lunica e devi farne il
meglio che riesci, godertela finch sei qui senza troppi problemi e far-
tela bastare. Scott Foundas, Eastwood on the Pitch, LA Weekly, 10
dicembre 2009.
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Ho sempre pensato che scrivere del cinema di Clint
Eastwood fosse come fargli un torto. Minimizzarlo.
Spiegare levidenza, e dunque, con le parole, banalizzar-
la inevitabilmente. Non ho mai scritto su nessuno dei
suoi film, temendo confesso, in maniera reverenziale
lovviet. Negli ultimi anni, daltronde, mi sono chiesto
cosa ci fosse ancora da scrivere sul cinema di Clint
Eastwood. E come dire qualcosa di nuovo, qualcosa di
originale. E soprattutto, alla luce di certe pagine di criti-
ca pi o meno illuminate, perch continuare a scrivere
cose ormai chiare, certe (e accertate), indiscutibili. Con
tutti i rischi dellautorialit imperitura, per giunta. In
occasione di Hereafter, per, faccio uneccezione. Perch
quello che mi sembra il pi brutto e sbagliato film di
Clint Eastwood (di brutti e sbagliati film di Clint
Eastwood ne conto neanche cinque in tutta la sua filmo-
grafia da regista) mi fa riflettere anche sui metodi di rice-
zione critica che nel nostro paese assumono talvolta con-
torni confusi e, nel peggiore dei casi, ben poco lucidi.
I percorsi critici sono imponderabili, alla faccia di chi si
assume la responsabilit dellobiettivit. Sono gli stessi
percorsi critici che da noi hanno fatto generalmente stor-
cere il naso di fronte a Invictus e applaudire invece
Hereafter. Cio: va bene mettere a posto i patimenti del-
lanimo umano e i rapporti con il proprio passato (in par-
ticolare se defunto), va meno bene celebrare lurgenza di
un discorso di avvicinamento degli opposti sotto forma di
film sportivo (e dunque con tutta la grancassa nota del
genere). Eppure, al di l delle solite iperboli che da pi
parti trovano ormai spazio con cadenza ridicola (in aper-
tura di alcune recensioni quotidianistiche di Hereafter
troneggiava liscrizione pomposa Clint Eastwood il
miglior regista vivente, prontamente ripresa dai flani, e
ben sappiamo quanti miglior registi viventi ci sono nel
mondo per la nostra critica), non riesco a capire perch,
ad esempio, lottimismo contagioso e al passo coi tempi di
Invictus incontri il rifiuto, mentre quello vagamente new
age di Hereafter no.
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IL NUOVO CAPOLAVORO DI CLINT EASTWOOD
Pier Maria Bocchi
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Se in un film un personaggio legge Dickens, il film
diventa automaticamente dickensiano? Per alcune firme,
s. Tanto che Hereafter s trasformato improvvisamente
nella pi bella favola dickensiana degli ultimi anni. Ho
qualche dubbio. Perch dickensiana? Forse perch si
fanno i conti coi fantasmi, le responsabilit, le colpe?
Allora dickensiano anche Inception, dove di conti col
passato Di Caprio ne fa un bel po. Ma sfido chiunque a
definire cos il film di Nolan. Alla critica piace il cinema
che elabora il lutto, che torna a dare senso alla vita: se
Clint Eastwood a farlo, i valori sono immediati e sempre
i medesimi, la pulizia dimpaginazione, la semplicit clas-
sica (ma su questo benedetto concetto di classico applica-
to a Eastwood dovremo prima o poi ragionare per bene),
il rigore morale. Per queste ragioni, che sono le solite di
sempre, Hereafter il nuovo capolavoro di Clint
Eastwood. Poco importa che la sceneggiatura sia sche-
matica: bastano la pulizia, la semplicit e il rigore di Clint
a mettere daccordo la nostra critica. Che, daltro canto,
riguardo al cinema di Eastwood usa queste tre categorie
di giudizio da almeno ventanni, senza mai cambiare una
virgola e, cosa ancor pi grave, senza mai sentire il biso-
gno una volta tanto di cambiarla, la virgola.
No, le virgole previste rimangono al loro posto: e per la
critica integralista Hereafter il capolavoro definitivo di
Clint Eastwood. Dunque, pi definitivo di Gran Torino, di
Changeling, di Million Dollar Baby, di Mystic River, di I
ponti di Madison County, di Un mondo perfetto, di Gli
spietati, che gi erano definitivi di loro. Si celebra laldi-
qua scendendo a patti con laldil: e se le visioni di que-
stultimo sono a met strada tra un film di Fred Olen Ray
e lo Steven Spielberg meno apprezzabile, non c proble-
ma, perch il fine nobile giustifica i mezzi, e lo stile
eastwoodiano fa perdonare tutto, non soltanto i morti.
Figuriamoci, se una giornalista sostiene di aver visto lal-
dil e pensa bene di mettere tutto nero su bianco speran-
do di cambiar vita e di risolvere le proprie inquietudini,
perch non rispettarla? Perch non crederle? Alzi la mano
chi non ha mai deriso ogni presunto veggente di questo
mondo che si sbriga a scrivere il bestseller della propria
esperienza per la massa ignorante e boccalona, presen-
ziando poi in ogni salotto che conta: per in Hereafter
tutto ci in qualche modo giusto e condivisibile, la gior-
nalista francese scrive il suo libro, il quale diventa un suc-
cesso e le permette di trovare casualmente lamore.
Che amore sia, allora. Per guai a tentare di accomuna-
re i contrari: con abbondanza di clich esotico-afrodisiaci,
non ce la fa nemmeno un corso di cucina italiana, coi suoi
prodotti doc pomodori, vino rosso e una spruzzata di
musica lirica e lo chef tondo e di buonumore come da
manuale. Tra i meriti veramente pregevoli del cinema di
Eastwood, e degli ultimi dieci/quindici anni in particola-
re, c la straordinaria, spettacolare prova recidivaa inte-
grare gli opposti, a farli vivere assieme, anche a costo del
sacrificio dellesistenza stessa, e assolutamente senza sna-
turarli o eguagliarli. Gran Torino e Invictus ne erano degli
esempi trascinanti e per di pi necessari alla contempora-
neit. Hereafter lascia che gli uguali si cerchino e si trovi-
no nella solitudine pi completa: invece di sostenere la
pratica delleccezionalit nel mondo, questo film la anni-
chilisce a fenomeno destinato allesilio; invece di promuo-
vere la comprensione della diversit, questo film la bandi-
sce, ne fa un prodigio da piazza (molto opportunamente,
la giornalista francese legge pagine del suo bestseller a un
pubblico beato di una fiera del libro), condannandola a
vivere con i propri simili. Ricordate il finale di Million
Dollar Baby, con il confino che sinfligge il protagonista
Frankie Dunn? Ma in un film che la maggior parte della
nostra critica decanta come un inno alla vita e alla possi-
bilit per luomo di ritrovare la serenit, quindi ben lonta-
no dal nichilismo senza speranza del film di sette anni fa,
lincontro in galleria tra numeri primi che conclude
Hereafter mi lascia pi perplesso che commosso.
Cosa resta, allora, di Hereafter? I primi quindici minu-
ti dellepisodio inglese dei due fratelli: qui che la pulizia,
la semplicit e il rigore eastwoodiani trovano vero svilup-
po; questo cinema adulto, profondamente maturo e
intelligente nello sguardo su due generazioni dipendenti
vicendevolmente (figli e madri). Peccato che poco dopo
arrivi la sequenza del berretto e dellesplosione nel metr,
che sembra giungere dritta da Ghost: niente di male, per
carit, basti ricordare gli elogi sperticati che il fantasy di
Zucker riscosse allepoca da certa critica; ma bisogna ridi-
mensionare lo sguardo, senza appellarsi ogni sacrosanta
volta alla laicit eastwoodiana (quarto valore abusato per
incensare il cinema di Eastwood, da sommare ai prece-
denti tre). La critica pigra, sia che si tratti dello scribac-
chino pi grigio o al contrario del cinefilo pi agguerrito.
Non sede per lennesima frustata al culto dei totem
autoriali; per non mai troppo tardi per invocare il buon
senso e la misura delle parole.
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Tamara Drewe
di Stephen Frears
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Unimpietosa coerenza sembra muovere il cinema di
Mike Leigh. Di storia in storia si rincorrono le tracce di
uno sguardo discreto, sottilmente impegnato in una con-
tinua sfida di precisione: una lotta, direbbe Bazin, tra
limmagine e il reale. Sullo sfondo mobile dei suoi inter-
ni londinesi si accumulano, film dopo film, le stesse con-
versazioni, il fitto intreccio di parole quotidiane, corpi,
tazze di t, le fughe in auto, il dolore e i pochi spiragli di
sofferta redenzione.
Another Year, realizzato a tre anni di distanza da
Happy Go Lucky, si collega saldamente al filone che ha
caratterizzato lultimo decennio del regista britannico.
Un filone che unisce un quartetto di titoli (All or
Nothing, Vera Drake e il gi citato predecessore) in un
corpo comune di riflessioni, motivi e problemi. In comu-
ne c anche e occorre ricordarla la tecnica registica
di Leigh, fondata su un meticoloso lavoro di ricerca
attoriale. A preparare il film stato infatti il consueto
metodo di improvvisazioni non pianificate: nel corso dei
cinque mesi di preparazione, Leigh ha lasciato immer-
gere gli attori nei personaggi, allestendo loro intorno un
microcosmo fittizio e domestico, per poi attendere che la
durata facesse il suo corso, portando gli accenti del reale
allinterno della narrazione.
proprio da questo esercizio di immersione attoriale
che deriva la formidabile impressione di realt che river-
bera sulla pellicola. Ancora una volta, grazie anche alla
lunga familiarit coi suoi interpreti, Leigh ha saputo,
cio, allestire una sorta di macchina ibrida, un comples-
so esercizio attoriale in cui attori, ambienti e storie inte-
ragiscono fino a generare un lessico familiare, un idiolet-
to riconoscibile nelle sue connotazioni di classe e nazio-
nalit, ma al contempo dotato di una sostanza umana
propria e peculiare.
Della medesima riconoscibilit si circonda limmagi-
ne. Di fronte al dispiegarsi di quel respiro di realt che
essa stessa ha saputo suscitare, la regia leighiana si
muove su una sorta di doppio binario. Uno sguardo
discreto, come si diceva in apertura. Attento a catturare
ogni riflesso del quadro mobile che ha voluto mettere in
scena. Un quadro su cui la macchina da presa si muove
Titolo originale: id. Regia e sceneggiatura: Mike Leigh.
Fotografia: Dick Pope. Montaggio: Jon Gregory. Musica:
Gary Yershon. Scenografia: Simon Beresford. Costumi:
Jacqueline Durran. Interpreti: Jim Broadbent (Tom),
Ruth Sheen (Gerri), Oliver Maltman (Joe), Lesley
Manville (Mary), Peter Wright (Ken), David Bradley
(Ronnie), Martin Savage (Carl), Karina Fernandez
(Katie), Michele Austin (Tanya), Philip Davis (Jack),
Imelda Staunton (Janet), Stuart McQuarrie (il collega di
Tom), David Hobbs (il vicario), Badi Uzzaman (il signor
Gupta), Meneka Das (lamico del signor Gupta).
Produzione: Georgina Lowe per Thin Man Films/Simon
Channing Williams Productions/Film4/Untitled 09
Ltd./Uk Film Council. Distribuzione: Bim. Durata: 129.
Origine: Gran Bretagna, 2010.
In primavera, Gerri, moglie felice e psicologa, e suo
marito Tom, geologo, coltivano con amore il loro lotto
di terra. Si prendono cura anche di Mary, una collega
di Gerri che beve troppo e si lamenta della sua disa-
strosa vita sentimentale. Gerri e Tom hanno un figlio
trentenne, Joe, insoddisfatto perch non ha ancora tro-
vato una compagna. In estate, da Londra arriva Ken,
un amico di infanzia di Tom cresciuto come lui a
Derby. Si ubriaca spesso, e si lamenta della sua vita
disperata e solitaria. Mary arriva tardi e agitata. geli-
da con Ken, che le fa una corte innocente e romantica,
mentre flirta con Joe. In autunno, tornando dallorto,
Gerri e Tom trovano una gradita sorpresa di Joe, che li
aspetta a casa con la sua nuova compagna, Katie.
Mary si mostra subito gelosa e ostile verso la ragazza.
In inverno, Gerri, Tom e Joe vanno a Derby al funera-
le della moglie del fratello maggiore di Tom, Ronnie,
che ha un atteggiamento aggressivo e ostile. Gerri e
Tom tornano con Ronnie a Londra. Intorno al tavolo
della cena, Gerri e Tom rievocano i vecchi tempi,
quando erano giovani e giravano il mondo in sacco a
pelo, Joe e Katie non vedono lora di partire per il loro
prossimo viaggio a Parigi, Ronnie si gode in silenzio la
birra e la cena, e Mary fa i conti con il vuoto e la tri-
stezza della vita che passa.
ANOTHER YEAR Mike Leigh
Il fascino crudele della felicit
Pasquale Cicchetti
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con lubiqua leggerezza di un kammerspiel, avvolgendo
gli spazi nella loro tessitura organica, vissuta. Another
Year rifugge la coralit e il suo correlativo, quella coun-
cil estate su cui si dipanava il mondo di All or Nothing:
la sua dimensione la casa borghese, i suoi ambienti e i
ritmi che la abitano. Dopo aver introdotto ciascuno dei
quattro protagonisti sul proprio posto di lavoro, la nar-
rativa procede a redistribuirli allinterno del fulcro
domestico, instaurando una sorta di scala in cui lappar-
tenenza allo spazio della casa (ai suoi riti, ai suoi lin-
guaggi) si fa insieme misura e codice della felicit perso-
nale. Formidabile, a questo riguardo, la sequenza in cui
Mary, per dimostrare a Jack di essere effettivamente
unamica di famiglia, descrive a memoria gli spazi del-
labitazione: come a voler sconfessare attraverso levoca-
zione verbale dei luoghi il fantasma della propria evi-
dente estraneit emotiva.
Uno sguardo discreto: ma anche e lo dimostra ine-
quivocabilmente limpietosit di certi piani ravvicinati
uno sguardo rapace, capace di muoversi sul margine
della crudelt e catturare ogni tic, ogni accento grotte-
sco o violento, nel segno di una stilizzazione documen-
taria del reale che suona cos stranamente in contrasto
con quella gentilezza affettuosa che, allapparenza,
costituisce la pars costruens della narrazione. Ma la sen-
sazione che al di sotto dellesibita comprensione di Tom
e Gerri ci sia un qualcosa di stridente sottolineata
anche altrove. Dai parallelismi del montaggio, ad esem-
pio, che enfatizzano una densa trama di contrappunti
ironici, di antonimie, di prese di distanza. Vengono in
mente le due sequenze speculari in cui Tom e Gerri rien-
trano in casa e trovano ad attenderli ospiti inaspettati:
Joe e la sua nuova compagna, giocosamente accolti nella
prima sequenza, e in unamarissima sequenza paralle-
la in apertura dellultimo atto Mary, ormai sullorlo
della nevrosi. Ma questa sensazione di freddezza traspa-
re anche dalla struttura complessiva: supportato dellec-
cellente fotografia di Dick Pope, collaboratore storico di
Leigh, limpianto narrativo racchiude le vicende in un
giro di stagioni, in una ciclicit da tempo folklorico,
naturale. Epper, pi che il sentimento tragico proprio
della sua matrice greca, questa circolarit sembra evo-
care una classicit raffinata, di superficie, vicina a un
certo manierismo winkelmaniano.
Ecco, appunto. In questo contrasto tra una gentilezza
trattenuta, tutta buone maniere e understatement, e
levocazione di un umanesimo pi vibrante e partecipe
(verrebbe da dire alcaico) ci sembra racchiuso il noccio-
lo problematico di questo filone del cinema di Leigh. Il
mondo di Tom e Gerri un giardino protetto, ispirato a
un modello di saper vivere dai tratti mediterranei, fon-
dato sul buon cibo, una certa dose di leggerezza e di
conversazione brillante. Una sintesi, insomma, di quella
extraordinary too-muchness at the heart of the ordina-
ry che Garry Watson (1) riconosceva nella poetica di
Leigh come forma privilegiata della redenzione, se
vogliamo concederci il termine, o comunque della possi-
bilit di essere un poco felici. Una forma peraltro emble-
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maticamente incarnata dalla stessa Ruth Sheen, che a
questo modello di vita aveva gi prestato sguardi e
movenze in All or Nothing, tanto che al di l della
netta demarcazione di classe sociale che separa i due
personaggi sembra quasi di ritrovare in Gerri qualco-
sa della sua Maureen. Ma c qualcosa in questo model-
lo che ostinatamente ritorna, e disturba: un fuoricampo,
unombra rimossa. Qualcosa di connaturato al modello
stesso, una chiusura allesterno che inevitabilmente ne
condiziona la praticabilit e la tenitura morale. Mary
chiede platealmente aiuto, ma Gerri, fino alla fine, sem-
bra ignorare la gravit della sua situazione. Pensiamo
anche a Happy Go Lucky, altro esempio di felice realiz-
zazione del paradigma: felice, s, ma che dire del povero
Scott, istruttore di guida e tormentato sociopatico, eppu-
re sinceramente innamorato di Sally Hawkins, cos
come lo era stato il giovane Craig nel gi citato All or
Nothing?
La magistrale sequenza finale di Another Year ci for-
nisce, a questo punto, una potente chiave di lettura. La
macchina da presa, in una lentissima panoramica circo-
lare, abbraccia e ricompone lunit simbolica della fami-
glia attorno alla tavola imbandita, per poi fermarsi ed
escludere attraverso il sonoro proprio Mary, che pi di
tutti di quella ricomprensione sembra avere bisogno.
Ora, la colpa di Mary se di colpa possiamo parlare
non consiste nellaver offeso o tradito lamicizia di Gerri
(la quale, peraltro, dimostra in pi occasioni di essere
perfettamente cosciente della disperata proiezione
romantica dellamica sul figlio Joe, senza curarsi n di
agire n di parlare per tempo). No, la colpa di Mary
specificamente linguistica: la donna andata oltre le
righe, ha frainteso la sua posizione nei confronti di
Katie, e, attaccando il nuovo membro della famiglia, ha
infranto la tessitura di gentilezza verbale con la quale
Tom e Gerri proteggono accuratamente se stessi e la cer-
chia dei pauci beati che ammettono presso di loro. Di
qui lespulsione. Quanto a Katie, la giovane dimostra fin
dallinizio di conoscere le regole del gioco, mostrandosi
impermeabile alle cattiverie della rivale e, seguitando a
cinguettare amabilmente, secondo gli standard della
casa. Anche perch, intuiamo, non si sente per nulla
minacciata nella sua posizione di nuovo membro della
comunit domestica. Eppure Mary, al contrario di lei,
une abitu, una vecchia amica di famiglia (quasi una
zia, come rimarca Gerri). Da dove viene tanta sicurez-
za? In altre parole, perch Katie, perfetta sconosciuta,
conosce le regole di quel linguaggio che Mary pur dopo
tanto tempo non ha saputo o potuto apprendere?
Si sarebbe tentati di leggere il tutto in termini di clas-
se, come pure stato fatto. Ma una tale riduzione della
questione in termini vetero-marxisti sarebbe pretestuo-
so e poco illuminante. Da un lato, infatti, si gi nota-
to come Leigh abbia proposto lo stesso modello attra-
verso personaggi di classi sociali e perfino periodi
diversi (pensiamo a Vera Drake). Dallaltro, la divisio-
ne sociale che pure traspare in queste storie frutto di
quella ricerca del reale cui abbiamo gi accennato. Non
sar inutile ricordare qui che ancora oggi la societ bri-
tannica vive e si pensa allinterno di un sistema rigida-
mente e francamente classista, con buona pace di
(quasi) tutti.
Resta per da capire perch questo modello, che pure
intelligentemente non vuol darsi una connotazione
di classe, sembra fallire proprio nellattraversare i confi-
ni del cerchio che ne garantisce la sopravvivenza.
Limpressione che a impedire questo allargamento sia
precisamente un difetto di comunicazione, e cio, da
ultimo, il problema dellindicibilit del dolore, della ine-
ludibile solitudine umana, a cui il linguaggio oppone la
propria autonoma surrettizia dimensione di codice, di
sistema sociale (e, per inciso, non si d linguaggio al di
fuori della classe: si pensi a Naked). Di qui la teoria di
personaggi salvifici che la cinematografia leighiana ha
sempre accostato ai suoi derelitti. Giovani dottori, mae-
stre di scuola materna, assistenti sociali, avvocati attivi-
sti: personaggi positivi, emanazioni di un civismo lumi-
noso e solidale, ma anche riprova di come solo dal-
lesterno si possa tendere una mano. Di qui, infine, tutta
la fulminante icasticit della sequenza di apertura, con
la Stanton (Vera Drake) che di fronte alle reiterate e
professionali profferte daiuto di Gerri, protesta di vole-
re, lei, soltanto dormire.
(1) Garry Watson, The Cinema of Mike Leigh: A Sense of the Real,
Wallflower, Londra 2004.
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Ma quanto bravo Mike Leigh?
Questo lhanno pensato tutti (tutti in fondo lo
pensavano gi) fin dalla prima visione di Cannes
2010. Direzione degli attori impressionante, regia
pulita e arguta, dialoghi che sembrano zampillare
dalla vita vera di quelle persone che sono i perso-
naggi del film.
In molti, per (quasi tutti), si sono fermati l. Alla
naturalezza. Alla sensibilit. A quella splendida
coppia in l con gli anni che ti fa venire voglia di
innamorarti e di credere nella vita, qualsiasi cosa
accada, nella gioia e nel dolore, finch non ci separi
la fine del secondo tempo (per il terzo, rivolgersi a
Hereafter).
Eppure, se osservi bene (se gratti via il primo stra-
to di parole, se stai attento ai gesti e agli sguardi
sottolineati dagli stacchi o camuffati dentro linqua-
dratura se di il giusto peso alla solitudine in cui
sono fisicamente confinati gli amici infelici e i
parenti perdenti anche e soprattutto quando sono in
gruppo), ti accorgi di quanto sia complessa e raffi-
nata e ambigua questa apparente lineare semplicit.
Another Year non un apologo dolceamaro sulla
fatica e la gioia di vivere, con due protagonisti sola-
ri in cui identificarsi (per consolarsi) e una selva
lunare di personaggi minori a cui spetta stratificare
il racconto e moltiplicare le tonalit. Non cos
banale. Tom e Gerri, nella loro sincera generosit,
con la loro intelligenza sociale e apertura mentale,
oltre a essere gli amorevoli-ammirevoli protagoni-
sti, la pietra angolare della storia, sono anche la
pietra dello scandalo, il termine di paragone del-
linfelicit altrui, la dimostrazione di quanto sia
infame la vita quando distribuisce fortune e talenti.
Viene il fondato sospetto che la loro felicit abbia
bisogno delle disgrazie degli altri. Non una perfi-
dia evidente, una cattiveria tematizzata dal film.
unumanissima debolezza, che non hanno il corag-
gio di confessarsi, di cui probabilmente non sono
neppure consapevoli, e che scorre sottotraccia nel
film, emergendo pi chiaramente negli snodi narra-
tivi. Eccoli abbracciati su un letto o in cucina, nella
loro grande e bella casa, dopo che hanno incontrato
e consolato, dopo che hanno coltivato il loro orticel-
lo, in pace con se stessi. Simpatici. Dolci. Spietati?
Perch mai dovrebbero fare pi di cos? Come pos-
sono cambiare la vita di quella segretaria che fatica
a comprarsi unauto e non ha nessuna possibilit di
trovare luomo che desidera? Cosa fare con lamico
anziano, depresso e sovrappeso, se non qualche
bevuta in ricordo dei vecchi tempi e un barbecue in
giardino? E il fratello di Tom? In che modo lhanno
aiutato fino a ieri? (compare allimprovviso, dopo
un lutto). Daltra parte come pu lui, rinfacciare
loro qualcosa, visto che sono cos magnificamente
disponibili? I due piccioncini se ne stanno l a
dispensare consigli, attenzioni e affetti dallalto
della loro soddisfatta felicit, vampirizzando le sfi-
ghe altrui, evitando accuratamente che le nevrosi
degli altri, i dolori insanabili, le precarie identit,
arrivino a minare le fondamenta della loro serena
vita familiare, faticosamente costruita negli anni,
meritatissima.
Quanto bravo un regista che riesce a racconta-
re questa ambiguit, senza bisogno di dirla o
mostrarla? Che sembra parlare di una coppia
meravigliosa, esempio di calorosa benevolenza,
mentre in realt sta parlando degli ultimi, dei per-
denti, di quel brutale darwinismo sociale di cui
siamo vittime e carnefici spesso inconsapevoli (s,
proprio noi, progressisti, acculturati, sensibili). Lui
geologo e lei psicologa, la natura li ha fatti intel-
ligenti e dotati, il loro benessere guadagnato sul
campo, ma perch, alla fine, ci appare cos ingiusto,
perfido, contraddittorio? Allinizio una questione
di dettagli e di sfumature. Leigh ci porta abilmente
a identificarci con i sorrisi e gli sguardi di intesa fra
Tom e Gerri, che compatiscono la segretaria nevro-
tica: proprio una disgraziata, come si fa a non
ridere di lei? Intanto ci mostra (chiss perch) il
figlio illuminato di cotanta famiglia, che accoglie al
lavoro una coppia di immigrati con un tono fasti-
diosamente ironico e paternalistico. Ma c anche
laspirante nuora, con la sua parlantina torrenziale
e la sua gentilezza esagerata, che a babbo e mamma
piace tanto, e a noi suona cos stonata (anche alla
segretaria pazza, che per non ha gli strumenti per
rendere esplicito il suo disagio, e la cosa si risolve
in una grottesca gelosia).
Dobbiamo aspettare la fine, perch ci diventi
esplicito. Quelle scene in cui i perdenti hanno
finalmente delle inquadrature tutte per loro, e
cominciano ad acquisire la consapevolezza della
propria realt di sfigati vampirizzati, mendicanti di
affetto e considerazione, ma in un certo senso uma-
namente pi veri. La sequenza dellepilogo il
disvelamento finale: la famigliola felice parla dei
suoi viaggi in giro per il Mondo con totale mancan-
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Amorevoli vampiri
Fabrizio Tassi
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za di tatto (nei confronti di chi uscito a malapena
dal suo quartiere) e un buonumore che supera la
decenza, mentre la macchina da presa coglie uno
sguardo di intesa fra la nevrotica diventata silenzio-
sa e il fratello vedovo, che ha capito tutto senza aver
bisogno di parlare. Solo allora ti capita di ripensare
alla donna, impersonata da Imelda Staunton, che
appare nel prologo e poi sparisce per sempre, nella
nebbia informe della vita e della non-storia, con il
suo inguaribile dolore, che la brava Gerri ascolta e
accoglie per il tempo di una consulenza psicologica,
e magari aspira pure a guarirla, mentre lei vorreb-
be solamente dormire.
Intanto le stagioni scorrono e arriva un altro anno.
Grande film davvero.
C la realt, in cui ognuno di noi interpreta il suo
ruolo come meglio pu. Incasinata. Tragica. Buffa.
Anche un po ridicola. Una messinscena in cui gli
attori non hanno un copione e il regista ha abban-
donato il lavoro a met (rimangono i produttori,
quelli che pagano e vanno allincasso, e una stermi-
nata platea di spettatori consumatori).
C il cinema, che elabora, documenta, dramma-
tizza, esplicita, che trasforma la realt in spettacolo
o la riduce al suo archetipo, che sta allegramente in
superficie o si immerge in pensose profondit. Ci
riesce e non ci riesce. Per lo pi preferisce divagare.
Poi ci sono i film di Mike Leigh (i migliori film di
Mike Leigh). Un luogo reale e cinematografico, in
cui il cinema rinuncia a una parte di s per avvera-
re la realt (non si tratta di capirla o afferrarla, ma
di darle consistenza), e la realt si specchia nel cine-
ma senza bisogno di scorciatoie poetiche o ansie
dimostrative, messa come in rilievo dalla dramma-
turgia rigorosa, che non il discorso ma lo sfon-
do su cui emerge la vita. In una pellicola come
Another Year la realt ha una sua evidenza cristal-
lina, che la riscatta dallopaca astrazione a cui soli-
tamente la riduciamo per abitudine. Qui i personag-
gi sono pi reali delle persone vere, la vita cos
come la vedi o non la vedi (ambiguit comprese) e
la verit una questione di punti di vista (non una
decisione presa in sede di sceneggiatura). Non un
cinema che idolatra limmagine e il suo potere sal-
vifico. Non ha bisogno di usare il bianco e nero, o
incantarsi davanti alla camera fissa, o balbettare un
po di retro-avanguardia, per vedere e far vedere
cosa c dietro la superficie delle cose.
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strano che in pochi labbiano notato, ma La
donna che canta ha il medesimo incipit e, soprattutto,
la medesima impostazione di I ponti di Madison
County. Due fratelli, una lettera-testamento, una lettu-
ra che fa precipitare nel vuoto di una storia che da
personale potrebbe diventare collettiva. Uno dei gran-
di melodrammi del cinema contemporaneo, il pi
popolare, non il pi noto, tra i capolavori eastwoodia-
ni, che fa da modello, non si sa quanto voluto, a
unanaloga storia damore e di scoperta che richiede
anchessa una fiduciosa adesione a unidea di cinema
classico e simbolicamente intelligibile.
Il film di Denis Villeneuve non chiede nulla in pi
rispetto a quello di Eastwood: emozione, partecipazio-
ne, identificazione. Se laccoglienza stata pi tiepida
o semplicemente pi sbadata, certo perch il giovane
regista canadese non ha la classe di Clint, e ci manche-
rebbe pure, ma anche perch non sempre lodierno
spettatore medio disposto ad accettare le regole note
ma poco frequentate del romanzo dappendice.
La donna che canta non chiede nulla in pi di esse-
re considerato come un mlo puro e semplice, una
storia di agnizione da feuilleton ottocentesco traspor-
tata nel Novecento e nella sua tragica realt storica.
Del melodramma sentimentale una versione pi
ampia e avventurosa di quello familiare a cui appar-
tengono I ponti di Madison County e i pi grandi
melodrammi hollywoodiani, da Griffith a Sirk ha
tutte le caratteristiche: la scoperta iniziale, il fla-
shback rivelatore, il salto geografico in un altro con-
tinente, la risoluzione del trauma nel tempo presen-
te, la vicenda individuale intrecciata a quella collet-
tiva, linsegnamento morale che porta a uno sciogli-
mento dei conflitti. Sembra un manuale. E se pren-
dessimo un qualsiasi mlo hollywoodiano di met
anni Cinquanta, uno a caso, se possibile tra i meno
consapevoli e belli, magari tratto da un romanzo di
Hemingway e ambientato in Europa o in Africa, tro-
veremmo la stessa struttura, la stessa traiettoria che
da un iniziale disequilibrio conduce a una soluzione
delle storture da cui sono nati gli eventi.
Titolo originale: Incendies. Regia: Denis Villeneuve.
Soggetto: dal lavoro teatrale omonimo di Wajdi
Mouawad. Sceneggiatura: Denis Villeneuve, Valrie
Beaugrand-Champagne. Fotografia: Andr Turpin.
Montaggio: Monique Dartonne. Musica: Grgoire
Hetzel. Scenografia: Andr-Line Beauparlant. Costumi:
Sophie Lefebvre. Interpreti: Lubdna Azabal (Nawal
Marwan), Mlissa Dsormeaux-Poulin (Jeanne
Marwan), Maxim Gaudette (Simon Marwan), Rmy
Girard (il notaio Jean Lebel), Abdelghafour Elaaziz
(Abou Tarek), Allen Altman (il notaio Maddad),
Mohamed Majd (Chamseddine), Nabil Sawalha (Fahim),
Baya Belal (Maika), Bader Alami (Nicolas), Yousef
Shweihat (Sharif), Karim Babin, Anthony Ecclissi (le
guardie del corpo di Chamseddine). Produzione: Luc
Dry, Kim McCraw, Stephen Traynor, Sylvie Trudelle per
microscope/Ts Productions. Distribuzione: Lucky
Red. Durata: 130. Origine: Canada/Francia, 2010.
Quando il notaio Lebel legge a Jeanne e Simon
Marwan il testamento della loro madre Nawal, i gemel-
li restano scioccati nel vedersi porgere due buste, una
destinata a un padre che credevano morto e laltra a un
fratello di cui ignoravano lesistenza. Jeanne vede, in
questo lascito enigmatico, la chiave del silenzio di
Nawal, chiusa in un mutismo inesplicabile durante le
ultime settimane precedenti la sua morte. Decide di
partire subito per il Medio Oriente per riesumare il pas-
sato di questa famiglia di cui non sa quasi nulla.
Simon, per quanto lo riguarda, non ha bisogno dei
capricci postumi di quella madre che sempre stata
lontana e avara di affetto, ma il suo amore per la sorel-
la lo spinger presto a unirsi a Jeanne per setacciare
insieme la terra dei loro antenati sulle tracce di una
Nawal ben lontana dalla madre che conoscevano.
Spalleggiati dal notaio Lebel, i gemelli risalgono il filo
della storia di colei che ha dato loro la vita, scoprendo
un destino tragico marchiato a fuoco dalla guerra e
dallodio e il coraggio di una donna eccezionale.
(dal pressbook del film)
LA DONNA CHE CANTA Denis Villeneuve
Una morale dellorrore
Roberto Manassero
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In pi, rispetto a un film vecchio pi di mezzo seco-
lo, non pu che esserci la consapevolezza della preca-
riet di ogni narrazione, una distanza critica di cui
oggigiorno nessun regista o sceneggiatore pu dimen-
ticarsi e, soprattutto, di cui ogni spettatore deve pre-
munirsi nel momento in cui accetta di prestare atten-
zione a una storia. Colpa o merito del postmoderno,
certo, dellinibizione del cinema di fronte alleccessiva
evidenza della finzione o della ritrosia del pubblico di
fronte allemozione senza freni: ma nulla vieta che per
un attimo la distanza critica venga messa da parte e si
recuperi lo spirito di una primigenia affabulazione.
Ci di cui Villeneuve, e prima ancora lautore della
pice originaria, Wadji Mouawad, vanno in cerca
proprio questa resa volontaria e gratuita; una sorta di
salto temporale allindietro, che non riguarda sola-
mente i protagonisti della vicenda ma tutti gli spetta-
tori del film. Se per gli uni si tratta di scoprire lorigi-
ne della propria identit, per gli altri il compito ritro-
vare uninnocenza dello sguardo e dellemozione che
oggigiorno il cinema non richiede pi. O meglio, che
vorrebbe richiedere, ma sa di non potersi permettere.
La donna che canta, invece, un film fiducioso nel
potere immaginifico del suo racconto, che prova consa-
pevolmente a recuperare unemozione di sapore sia vin-
tage, come di storia sentita raccontare e non vissuta di
persona, sia salvifico, quasi che il cinema cercasse una
redenzione attraverso la sospensione dellincredulit.
Lo si capisce da come lincipit non tergiversa nei piani
dambientazione ma entra subito nel vivo, gettando per-
sonaggi e spettatore nella discesa verso la conoscenza
delle rispettive radici. Prima scena, tutti in campo: due
gemelli, due testamenti, una sola madre dalla vita dop-
pia, perch in fondo ogni vita ha il suo lato oscuro, sco-
nosciuto anche da chi ne padrone. I due ragazzi che
saranno protagonisti del film sono scioccati e lo spetta-
tore costretto fin da subito a negoziare la propria ade-
sione: si capisce che la storia potrebbe portare lontano,
che potrebbe celare un mistero come lamore impossibi-
le nella Madison County o magari ancora di meglio, di
pi impensabile e profondo. Se non si accetta il gioco,
per, meglio mollare fin da subito.
Lapparizione stessa del flashback, cos come il neu-
trale andirivieni temporale tra presente e passato,
senza rimescolamenti che rischiano di gettare fumo
negli occhi dello spettatore, non sono per una volta i
frammenti di racconto impossibile, le schegge libere di
una trama mlo fuori tempo massimo, bens i binari
per una volta paralleli di un tragitto che porter alla
risoluzione del mistero. Ancora una volta una que-
stione di attesa e fiducia: bisogna essere certi che ci
sar una fine, altrimenti, ripetiamo, tanto vale non cre-
derci fin da subito.
Perch ci che La donna che canta chiama in causa,
a volerla sparare un po grossa, la nostra stessa fidu-
cia nel cinema, o pi ancora nellarte del racconto.
Non un film perfetto, non dosa gli elementi in manie-
ra equilibrata e non giustifica in modo realistico gli
snodi cruciali della trama: proprio per questo, per,
per una forza che incanala i mille rivoli della Storia in
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un unico luogo, per una ragione che pu solo risiede-
re nella gratuit di ogni fabula, mostra la pervicacia
del suo meccanismo, la seduzione che mette in campo,
la sincerit di unonesta autorizzazione a manipolare
la realt e dunque lemozione dello spettatore.
Il racconto una calamita, attira i protagonisti verso
un centro sconosciuto dove scoprire la verit sullori-
gine della vita. Doppi squilibrati e perci archetipici,
opposti nel sesso, nellaspetto e nel carattere, lei pi
comprensiva e curiosa, lui pi chiuso spaventato, i due
gemelli del film sono versioni moderne della favola di
Pollicino: seguendo le briciole della storia personale
della loro madre, entrano di volta in volta in una
dimensione sempre pi ampia, storicizzata e universa-
le, e al tempo stesso si avvicinano al nodo cruciale
delle loro esistenze individuali. Spettatori inermi del
destino altrui, fratello e sorella imparano lentamente a
prendere parte al gioco, arrivano a scambiarsi quando
non possono pi tirarsi indietro, quando hanno ormai
capito il senso ultimo della lezione morale che la
madre, vittima e carnefice inconsapevole, ha voluto
impartire loro.
Il transfert di identificazione con il pubblico evi-
dente (fin troppo, a dirla tutta: ma proprio qui, in
questo eccesso, il rapporto di fiducia che il film preten-
de), essendo il viaggio dei due fratelli, come sempre
nella narrazione popolare, un viaggio simbolico e
palingenetico, prima distante e poi prossimo, vicino al
cuore dei protagonisti e per questo universale. Il dop-
pio piano della storia individuale e collettiva si fa
esplicito nel momento in cui la verit getta le vite dei
singoli individui nella tragedia della Storia del
Novecento, nel corto circuito inumano che ha portato
in quasi ogni decennio alle violenze etniche e agli olo-
causti culturali.
Si parla della guerra del Libano, degli scontri tra
musulmani e cristiani maroniti: ma il riferimento
potrebbe essere ad altre tragedie storiche e altre guer-
re fratricide. A contare, purtroppo, sono labominio
dellincesto e della violenza che scorre obliqua tra i
legami di sangue. La scoperta finale, oltre a generare
un probabile ululato di stupore nel pubblico, segna il
congiungimento delle forze che spingono il film verso
il proprio compimento: lapprodo a un punto di non
ritorno in cui il male della Storia macchia la dimensio-
ne individuale con il sangue dellirreparabilit.
antropologica la dimensione del male racconta-
ta dal film. Il dramma storico che porta un bambi-
no a diventare un torturatore infatti secondario
allindifferenza con cui la natura umana pratica la
violenza e alla negazione di un imprinting identita-
rio che distinguerebbe gli uomini dagli animali. La
storia del Novecento, in fondo, un campionario
ricchissimo di tragedie che fanno piazza pulita di
qualsiasi illusione al proposito: ma se Villeneuve
non ci va per il sottile nellillustrare il coinvolgimen-
to di ogni individuo in questa tragedia, lunione tra-
gica del particolare con luniversale, il caos che
mischia il sangue e disperde lordine delle cose, al
tempo stesso dichiara una cieca fiducia nella poten-
za salvifica del melodramma
La donna che canta, come scriverebbe Roth, tra-
sforma il quotidiano in epopea, accetta il lato oscu-
ro dellumanit ma lo forza a tal punto da trasfigu-
rarlo in una forza generatrice di vita: la Storia che
invade la vita dei personaggi del film quella reale,
lorrore e lodio anche, ma la strada che si fa imboc-
care al racconto porta volutamente da un abominio
a un paradosso, da un male assoluto a un amore di
uguale intensit.
Sei una donna gloriosa e vittoriosa, dice in una
canzone il cantante Sufjan Stevens alla sorella
abbandonata dal marito; Sei la madre del cuore del
mondo, le ricorda. Ogni donna Villeneuve lo riba-
disce si ritrova proprio l, in una dimensione dove
essere madre e padrona delle chiavi del mondo. E se
in tale dimensione lamore pu sconfiggere final-
mente il Novecento, come in Tarantino il cinema ha
ucciso Hitler dopo anni di tentennamenti, allora
anche il melodramma pu prendersi la sua inutile
rivincita sul postmoderno e per una volta ridare
ordine alla storia individuale e collettiva di tutti noi,
che siamo da sempre figli e potremmo un giorno
essere padri o madri.
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Tamara Drewe un graphic novel (romanzo a
fumetti) pubblicato inizialmente a puntate su The
Guardian dal 2005 al 2006 e nel 2007 in volume
(in Italia edito da Nottetempo). opera di una
delle migliori autrici e disegnatrici britanniche,
Posy Simmonds (classe 1945), che firma celebri
strisce per The Guardian da oltre trentanni e
aveva gi ottenuto un notevole successo col prece-
dente graphic novel, Gemma Bovery (1999),
pastiche di Madame Bovary. Anche Tamara
Drewe nasce ispirandosi a un grande romanzo,
Via dalla pazza folla (1874) di Thomas Hardy, da
cui mutua con ironia alcuni motivi (il ruolo della
natura e del paesaggio) e ne rovescia altri (la miso-
ginia). Il segno della Simmonds morbido ed essen-
ziale e la sua scrittura attenta ai dettagli psicologici
e animata da un umorismo tipicamente britannico
che prende di mira le convenzioni e le ipocrisie della
societ borghese.
Stephen Frears, dopo lesito deludente di Chri
(2009), ha subito riconosciuto nella storia di Posy
Simmonds un universo congeniale e loccasione di
ritornare alla commedia pura, che non frequentava
dai tempi di Alta fedelt (2000). Un divertissement,
realizzato con la volont ludica di divertire. Tra il
romanzo e il film, che rispetta la scansione in quat-
tro stagioni del testo, un ruolo essenziale lha avuto
ladattamento della commediografa Moira Buffini,
inviato a Frears quando ancora non aveva terminato
Chri. Il regista si ispirato ad alcune tavole come se
fossero il dcoupage (adottando talvolta lo split scre-
en) e ha conferito un respiro spedito a una narrazio-
ne che si basa sul gioco espressivo degli sguardi, sulle
battute salaci e su azioni beffarde e repentine.
Ma Frears si anche allontanato dal libro per svi-
luppare delle soluzioni originali, come la sequenza
della morte tragicomica dello scrittore Nicholas
Hardiment (investito da una mandria di vacche ter-
rorizzate da un cane), che assume nel film una cru-
dele, caustica concretezza assente nel libro della
Simmonds, dove cade nel fuori campo di unellissi.
Titolo originale: Tamara Drewe. Regia: Stephen Frears.
Soggetto: dal romanzo a fumetti omonimo di Posy
Simmonds. Sceneggiatura: Moira Buffini. Fotografia: Ben
Davis. Montaggio: Mick Audsley. Musica: Alexandre
Desplat. Scenografia: Alan MacDonald. Costumi:
Consolata Boyle. Interpreti: Gemma Arterton (Tamara
Drewe), Roger Allam (Nicholas Hardiment), Bill Camp
(Glen McCreavy), Dominic Cooper (Ben Sergeant), Luke
Evans (Andy Cobb), Tamsin Greig (Beth Hardiment),
Jessica Barden (Jody Long), Charlotte Christie (Casey
Shaw), John Bett (Diggory), Josie Taylor (Zoe), Bronagh
Gallagher (Eustacia), Pippa Haywood (Tess), Susan
Wooldridge (Penny Upminster), Amanda Lawrence
(Mary), Zahra Ahmadi (Nadia Patel), Cheryl Campbell
(Lucetta), Alex Kelly (la madre di Jody), Emily Bruni
(Caitlin), Lola Frears (Poppy Hardiment). Produzione:
Tracey Seaward, Allison Owen, Paul Trijbits per Ruby
Films/Notting Hill Films/WestEnd Films/BBC Films/UK
Film Council. Distribuzione: Bim. Durata: 109. Origine:
Gran Bretagna, 2010.
Nel piccolo paese di Ewedon, nel Dorset, vive un cele-
bre scrittore di gialli, Nicholas Hardiment, che con la
devota moglie Beth gestisce una pensione per scritto-
ri. Ospitano Glen McCreavy, uno studioso statuniten-
se che sta faticosamente lavorando a una biografia di
Thomas Hardy (originario della regione) e sono aiu-
tati dal prestante giardiniere Andy Cobb. La paciosa
vita a Ewedon turbata dal ritorno di Tamara Drewe,
una giovane donna originaria del paese, affermatasi
come giornalista, che vuole ristrutturare e vendere la
casa di famiglia. Diventata bellissima grazie a unope-
razione di chirurgia estetica che le ha ritoccato il
naso, Tamara animata da un desiderio di rivincita
sulla cittadina e i suoi abitanti. Inizia una relazione
con una celebre rock star, Ben Sergeant, attirandosi
linvidia di Jody e Casey, due adolescenti fan del can-
tante, che iniziano a tramare contro di lei. Quando le
due ragazzine riescono ad avere accesso alla mail di
Tamara, provocano una lunga catena di equivoci e
scomode rivelazioni.
TAMARA DREWE - TRADIMENTI ALLINGLESE Stephen Frears
La sorpresa del naso
Roberto Chiesi
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LO HUMOUR DEI CATTIVI SENTIMENTI
La dimensione corporale un essenziale della storia
della Simmonds come del film. Le azioni derivano
dagli umori e dalle pulsioni di corpi irrequieti, in asso-
luto contrasto con la natura pacificata che li attornia:
dal corpo apollineo del giardiniere Ben, a quello sta-
tuario di Tamara, ai fisici goffi di Beth e Glen, a quel-
lo bolso, da ex bello, di Hardiment, a quello magro,
nervoso e muscoloso della rockstar, a quelli acerbi e
isterici delle due adolescenti Jody e Casey, le dinami-
che del film passano attraverso un legame concreto e
trasparente fra la storia del personaggio e la sua
espressivit fisica immediata.
A cominciare dalla trasformazione subta da un
naso, quello grosso e sgraziato che madrenatura aveva
dato a Tamara Drewe (quando era ancora una ragaz-
za complessata e abitava a Ewedon) e che la chirurgia
estetica ha reso armonioso, esaltando la regolarit
degli altri lineamenti.
La ragazza a suo tempo derisa e beffeggiata si infat-
ti trasformata in una conturbante intrusa che irretisce
con la sua sola presenza la (repressa) popolazione
maschile, uneco parodica della Betseba Everdene di
Via dalla pazza folla di Hardy, che sconvolge le esi-
stenze di uomini affascinati da lei (ma anche, ovvia-
mente, della famosa massima sul naso di Cleopatra). La
sessualit di Tamara, prima della chirurgia estetica, era
gi irrequieta e, scandalizzando la morale del paesino,
la ragazza la viveva con libert spregiudicata (aveva
perfino fatto delle avance a Hardiment). Ma a causa di
quel naso, non era considerata un oggetto del desiderio.
un particolare che diventa la cartina di tornasole dei
pregiudizi di unumanit meschina (Hardiment) o insi-
cura di s (Ben).
Ora, invece, il turbamento insinuatosi nella placida
e stagnante quiete di Ewedon, provocato dallappa-
rizione di un corpo statuario, di una donna dal viso
perfetto che tutti conoscevano e che, dopo il ritocco
chirurgico, nessuno riconosce pi: Tamara vestita di
maglietta e jeans corti e aderenti che con finto cando-
re incontra le comari e gli uomini della casa degli
Hardiment in un tranquillo pomeriggio.
Quellimmagine non innocente, ma una provoca-
zione consapevole e unesca, quasi annunciata dallin-
trusione, nel paese, di una giovane amante di
Hardiment che, scoperta da Beth, origina un penoso e
aspro litigio coniugale.
Secondo la tradizione delle migliori commedie,
infatti, Tamara Drewe giocato sui cattivi sentimenti
che dividono e contrappongono i personaggi: i deside-
ri adulterini di Nicholas Hardiment e la sua vilt nei
confronti della consorte; il sospetto e la dipendenza di
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questultima rispetto al marito; linvidia di Glen
McCreavy per il successo e la fama di Hardiment, ali-
mentata dal tenero e goffo sentimento che lamericano
prova per Beth. Ma sono soprattutto le due pestifere
amiche adolescenti Jody e Casey a condensare gli
umori repressi di una piccola cittadina di provincia,
incerta fra lattesa indeterminata di una vita da vivere
altrove e lansia di fuga. Nella prima parte i loro com-
menti esilaranti e acidi punteggiano lazione, poi il
loro intervento diviene dirompente e sconvolge le
dinamiche dei personaggi, con leffetto (un po mecca-
nico) di ridistribuire il gioco delle coppie in modo pi
appropriato.
Non appena stato appagato il risentimento di
Tamara nei confronti del paesello dorigine, grazie alla
storia damore con la rockstar, ecco che i germi del
livore sembrano ereditati dalle due pesti che non le
perdonano la bellezza frutto del bisturi e soprattutto
la relazione con Ben Sergeant. Langolazione del rac-
conto si sposta, trascurando Tamara e aderendo alle
buffe frustrazioni delle due ragazzine, che spiano e
intervengono furtivamente a tormentare i traffici degli
adulti. Ma, come nel graphic novel, la focale del rac-
conto continua a passare da un personaggio allaltro
con movimenti irrequieti che corrispondono alla ten-
sione che serpeggia fra i personaggi.
Tutte le figure di Tamara Drewe, del resto, vivono in
uno stato di insoddisfazione permanente e scoperta:
Andy Cobb rimpiange la relazione che ebbe dieci anni
prima con Tamara; Hardiment continuamente tenta-
to da avventure extraconiugali; Glen non riesce a pro-
cedere col suo libro, almeno fino a quando non trova
una musa, anche sentimentale, in Beth, e questultima
vive in una costante precariet coniugale. Anche la
felicit di Tamara di breve durata perch la sua rela-
zione con il vanesio Sergeant entra presto in crisi (gra-
zie soprattutto a Jody e Casey).
Le situazioni umoristiche corrono proprio sul filo di
uninfelicit non pacificata e trovano unambientazio-
ne che costituisce un perfetto ossimoro: la natura sere-
na e rasserenante del Dorset, uno spazio bucolico e
agreste (Frears si divertito a definire il film una
commedia pastorale), gi amato ed evocato da
Hardy, che Frears e il suo direttore della fotografia Ben
Davis esaltano nella sua bellezza luministica e croma-
tica ma sfruttandolo come scenario di perfidi equivo-
ci, di meschinit e di tiri mancini giocati dalle due
pesti, che detestano proprio la quiete e la serenit del
paesaggio naturale in cui vivono.
Le mail con cui Jody e Casey creano incidenti ed
equivoci e la fotografia inviata per sms con cui rivela-
no la relazione fra Tamara e Hardiment, diventano gli
strumenti di un caos rovinoso quanto benefico (lotti-
mismo finale, per, proprio laspetto meno convin-
cente del film). una delle prime occasioni filmiche in
cui mail e sms assumono una funzione realmente effi-
cace e non servono soltanto ad ammiccare banalmen-
te agli spettatori.
Il sarcasmo di Frears si appunta soprattutto sulla
figura di Hardiment, fin dalla prima sequenza in cui lo
mostra nel suo studio-laboratorio di grande romanzie-
re, intento in realt a scambiare messaggi e telefonate
furtive con una giovane amante arrivata a Ewedon.
Nicholas incarna nel suo stesso corpo, flaccido e sornio-
ne, lipocrisia dei privilegiati che non scelgono nulla e
prendono tutto. Rispetto al romanzo della Simmonds,
infatti, il personaggio caratterizzato (dallottimo
Roger Allam, gi interprete di The Queen) come un
narciso e astuto opportunista che approfitta della soli-
tudine di Tamara per andarci a letto e scambia i propri
consigli alla ragazza (che vuole diventare romanziere)
con piaceri erotici. Nellultima parte, Frears sembra
divertirsi a collocare lo scrittore in situazioni umilianti
(le suppliche a Tamara che rifiuta la prospettiva di un
legame esclusivo con lui) e soprattutto non gli rispar-
mia una morte ridicola e disonorevole.
Limmagine del suo corpo sporco e malconcio nel
terreno una nota di umorismo nerissimo che reca la
firma di Frears: proprio Nicholas, lunico ad approfit-
tare delle fragilit altrui, lunico dotato di un ego com-
piaciuto, oltretutto uno scrittore che ha incentrato la
sua carriera su storie di omicidi efferati, punito con
quella beffa crudele e la sua morte sembra svolgere
unironica funzione catartica per i destini di chi gli
gravitava intorno.
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Va in fuga da se stesso il cinema di Sam Mendes. Lo fa
mantenendo in uno stadio di perenne fragilit la dimen-
sione teatrale (luso degli interni e i dialoghi) che ha spes-
so caratterizzato la sua opera, la quale per, in preceden-
za, si arricchiva poi di una claustrofobia opprimente che
lasciava i suoi personaggi a galleggiare nel vuoto, come
nel caso della famiglia di American Beauty o dellinfelice
coppia di Revolutionary Road. Rispetto a questultimo
film, Parigi non pi una meta irraggiungibile. Ma se al
posto della coppia formata da April e Frank Wheeler
(con la simbiosi tra Kate Winslet e Leonardo Di Caprio
ai massimi livelli) ci fossero stati Burt e Verona, forse la
metropoli francese sarebbe stata solo attraversata, rag-
giunta e poi oltrepassata. Non c pi la ricerca di quel-
lequilibrio tra stabilit e felicit poi inghiottita e negata
dalla monotona quotidianit. Forse in American Life
anche se loriginale Away We Go rende in maniera pi
compiuta lidea di un nervoso movimento si possono
ritrovare tracce di un certo nomadismo del cinema degli
anni Settanta, mescolate per con le ansie e le difficolt
del presente.
DISAGI GENERAZIONALI
A un primo impatto, il film di Mendes potrebbe essere
una specie di ritratto generazionale, lanalisi di una cop-
pia che ha superato i trentanni ed in attesa di una
figlia. Sono, per, come disorientati, quasi spaventati dal
futuro, da ci che li attende. Vanno cos alla ricerca di
quelle sicurezze, di quei riferimenti che credono stabili e,
invece, si frantumano davanti ai loro occhi. Per certi
aspetti, lo spirito da cinema indipendente sconfina in
quelle inquietudini da cinema da camera tipo John and
Mary di Peter Yates, ma anche nellenergia improvvisa e
amara dellopera di Rob Reiner, tra Harry ti presento
Sally e Storia di noi due. Non si tratta ovviamente, per
Mendes, di punti di riferimento, ma soltanto di altri
attraversamenti, anche fugaci, anche confusi, forse alla
ricerca di un approdo nuovo, di un cinema che mai come
stavolta stravolge e rimette in gioco se stesso. American
Titolo originale: Away We Go. Regia: Sam Mendes.
Sceneggiatura: Vendela Vida, Dave Eggers. Fotografia: Ellen
Kuras. Montaggio: Sarah Flack. Musica: Alexi Murdoch.
Scenografia: Jess Gonchor. Costumi: John Dunn. Interpreti:
John Krasinski (Burt Farlander), Maya Rudolph (Verona De
Tessant), Carmen Ejogo (Grace De Tessant), Catherine
OHara (Gloria Farlander), Jeff Daniels (Jerry Farlander),
Allison Janney (Lily), Jim Gaffigan (Lowell), Samantha
Pryor (Ashley), Conor Carroll (Taylor), Maggie Gyllenhaal
(LN Fisher-Herrin), Josh Hamilton (Roderick Herrin),
Bailey Harkins (Wolfie), Chris Messina (Tom Garnett),
Melanie Lynskey (Munch Garnett), Paul Schneider
(Courtney Farlander). Produzione: Peter Saraf, Edward
Saxon, Marc Turtletaub per Big Beach Films/Edward Saxon
Productions/Neal Street Productions. Distribuzione: Bim.
Durata: 98. Origine: Gran Bretagna/Usa, 2009.
Burt e Verona, due trentenni, convivono da tempo e sono in
attesa di una bambina. Inizialmente contano sullaiuto dei
genitori di lui. Loro per hanno altri programmi; decidono
infatti di trasferirsi in Belgio per i prossimi due anni. A que-
sto punto la coppia si mette in viaggio alla ricerca di paren-
ti e amici che possano essergli di sostegno e di un luogo idea-
le dove far crescere la loro figlia. Passano cos per Phoenix,
Tucson, Madison, Montreal e Miami per vedere quale
modello domestico pu essere pi vicino a quello che imma-
ginano. Nessuna delle soluzioni, per, li soddisfa del tutto e
scoprono che anche dietro la famiglia apparentemente pi
serena si nascondono pazzia e infelicit.
AMERICAN LIFE Sam Mendes
Strade sospese
Simone Emiliani
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Life riparte dallo spazio domestico di American Beauty
e Revolutionary Road. Linquadratura fissa, prima dei
titoli di testa, con la scena di sesso gi trasmette un senso
di disagio e impedimento. Non , per, limmagine di una
coppia in crisi. Mendes, gi in questo inizio, riesce in
maniera esemplare a mostrare proprio alcuni momenti
della vita di Burt e Verona come flash istantanei, senza
soffermarcisi pi del dovuto, ma anche senza oltrepassar-
li fugacemente. Il film li guida in questo viaggio alla
ricerca di se stessi; e, seppur in uno spirito indie, non
appare comunque mai pesantemente esistenzialista, ma
piuttosto mostra le strade che la coppia percorre alla
ricerca della (loro) felicit. Non siamo un fallimento,
dice a un certo punto il ragazzo alla sua compagna. Gi
qui mettono in luce molto pi i dubbi che le certezze,
molto pi limmagine piena di sfumatura di una coppia
piuttosto che lanalisi di una generazione. Burt e Verona
sono una coppia come tante altre, ma sono pure unici, e
il loro entusiasmo nella ricerca di una propria strada
contagia e porta a essere vicini, anzi accanto a loro. Ci
sono esperienze comuni (lecografia), momenti apparen-
temente normali dove invece sinsidia la tensione
(Verona che scende dallauto mentre Burt urla al telefo-
nino), ma anche istanti di complicit assoluta. Separate,
poi, ci sono forse visioni future della vita che desiderano,
come quella rappresentata dal momento in cui, in un
negozio, Verona e la sorella entrano in una vasca da
bagno e lei finge di lavarle i capelli: che in qualche modo
ne riproduce uno simile di un futuro desiderato e poi
negato presente nella bella commedia (500) giorni
insieme di Marc Webb.
Malgrado le apparenze, Sam Mendes un regista che
agisce sempre sottotraccia. Suo malgrado, i suoi film
sono pi sconvolgenti ed esplosivi di quello che appaio-
no inizialmente, proprio per quanta vita condensata c
dentro. Certo, i tempi delle battute hanno unimportan-
za fondamentale, e anche la sceneggiatura scritta da
Dave Eggers (che ha gi collaborato con Spike Jonze in
Nel paese delle creature selvagge) e Vendela Vida con-
tribuisce in modo determinante a creare la struttura
drammaturgica. Nel caso di American Life costruita
con estrema precisione ma d anche lidea dellimprov-
visazione e di continui venti di libert, come se le
situazioni si fossero create spontaneamente proprio nel-
latto stesso in cui hanno preso forma. Eppure nella sua
filmografia, e in American Life in modo ancora pi evi-
dente, questi personaggi potrebbero avere anche vita
autonoma, sopravvivere al film stesso, dire delle frasi
completamente diverse da quelle che pronunciano
oppure dirle in tono diverso. Mendes fa sentire la sua
formazione teatrale, eppure riesce miracolosamente a
oltrepassarla. Questultimo film pieno di battute ful-
minanti. Potrebbe sembrare di trovarsi davanti, maga-
ri, a una commedia di successo, magari del teatro off-
Broadway, magari gi replicata pi volte, per il modo
con cui certe situazioni e certi dialoghi continuano a
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cogliere nel segno, che farebbero ridere e divertire
anche dopo averle ascoltati per la decima volta. Oppure
a ogni replica, a ogni ri/visione di American Life ci si
pu porre anche in una condizione di attesa di alcune
scene determinanti e caratterizzanti come, per esempio,
quella in cui Burt cerca di spaventare la compagna per
aumentare i battiti cardiaci del bambino, o della donna
che chiama pi volte il figlio che l fermo e inebetito;
e, soprattutto, lentrata in scena di Maggie Gyllenhaal,
quasi un sipario a parte, parodia di quegli esibiti stili di
vita alternativi che ha il suo momento-clou nella sin-
drome del passeggino. Amo i miei bambini dice il suo
personaggio perch dovrei spingerli lontano da me?.
trascinante American Life. Limpianto narrativo del
cinema di Mendes si ribalta con dialoghi e situazioni
degni di una commedia della Hollywood classica. Ma
dietro c anche uno stravolgente ritratto di una solitudi-
ne. Burt e Verona appaiono isolati da tutto e da tutti.
Sono quasi degli estranei rispetto alle situazioni che si
trovano a vivere, con luomo che mostra i suoi tentativi
impossibili di adeguarsi e integrarsi al contesto del
momento, dove il disagio espresso alla perfezione dal
volto del protagonista John Krasinski, che ha gi lavora-
to con il regista in Jarhead ed stato anche diretto da
Nancy Meyers in Lamore non va in vacanza ed com-
plicato. Con la sua partner, interpretata da Maya
Rudolph, si avverte spesso una leggera ma comunque
evidente distanza, un qualcosa che li pone in uno stato di
dislivello. Poi, per, la loro complicit scatta allimprov-
viso, come nellirresistibile momento della ribellione del
passeggino o in quelle vibranti promesse nella notte. Se
in Revolutionary Road si assiste al lento deteriorarsi nel
rapporto dei due protagonisti, qui invece c un progres-
sivo avvicinamento. In ogni caso, Mendes non mostra
solo i disagi, i disequilibri della coppia, ma sembra vive-
re e farci vivere accanto a loro. Si sentono insieme lentu-
siasmo e la paura dellarrivo del bambino. Si trascina-
ti dentro questo rapporto: del resto il suo cinema inglo-
ba spesso dentro le sue famiglie come era avvenuto anche
con Era mio padre. In American Life lo fa con meravi-
gliosa leggerezza, con insolito pudore. Forse per questo
che si sentono ancora di pi i brividi addosso.
NEL PAESE DEI MOSTRI
Burt e Verona forse vengono da un altro pianeta.
Oppure sono degli umani che ne esplorano uno scono-
sciuto. C un sensibile scarto tra loro e gli altri personag-
gi, visti attraverso i loro occhi, per filtrati attraverso lo
sguardo di Mendes. Figure che gi conoscono (parenti e
amici), ma come se vedessero per la prima volta. Basta
vedere la scena a casa dei genitori delluomo. Se non si
sapesse il legame di parentela che li unisce, potrebbero
essere degli estranei. Oppure, peggio, la materializzazio-
ne dei loro incubi peggiori. American Life aderisce con
sorprendente immediatezza alla vita vissuta, e potrebbe
prendere qualunque direzione a ogni tappa del viaggio.
Non c, per, lincertezza tipica del road-movie su quale
sar la situazione futura. Stavolta i luoghi sono scelti
tutti consapevolmente, ma ognuno, alla fine e per motivi
diversi, non mai accogliente. In American Life le perso-
ne condizionano gli spazi attraversati dai due protagoni-
sti. Forse non il modo come li guardano Burt e Verona
che li rendono deformati, ma in ogni caso questi si tra-
sformano in una specie di strani mostri mascherati da
umani proprio dopo il loro contatto. Solo verso la fine ci
sono tracce sincere di umanit. Come se il film improvvi-
samente abbia deciso di cambiare improvvisamente stra-
da, senza preavviso, e sterzare da tuttaltra parte. Alla
dimensione quasi grottesca si sostituisce una contagiosa
tristezza. Il momento in cui lamico parla a Burt degli
aborti spontanei della moglie, mentre lei si sta esibendo
sul palco in un night-club, apre quelle crepe che fino a
quel momento sono state faticosamente coperte. Si ha la
sensazione di precipitare in un vortice, nelle zone tra
Exotica di Atom Egoyan e Kiss di Richard LaGravenese.
I mostri tornano umani, anzi stavolta si spogliano senza
veli. Anche il cinema di Mendes si mette a nudo. Ci
avviene attraverso un progetto apparentemente pi pic-
colo: American Life per il regista quello che sono, per
esempio, Fuori orario e Al di l della vita per Scorsese,
che poi risultano due dei suoi film pi belli. Lo sposta-
mento diventa un viaggio che come un sogno. Che mai,
come stavolta, vorresti non finisse mai.
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C un momento particolarmente significativo, in Il
discorso del Re. quello in cui, al capezzale di Giorgio
V dInghilterra appena spirato, il figlio maggiore
David, ormai Edoardo VIII suo successore, scoppia a
piangere appoggiandosi alla madre in un goffo tenta-
tivo di abbracciarla, e viene guardato da tutti con
imbarazzo e disprezzo (al di l del fatto che il suo
pianto non motivato dalla morte del padre ma dal
suo trovarsi re, quindi incastrato rispetto alla situa-
zione sentimentale che sta vivendo, lamore per la
miliardaria americana divorziata nonch filonazista
Wallis Simpson, amore che lo far abdicare pochi mesi
dopo, nel dicembre del 36, per lasciare il trono al fra-
tello minore Albert Frederick Arthur George Windsor,
per i familiari Bertie, il protagonista del nostro film).
Ci fa capire quanto lespressione delle emozioni fosse
bandita in un contesto come quello, fosse considerata
un cedimento, e ci fa capire quanto, di conseguenza,
chi di una repressione delle emozioni era stato ed era
ancora vittima, nella fattispecie il fratello che salir al
trono dopo di lui, non fosse nemmeno in grado di
comprendere di aver subto un danno.
Nel film e nella vita reale di Giorgio VI, colui che ha
la funzione di fargli acquisire consapevolezza rispetto
alla sua infanzia e ai soprusi che in quel tempo ha
subito (la tata che per tre anni non lha nutrito provo-
candogli i problemi di stomaco che da adulto conti-
nuano a infastidirlo, la costrizione a scrivere con la
mano destra e le gambe a x corrette con le stecche,
senza contare le prese in giro del fratello per la sua
balbuzie e la morte di un altro fratello in giovane et)
e di metterlo in contatto con la sua parte pi intima e
quindi con le emozioni represse, la rabbia in primis,
Lionel Logue, un logopedista australiano che si scopre
poi non essere un vero dottore ma una persona che ha
aiutato i reduci della Grande guerra a superare la
paura che continuava ad attanagliarli, con lascolto e
con la presenza. Li ha aiutati a non farsi dominare
dalla paura, come dice al futuro re esortandolo a pren-
dere in mano il proprio destino al di l delle dinami-
che familiari (diremmo oggi) che lo riguardano. E ha
Titolo originale: The Kings Speech. Regia: Tom Hooper.
Sceneggiatura: David Seidler. Fotografia: Danny Cohen.
Montaggio: Tariq Anwar. Musica: Alexandre Desplat.
Scenografia: Eve Stewart. Costumi: Jenny Beavan.
Interpreti: Colin Firth (Bertie, Duca di York, poi re Giorgio
VI), Helena Bonham Carter (la Duchessa Elizabeth di
York, poi regina Elizabeth), Geoffrey Rush (Lionel
Logue), Jennifer Ehle (Myrtle Logue), Guy Pearce (il
Principe di Galles, poi re Edoardo VIII), Derek Jacobi
(lArcivescovo di Canterbury), Michael Gambon (re
Giorgio V), Timothy Spall (Winston Churchill), Anthony
Andrews (Stanley Baldwin), Eve Best (Wallis Simpson),
Dominic Applewhite (Valentine Logue), Freya Wilson (la
principessa Elisabetta), Ramona Marquez (la principessa
Margaret), Claire Bloom (la regina Mary). Produzione:
Iain Canning, Emile Sherman, Gareth Unwin per See-Saw
Films/Bedlam Productions. Distribuzione: Eagle. Durata:
118. Origine: Gran Bretagna/Australia/Usa, 2010.
Dopo la morte di suo padre re Giorgio V e la scandalosa
abdicazione del fratello re Eduardo VIII, Bertie, che sof-
fre da tutta la vita di una forma debilitante di balbuzie,
viene improvvisamente incoronato re Giorgio VI
dInghilterra. Con il suo paese sullorlo della guerra e
disperatamente bisognoso di un leader, sua moglie
Elisabetta, la futura Regina madre, organizza al marito
un incontro con leccentrico logopedista Lionel Logue.
Dopo un inizio burrascoso, i due si mettono alla ricerca
di un tipo di trattamento
non ortodosso, finendo col
creare un legame indissolu-
bile. Con laiuto di Logue,
della sua famiglia, del suo
governo e di Winston
Churchill , il Re riuscir a
superare la sua balbuzie e
far un discorso alla radio
che ispirer il suo popolo e
lo unir in battaglia.
(dal pressbook del film)
IL DISCORSO DEL RE Tom Hooper
Il pinguino che divenne albatro
Paola Brunetta
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capito che tanti disturbi fisici sono delle somatizzazio-
ni, che la stessa balbuzie da cui il sovrano afflitto
il segno di una timidezza legata al senso di inadegua-
tezza che ha da quandera bambino, per i motivi di cui
sopra. Ma la balbuzie si pu guarire, prendendo
coscienza di s e dei propri meccanismi interni; maga-
ri partendo dai fattori meccanici, come chiedono il
sovrano e la moglie, e arrivando poi, man mano che il
rapporto di fiducia con il terapeuta si sviluppa, a
unanalisi dei fattori psicologici che hanno generato
quei disturbi.
Il terapeuta dunque, la terapia. Interessante in que-
sto senso la figura di Logue, interpretata da un bravis-
simo, scanzonato Geoffrey Rush, che pone fin dallini-
zio alcune condizioni (di lavoro) alla moglie di Bertie,
la futura Regina madre, che lo scova su indicazione
del presidente dellassociazione dei logopedisti e lo va
a trovare nel quartiere popolare in cui abita, in una
giornata nebbiosa: il paziente deve avere fiducia in lui;
dovranno lavorare in condizione di totale uguaglianza
(chiamer il futuro sovrano Bertie e vorr essere chia-
mato Lionel); e dovranno lavorare l, nel suo studio. Al
riparo. E da quella prima conversazione con Logue,
che nel momento dellarrivo della donna si trovava in
bagno, emerge un altro elemento fondamentale: il
paziente deve aver voglia di essere curato, deve avere
la volont di uscire dal problema. E poi, soprattutto: il
terapeuta una persona, si pone di fronte al paziente
come persona prima che come medico. presente, sta
con lui. Lo ascolta, lo fa divertire quando serve e in
questo caso, visto che molte delle problematiche del re
risiedevano in una castrazione emozionale provocata
prima dal padre (Io ho avuto paura di mio padre e
ora i miei figli avranno paura di me) poi dal fratello
maggiore, lo fa arrabbiare cio gli fa tirare fuori la rab-
bia, gli fa dire le parolacce per tirargli fuori la rabbia.
E dopo gli esercizi meccanici (respirazione, sciogli-
mento delle tensioni a livello della mascella, rinforzo
del diaframma e di altri muscoli, lavoro sulle corde
vocali) lo fa muovere, cantare, fluire insomma nella
vita al di l delle rigidit e delle paure. Non a caso
nella sequenza finale, prima del discorso alla radio che
annuncia lentrata in guerra del paese contro la
Germania, Logue dir al re: Dimenticate il resto e
ditelo solo a me; ditelo a me come amico, e gli si
porr davanti accompagnandolo silenziosamente e
dirigendolo come fosse un direttore dorchestra.
Difficile accettare questi metodi cos poco ortodossi,
nellInghilterra del tempo e specialmente se il paziente
un re, o un futuro re. E infatti larcivescovo di
Canterbury, quando prima dellincoronazione a
Westminster scopre lorigine di Logue, va su tutte le
furie e vuole destituirlo dalla sua funzione, e per un
momento lo vorrebbe anche il protagonista. Anche per-
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ch Logue appunto non un medico, un attore falli-
to appassionato di Shakespeare (nel film lo vediamo
interpretare due personaggi non proprio casuali,
Riccardo III e Calibano), come da un altro punto di
vista attore Hitler che compare in un cinegiornale
mentre arringa la folla, al che il sovrano inglese com-
menta: Non so cosa dice ma lo dice piuttosto bene, e
attori aveva definito i sovrani (e gli uomini politici del
tempo) re Giorgio V, nel momento in cui il nuovo mezzo
di comunicazione di massa, la radio, li costringeva a
performances vocali di cui avrebbero volentieri fatto a
meno, o che comunque in passato non dovevano soste-
nere. Giorgio VI riesce comunque a sostenerla, la sua
performance vocale, a trasformarsi da pinguino in alba-
tro (seguendo la simbologia della favola che racconta
alle figlie) grazie allamore della moglie, che lo affianca
dandogli coraggio, e allappoggio del suo logopedista. E
anche se non si sentiva re e se non avrebbe mai voluto
diventarlo (bella la scena del secondo pianto del film,
quella di lui che dice alla moglie: Io non sono un re,
sono un ufficiale navale, non so fare altro, a cui lei
replica ricordandogli che nemmeno lei avrebbe voluto
essere principessa), sar un re piuttosto amato e soster-
r la Nazione nella lotta contro i fascismi.
Interessante comunque, rispetto per esempio a un
film come The Queen per restare in tema di regnanti
inglesi, che il film di Hooper parli di Giorgio VI dando
una lettura del suo problema in chiave psicologica,
forse un segno dei tempi; tristemente interessante per
noi italiani doggi il riferimento ai tempi in cui ci si
dimetteva (in questo caso si abdicava) per motivi lega-
ti alla pubblica moralit; e interessante il film anche
rispetto ad altre rappresentazioni della storia a cui
abbiamo assistito di recente al cinema, Luomo che
verr e Noi credevamo, rispettivamente ricostruzione
epicadi un episodio della storia italiana e reinterpre-
tazione di un momento chiave della stessa. Che poi lo
spettatore sia talmente presodalla vicenda racconta-
ta nel film da considerare il discorso con cui Giorgio
VI comunica alla nazione lentrata in guerra nel 39
sul piano della fluidit o meno delleloquio del re piut-
tosto che su quello dei contenuti del discorso stesso
(combattere la logica della forza propugnata dal nazi-
smo) o della portata reale dellevento che si preparava
(una guerra che costata cinquanta milioni di morti),
non sappiamo se sia un fatto positivo, cio se un film
come questo giovi alla grande storia mentre parla
della piccola, soffermandosi sugli aspetti personali di
un personaggio pubblico; anche se un film di buona
fattura, che emoziona e d speranza e che piace al
grande pubblico, insomma che funziona.
Un altro fattore di interesse lamicizia che si crea
tra Logue e il sovrano (che rimarr tale, ci spiega una
didascalia, per tutta la loro vita tanto che Logue rice-
ver nel 44 il titolo di Comandante dellOrdine Reale
Vittoriano) in considerazione anche della differente
provenienza sociale, evidenziata soprattutto dalle
riprese nello studio di Logue, dai muri scrostati e dal-
laspetto dimesso. E dallappartamento di Logue (che
ricorda le ambientazioni di Voci lontane, sempre pre-
senti): semplice ma funzionale, ben diverso dalle stan-
ze che vediamo percorrere a Bertie.
Il film realizzato in maniera classica, lineare, poco
originale se vogliamo, forse perch pi che lo stile inte-
ressavano al regista la storia e i temi: messinscena tea-
trale con camera a volte fissa per concentrarsi sui volti
dei personaggi a indagarne gli umori e la psicologia, a
volte mobile per inseguirli nei moti del loro cuore; nes-
sun elemento di regia particolare se non luso sporadi-
co di obiettivi deformanti e di colori lividi a sottolinea-
re loppressione a cui il protagonista sottoposto dal-
lambiente di cui fa parte; un uso convenzionale del
montaggio alternato con sottofondo musicale impor-
tante per le sequenze del lavoro terapeutico; una sce-
neggiatura forte e ben calibrata; ununica scena ma
potremmo dire quadro che si distingue dalle altre,
quella della famiglia Logue nel salotto rosa; un buon
ritmo, che crea la giusta suspence e che ci prepara alla
sequenza finale; lattenzione al cromatismo in relazio-
ne alle emozioni dei personaggi (colori freddi, tenui
quando non appunto lividi); e lattenzione agli attori,
Colin Firth davvero bravo e anche Helena Bonham
Carter, nella discrezione del suo personaggio che sta
sullo sfondo in maniera amorevole ma a suo modo
determinata.
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PARTO COL FOLLE
Todd Phillips
Titolo originale: Due Date. Regia:
Todd Phillips. Sceneggiatura: Alan R.
Cohen, Alan Freedland, Adam Szty-
kiel, Todd Phillips. Fotografia:
Lawrence Sher. Montaggio: Debra
Neil-Fisher. Musica: Christophe Beck.
Scenografia: Bill Brzeski. Costumi:
Louise Mingenbach. Interpreti:
Robert Downey jr. (Peter Highman),
Zach Galifianakis (Ethan Tremblay),
Michelle Monaghan (Sarah
Highman), Juliette Lewis (Heidi),
Jamie Foxx (Darryl), Danny McBride
(Lonnie), RZA (laddetto alla sicurez-
za allaeroporto), Matt Walsh (lagen-
te di viaggi e trasporti), Brody Stevens
(lautista di limousine), Jakob Ulrich
(Patrick), Naiia Ulrich (Alex), Todd
Phillips (Barry). Produzione: Daniel
Goldberg, Todd Phillips per Warner
Bros. Picture/Green Hat Films.
Distribuzione: Warner Bros. Durata:
93. Origine: Usa, 2010.
Un altro folle viaggio. In Una notte da
leoni cera di mezzo un matrimonio,
qui una nascita. Ci sono ancora tracce
di road-movie nel cinema di Todd
Phillips, qui ancora pi consistenti
rispetto al film precedente, nellattra-
versamento del paesaggio dove i due
protagonisti sembrano esserne a trat-
ti assorbiti come quel sublime
momento di Thelma & Louise di
Scott in cui i corpi delle due donne
catturano tutti i riflessi della notte e la
polvere della strada, nellapparizione
maestosa del Grand Canyon e nella
sosta alla frontiera messicana, che
diventa una carambola slapstick in
cui c una continua collisione tra le
figure e gli oggetti. La meta finale
prima si allontana, poi si annulla del
tutto, poi riappare allimprovviso.
Queste tracce on the road nella com-
media possono trovare un punto di
riferimento in quella anni Ottanta di
John Hughes, pi dalle parti di Un
biglietto in due che Una pazza giorna-
ta di vacanza. L cerano Steve Martin
e John Candy, qui Robert Downey jr. e
Zach Galifianakis, gi elemento cata-
lizzatore di disastri in Una notte
da leoni, che qui libera ancora
di pi la sua energia distruttiva.
Per certi versi, anche per la fisi-
cit, pu apparire quasi una
reincarnazione di Candy con in
pi la propensione di Ben Stiller
di gettarsi addosso catastrofi di
ogni tipo, ma forse laspirazione
quella di provare ad affacciar-
si dalle parti di John Belushi.
Se per il film di Hughes era
pervaso da una sottile malinco-
nia, Parto col folle, invece, tra-
sforma abbandoni individuali in
momenti devastanti (lurna delle
ceneri del padre di lui utilizzati
per fare il caff), mostrando unirrive-
renza, una scorrettezza, una cattiveria
che si nuovamente riaffacciata e sta
contagiando una parte della recente
commedia statunitense, in cui sicura-
mente uno dei modelli la purezza del
demenziale che rimanda alla stagione
doro di John Landis (Animal House e
The Blues Brothers).
Per certi aspetti il cinema di Todd
Phillips e Paul Weitz a tratti si tocca-
no. In Vi presento i nostri e, in modo
pi contenuto, in In Good Company
questultimo frantuma lapparente
solidit della famiglia dallinterno;
Una notte da leoni e Parto col folle lo
fanno invece dallesterno. E anche lil-
lusorio finale positivo non sembra un
punto di arrivo ma un altro di parten-
za, in cui allimprovviso tutto pu
essere rimesso in discussione. Pi per
un altro viaggio che per un possibile
remake, al quale il cinema del regista,
malgrado i molti punti in comune fra
le sue ultime due pellicole, non sem-
bra interessato.
Parto col folle, per, anche unazzec-
catissima commedia sugli opposti.
Uno Peter, una specie di yuppie che
sta per prendere un volo da Atlanta a
Los Angeles per stare vicino alla
moglie che sta per partorire. Laltro
Ethan, un aspirante attore che manda
in frantumi il suo viaggio in aereo e gli
propone di proseguire in macchina
con lui. Robert Downey jr. (qui quasi
un mescolamento tra Tropic Thunder
e Sherlock Holmes) e Zach Galifiana-
kis, per, non si dividono le gag. Lap-
parente imperturbabilit del primo
in netto contrasto con leccesso incon-
trollato dellaltro. Peter, poi, viene
progressivamente spersonalizzato,
privato dei suoi documenti e della
carta di credito. Ethan invece, nelle
sue prove di recitazione, cerca di
imporre una presenza, perch la sua
paura proprio quella di non essere
visto, di scomparire. Nella collisione
comica tra i due corpi, il regista si rif
anche alla sua discreta versione cine-
matografica della serie Starsky &
Hutch che aveva diretto nel 2004.
Da un altro versante, per, mantiene
spesso i suoi personaggi in una posi-
zione dove stanno per esplodere,
bilanciando sottrazione e densit,
rimettendoli continuamente in discus-
sione gi a livello di scrittura, costrin-
gendoli ad allearsi per fronteggiare la
furia di un ex marine sulla sedia a
rotelle o mettendoli uno contro laltro
come nella scena in cui Peter assie-
me al suo amico Darryl (interpretato
da Jamie Foxx) e insieme fanno rim-
balzare Ethan sul pianale del suo
pick-up.
Parto col folle manca totalmente, e
anche minimamente, di grazia sophi-
sticated, anzi la distrugge nel momen-
to stesso in cui si affaccia. Ci, per,
segna punti a suo favore. Si sedotti
per il modo in cui Phillips si sporca le
mani con il genere, per come non si
ferma davanti a niente e nessuno.
Dopo tante stanche riproposizioni di
parodie fracassone (gli Scary Movie e i
suoi cloni) la commedia demenziale
rinasce dalle proprie ceneri e Parto col
folle conferma che ora in gran forma.
Simone Emiliani
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IN SALA
I FILM
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GIANNI E LE DONNE
Gianni Di Gregorio
Regia: Gianni Di Gregorio. Sceneg-
giatura: Gianni Di Gregorio, Valerio
Attanasio. Fotografia: Gog Bianchi.
Montaggio: Marco Spoletini. Musica:
Ratchev & Carratello. Scenografia:
Susanna Cascella. Costumi: Silvia
Polidori. Interpreti: Gianni Di Gre-
gorio (Gianni), Valeria De Franciscis
(la madre di Gianni), Alfonso Santa-
gata (Alfonso), Elisabetta Piccolomi-
ni (la moglie di Gianni), Valeria
Cavalli (Valeria), Aylin Prandi
(Aylin), Kristina Cepraga (Kristina),
Michelangelo Ciminale (Michelange-
lo), Teresa Di Gregorio (Teresa), Lilia
Silvi (Lilia), Gabriella Sborgi
(Gabriella), Laura Squizzato, Silvia
Squizzato (le gemelle). Produzione:
Angelo Barbagallo per BiBi
Film/Isaria Productions/Rai Cine-
ma. Distribuzione: 01. Durata: 90.
Origine: Italia, 2011.
Piccola commedia in tre atti questa
seconda di Di Gregorio, o se voglia-
mo narrazione strutturata in prolo-
go, svolgimento, epilogo. Il prologo
dato dallamico Alfonso che chiede a
Gianni, il protagonista interpretato
dallo stesso Di Gregorio che ripren-
de quello omonimo di Pranzo di Fer-
ragosto e che stando alle dichiarazio-
ni del regista fortemente autobio-
grafico se per caso non gli piaccia-
no pi le donne, visto che la giovane
badante della madre lo lascia a quan-
to pare indifferente, e che gli spiega
che tutti i sessantenni loro coetanei
hanno unamante, compreso il Mau-
rizio che staziona al bar sotto casa e
che sta da due anni con la tabaccaia
allangolo.
Lo svolgimento comincia con lo stac-
co nero che apre la giornata successi-
va del protagonista, il cui primo atto
portare il caff alla moglie che
dorme in unaltra stanza e che con-
trariamente a lui, pensionato a cin-
quantanni, va a lavorare, e prosegue
con losservazione dei coetanei e con
il suo tentativo di non essere da
meno, per concludersi con il boicot-
taggio freudiano della cena di com-
pleanno della madre. Lepilogo la
sorta di sogno che egli fa alla fine, in
cui la realt si rovescia e tutte le
donne, che ha tentato invano di cor-
teggiare, lo adorano e vezzeggiano.
Emerge da questa introduzione il
tema chiave del film, la paura di
invecchiare che paura della morte;
ed emerge la natura di questo film,
fuori concorso a Berlino: una comme-
dia piccola, appunto, realizzata a
basso costo nonostante il successo del
film desordio, attenta alla sceneggia-
tura quindi alla storia che racconta,
che comunque una storia esile (ben
diverso, su un tema analogo, Settimo
cielo) e incentrata sulla figura del pro-
tagonista, che qualcuno ha definito il
Tati di Trastevere e qualcun altro ha
accostato a Kitano, ma che in ogni
caso un personaggio di contemplato-
re, che osserva la vita pi che viverla,
che ascolta, che comprende, che desi-
dera magari anche ma che non riesce
a realizzare i propri desideri, proba-
bilmente perch contribuisce a realiz-
zare quelli degli altri.
Un personaggio mite, disponibile;
che quando cerca unamante in
realt non cerca ma guarda, aspetta,
si mette nella condizione di; e in que-
sta condizione di apertura che per
esempio vagare per le vie di Roma,
strade mercati piazze ponti scalinate,
gli succedono delle cose, anche se
appunto non quelle sperate.
Questo spaesamento del protagoni-
sta, questa sua (improvvisa) fatica di
stare nella pelle di un sessantenne e il
conseguente desiderio di fare espe-
rienze diverse evidenziato
da alcune scene emblemati-
che, che con piccoli tocchi
perch cinema minimale,
fatto di niente, sguardi
atmosfere oggetti, poetica del
quotidiano insomma ci
fanno capire esattamente il
suo stato danimo. Quella
ripetuta, innanzitutto, di lui
che guarda dalla finestra i
vecchietti che stanno al bar
sotto casa sua, accostata a
quella in cui insieme a loro,
inquadrati questa volta fron-
talmente, c anche lui, sia
pure zitto e sia pure un po
scostato; la ripresa a piombo di lui in
piscina che cerca di fare qualche
bracciata, quando vuole mettersi in
forma per lappuntamento con la
figlia dellamica della madre; quella
di lui con questultima sul divanetto
in giardino, mentre la figlia che lave-
va invitato non smette di esercitarsi
nel canto, con il vino recuperato
dallo scaffale pi alto e con la pro-
spettiva di passare cos tutto il pome-
riggio; i siparietti della panchina al
parco, specie quando su di essa il
protagonista si ritrova con il collare
in seguito allincidente fatto in una
delle situazioni pi rocambolesche
del film, con un signore anziano che
gli chiede com successo; il primo
piano di lui dopo la febbre, a letto.
Ma, soprattutto, la sequenza dellin-
contro con il primo amore: dopo la
cena preparata rigorosamente da lui,
lei si mette sul divano, distesa mentre
lui seduto a terra, e pur nellintimi-
t che ancora hanno lei non riesce a
fare altro che addormentarsi, mentre
lui parla al telefono con la madre che
lha chiamato per lennesima volta
per una cosa abbastanza grave.
Elogio della mitezza, dunque, di un
personaggio schiacciato (come appa-
re in una delle ultime scene, ripreso
dallalto mentre cammina) da una
figura materna onnipresente e
castrante; ed elogio (nostro) dei film
piccoli come questo, che magari sono
sopravvalutati ma che offrono unal-
ternativa valida a certe nuove com-
medie allitaliana.
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KILL ME PLEASE
Olias Barco
Titolo originale: id. Regia: Olias
Barco. Sceneggiatura: Olias Barco,
Virgile Bramly, Stphane Malandrin.
Fotografia: Frdric Noirhomme.
Montaggio: Ewin Ryckaert. Scenogra-
fia: Vincent Tavie. Costumi: Elise
Ancion. Interpreti: Aurlien Recoing
(il dottor Krueger), Virgile Bramly
(Virgile), Daniel Cohen (Jean-Marc),
Virginie Efira (lispettore Evrard),
Bouli Lanners (il signor Vidal), Benot
Poelvoorde (il signor Demanet), Saul
Rubinek (il signor Breiman), Zazie De
Paris (la signora Rachel), Clara Cley-
mans (Julia), Philippe Nahon (Antoi-
ne),Vincent Tavier (il signor Plouvier),
Olga Grumberg (Ingrid). Produzione:
Olias Barco, Philippe Kauffmann,
Guillaume Malandrin, Stphane
Malandrin,Vincent Tavier per La Parti
Production/Oxb Productions/ Les
Armateurs/Rtfb/Minds Meet/ Molly-
wood. Distribuzione: Archibald. Dura-
ta: 96. Origine: Belgio/Francia, 2010.
Capita spesso che in un concorso
mediocre di un festival lunico film in
grado di alzare almeno un poco lasti-
cella della qualit venga eletto a capo-
lavoro. Al Festival di Roma, come
abbiamo gi avuto modo di dire (vedi
larticolo sulledizione di questanno),
questa sorte toccata a Kill Me Plea-
se del francese Olias Barco, gi corti-
sta di lungo corso, che centra il bingo
alla seconda pellicola da regista dopo
aver firmato una sorta di imbarazzan-
te Point Break delle nevi (Snowboar-
der, 2003).
Di ben altro spessore, va detto subito,
questo suo nuovo lavoro. Soprattutto
per le tematiche e per come le affronta.
Dovrebbero bastare poche righe di
trama per capire di cosa si stia parlan-
do. Medico allavanguardia, il dottor
Kruger vuole dare un senso al suicidio.
Il suo sogno creare una struttura
terapeutica dove darsi la morte non sia
pi considerata una disgrazia, ma un
atto consapevole svolto con assistenza
medica. La sua clinica esclusiva richia-
ma lattenzione di un gruppo di strani
personaggi, accomunati dal
desiderio di morire: un famoso
comico con un cancro incurabi-
le, un commesso viaggiatore
che cela sordidi segreti, un ricco
erede lussemburghese, una
bella ragazza con manie autole-
sioniste, un vecchio cabarettista
berlinese dalla voce rovinata e
un uomo che ha perso tutto al
gioco dazzardo, moglie com-
presa. Dopo essersi consultati
con Kruger sulle motivazioni
che li spingono a farla finita,
ciascuno di loro ha diritto a
esprimere unultima richiesta.
Film strano, dunque, questo
Kill Me Please. Sicuramente un raffi-
nato gioco estetico (bianco e nero rag-
gelato), nichilistico e senza orpelli (nes-
suna musica di sottofondo), commedia
ampiamente citazionista e metacine-
matografica (echi da Il caro estinto, dal
tognazziano/buzzatiano Il fischio al
naso, ma non solo, i forti contrasti cro-
matici di Il coltello nellacqua insieme
a tanto altro Polanski). E poi il gioco
grottesco e surreale, intriso di quella
comicit nera che ne ha senza dubbio
sancito il successo. Ma non pu basta-
re tutto ci per garantire la qualit di
un film, soprattutto se di ogni ingre-
diente di cui sopra il regista ha badato
bene a metterne la quantit prescritta
dalla ricetta.
Ovvio e sacrosanto, a questo punto,
un paragone con lHereafter eastwoo-
diano. Se lamericano al solito utilizza
una cornice classica per ragionare
visivamente e metaforicamente sulla
morte e sullaldil, Kill Me Please
sembra voler solamente irridere, pur
giocando pi o meno con gli stessi
mezzi, innalzando un inno (sia laico
che non) grazie alledificante (e unifi-
cante) potere della risata. Il gioco al
massacro del/nel film, allora, solo
un modo per chiudere la pellicola in
modalit pulp, dopo averla aperta in
tuttaltro modo. Cos come i dialoghi,
inopinatamente superficiali e nemme-
no caustici, vera e propria caduta di
stile dellintera operazione. Ma atten-
zione, sarebbe un crimine liquidare
Kill Me Please come unoperazione
poco riuscita. Perch senza ombra di
dubbio la pellicola di Barco rientra
nel novero delle visioni pi particolari
(ed estreme) della stagione, alla quale
mancata semplicemente la volont
di affrontare e soprattutto chiudere
tutte le occasioni che le si presentava-
no dinanzi.
Ma pi di tutto rimane nella mente
limmagine di un circo insensato che
si agita e di chi, incapace di dare un
senso alla propria vita, lo reclama per
la morte, mascherandola da cerimo-
niale del t giapponese dove provare
per lultima volta il bello della vita.
Come lultimo rapporto sessuale con-
sumato da uno dei pazienti/suicidi
che mette in scena, letteralmente, la
(petite) mort della Madame Edwar-
da di Bataille. Ma gi in sottofondo
risuonano le note della Marsigliese
che chiudono il film: Allons enfants
de la Patrie / Le jour de gloire est arri-
v!; come prendersi troppo sul
serio, sembra suggerirci Barco, se
sempre la Morte a scegliere i parteci-
panti al gioco?
Lorenzo Leone
VENTO DI PRIMAVERA
Rose Bosch
Titolo originale: La rafle. Regia e sce-
neggiatura: Rose Bosch. Fotografia:
David Ungaro. Montaggio: Yann Mal-
cor. Musica: Christian Henson. Sceno-
grafia: Olivier Raoux. Costumi: Pier-
re-Jean Larroque. Interpreti: Jean
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Reno (il dottor David Sheinbaum),
Mlanie Laurent (Annette Monod),
Gad Elmaleh (Schmuel Weismann),
Raphalle Agogu (Sura Weismann),
Hugo Leverdez (Jo Weismann), Oli-
vier Cywie (Simon Zygler), Mathieu e
Romain Di Concetto (No Zygler),
Rebecca Marder (Rachel Weismann),
Anne Brochet (Dina Traube), Isabelle
Glinas (Hlne Timonier), Thierry
Frmont (il capitano Pierret), Catheri-
ne Allgret (la portinaia Tati), Sylvie
Testud (Bella Zygler). Produzione:
Ilan Goldman per Lgende Films.
Distribuzione: Videa-Cde. Durata:
125. Origine: Francia, 2010.
Il cinema sullOlocausto come se fosse
un thriller. Si avverte infatti sin dallini-
zio una tensione nascosta nella calma
apparente, nella descrizione della quo-
tidianit nel quartiere di Montmatre.
Come se qualcosa stia per accadere da
un momento allaltro. Zone di vuoto,
volti ordinari, ultimi frammenti di una
normalit che si sta per disintegrare.
Vento di primavera, diretto dallex
giornalista Rose Bosch, che aveva esor-
dito dietro la macchina da presa nel
2005 con Animal, parte certamente da
un accurato lavoro di documentazione
durato circa tre anni, in cui la cineasta
porta per la prima volta sullo schermo
il rastrellamento del Vlodrome dHi-
ver (il titolo originale infatti La rafle,
la retata) dove il 16 luglio 1942 ven-
nero ammassati tredicimila cittadini di
religione ebraica.
Ma, tranne nei titoli di testa, le tracce
documentarie si disperdono, e inizia
subito a prevalere un grigiore oppri-
mente quasi soffocante, spesso carat-
terizzato dai colori neutri della foto-
grafia di David Ungaro che qui appa-
iono volontariamente appesantiti,
come per togliere respiro ai protago-
nisti. Parigi diventa uno spazio che
tende a svuotarsi, inquietante e plum-
beo. Se a tratti c qualche traccia di
descrittivismo che sembra quasi rici-
clare il Tavernier di Laissez-passer,
soprattutto nella costruzione di alcuni
personaggi come quello del rigattiere
o della fornaia, Vento di primavera,
per, riesce a entrare nel vivo in modo
immediato, e ci evidente gi nella
scena al parco pubblico, dove vengo-
no allontanate le famiglie ebree, o nel
momento in cui queste vengono prele-
vate nelle loro case, e tra queste c
anche quella dellundicenne Joseph.
Uno dei meriti che va riconosciuto al
film della Bosch che non ha nulla di
retorico e, pur non aggiungendo nulla
sul tema (e non ha probabilmente
neanche la pretesa di farlo), riesce a
creare unimmedesimazione emotiva
grazie al ritmo incalzante che riesce a
dare alla vicenda e al modo in cui si
sofferma sia sul dramma individuale
sia su quello collettivo. Dietro si
avvertono certamente le tracce della
grande produzione (Ilan Goldman ha
infatti alle spalle film come Vatel, La
vie en rose e Babylon AD) evidente
per esempio nelle scene di massa al
Vlodrome dHiver.
Ma al tempo stesso la Bosch si soffer-
ma anche sui destini dei singoli, in
particolar modo privilegiando lo
sguardo tra linfanzia e ladolescenza,
che non pu raggiungere quellinten-
sit struggente di Arrivederci
ragazzi di Louis Malle, ma che
comunque mantiene la solidit
e insieme lumanit di Il bam-
bino con il pigiama a righe di
Mark Herman.
Nella sua apparente grandiosi-
t, Vento di primavera riesce a
essere paradossalmente un
film sobrio, e ci si pu vedere
anche nelluso controllato
della musica. I momenti pi
incalzanti, come si gi sotto-
lineato, sono proprio quelli che
riguardano gli squarci thriller,
con i tentativi disperati di fuga
di molti protagonisti, oppure
la tragica rassegnazione con i treni
che portano ai campi di concentra-
mento. Sono presenti anche le tracce
di Hitler, che si trova nella sua dimo-
ra al Berghof (presente nei frammenti
documentari sui titoli di testa) o del
maresciallo Ptain e di Pierre Laval
che sono quasi delle ombre, rese per
persistentemente inquietanti, la cui
minaccia non tanto nella loro appa-
rizione, ma soprattutto nel fuori-
campo.
Certo, a tratti si avverte qualche sto-
natura, come nella prova di Jean
Reno che, nei panni del medico, appa-
re decisamente a disagio, mentre sono
in parte Mlanie Laurent (Bastardi
senza gloria) e Gad Elmaleh, la prima
con lintensit crescente che caratte-
rizza la sua figura dinfermiera, laltro
che mantiene una controllata dignit
anche nel dramma che sta colpendo la
sua famiglia.
Anche il finale ha una punta melo-
drammatica sopra le righe, in contro-
tendenza con quasi tutto il film. Forse
sono le contaminazioni dei segni
kolossal di una pellicola in cui tutta-
via lattenzione al particolare scongiu-
ra il rischio di un pericoloso calligrafi-
smo. E, inoltre, Vento di primavera
importante non solo da un punto di
vista storico, ma soprattutto educati-
vo. Pu apparire scontato, ma non
sempre lo .
Simone Emiliani
IL TRUFFACUORI
Pascal Chaumeil
Titolo originale: Larnacur. Regia:
Pascal Chaumeil. Sceneggiatura:
Laurent Zeitoun, Jeremy Doner,
Yohan Gromb. Fotografia: Thierry
Arbogast. Montaggio: Dorian Rigal-
Ansous. Musica: Klaus Badelt. Sce-
nografia: Herv Gallet. Costumi:
Charlotte Betaillole. Interpreti:
Romain Duris (Alex Lippi), Vanessa
Paradis (Juliette Van Der Becq),
Julie Ferrier (Mlanie), Franois
Damiens (Marc), Hlna Noguerra
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(Sophie), Andrew Lincoln (Jonathan
Alcott), Jacques Frants (Van Der
Becq), Amandine Dewasmes (Flo-
rence), Jean-Yves Lafesse (Dutour),
Jean-Marie Paris (Goran), Geoffrey
Bateman (il signor Alcott), Natasha
Cashman (la signora Alcott), Tarek
Boudali (il direttore dellhotel Mon-
tecarlo Bay), Philippe Lacheau
(lamico), Franck Massiah (Franck).
Produzione: Nicolas Duval-Adas-
sovsky, Laurent Zeitoun, Yann
Zenou per Quad Films/Script Asso-
cis/Focus Features/Chaocorp.
Distribuzione: Lucky Red. Durata:
105. Origine: Francia/Principato di
Monaco, 2010.
In alcuni recenti film di enorme suc-
cesso popolare e internazionale (e Il
truffacuori uno di questi) palpita
la memoria del cinema classico.
Questi film si presentano come pro-
dotti costruiti a tavolino. Essi richia-
mano in causa le convenzioni del
genere antico e riattivano a freddo,
nel segno di un rigido e impudente
manierismo, situazioni, figure, pro-
cedimenti narrativi ed espressivi dei
grandi titoli del passato. Il truffa-
cuori omaggia in particolare Accad-
de una notte di Capra, di cui inten-
de essere una sorta di libero remake,
e poi Lubitsch, Hitchcock, Edwards,
i Coen Certo, la densit e lambi-
guit sottile e perversa di quei
modelli di riferimento sono qui sol-
tanto sfiorate. Ma i risultati, in ter-
mini di riscontri di pubblico, sono
sotto gli occhi di tutti. Insomma,
ladesione al repertorio classico, in
America come in Inghilterra, come
in Francia, diventata ormai una
formula vincente (non cos in Italia,
anche perch i nostri sceneggiatori
hanno scarsa dimestichezza con la
storia del cinema).
La trovata da cui muove Il truffa-
cuori ingegnosa: un seduttore pro-
fessionista cinico e charmant nel
corso di una missione impossibile
finisce per innamorarsi della giova-
ne donna a cui deve impedire di
convolare a nozze con il suo princi-
pe azzurro. La sceneggiatura (del
talento emergente Laurent Zeitoun:
uno che si fatto le ossa negli Usa,
e si vede) mira a combinare insieme
inclinazione avventurosa sfumata
da un mordace intento parodico e
accensioni di follia umoristica, per
ricondurre il tutto sul glorioso terre-
no della commedia sentimentale
classica. La pellicola torna a riflette-
re, nei modi e nei toni sornioni e
disinvolti e disincantati della
romantic comedy americana dan-
tan, sulle dinamiche dellattrazione
amorosa, e lo fa calando la vicenda
in una cornice scenografica e
ambientale lussuosa (la riviera
monegasca), che la fotografia di
Thierry Arbogast sincarica di resti-
tuire nei suoi contorni luminosi, di
esotismo incantato.
Avremo allora, come da copione, un
uomo e una donna che, pur apparte-
nendo a mondi tra loro assai lonta-
ni e in apparenza inconciliabili (ma
le barriere di classe, nel film, appa-
iono agevolmente valicabili),
dovranno percorrere un itinerario
tortuoso, costellato da ele-
menti dilatori (maschera-
menti, equivoci, esitazioni)
che da un lato daranno ali-
mento al desiderio, ritardan-
done il soddisfacimento, dal-
laltro spingeranno i due pro-
tagonisti verso unautentica
rinascita dello spirito. Il lieto
fine sanzioner lincontro
definitivo degli eroi, il trionfo
dellamore, linstaurazione di
un legame duraturo e felice.
La messa in scena di Pascal
Chaumeil (un regista di for-
mazione televisiva, qui al suo
esordio sul grande schermo)
diligente e professionalmente cor-
retta, e incolore. Quanto basta per
assicurare alla pellicola fluidit e
tenuta di ritmo. Non ci sono tempi
morti nel film. A nutrire i segmenti a
margine del racconto principale
intervengono irresistibili lacerti di
umorismo demenziale (mai volgare,
per), gag a cascata, qui pro quo,
battute fulminanti, ammiccamenti
parodici, siparietti farseschi, perso-
naggi strampalati e bizzarri.
Agli affanni del cuore della coppia
romantica Romain Duris/Vanessa
Paradis fa da contrappunto la calco-
lata follia della coppia dei compri-
mari Julie Ferrier/Franois Damiens.
Franois Damiens, in particolare,
incontenibile nei suoi interventi
clowneschi, dove giunge a rubare la
scena allo stesso Duris. Il quale Duris
si muove qui su un registro umoristi-
co per lui insolito, che non , forse,
nelle sue corde (e che rischia talora
di vanificare il cot sentimentale).
Ma tant: egli riesce pur sempre a
conferire alla smagliante e narcisisti-
ca eleganza e arroganza del suo
dandy una dose di sana autoironia,
unautoironia che si spinge sino
allomaggio-sberleffo (come quando
lattore cita il ruolo drammatico da
lui stesso interpretato in Tutti i bat-
titi del mio cuore).
Nicola Rossello
QUALUNQUEMENTE
Giulio Manfredonia
Regia: Giulio Manfredonia. Soggetto:
Antonio Albanese, Piero Guerrera.
Sceneggiatura: Antonio Albanese,
Piero Guerrera, Giulio Manfredonia.
Fotografia: Roberto Forza. Montag-
gio: Cecilia Zanuso. Musica: Banda
Osiris. Scenografia: Marco Belluzzi.
Costumi: Roberto Chiocchi. Interpre-
ti: Antonio Albanese (Cetto La Qua-
lunque), Sergio Rubini (Jerry),
Lorenza Indovina (Carmen), Nicola
Rignanese (Pino), Davide Giordano
(Melo), Mario Cordova (linvalido),
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Luigi Maria Burruano (limprendito-
re), Alfonso Postiglione (il ragionie-
re), Veronica Da Silva (Cosa), Salva-
tore Cantalupo (De Santis), Antonio
Fulfaro (il prete), Liliana Vitale (la
signora anziana). Produzione: Dome-
nico Procacci per Fandango/Rai
Cinema. Distribuzione: 01. Durata:
96. Origine: Italia, 2011.
Nelle commedie allitaliana di un
tempo arrivava sempre il momento
in cui si smetteva di ridere. In Anni
ruggenti, per esempio, era quando
Nino Manfredi scopriva i tuguri dove
vivevano i poveri ignorati al regime
fascista. Anche in Qualunquemente
capita che non si debba pi ridere:
quando Cetto, a mo di avvertimento,
fa esplodere lauto del candidato
rivale. O quando si presenta in un
ospizio e in un ospedale fatiscente
per raccattare voti. Ma proprio in
questi momenti, che dovrebbero rap-
presentare lirruzione della realt
entro il contesto deformato della sati-
ra, che il film cade. Perch? Perch
fin dallinizio il rapporto con il Paese
reale stato posto in modo ambiguo,
poco efficace e in definitiva timido.
Tornato dal Brasile nella sua natia
Marina di Sopra, lo squallido Cetto
La Qualunque si candida sindaco.
Indifferente a ogni problema civico e
ossessionato dal pilu, riesce a farsi
eleggere: grazie a un luciferino con-
sulente apulo-milanese, ma soprat-
tutto grazie a brogli di ogni tipo.
Prima dei titoli di testa vediamo un
consesso di loschi personaggi, tra cui
un prete, che decidono quale candi-
dato scegliere. lunico
accenno, in tutto il film, a
qualcosa che assomigli a
ndranghteta, camorra, mafia.
Nellidilliaca Calabria di
Cetto possono esplodere auto,
ma non muore nessuno, e i
crimini pi gravi sono leva-
sione fiscale e labuso edilizio.
Con queste premesse, lo sfac-
ciato e cialtronissimo Cetto,
che si fa vanto di non pagare
le tasse e cementificare la
costa, non pu essere oggetto
di una vera indignazione.
Anzi, con la sua spudoratez-
za, il suo proclamato culto del
pilu, simpatico, esattamente
come molti ritengono che sia Berlu-
sconi.
Lo spettatore di Qualunquemente
ride sempre con Cetto, mai contro di
lui. In questo senso, Cetto funziona
esattamente come Checco Zalone: il
cafone vincente. Lo spettatore civi-
le (e magari di sinistra) si sente
superiore a lui, ma in fondo non gli
dispiacerebbe essere disinibito come
lui. Con la differenza che Cetto
anche un uomo di potere, e allude a
qualcosa di pi grande, e che con la
satira vorremmo neutralizzare. Ma il
personaggio non una caricatura o
una decostruzione del neopolitico
berlusconiano: semplicemente ne
una parafrasi, cos letterale e rimpic-
ciolita da essere superflua e innocua.
Possibile che una delle componenti
fondamentali della satira e del grot-
tesco, quella delliperbole, sia cos
disattesa? Ma il pubblico che riempie
le sale, si sa, non legge n Swift n
Bachtin.
In questa Calabria decriminalizza-
ta, rimane per la malasanit, di cui
la breve sequenza dellospedale d
un quadro quasi angosciante. Ma
dura poco, diventa subito materiale
per una gag. E cos come la vec-
chietta che non vuole votare La
Qualunque viene abbandonata sul
ciglio della strada (gag), Cetto porta
a votare una moribonda (gag). Lim-
pianto farsesco non sa cambiare
registro: lappiattimento sulla risa-
ta, con la sua meccanicit pavlovia-
na, non produce nemmeno umori-
smo cinico, ma solo disagio e imba-
razzo. La formula funziona finch
Cetto fa un comizio con le ragazze
discinte, ma stride quando si affac-
cia uno spicchio di Paese reale, fino
al quel momento ignorato.
Lincapacit di sterzare dal grotte-
sco allindignazione deriva in parte
dallorigine televisiva-cabarettistica
del personaggio. Ma il problema
non la difficolt di costruire un
racconto, quanto la differenza di
(absit iniuria) statuto enunciativo.
In televisione, Cetto una masche-
ra dietro cui Albanese invita a
prendere le distanze dal personag-
gio. Al cinema, Cetto un perso-
naggio di finzione che risucchia
Albanese: non c pi nessun a
parte, nessuno straniamento.
Albanese e Manfredonia perdono
cos una bella occasione: quella di
aggiornare il Gassman/Santenocito
di In nome del popolo italiano, un
bastardo che gi nel 1971 si credeva
al di sopra della legge. E sembrano
non avere capito che, quando in
scena un personaggio negativo, non
si pu essere piacioni con lo spettato-
re. Lantipatia di Santenocito, il suo
essere repellente e mostruoso, era
evidenziato a scanso di equivoci fin
dalla prima sequenza, aggiornamen-
to amaro e geniale del Sorpasso. Risi
sapeva ridere contro, e proprio da ci
nasceva un sano disagio: dalla consa-
pevolezza dellinutilit della risata.
Ma, si sa, la commedia allitaliana
non lha mai capita nessuno, sopra-
tutto i registi di oggi.
Rispetto al cinema comico di massa,
certo, Qualunquemente sfoggia una
confezione alta (basta leggere il cast
tecnico), si concede virtuosimi inutili,
carrelli acrobatici, orpelli fotografici.
Ma cui prodest, se poi manca anche
la capacit di gestire i caratteristi?
Tanti sono i nomi illustri convocati,
ma almeno due delle facce che occu-
pano pi tempo sullo schermo (il
braccio destro e il figlio di Cetto)
fanno cadere le braccia con la loro
ignoranza dei tempi comici. E questa
una caduta ancora pi imperdona-
bile di quanto si detto finora: Gen-
naro Nunziante o Luca Miniero
avebbero fatto di meglio.
Alberto Pezzotta
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LA VERSIONE
DI BARNEY
Richard J. Lewis
Titolo originale: Barneys Version.
Regia: Richard J. Lewis. Soggetto:
dalromanzo omonimo di Mordecai
Richler. Sceneggiatura: Michael
Konyves. Fotografia: Guy Dufaux.
Montaggio: Susan Shipton. Musica:
Pasquale Catalano. Scenografia:
Claude Par. Costumi: Nicoletta
Massone. Interpreti: Paul Giamatti
(Barney Panofsky), Dustin Hoffman
(Izzy Panofsky), Rosamund Pike
(Miriam Grant-Panofsky), Minnie
Driver (la seconda signora Panif-
sky), Rachelle Lefevre (Clara), Bruce
Greenwood (Blair), Scott Speedman
(Boogie), Mark Camacho (Mark),
Erika Rosenbaum (Caroline), Anna
Hopkins (Kate), Macha Grenon
(Solange), Ellen David (Goldie),
Paula Jean Hixson (Jill), Luca Pal-
ladini (Justin), Ivana Shein (Suzan-
ne), Mark Addy (il detective OHe-
arne), Saul Rubinek (Charnofsky),
Massimo Wertmller (il medico
romano), Atom Egoyan, David Cro-
nenberg (i registi della serie OMal-
ley). Produzione: Robert Lantos,
Gianluca Leurini per Serendipity
Point Film/Fandango/The Harold
Greenberg Fund/Lyla Films. Distri-
buzione: Medusa. Durata: 132. Ori-
gine: Canada/Italia, 2010.
Mettiamo subito in chiaro che pra-
ticamente impossibile parlare del
film di Richard J. Lewis, regista per
lo pi televisivo (ha diretto quattor-
dici stagioni di CSI, La scena del
crimine), prescindendo la monu-
mentale, famosissima opera lettera-
ria di Mordecai Richler. Niente da
stupirsi: questo il destino di ogni
adattamento cinematografico che
parte da unopera importante, e la
storia di Barney diventata, dal
momento della sua uscita (in Cana-
da nel 1997, in Italia nel 2000, dove
ledizione Adelphi arrivata a tre-
centomila copie) un vero e proprio
cult, con seguito di fan accaniti gi
pronti, di fronte alla inevitabile
riduzione cinematografica, a gridare
allo scempio e alla profanazione.
Partendo dal libro, in effetti, si capi-
sce come sia arduo un tentativo di
trasposizione: la prosa di Richler
fluviale, scomposta, ellittica e sapien-
temente imprecisa (lAlzheimer
usato come vero e proprio elemento
di stile, colabrodo con cui bucherel-
lare qua e l un tessuto che compat-
to non pu essere per pregresso stato
di salute). Gli episodi, molti dei quali
esilaranti e topici, sono infiniti e si
mangiano lun laltro.
Il cinema impietoso con letica
della carta stampata, si sa: non pu
riprodurne fedelmente londa flut-
tuante e quindi deve solo sperare di
riuscire a trovare la soluzione di
ripiego pi giusta. La pi ovvia, in
questo caso, sarebbe stata luso
della voce fuori campo, per cercare
di preservare la vis graffiante e cau-
stica della prosa di Richler: per for-
tuna lo sceneggiatore Michael Kony-
ves ha deciso di soprassedere e di
lasciare che la linearit delle imma-
gini prevalesse su quello che sareb-
be probabilmente risultato un pieto-
so tentativo di scimmiottamento.
Il film quindi prende subito posizio-
ne: pochi mirati spostamenti dal
presente di un Panofski sullonda di
una melanconia precocemente seni-
le ( vero, molto meno graffiante
delloriginale) e il passato, racconta-
to senza equit; poco spazio ai primi
due matrimoni (con divagazione pi
lunga sullepisodio della morte di
Boogie, forse la parte pi bella e
convincente del film) e focus
sullamore della vita, Miriam
(interpretata da unimpecca-
bile Rosamund Pike).
Sopra a tutto, Paul Giamatti.
Nonostante, infatti, il film dal
punto di vista registico sia
talmente piatto da ricalcare
involontariamente le produ-
zioni totalmente inutili della
casa produttrice di Barney, le
due ore e passa scorrono
anche grazie a un miracoloso
sposalizio tra il personaggio
di Barney e lattore che ne
veste i panni e le et. Meno
cattivo, come tutti hanno giu-
stamente rilevato, o meglio, cattivo
in modo pi mediato, infantile,
rispetto al personaggio di carta.
Implacabile e sperduto, perso in
quello che, per omaggiare una delle
sue ultime visioni, Lietta Torna-
buoni definisce su La Stampa con
unespressione appropriata, un cini-
smo mediato da una sorta di tri-
stezza alcolica.
Se il film di Lewis, infatti, rinuncia a
usare lAlzheimer come cifra stilisti-
ca, e lo conserva per la svolta finale
a effetto, il suo Barney soffre di
carenza di lucidit fin dallinizio: si
muove quasi in trance a partire dal-
limprobabile ambientazione boh-
mienne a Roma negli anni Settanta
(viraggio da Parigi spiegabile sol-
tanto con la co-produzione tra la
canadese Serendipity e litaliana
Fandango), fino alla folgorazione
per Miriam durante la sua stessa
festa di nozze con una donna ricca,
ebrea e stupida,che ha sposato in un
momento di disattenzione.
Lunico obbiettivo nitido, centrato e
poi mancato, lamore per Miriam,
che diventa il centro del film, lisola
di salvezza riconosciuta a prima
vista, corteggiata fino allo sfinimen-
to, e, una volta raggiunta, perduta
per sbaglio, dimenticata tra una par-
tita di hockey, un bicchiere di scotch
e una tirata di Montecristo. Al
padre, un Dustin Hoffman comple-
tamente in parte, spetta il compito
di rinvigorire la causticit che Bar-
ney perde un po per strada, fregan-
dosene di tutto, suoceri, celebrazio-
ni, tombe e ricordi, e facendo della
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sua stessa morte in un postribolo la
pi convincente celebrazione di una
vita vissuta per davvero.
Elisa Baldini
BIUTIFUL
Alejandro Gonzlez Irritu
Titolo originale: id. Regia: Alejandro
Gonzlez Irritu. Sceneggiatura:
Armando Bo, Nicols Giacobone,
Alejandro Gonzlez Irritu. Foto-
grafia: Rodrigo Prieto. Montaggio:
Stephen Morrione. Musica: Gustavo
Santaolalla. Scenografia: Brigitte
Broch. Costumi: Bina Daigeler, Paco
Delgado. Interpreti: Javier Bardem
(Uxbal), Maricel lvarez (Maramba),
Eduard Fernndez (Tito), Rubn
Ochandiano (Zanc), Cheng Tai Shen
(Hai), Luo Jin (Liwei), Hanaa Bou-
chaib (Ana), Diaryatou Daff (Ige),
Guillermo Estrella (Mateo), Cheikh
Ndiaye (Ekweme), George Chibuik-
wem Chukwuma (Samuel). Produ-
zione: Alejandro Gonzlez Irritu,
Fernando Bovaira, Alfonso Cuarn,
Guillermo Del Toro, Jon Kilik, Ann
Ruark per Menage Atroz/Mod Pro-
ducciones/Ikiru Films/Focus Featu-
res/Televisin Espaola/Televisi de
Catalunya/Universal Pictures. Distri-
buzione: Universal. Durata: 138.
Origine: Messico/Spagna/Usa, 2010.
Esiste da tempo una sottocategoria di
registi, tutti mediamente di giovane
et, alla quale stata prematuramen-
te assegnata unappartenenza auto-
riale quantomeno sospetta: per alcuni
di essi stata sufficiente unicamente
unopera prima per guadagnarsi (di
diritto, secondo molti) unattenzione
internazionale tale da indirizzare il
gusto dello spettatore verso un cine-
ma fintamente e ipocritamente di
qualit. Tra i capofila di questa gene-
razione di neo autori ad honorem, ci
difficile non considerare il nome di
Alejandro Gonzlez Irritu.
Portabandiera di una modernit del-
lespressione cinematografica ancora
tutta da dimostrare, il regista messica-
no da sempre racconta storie
votate allestremo: la morte, la
sofferenza, la malattia, il sacri-
ficio, il caso (e il caos) sono gli
elementi tramite i quali, sin da
Amores perros, cerca di trac-
ciare le coordinate di una con-
temporaneit che schiaccia e
tormenta lindividuo, fino alle
conseguenze estreme. Ma
proprio questa affannosa ricer-
ca dellestremo che non con-
vince, che puzza di falso e di
specchietto per le allodole;
anche in Biutiful, che di certo
non rappresenta un passo
avanti nella filmografia di
Irritu, il calvario del protagonista
non compie mai alcuna progressione:
non c un processo coerente di cresci-
ta, unevoluzione (e nemmeno unin-
voluzione), bens solo un incessante
accumulo passivo di situazioni e
disgrazie che sembrano dare ragione a
chi, gi dai tempi di 21 grammi,
azzardava un parallelismo con il cine-
ma di Lars von Trier.
LUxbal di Javier Bardem un uomo
che vive di espedienti, di traffici pi o
meno legali: conosce il marcio del
mondo, a stretto contatto con lam-
biente degli immigrati clandestini e sa
comunicare con i morti. Quando si
scopre condannato da un tumore,
intraprende un viaggio contro il
tempo, dentro la citt, per cercare di
garantire unesistenza migliore ai pro-
pri figli. Ed una citt particolare
quella di Biutiful: una Barcellona ine-
dita e spaventosa, lontana dagli echi
rassicuranti da meta turistica, dove le
grida gioiose della movida e degli stu-
denti dellErasmus rimangono sola-
mente uno sbiadito ricordo, l, sullo
sfondo di una metropoli alla fine del
mondo. Una Barcellona plumbea,
appestata e violenta, quasi come la
Calcutta di un romanzo horror di Dan
Simmons, dove la convivenza forzata
tra le varie comunit straniere luni-
ca soluzione per ritardare quanto pos-
sibile il collasso umano.
Ma questo inferno sulla terra, solca-
to dalla sofferenza fisica e spirituale
di Uxbal, nel film rimane troppo
distante per colpire davvero. Rimane
distante, innanzitutto, perch Irri-
tu troppo preso dallesteriorit
delle cose: non basta riempire le
inquadrature di immigrati, tossici,
urla e sangue. Non basta far soffrire
il proprio protagonista cristologico e
non basta la miseria della povera
gente, se tutto questo viene visto da
lontano: nonostante abbia fatto della
perdita e del dolore il nodo focale di
tutto il suo cinema, Irritu insegue
una visione talmente estetizzante
delle cose che inesorabilmente sfocia
nella superficialit o, ancora peggio,
nel superfluo.
Perch Biutiful un cinema talmente
ambizioso e talmente preoccupato di
apparire, che si dimentica completa-
mente di essere: e, alla fine, osserva
compiaciuto lo stesso orrore che inve-
ce vorrebbe denunciare. In questo
modo anche tutti quegli aspetti tecni-
camente rilevanti (lattenzione posta
al sonoro, come gi in Babel; la bella
fotografia di Rodrigo Prieto) perdono
importanza ed efficacia, cos come
linterpretazione di Javier Bardem,
indubbiamente sofferta e viva, ma che
da sola non riesce a farsi carico di
tutto il film.
Per la prima volta Irritu costruisce
unopera narrativamente lineare,
finalmente libera dalla presenza
ingombrante della scrittura di Guil-
lermo Arriaga, ma non evita lo stesso
quel determinismo di chi toglie respi-
ro e vita propria ai personaggi, secon-
do quella logica spietata e globalista
per la quale, alla fine, i conti devono
tornare comunque e il motore narrati-
vo di tutto puro deus ex machina.
Giacomo Calzoni
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I FANTASTICI VIAGGI
DI GULLIVER
Rob Letterman
Titolo originale: Gullivers Travels.
Regia: Rob Letterman. Soggetto: dal
romanzo I viaggi di Gulliver di
Jonathan Swift. Sceneggiatura:
Nicholas Stoller, Joe Stillman. Foto-
grafia: David Tattersall. Montaggio:
Alan Edward Bell, Maryann Bran-
don, Nicolas de Toth, Dean Zimmer-
man. Musica: Henry Jackman. Sceno-
grafia: Gavin Bocquet. Costumi:
Sammy Sheldon. Interpreti: Jack
Black (Lemuel Gulliver), Jason Segel
(Horatio), Emily Blunt (la principessa
Mary), Amanda Peet (Darcy Silver-
man), Billy Connolly (il re Theodore),
Chric ODowd (il generale Edward),
T.J. Miller (Dan), James Corden
(Jinks), Catherine Tate (la regina Isa-
belle), Emmanuel Quatra (il re Leo-
pold), Olly Alexander (il proncipe
Augusto), Richard Laing (Nigel). Pro-
duzione: Jack Black, Ben Cooley, John
Davis, Gregory Goodman per Electric
Dynamite/20th Century Fox Film
Corporation. Distribuzione: 20th Cen-
tury Fox. Durata: 85. Origine: Usa,
2010.
Il moderno Lemuel Gulliver un
umile fattorino di un grande giorna-
le newyorkese, pigro, infantile,
privo di ambizioni e aspirazioni: un
uomo che non cerca n si aspetta
sorprese. Lunico ticchettio
che il suo cuore sembra man-
tenere si manifesta alla vista
di Darcy, sorridentissima
redattrice della sezione viag-
gi, davanti alla quale lener-
gia parossistica di Gulliver
sembra spegnersi in un cre-
scendo di timidezze. Per far
colpo su di lei e per supera-
re lumiliazione che prova
quando un neoassunto lo
supera nelle gerarchie del
reparto posta crea dei
reportage di viaggi copiando
e incollando frammenti di
guide e ottiene finalmente di
essere messo alla prova: un servizio
sulle Bermude e la stima sorpresa
della ragazza. Poi la tempesta e il
naufragio a Lilliput.
La trasposizione cinematografica
del capolavoro di Jonathan Swift I
viaggi di Gulliver mantiene del-
loriginale soltanto unidea: un
gigante in terra di nani. Pi che
unadesione alla metafora sociale
dellautore inglese, il film cerca
unidea visivamente fruibile per
lutilizzo del nuovo giocattolo 3D,
pozzo senza fondo del cinema con-
temporaneo pi in affanno. Lo
scopo finale subito chiaro si
limita a essere quello di seguire le
evoluzioni bigger than life di Jack
Black e di confrontarlo con le
dimensioni minuscole dei suoi inter-
locutori, in un gioco ottico che si
ripete allinfinito. A Lilliput, Gulli-
ver viene incarcerato e trattato come
un mostro, ma sapr ben presto
guadagnarsi la fiducia del piccolo
popolo salvando la principessa da
un tentato rapimento e spegnendo le
fiamme che avvolgono il palazzo
reale urinando sullincendio.
Il problema di I fantastici viaggi di
Gulliver in versione Rob Letterman
(autore di Mostri contro alieni, uno
dei pochi film di animazione bolsi e
senza idee degli ultimi anni) esem-
plificato in questa scena. Non ci si
aspettava certo un adattamento n
fedele n tantomeno aderente alla
satira caustica del romanzo origina-
le, ma forse era lecito sperare in
qualcosa di pi dellinsistita ricerca
della volgarit infantile, cucita su
misura addosso a Black, meccani-
camente senza freni dallinizio alla
fine del film. Se supportato da sce-
neggiature anche appena pi
costruite, il corpulento attore riesce
a trasmettere un vitalismo quasi
animale ai ruoli che interpreta,
come in School of Rock di Linklater
o in Be Kind Rewind di Gondry.
Ma quando, per assoluta mancanza
di idee, gli si affidano le chiavi del-
lintero sviluppo narrativo, il gioco
non funziona: le gag diventano ripe-
titive, la comicit si inceppa, landa-
mento ipercinetico rallenta para-
dossalmente il ritmo invece di acce-
lerarlo. La parte centrale del film si
basa sulla reiterazione allinfinito
dellunica trovata di sceneggiatura:
una volta accettato come eroe dai
lillipuziani, Gulliver si inventa un
passato fatto di menzogne megalo-
mani. Si presenta come presidente
degli Stati Uniti e comincia a rac-
contare agli esserini stupefatti una
sua fasulla vita avventurosa fatta di
citazioni cinematografiche e remini-
scenze pubblicitarie. Limmaginario
adolescenziale di questo adulto non
cresciuto fatto di Titanic e Guerre
stellari, di marche di abbigliamento
e videogiochi: luomo medio ameri-
cano non riesce pi a inventare
nulla di nuovo.
La fantasia creativa bandita,
scomparsa, estinta. I sogni e le aspi-
razioni sono gi tutti codificati.
Anche questa idea, per, sembra
casuale e la mancanza di inventiva
anzi proprio il carattere fondante
del film, la sua nemesi narrativa. La
storia si trascina stancamente attra-
verso battaglie navali, ulteriori sug-
gestioni visive ripetute fino allo sfi-
nimento (i tentativi di ricostruzione
delle avventure e delle storie di Gul-
liver vengono direttamente da Be
Kind Rewind senza mantenerne n
lartigiana creativit n la cinefilia
vintage) e un susseguirsi degli even-
ti che sembra schizofrenico.
Avendo per le mani una sceneggiatu-
ra tanto esile, sembra quasi che gli
autori abbiano deliberatamente deci-
so di tagliare ogni raccordo narrativo.
Il risultato singhiozzante, con scene
legate tra di loro da ragioni incom-
prensibili: un andamento ellittico e
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sconnesso che rende la visione del
film irritante e faticosa.
Federico Pedroni
THE GREEN HORNET
Michel Gondry
Titolo originale: id. Regia: Michel
Gondry. Soggetto: dalla serie radiofo-
nica omonima creata da George W.
Trendle e Fran Striker. Sceneggiatura:
Seth Rogen, Evan Goldberg. Fotogra-
fia: John Schwartzman. Montaggio:
Michael Tromick. Musica: James New-
ton Howard. Scenografia: Owen Pater-
son. Costumi: Kym Barrett. Interpreti:
Seth Rogen (Britt Reid/il Calabrone
Verde), Cameron Diaz (Lenore Case),
Christoph Waltz (Chudnofsky), Jay
Chou (Kato), Edward Furlong (Tup-
per), Edward James Olmos (Michael
Axford), Tom Wilkinson (James Reid),
Analeigh Tipton (Anna Lee), Adam
Dubrowsky (Richard Big Dick Mon-
soon), Sterling Cooper (Ryan Catali-
na), David Harbour (Scanlon), Jamie
Harris (Popeye), Chad Coleman
(Chili), James Franco (Danny Crystal
Clear). Produzione: Neal H. Moritz,
Raffi Adlan per Original Film/Colum-
bia Pictures. Distribuzione: Sony.
Durata: 120. Origine: Usa, 2011.
Albi, strisce, graphic novels: negli
ultimi anni le trasposizioni cinema-
tografiche degli eroi di carta sono
cresciute in maniera esponenziale,
con successi alterni e diverse fortune
critiche. Nei prossimi mesi sono in
arrivo il Thor di Kenneth Branagh, il
nuovo Wolverine di Aronofsky, il
Capitan America di Joe Johnston.
Unoperazione diversa, almeno sulla
carta, poteva sembrare ladattamen-
to di The Green Hornet, un supere-
roe nato come protagonista di un
programma radiofonico nella Detroit
degli anni Trenta, approdato ai
fumetti e, alla fine, a una serie televi-
siva con Van Williams e Bruce Lee.
Portare The Green Hornet al cinema
non stato per semplice. Il progetto
nasce nel 1992 e solo dopo
quasi ventanni il film ha visto
la luce, dopo essere passato tra
numerose mani (George Cloo-
ney e Jake Gyllenhaal, Mark
Wahlberg e Kevin Smith).
Forse la lunghissima gestazione
ha condizionato lapparente
eterogeneit delle persone coin-
volte: il film interpretato da
Seth Rogen (autore anche della
sceneggiatura con Evan Gol-
dberg), Cameron Diaz e Chri-
stoph Waltz ed diretto dal
francese Michel Gondry. Un tris
di stelle quasi dissonante la
comicit demenziale del grup-
po Apatow, laction movie al femmini-
le stile Charlies Angels e un pizzico di
Tarantino dirette da un regista origi-
nale e dalle idee apparentemente anti-
tetiche a un simile progetto.
La storia quella di Britt Reid
(Rogen), un ricco rampollo viziato
figlio dellintegerrimo proprietario di
un giornale metropolitano che si trova
a gestire, dopo la morte del padre, un
impero editoriale basato sulla denun-
cia del crimine e della corruzione. Un
ruolo di difensore della pubblica
morale che questo giovane playboy
dissoluto non ha n la statura n la
voglia di rivestire. Quasi per caso lin-
contro con il meccanico Kato, inven-
tore a tempo perso ed esperto di arti
marziali, lo porter ad assumere
lidentit segreta di Green Hornet, un
supereroe che per combattere il crimi-
ne si atteggia a criminale.
Un Batman sghembo che, nello script
di Rogen e Goldberg (autori di Super-
bad e Strafumati), diventa una varian-
te di ragazzino viziato e immaturo alle
prese con qualcosa di pi grande di
lui. forse la prima volta che un
supereroe viene raffigurato come un
implacabile scemo, incapace se non
per fortuite coincidenze e spesso per
lintervento del suo pratico compagno
di avventure di combinare alcunch.
The Green Hornet ha il suo pregio
maggiore proprio nel rifiuto dei cano-
ni del genere e nella scelta ostentata
del crossover: action demenziale,
buddy movie, commedia romantica,
noir grottesco, giocattolone in 3D. A
rendere originale la psicologia dei per-
sonaggi dovrebbe essere la ripetuta
insistenza sulla loro fragilit, sia quel-
la degli inadeguati protagonisti che
quella del feroce killer pronto allomi-
cidio efferato ma indeciso sulle cravat-
te da indossare.
Rogen e Goldberg tendono, per, a
raccontare tutto come fosse una bana-
le analisi adolescenziale, ironizzando
compiaciuti sui giochini postpuberali
dei protagonisti proprio come in un
college movie. In questa continua
oscillazione di toni a volte traballan-
te e a volte ostentata Michel Gondry
non sembra preoccuparsi di dare al
film una coerenza sufficiente n, tan-
tomeno, unanarchica incoerenza. Il
film non si distacca dai canoni codifi-
cati del genere e non conquista mai
una credibilit paragonabile a quella
degli Spider-Man di Raimi n la
cupezza dark dei Batman di Bur-
ton/Nolan.
Stilisticamente ci sono, senza dubbio,
alcune trovate visive non convenzio-
nali, che non riescono per a cancella-
re un senso generale di estemporanei-
t ludica, di casuale bizzarria. La fra-
gilit ostentata e il gusto eccessivo
del gioco, pulsione istintiva per un
autore come Gondry, abituato per a
modellare un materiale ben pi denso
e potenzialmente esplosivo non
sufficiente a costruire uno slittamento
di senso e The Green Hornet sembra
fermarsi alla superficie di un esperi-
mento che sarebbe potuto essere inte-
ressante: dare unanima ironica a un
supereroe senza per questo renderlo
una banale macchietta in costume.
Federico Pedroni
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1. Bench Vallanzasca Gli angeli del male abbia
tutta laria di essere una filiazione commercialmente
meno favorita di Romanzo criminale, segna una svol-
ta, diciamo pure liberatoria, in che senso lo vedre-
mo tra breve, nella filmografia di Michele Placido
regista. Una svolta che potrebbe essere tranquilla-
mente ignorata, neanche presa in considerazione, se
non dovessimo per fare i conti con due questioni
ineludibili. Una di carattere generale, riguardante i
cosiddetti modi di produzione. Perch il
Vallanzasca di Placido in qualche modo nasce den-
tro una concezione seriale, telefilmica del racconto
cinematografico, di cui Romanzo criminale ha in pra-
tica gettato le basi. Una concezione in cui pi di ogni
altra cosa contano la costruzione orizzontale degli
eventi, la preoccupazione esclusiva per il ritmo,
lazione necessariamente violenta a fronte di una
scarsa attenzione per quegli effetti collaterali sul
piano morale, civile, ideologico che giustamente al
film sono stati da pi parti rilevati e rimproverati.
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VALLANZASCA di Michele Placido
FOCUS
FOTOROMANZO CRIMINALE
Anton Giulio Mancino
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La seconda questione piuttosto autoreferenziale:
riguarda complessivamente la responsabilit che questa
rivista, e in particolare chi scrive, si sono assunti nel lon-
tano 1999 quando in unimpegnativa rubrica intitolata
100 per il 2000, dedicata a quegli autori su cui era
ragionevole scommettere per il nuovo secolo, fu inserito
anche litaliano Michele Placido, allepoca reduce dal suo
quarto film da regista, Del perduto amore (1998), cui
sempre il sottoscritto aveva dedicato una scheda e avreb-
be in seguito proseguito a monitorarne la filmografia.
Cineforum aveva fino ad allora seguito con grande e
pi che giustificato interesse Placido, come testimoniano
le schede di Giorgio Rinaldi (Pummar, 1990),
Pierpaolo Loffreda (Le amiche del cuore, 1992) e
Alberto Crespi (Un eroe borghese, 1995). Per, proprio
dopo Del perduto amore, qualcosa si inceppa: i successi-
vi Un viaggio chiamato amore (2002) e Ovunque sei
(2004) vengono altrettanto ragionevolmente declassati,
se cos si pu dire. Non pi schede ma recensioni brevi.
Quando arriva Romanzo criminale (2005), tuttavia, la
rivista speranzosa gli dedica nuovamente una scheda,
a conti fatti meritata, trattandosi comunque di un film
meritevole, che tuttavia contiene i sintomi di quel che
sarebbe potuto essere, ed lattuale Vallanzasca. Si pre-
ferito soprassedere in attesa di ulteriori sviluppi. Come
diceva Tot, autolesionista, di Placido ci si chiede a propo-
sito di Romanzo criminale: Chiss dove vuole arrivare?.
Forse non si era perso per strada. Forse i primi quattro film
non erano stati soltanto una parentesi. Arriva cos Il gran-
de sogno (2009) a sgombrare il campo da equivoci ulterio-
ri: non serve pi un dietrofront. Occorre rivedere in toto il
giudizio sullautore, prevederne quindi le mosse successi-
ve, oramai non pi imprevedibili. La recensione breve del
Grande sogno, film molto autobiografico, quasi una con-
fessione non richiesta che lascia immaginare altro, sul
poliziotto che spia e cos scopre il Sessantotto, offre anche
lopportunit per fare autocritica.
Vallanzasca, dunque, non giunge come un fulmine a
ciel sereno. Impone un approccio diverso. Diverso sia
dalla scheda che dalla recensione breve. Non pi
questione di lunghezza, di spazio, di giudizio critico.
Richiede crediamo una riflessione che trascenda gli
eventuali meriti e demeriti, appannaggio di valutazio-
ni mai come in questo caso soggettive. Serve ora allar-
gare il campo, contestualizzare il fenomeno che lega
indissolubilmente Romanzo criminale a Vallanzasca,
introducendo definitivamente un paradigma vero e
proprio, nella (poco) buona come nella (molto) cattiva
sorte, anche a costo di scavalcare Il grande sogno, che
invece nasce da un bisogno pressante ed estemporaneo
di dire di s, mitizzare lindicibile. Serve cio guardare
le cose dal lato culturale, sociologico, con conseguenze
su quello espressivo, comportando cio ladozione di
una prospettiva rivolta al film pi come prodotto che
si sarebbe detto una volta come testo. A questo
punto evidente che le due questioni da cui siamo
partiti finiscono per ricongiungersi.
2. Che Placido sia un regista molto consapevole di
quel che fa non neppure in discussione. Vallanzasca
ne accentua persino le qualit di narratore, di diretto-
re degli attori, di regista attento allimpatto spettacola-
re dellazione. La violenza domina lazione, e lazione
domina il racconto. Vallanzasca un film coerente,
perch negarlo? Di pi: sciolto. Molto pi sciolto,libe-
rato da condizionamenti, remore di carattere morale,
politico e ideologico. Per non parlare di quelle autobio-
grafiche. Placido ricostruisce un ambiente, un mondo,
un clima. Ovviamente lo fa restando in superficie, lavo-
rando su questa superficie con perizia e cognizione di
causa: volti, linguaggi, acconciature, ambienti, abiti,
canzoni, oggetti. Tutto funziona. Se non ci fosse uno
stile persino ostentato, dei mezzi tecnici che lasciano
indovinare un budget e aspettative da cinema dauto-
re, lo si potrebbe scambiare per un film di genere degli
anni Settanta, rozzo, brutale, efficace. Che poi il mag-
giore complimento cui Vallanzasca potrebbe aspirare.
Ma che non pu sognarsi neanche lontanamente di
assomigliare neppure al pi che becero, poverissimo
instant movie chiamiamolo cos del 1977, La
banda Vallanzasca, diretto dal prolifico, misconosciuto
Mario Bianchi che almeno aveva il pregio di considera-
re Vallanzasca n pi n meno che uno specchietto per
le allodole circoscritto di fatto al solo titolo.
Queste qualit da film di genere, condivisibili o meno,
le stesse che a suo tempo abbiamo voluto a ragion vedu-
ta riconoscere a Romanzo criminale, oltre a essere con-
traddette dalle pretese dautore e dalla larghezza di risor-
se messe in campo, risulterebbero innocue sul piano della
fruizione e della costruzione di modelli popolari (model-
li criminali inseparabili da modelli di concezione del rac-
conto), se per non cercassero di supportare un valore
aggiunto, unambizione molto sconcertante, disonesta:
quella della corretta, autentica (perci filologica, esterior-
mente puntigliosa), ricostruzione degli eventi, dei fatti,
della vita dei personaggi. Chi sia stato davvero Renato
Vallanzasca, quanto la sua parabola criminale abbia
fatto breccia nellimmaginario popolare, specialmente
quello femminile, quali omicidi abbia effettivamente
commesso o gli siano stati soltanto attribuiti non sono
aspetti di un problema di rappresentazione che un regi-
sta pu pensare anche lontanamente di affrontare a par-
tire da s. Anche un regista come Placido, indubbiamen-
te dotato, virulento, attento ai modelli alti e bassi, ricchi
o poveri, a quelli hollywoodiani (Siegel, Scorsese, De
Palma, Tarantino, sebbene gli Stati Uniti abbiano alle
spalle una storia diversa che ha inciso sin dagli anni
Trenta anche sul formarsi del gangster movie) tanto
quanto a quelli nostrani (Germi, Lizzani, Leone, Lenzi),
deve tenerne conto e non partire dalla sua indole, dalle
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sue simpatie, dal suo istinto. Aggiungiamo: dal suo intui-
to commerciale, che lha portato a spianare il terreno,
con Romanzo criminale, gi a ben due omonime serie
televisive fortunate.
Per quanto Vallanzasca non sia un brutto film,
ammesso che brutto e bello possano essere oggi
ancora aggettivi spendibili e non addirittura obsoleti,
controproducenti, inutili, funziona alle condizioni sta-
bilite da Placido. Funziona, anche se salta di palo in
frasca non lasciando granch capire, valutare, perch
cos che lha concepito, voluto, sviluppato Placido. Una
macchina-cinema che va avanti, sempre, per la sua stra-
da anche quando dovrebbe interrogarsi su se stessa,
ripiegarsi, introdurre dubbi, concedersi il lusso della
perplessit. Tira diritto, con il bel Renato interpretato
da Kim Rossi Stuart, sganciato dal dovere di essere o
sembrare quanto basta ambiguo, scostante, come il
Freddo di Romanzo criminale. Solo che, allora,
Placido aveva a che fare con la gi famigerata, impre-
sentabile e insostenibile Banda della Magliana. Dunque
era quantomeno opportuno provare a elaborare una
distanza. Distanza l camuffata da una cornice mitica,
nostalgica, da innocenza perduta (che torna puntual-
mente anche in Vallanzasca). Inoltre, sempre in
Romanzo criminale, con buona pace delle modalit
recepite in primo luogo da Leone (Once Upon a Time
in America [Cera una volta in America, 1984]) e
Scorsese (Goodfellas [Quei bravi ragazzi, 1990]),
Placido giocava lambigua e rischiosa carta del para-
dosso, della provocazione: accostava, rispettandola e
amandola di un amore non troppo confessabile, la
delinquenza trucida alla grande politica criminale che
agiva dietro le quinte. Preferiva la prima, che almeno
agiva, alla seconda, che la manovrava. Questa imposta-
zione belluina poteva persino essergli perdonata a fron-
te di un discorso complesso e complessivo che tutto
subissava, rendeva opaco, indecifrabile.
3. In Vallanzasca ecco il punto controverso scom-
paiono le resistenze, ogni resistenza: il criminale
bello, langelo del male, il fiore del male, dove
appunto la serie dicotomica bello/brutto, bene/male,
angelo/male, fiore/male gioca a favore del primo, pre-
diletto dei due termini. La bellezza del personaggio
rispecchiata, accentuata, potenziata a livello di rappre-
sentazione dallattore, esemplifica tutto lamore di
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!"#$%%&%'()*+,-.//.01.,*. 3%&"4&3"## "5"6 7.890. %:
Placido per quel tipo di eroe ora non pi ignobile, poi-
ch non coinvolto in cose troppo grandi, pi grandi di
lui, solitario, individualista. Di contro c persino un
personaggio, Enzo, interpretato da Filippo Timi, che
la copia conforme, fisicamente parlando, ma anche per
quel che riguarda leccesso, la recitazione sopra le
righe voluta, dello stravagante bandito borghese
Cavallero di Gian Maria Volont in Banditi a Milano
(1968). Ma si tratta di un partner, poi antagonista,
quindi oggetto di un rimorso tardivo, artificioso,
improbabile, che nulla toglie al lindore del Renato
Vallanzasca di Placido. Un Vallanzasca non comune,
un Vallanzasca autoreferenziale che, sciolti gli indugi di
Romanzo criminale, abbandonata la scelta ben pi
labirintica, cupa, fattuale di Un eroe borghese, pu infi-
ne piacere allautore, che subito si d molto da fare per
renderlo piacevole, simpatico, straordinario agli occhi
dello spettatore, riducendo al massimo ogni zona
dombra, ogni responsabilit diretta, ogni delittointe-
so non solo come omicidio, ma in senso letterale (da
delictum, participio passato del verbo delinquere, cio
venire meno [al dovere], composto dal prefisso de- e
da linquere).
Labbandono del regista al testo, al piacere del testo
concepito a sua immagine e somiglianza ideale, costruito
secondo la sua visione umorale del mondo e delle cose
italiane, genera quel prodotto, quel perfetto, generoso
fotoromanzo inevitabilmente criminale, oltretutto
godibile che Vallanzasca Gli angeli del male. Che non
sappiamo quanto riuscir a generare spin-off di vario
ordine e grado, serie televisive, a parcellizzarsi, riprodur-
si, essere riadattato in forme contigue, televisive, parate-
levisive come invece gi accaduto a Romanzo crimina-
le. A nulla serve pi, a questo punto, rimescolare le carte,
alludere, mimetizzarsi per interposta persona: se in
Romanzo criminale Placido vestiva i panni apertamente
critici, formalmente dissenzienti, del padre del Freddo,
in Vallanzasca affida un ruolo consimile, quello del
padre di Renato, simbolicamente a suo fratello, lattore
qui anche cosceneggiatore Gerardo Amato. I fratelli
Placido, gemellandosi da Romanzo criminale a
Vallanzasca, si sentono i padri dei Kim Rossi Stuart,
emblema di una bellezza maledetta, criminale, molto
suggestiva in un paese come lItalia ormai, in tutti i sensi,
de-moralizzato. Stavolta, proprio perch non sussistono
pi i freni inibitori di Romanzo criminale, il nuovo
padre/Placido non dissente, resta in silenzio, protegge,
capisce, condivide. Alloccorrenza pronto a dare un col-
tello al figlio per difendersi. Ma il figliol prodigo, il
bello da fotoromanzo anni Settanta non lo accetta. Lui
non uccide, non lo farebbe mai a meno di non essere
costretto. Costretto dalle circostanze, dalla polizia, da
una malavita imbarbarita che non fa onore a quella
maladi una volta, quella dellaltrettanto bello,leale,
affezionato capo Francis Turatello (complici le sem-
bianze di Francesco Scianna). Su Vallanzasca, Turatello e
su tutti gli altri possibili nuovi eroidel repertorio crimi-
nale futuro di Placido, che sembra crederci o vuole farce-
lo credere, incombe ormai lo stratagemma storiografico e
assolutorio Hobsbawm insegna della funesta inven-
zione della tradizione. Allex poliziotto Placido i poli-
ziotti ora piacciono meno dei criminali romanzeschi,
fotoromanzeschi dei bei tempi andati. Fargliene una
colpa? Per carit. Tutto sta a saperlo prima.
Vallanzasca Gli angeli del male
Regia: Michele Placido. Soggetto: Andrea Purgatori, Angelo Pasquini,
dai libri Il fiore del male. Bandito a Milano di Carlo Bonini e Renato
Vallanzasca e Lettera a Renato di Antonella DAgostino e Renato
Vallanzasca. Sceneggiatura: Michele Placido, Gerardo Amato, Andrea
Leanza, Kim Rossi Stuart, Toni Trupia, Antonio Leotti, con la collabo-
razione di Antonella DAgostino. Fotografia: Arnaldo Catinari.
Montaggio: Consuelo Catucci. Musica: Negramaro. Scenografia: Tonino
Zera. Costumi: Roberto Chiocchi. Interpreti: Kim Rossi Stuart (Renato
Vallanzasca),Valeria Solarino (Consuelo), Filippo Timi (Enzo), Paz Vega
(Antonella DAgostino), Moritz Bleibtreu (Sergio), Francesco Scianna
(Francis Turatello), Toni Pandolfo (Spaghettino), Gaetano Bruno
(Fausto), Nicola Acunzo (Rosario), Stefano Chiodaroli (Armando), Lino
Guanciale (Nunzio), Federica Vincenti (Giuliana), Monica Barladeanu
(Nicoletta), Lorenzo Gleijeses (Donato), Gerardo Amato (il padre di
Renato), Lia Gotti (Carmen). Produzione: Elide Melli per Cosmo
Production/20th Century Fox. Distribuzione: 20th Century Fox. Durata:
125. Origine: Italia, 2010.
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PRELUDIO, PROLOGO, ELLISSI
Dal buio dei titoli di testa arrivano le note di Bach, poi
appare Lisetta Carmi seduta al pianoforte; o meglio, le sue
mani ingrossate di donna anziana riflesse dallo specchio
che sormonta la tastiera. La donna sta suonando, sapre-
mo presto, il Preludio I per clavicembalo ben tempera-
to; la telecamera va lentamente dallo specchio alla figu-
ra di profilo, si alza appena per inquadrarla, poi scende e
torna indietro, cio alle mani, finch una dissolvenza
scura chiude il movimento. Perch lo specchio? Ci torne-
r pi avanti; ora vorrei rilevare che il prologo, apparen-
temente concluso, sta solo preparando una laboriosa
replica, una tautologiaarricchita da brani di memoria e
da altre immagini. Una sintesi, vorrei dire, che raccoglie
limpatto col luogo, mentre sottesi flash-forward defini-
scono man mano il personaggio e i suoi racconti.
Lesterno, cio il paese di Cisternino, appare in una sug-
gestione mediorientale. La donna vi cammina curva, coi
sandali ai piedi, una tunica e una sciarpa leggera addos-
so; bianco, azzurro, poi lo stacco sul verde-oro di amma-
lianti uliveti. Il regista la segue; usa di proposito, credo, la
camera a mano, e limpenna quando lei sale con difficol-
t la lunga scala dingresso. Pi avanti la Carmi racconte-
r della notte sulle Alpi, quando era fuggita dalla perse-
cuzione con la famiglia; dal canto suo Segre, in certa
misura, ha voluto preparare il senso di quella lontana fati-
ca,condividerlaforzando se stesso e la macchina.
Labbaglio dal foro di un tronco, la testa di un bambi-
no fra le gambe di una partoriente, il rilievo in marmo di
una figura femminile inginocchiata davanti a un teschio.
Tre immagini: la prima a colori, le altre due in bianco e
nero (dovrebbero essere opera della protagonista) nelle
quali, con certa brutale franchezza, Segre riassume il
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LISETTA CARMI, UNANIMA IN CAMMINO
di Daniele Segre
FOCUS
INTERROGARSI SULLUMANIT
Tullio Masoni
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nascere e il morire, la simbologia naturale (il foro del
tronco filtra limmediato sfolgorio da una cornice vecchia)
quella documentaria del parto e quella storica, allegorica
del cimitero. Come la luce dal tronco, cos la Luna che
scorre fra le nubi sulluliveto; cos, ricorda la donna, la
stessa Luna nella notte invernale fra i monti quando la
famiglia ebrea cercava di raggiungere la Svizzera.
Ed ecco la stanza, di nuovo, ecco le note del Preludio
I di Bach, scorse dalla telecamera sullo spartito e suona-
te. Siamo tornati al prologo, ma in forma e tempo pi
densi. Il regista asseconda col montaggio le scansioni del
brano musicale, e nondimeno adotta il suo tempo costan-
te; concepisce cio una sequenza da interno a fuori, che ha
larmonia del piano senza stacchi. C lo spartito, poi ci
sono le foto di famiglia alle pareti, poi la finestra da cui
scendere e portarsi allinquadratura di Lisetta in campo
medio che suona, poi lesterno arabo, le vie, i tetti, le
macchie colorate dei panni stesi e dei fiori sui terrazzi, la
gente che popola tanta bellezza naturalmente e ancora
le note del Preludio, che si spengono perfette, assieme ai
rintocchi di una campana.
Il prologo-preludio che scaturiva dai titoli di testa
diventato il flash-forward di questa magistrale sequenza;
lintimit di Lisetta Carmi, che ringraziava Segre per aver-
la indotta a tornare sul pianoforte, ha dato luogo, ellitti-
camente, ad altri flash-forward che ora dalla casa,
allesterno, al paese tutto sono raccolti dalla sintesi in un
unico significato: lamore della donna per il luogo di vita
che ha scelto.
LO SPECCHIO
I ritratti di Ezra Pound rappresentano senza dubbio un
esito estetico non superabile, nel lavoro della Carmi.
Soprattutto se si considera che, in certo qual modo, sono
istantanee: undici scatti su venti, per quattro minuti di
sosta davanti alla casa del poeta malato. Quattro minuti di
drammatico silenzio, che la fotografa ha saputo cogliere e
sublimare immediatamente. Tutto Pound, dice adesso, la
solitudine, la grandezza interiore, la disperazione; e anco-
ra, sempre, il silenzio, il totale silenzio da cui il poeta si
sapeva sequestrato. Undici istantaneeper scoprire lin-
finito (lo sguardo altero, sofferente e solenne di Pound), e
dare testimonianza dellalta intuizione attraverso la quale
esseri diversi e lontani possono, anche se solo per quattro
minuti, stabilire un giusto e irripetibile contatto: For
two gross of broken statues, / For a few thousand battered
books (Per qualche centinaio di statue rotte, / Per poche
migliaia di libri a brandelli trad. Rizzardi).
vero anche, per, che la lunga esperienza coi travesti-
ti aiuta meglio a capire una necessit profonda, morale. In
epoca proibita la Carmi accetta di avvicinarli, di farsene
complice, amica e cantore; con la spregiudicatezza che
solo degli spiriti luminosi, cio di coloro che riescono a
guardare naturalmente e con curiosit oltre i confini impo-
sti dalla storia, Lisetta si affeziona a Elena, gi gruista
allItalsider, alla religiosissima Morena, a Gitana, poi
immortalata sulla copertina del libro-scandalo, che possie-
de un De Pisis autentico perch del pittore stata amante.
Non per caso uno dei flash-forward inventati da Segre,
nella prima parte del film, rompe labbandono di un
soleggiato campo di ulivi col volto in bianco e nero di un
giovanissimo travestito.
Perch, mi chiedevo in apertura, il regista ha voluto
cominciare con lo specchio? La risposta che avevo in
mente subito mi sembra ora pi attendibile: c affinit di
interessi fra lautore di Vite di ballatoio (lopera del 1984
ambientata nella Torino dei transessuali e dei travestiti) e
Lisetta Carmi, ma la comune preferenza di figure o perso-
naggi non direbbe molto se non fosse parte di una pi
profonda vocazione. Non , ovviamente, il fascino del-
lanomalia che spinge uno e laltra fra persone insolite
(anche gli operai di Crotone lo erano, e del Sulcis, i mala-
ti di Alzheimer, i portuali, i bambini), ma lidea che la
realt sempre pi larga e complessa di quanto si pensi
normalmente, e che non bastano per inquadrarla le cate-
gorie sociologiche generali; occorre andare alla persona,
cercare il confronto e, soprattutto, raggiungere un senti-
mento di naturalezza.
Fra la spontaneit della Carmi che non arretra di
fronte alla sorte di sconvolgere i famigliari e, ben che le
vada, pu essere accettata come matta e il fine perse-
guito dal cineasta torinese fare cinema con la realt
corre la stessa linfa. Lo specchio rende simili e diversi uno
allaltro, ma ha permesso loro di riconoscersi al primo
sguardo.
LA RICERCA DELLA VERIT, IL SILENZIO
Lisetta Carmi ebrea e in certa tipica disciplina cre-
sciuta: niente di ci che non era fatto in casa si poteva
mangiare, tutto sarebbe stato dato ai figli per la salute e
gli studi, ma il resto avrebbero dovuto guadagnarselo, la
madre era molto onorata dal marito ma le decisioni spet-
tavano sempre a questultimo bench, forse, in qualche
caso segretamente consigliato dalla moglie. Ha vissuto la
cacciata dalla scuola a causa delle leggi razziali del 1938,
poi la persecuzione; stata in Israele, nella sua faccia
androgina porta chiari i segni della razza, e tuttavia una
forza la spinge lontano, fuori dai confini del costume e
della religione, per incontrare unumanit su cui non pu
smettere di interrogarsi: Capire lumanit, dice le per-
sone come vivono, cosa fanno. Per tale scopo le serve lin-
nocente amoralit che, ad esempio, favorisce la simpatia
coi travestiti; le sue polemiche, bench lucide e taglienti,
sembrano rare: Non loro erano schifosi, piuttosto i clien-
ti: alto borghesi, preti, stranieri, o ancora: Quando
Fachinelli chiese a Cesare Musatti di scrivere una presen-
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tazione per Travestiti, quello si rifiut dicendo che era
gente da chiudere in un ospedale Cos, il grande
Musatti!.
Quanto al resto, una ostinata, serena disponibilit la
spinge instancabilmente verso la contaminazione cultura-
le; e se ha deciso di rispondere alla chiamata di un guru,
ci non ha richiesto alcun sacrificio di libert. Per lei e
per Segre, basta considerare lormai lunga esperienza di
cineasta ricerca, conoscenza e amore per gli uomini
coincidono, sono materia dellineludibile contrasto per cui
la meraviglia del vivere e del capire deve scontare la con-
divisione di gioia e dolore.
Nella sequenza poco sopra ripercorsa Segre metteva
tecnica e stile a servizio della musica, ma lasciava anche
indovinare un bisogno di silenzio;far musicacon la tele-
camera presuppone un abbandono nel vuoto, unazione
che, servendo, tace in s.
La Carmi conclude dicendo che la verit pi alta, forse,
arriva dal silenzio per rimanere nel silenzio (questo aveva
intuito in Pound, rovesciando attraverso lalterit del
ritratto il suo dolore) e che ognuno, con lanima in cam-
mino, sempre alla ricerca della verit.
Per chi, ed il mio caso, vive nel dubbio, non facile
tollerare lassolutezza della parola, e il modo col quale
stata fissata dalle religioni; ma la verit di Lisetta Carmi
e Daniele Segre non spaventa. Essi cercano una verit mai
del tutto risolta: la verit degli uomini che volevano,
vogliono e vorranno essere liberi.
LISETTA CARMI, UNANIMA IN CAMMINO Regia, soggetto e
montaggio: Daniele Segre. Fotografia (HDV): Franco Robust.
Musica: Maria Teresa Soldani. Suono in presa diretta: Edgar
Iacolenna. Produzione: I cammelli S.a.s. Distribuzione: I Cammelli
S.a.s. Durata: 54. Origine: Italia, 2010.
Qualche mese dopo un incontro avvenuto a Ravenna nel gennaio
2009 in occasione di una sua mostra, la fotografa genovese Lisetta
Carmi scrive a Daniele Segre per invitarlo a Cisternino, in Puglia, dove
vive da quarantanni e ha fondato lAshram (una comunit induista)
per il guru Babaij. La donna vorrebbe raccontare al cineasta la storia
della sua vita, cominciata il 15 febbraio del 1924 in via Sturla a
Genova da una famiglia borghese di origine ebraica. La Carmi, che da
bambina preferiva vestirsi da maschio decidendo presto che non si
sarebbe mai sposata Non voglio padroni! avviata agli studi di
pianoforte e dimostra talento; poi arrivano le leggi razziali del 1938,
lespulsione dalla scuola, la necessit di prendere lezioni private. Dopo
la guerra qualcuno le dice che assomiglia a Cartier-Bresson; si dedica
perci alla fotografia, stimolata da un ambiente culturale assai vivo,
come quello della Genova degli anni Sessanta. Conosce Emanuele
Luzzati, Tonino Conte, Aldo Trionfo, e molti altri artisti che operava-
no fra il Teatro della tosse e la Galleria del deposito. Come repor-
ter indipendente si rivolge ai giornali proponendo servizi sui portuali,
i bambini, i viaggi che compie in Sardegna, Israele, Parigi, Venezuela,
Messico, Afghanistan Sempre negli anni Sessanta viene a contatto,
nel quartiere della Genova vecchia, col mondo dei travestiti, dal quale,
per iniziativa di Sergio Donnabella (che non era un editore ma un
uomo illuminato) nel 1972 sortir un libro editorialmente fine e
scandaloso. La fama internazionale arriva con gli undici ritratti di
Ezra Pound, che ottengono il Premio Nipce. Quando alla fine degli
anni Settanta le sono offerte dallindustria possibilit di lavoro ben
remunerato, Lisetta Carmi smette di fare la fotografa.
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!"#$%&'!"()*+,-.,/001 3%'"4'3"## "5#" 617.81 !"
Elisa Baldini In ordine sparso: Post mortem, Lillusionista,
Lourdes, Perdona e dimentica, La bocca del lupo
Alberto Barbera Lo zio Boonmee che ricorda le vite pre-
cedenti, Noi credevamo, Le quattro volte, The Social
Network, Avatar
Francesca Betteni-Barnes D. Bright Star, Luomo nel-
lombra, The Social Network, Le quattro volte, Lo zio
Boonmee che si ricorda le vite precedenti
Pier Maria Bocchi In ordine alfabetico: The Box,
Inception, Paranormal Activity, Il profeta, Luomo nel-
lombra
Chiara Borroni Le quattro volte, Somewhere, Lo zio
Boonmee che ricorda le vite precedenti, Pietro, Post mortem
Gianluigi Bozza Uomini di Dio, Noi credevamo, Il tempo
che ci rimane, Post mortem, Animal Kingdom
Paola Brunetta Bright Star, Il profeta, Oltre le regole,
Somewhere, Lourdes
Francesco Cattaneo Bright Star, Luomo che verr,
Somewhere, Lamore buio, Inception
Massimo Causo Avatar, Lo zio Boonmee che si ricorda
le vite precedenti, Gli amori folli, Inception, La bocca del
lupo
Carlo Chatrian In ordine sparso: Noi credevamo, Toy
Story 3, Le quattro volte, Uomini di Dio, Luomo nellom-
bra
Roberto Chiesi In ordine alfabetico: Gli amori folli, Il
profeta, Uomini di Dio, Luomo nellombra, Lo zio
Boonmee che si ricorda le vite precedenti
Andrea Chimento Inception, Toy Story 3, Lillusionista,
Perdona e dimentica, The Social Network
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I MIGLIORI DEL 2010
secondo i collaboratori di Cineforum
!"#$!#%!&'()* &,%"-%&"## ".#& /01*20 !#
Ermanno Comuzio In ordine alfabetico: Il concerto, Noi
credevamo, Le quattro volte, Una sconfinata giovinezza,
Uomini di Dio
Jonny Costantino A pari merito: Post mortem, Lo zio
Boonmee che si ricorda le vite precedenti, Perdona e
dimentica, Il profeta, Lourdes
Emilio Cozzi Luomo che verr, Inception, Il profeta,
Scott Pilgrim vs The World, Departures
Giorgio Cremonini Gli amori folli, Shutter Island, Il con-
certo, Agor, Alice nel paese delle meraviglie
Marco Dalla Gassa A pari merito: Uomini di Dio, Noi
credevamo, Luomo che verr, Lo zio Boonmee che si
ricorda le vite precedenti, La bocca del lupo
Lorenzo Donghi Copia conforme, Il profeta, Post mor-
tem, Il tempo che ci rimane, Pietro
Simone Emiliani Avatar, Invictus, Lillusionista, Il
tempo che ci rimane, Il profeta
Bruno Fornara Fantastic Mr. Fox, Toy Story 3, The
Social Network, Il tempo che ci rimane, Le quattro volte
Giampiero Frasca Inception, poi, a pari merito: La prima
cosa bella, Avatar, Precious, The Social Network
Giuseppe Imperatore In ordine alfabetico: Lourdes, Post
mortem, Il profeta, Le quattro volte, Toy Story 3
Lorenzo Leone Il tempo che ci rimane, Post mortem,
The Social Network, Il profeta, Soul Kitchen
Fabrizio Liberti Departures, Lillusionista, In un mondo
migliore, London River, Uomini di Dio
Nuccio Lodato Luomo che verr, Le quattro volte,
Pietro, La bocca del lupo, Noi credevamo
Pierpaolo Loffreda In ordine alfabetico: Avatar, Non
ancora domani (La pivellina), Post mortem, Il profeta,
Shutter Island
Luca Malavasi In ordine sparso: Lourdes, Il profeta,
Perdona e dimentica, Post mortem, Inception
Alessandra Mallamo In ordine sparso: La bocca del lupo,
Luomo che verr, La Nana, Uomini di Dio, Tra le nuvole
Roberto Manassero Post mortem, Il profeta, Inception,
Lo zio Boonmee che ricorda le vite precedenti, Fantastic
Mr. Fox
Anton Giulio Mancino Invictus, Le quattro volte,
Luomo nellombra, Lillusionista, Tra le nuvole
Mattia Mariotti Le quattro volte, Post mortem,
Lillusionista, Somewhere, Il profeta
Emanuela Martini In ordine di uscita: Luomo nellom-
bra, Fantastic Mr. Fox, Le quattro volte, Noi credevamo,
The Social Network
Tullio Masoni Lourdes, Noi credevamo, Luomo nellom-
bra, Gli amori folli, Luomo che verr
Emiliano Morreale Lo zio Boonmee che ricorda le vite
precedenti, Le quattro volte ex/aequo con La bocca del
lupo, Lillusionista, The Social Network
Alberto Morsiani La Horde, Post mortem, Lultimo
dominatore dellaria, Animal Kingdom, Lo zio Boonmee
che ricorda le vite precedenti
Alberto Pezzotta Basilicata Coast to Coast, La pecora
nera, Pietro, Sorelle Mai, Luomo che verr
Adriano Piccardi In ordine alfabetico: La bocca del lupo,
Lourdes, Pietro, Le quattro volte, The Social Network
Nicola Rossello Il profeta, Il padre dei miei figli,
Lourdes, Uomini di Dio, Incontrerai luomo dei tuoi sogni
Angelo Signorelli Luomo che verr, Le quattro volte,
Bright Star, Nord, Lourdes
Fabrizio Tassi Lo zio Boonmee che si ricorda le vite pre-
cedenti, Luomo che verr, Invictus, Avatar, Fantastic Mr.
Fox
Paolo Vecchi In ordine sparso (pi o meno): Noi credeva-
mo, La bocca del lupo, Le quattro volte, Luomo nellom-
bra, Uomini di Dio
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I CINQUE FILM PI SEGNALATI SONO:
Le quattro volte (16)
Il profeta (15)
Post mortem (14)
Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (12)
Uomini di Dio (10)
!"#$!#%!&'()* &,%"-%&"## ".#& /01*20 !&
Per Carlo Ginzburg Ivan Groznyy (Ivan il terribile,
1944) di Ejzenstejn potrebbe esser considerato una
fonte storica sulla Russia del Cinquecento solo se nel
3001 tutte le altre fonti fossero distrutte; ma nel 2010
dobbiamo considerarlo un documento sulla Russia di
Stalin nellera in cui abbiamo introiettato la caduta
del muro di Berlino e la condanna dei gulag (e diver-
so sarebbe se fossimo nellItalia del 1948 o spettatori
sovietici nel 1944). Se tutte le fonti sul Risorgimento
fossero scomparse, quale dei centosei film con sogget-
to risorgimentale girati in Italia dal 1905 al 2010 sce-
glieremmo per meglio rappresentarlo? Per decidere
dovremmo avere in testa un modello storiografico con-
siderato corretto in un momento in cui, tra laltro, la
memoria identitaria messa fortemente in crisi e la
nostra rete interpretativa ha introiettato il
Risorgimento cinematografico di Blasetti, di Visconti,
dei Taviani, della fiction televisiva, e di History
Channel. Sceglieremmo il nostro film-documento
non solo in base alla pi aderente interpretazione
storiografica ma anche a un immaginario e a una stra-
tificazione del fenomeno visivo.
Dunque meglio Visconti o Lizzani, Argento o
Blasetti, Martone o i Taviani? Nessuno, perch i film
non sono mai (e solo nellipotetico caso ricordato da
Ginzburg) una fonte sul Risorgimento, ma del presen-
te in cui quel determinato film stato girato. Si deve
perci riformulare la domanda chiedendoci quale rap-
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CINEMA E RISORGIMENTO
SAGGI
VIVA L ITALIA
Giuseppe Ghigi
Viva lItalia! (1960) di Roberto Rossellini
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presentazione del Risorgimento viene data dai film,
qual il rapporto con il loro tempo, che tipo di image-
rie costruiscono, e con che apparati culturali, ideologi-
ci e iconografici sono stati e sono oggi accolti.
Partiamo dallultima questione prendendo in conside-
razione il finale di 1860 (1934) di Blasetti, allorch
dai campi vittoriosi di Calatafimi la dissolvenza ci
porta al Foro Italico (allora Foro Mussolini) di Roma
dove un manipolo di camicie nere sfila davanti a un
drappello di vecchi reduci garibaldini. Uno spettatore
italiano del 1934 e uno del 2010 percepiscono
entrambi lintenzione del regista di dare continuit a
Risorgimento e Fascismo facendo di questultimo la
logica conclusione di un processo storico. Nel primo
caso, per, probabile che lo spettatore introietter
linterpretazione come la corretta visione del fenome-
no storico (o almeno cos il regime e il regista sperano
accada). Nel secondo, ammettendo un recettore colto,
quel finale sveler la visione strumentale e pedagogica
della Storia dellapparato politico-registico-ideologico
del regime fascista. Nel primo caso il film forma, nel
secondo ci informa; nel primo caso il visibile produ-
ce o programmato per produrre consenso, nel
secondo ci manifesta le pratiche del consenso; ne con-
segue che la funzione dei meccanismi che fanno dei
film delle pratiche significanti non vada mai isolata
dalla configurazione ideologica, politica o dellam-
biente sociale in cui si inserisce.
Prendiamo un altro esempio: quando usc nel 1952
La pattuglia sperduta di Piero Nelli, Guido Aristarco
scrisse: La tendenza ai simboli, a dare del 49 unin-
terpretazione drammaticamente moderna, conduce il
regista a identificare il Risorgimento con la
Resistenza (1). A sette anni dalla fine della guerra un
critico militante di sinistra vede nel film analogie che
cinquantanni pi tardi alcuni giovani critici non
vedono considerandolo soprattutto un film pacifista:
Lenfasi nazionalistica lascia il posto a una visione
dimessa e umanizzata, pi aderente alla dimensione
psicologica delle persone comuni, con pochi riferimen-
ti essenziali al dibattito politico dellepoca [corsivo
(1) Guido Aristarco, La pattuglia sperduta, Cinema Nuovo, anno
III, n. 41, 15 agosto 1954.
(2) Renzo Fiammetti, Claudio Recupito, Paolo Cirri, La pattuglia
sperduta. Risorgimento e storia fra cinema, televisione e letteratura
nellopera di Piero Nelli, Interlinea, Novara 2004, p. 12.
In queste due pagine, 1860 (1934) di Alessandro Blasetti
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nostro] (2). La fluttuazione storica dello sguardo fa s
che i film non parlino solo al loro presente ma anche
al nostro.
tuttavia difficile valutare limpatto del discorso fil-
mico risorgimentale sul pubblico del proprio tempo,
poich esistono solo accenni quando, nel periodo del
muto, alla critica si aggiungevano notazioni di crona-
ca. A proposito di La lampada della nonna di Luigi
Maggi (1913), Gaspare Campagna scriveva: [] il
pubblico, accorso numeroso, ha applaudito con vivo
entusiasmo i vari fatti darme in essa svolti e soprat-
tutto quando i nostri gloriosi bersaglieri si diedero
allattacco del nemico, vincendolo. Allora fu un grido
unanime di Viva lItalia, Viva i bersaglieri che pro-
ruppe spontaneamente dal petto di tutti gli spettatori
(3). E un certo M. Rosa ci informava che a Roma la
Questura ha proibito dopo la seconda sera, la proie-
zione della film: La lampada della nonna. La decisio-
ne della Questura di Roma basata sul fatto che il
pubblico che affolla il Teatro Costanzi, prorompe in
sonori fischi alla vista delle milizie austriache (4). Nel
dicembre del 1915, a sei mesi dallentrata in guerra, la
proiezione in un cinema di Bologna di I martiri di
Belfiore di Alberto Carlo Lolli viene cos accolta: II
pubblico ha seguito il succedersi dei diversi quadri
con vivo interessamento, trepidando dorgoglio per i
nostri eroi, dindignazione e di raccapriccio per
Iodiato oppressore, e se non sono mancati gli applau-
si allindirizzo degli attori che hanno riprodotto le
figure dei Martiri, i fischi e altri suoni innominabili
hanno accolto la comparsa sullo schermo di Radetzky
e del Krauss, raggiungendo la massima intensit nella
caratteristica scena in cui lImperatore firma la nota
Condanna (5).
Con lentrata in guerra il pubblico rispondeva coe-
rentemente alle probabili intenzioni della configura-
zione ideologica e produttiva del tempo che intendeva
solleticare il patriottismo antiasburgico, oppure sfrut-
tava questo comune sentire popolare per ragioni
meramente commerciali: Scoppiata la guerra, ognuno
ha voluto sfruttare il momento e mettere fuori la sua
film patriottica (6) notava Il Rondone a proposito
del Silvio Pellico di Livio Pavanelli. La scarsit din-
formazioni sulla risposta diretta del pubblico costrin-
ge allanalisi di una fonte mediata: le recensioni, gli
studi critici, i dibattiti che in alcuni casi hanno sorpas-
sato la pura cornice filmica. Si tratta di letture del
documento filmico che possono rivelare alcuni piani di
mediazione tra il film e la loro cornice perch, di fatto,
i critici trattengono e costruiscono un discorso con
una molteplicit di referenti e cos facendo aprono a
una visione che supera i confini del film stesso diven-
tando un documento del presente.
Nelle recensioni del periodo 1905-15 troviamo alcu-
ni assunti ricorrenti: lencomiabile significato patriot-
tico del film, il sentimento altamente popolare, la
necessit della memoria del Risorgimento in tempi di
dimenticanza, la commozione nel rivedere i nostri
vecchi quando per lUnit dellItalia mettevano tran-
quillamente a repentaglio la propria vita, leroismo
popolare. Limmagine che piace di pi quella della
partecipazione interclassista, e soprattutto dei ceti
sociali pi bassi, alle guerre dIndipendenza unita a un
nazionalismo sui generis. La societ post-umbertina,
ancora legata sentimentalmente alle passioni e ai fatti
risorgimentali, ha difficolt a coniugarsi con il prag-
matismo giolittiano e si rifugia in un ieri pieno di
motivazioni ideali. I ceti medi allavanzare dellinter-
nazionalismo socialista rispondono con il nazionali-
smo patriottico; scrive A. Berton a proposito di La
campana della morte (1913) dellAmbrosio: Ed
bene che siano ricordati in questi tempi, in cui una
malintesa reazione tenta spegnere nellanima della
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(3) Gaspare Campagna (corrispondenza da Alessandria dEgitto),
La Vita Cinematografica, Torino, 15 luglio 1913.
(4) M. Rosa, in Il Maggese Cinematografico, anno I, n. 10, 10 set-
tembre 1913.
(5) Bruno, in Film, Napoli, 17 dicembre 1915.
(6) Il Rondone, in La Vita Cinematografica, Torino, 7-15 gennaio 1916.
!"#$!%&'($)*)+ -.*/+-*+ (0&"%&("## "1#! 2+3*4+ !!
giovent italiana qualsiasi ideale patriottico; in questi
tempi in cui degli arruffapopoli, abbandonata la stri-
glia, trasformati in tribuni a stipendio fisso, predicano
giovani lideale del truogolo e della suburra interna-
zionale (7).
Andiamo al testo primario, ai film. I primi raccon-
ti cinematografici risorgimentali, realizzati tra il
1905 e lentrata in guerra nel 1915, cercano proba-
bilmente di soddisfare principalmente il livello sco-
pico di un pubblico molto primitivo cinematografi-
camente e a cui bisognava raccontare storie sempli-
ci e narrare fatti possibilmente conosciuti ma poi
romanzati e resi appetibili con trame o sottotrame
sentimentali, spionistiche o avventurose. Celebrare il
Risorgimento cosa buona ma sempre con occhio
attento ai costi e soprattutto ai ricavi. E i ricavi
aumentano se si rispetta il gusto del pubblico popo-
lare che frequenta i cinematografi dinizio secolo; ed
a questo che probabilmente dobbiamo film nei
quali gli eroi sono popolani, pescatori e bambini
come la patriota Carmela di La campana della morte
(1913), la Carola di Il campanile della vittoria
(1913) di Aldo, la coraggiosa nonna di La lampada
della nonna (1913) di Luigi Maggi. Al pubblico
popolare piaceva certamente Garibaldi, ma molto di
pi piacevano le storie di eroiche gesta, magari
anche un po piagnucolose, compiute dal basso, dalla
gente qualunque. Sono film che non si pongono di
certo consapevolmente un fine ideologico o pedago-
gico particolare e il cui progetto ha fini pi banal-
mente produttivi e commerciali. Ci non toglie tutta-
via che, volutamente o meno, questi film contribui-
scono anchessi a costruire una imagerie del
Risorgimento come dinamica di un popolo che com-
batte contro lodiato invasore dipinto sempre come
crudele, tirannico e violento.
La rappresentazione del Risorgimento come lotta
del popolo italiano contro i cattivi austriaci o bor-
boni si radica cos fortemente da diventare parte di
una memoria condivisa. Il Risorgimento non visto
come un complesso processo di unificazione e di tra-
sformazione della struttura istituzionale e sociale del
Paese, piuttosto prevalentemente come processo di
liberazione dallodiato nemico straniero. Il cinema
contribu in modo esplicito, anche se forse inconsa-
pevolmente, a costruire questo paradigma interpre-
tativo che si sedimenta fortemente nellimmaginario
autoriale e collettivo. Lo si ritrova nel periodo fasci-
sta, in particolare in 1860, e si rimodella curiosa-
mente nel cinema resistenziale del secondo dopo-
guerra che contrappone gli italiani (pi che i parti-
giani) ai tedeschi. Non tanto, come si volle storiogra-
ficamente, perch la Resistenza veniva considerata
secondo Risorgimento (tale interpretazione si forma
pi lentamente), quanto pi semplicemente a causa
di un modello cinematografico funzionante, facile e
ben accetto da un pubblico che non avrebbe visto
con favore film pi complessi e variegati. Nei film
resistenziali come nei film risorgimentali molte dina-
miche sembrano somigliarsi: le contraddizioni sono
eluse; da una parte ci sono gli italiani, dallaltra gli
invasori; c la lotta di liberazione (e mai di conqui-
sta) e gli stranieri che occupano il nostro Paese. Il
tradizionale dualismo di buoni e cattivi un pilastro
narrativo del cinema popolare che funziona assai
meglio di qualsiasi raffinata distinzione che si unisce
a una memoria storica che voleva un Risorgimento
semplice e semplicistico fatto di un mitico Garibaldi,
di italiani che languono nelle prigioni nemiche, di
piccoli e grandi eroi che muoiono per fare lItalia,
di un re che si fa carico di unire le forze popolari per
condurre a buon fine lunificazione.
Nel periodo fascista le mediazioni tra apparato
ideologico-politico e cinema risorgimentale diventa-
no molto pi complesse. Lautolegittimazione del
regime fascista si costruiva attorno alla tesi conti-
nuista di Gentile: il fascismo non rappresentava la
rottura del cammino dello spirito, come voleva
Benedetto Croce, bens era lo sviluppo necessario del
processo storico italiano. Non era una tesi condivisa:
vi era chi vedeva nel fascismo lelemento di rottura
con il passato, la rivoluzione, lincedere della moder-
nit (vedi Curzio Malaparte e Mino Maccari). La
produzione culturale rifletteva questa incerta identi-
t ideologica: la condanna del liberalismo panciafi-
chista, borghese e pantofolaio si accompagnava
allesaltazione del Risorgimento che pure fu un feno-
meno liberale. Del Risorgimento, per, si mettevano
in risalto laspetto patriottico, populista, e legalita-
rio; Garibaldi il perno del discorso. Eroe popolare,
capace di unire gli italiani attorno a unidea di
patria e di vincere contro un esercito organizzato, e
nello stesso tempo rispettoso della corona, Garibaldi
il vero deus ex machina della Nazione. Per un regi-
me che amava le divise irregolari, le camicie nere,
appunto, unicona con la sua divisa inusuale: il
poncho, la cavalla bianca, la camicia rossa. Il
Risorgimento per il fascismo non fu il processo sto-
rico attraverso il quale la borghesia, le lite del
paese, costruiscono il suo potere, bens un fenomeno
interclassista, vissuto da tutto il popolo, e dalle
masse rurali in particolare, in nome della Patria, del-
lunit nazionale, della concordia. Ufficialmente il
Risorgimento si ufficializza politicamente nel giu-
gno del 1932, allorch Mussolini stabilisce che il
processo di unificazione italiana costituisce latto
della rinascita del Paese che ha il suo compimento
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(7) A. Berton, in II Maggese Cinematografico, Torino, n. 2, 25 gen-
naio 1914.
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nel fascismo. Non propriamente la pace con la bor-
ghesia panciafichista che resta, a parole, obiettivo
polemico del populismo mussoliniano; piuttosto
un puro atto di cooptazione storiografica. Dal 1932
la cinematografia di regime pu permettersi una
maggiore libert di intervento; tuttavia, anche prima
di questa data, tra il 1922 e il 1927, il cinema italia-
no porta sullo schermo vicende e personaggi risorgi-
mentali. Il che suggerisce cautela nellaccostare pro-
getti politici, posizioni storiografiche, e produzione
culturale e spettacolare: i rapporti sono complessi, le
mediazioni molte. Eppure un filo esisteva: vero che
il Risorgimento non era ancora stato metabolizzato
dalle varie componenti ideologiche del fascismo, ma
il regime, nei primi anni di vita, ha bisogno di legit-
timazione e di consenso, e di mostrare di essere la
logica e coerente conclusione di un ciclo storico.
Il grido dellaquila (1923) di Mario Volpe in que-
sto senso uno dei primi esempi del rapporto tra le
esigenze di legittimazione del regime e produzione
cinematografica. Non un film propriamente risor-
gimentale, ma il Risorgimento un riferimento ben
presente. In primo luogo la scelta del periodo: il
biennio rosso, anni in cui il movimento fascista
esprime una pratica politica violenta e sovversiva. Il
fascismo-regime non gradir riportare troppo alla
luce questa fase della sua storia (si parler generica-
mente di martiri del fascismo), e il cinema dovr
dare una giustificazione della necessit inderogabile
della violenza rivoluzionaria: le camicie nere non
lavrebbero voluta, ma i sovversivi la impongono.
Nel film di Volpe la continuit storica tra fascismo e
Risorgimento incarnata dallex garibaldino
Pasquale che si decide a combattere i sovversivi e a
marciare su Roma assieme alle camicie nere. Una
didascalia spiega: lepopea garibaldina si riaccende
con Pasquale in mezzo alle camicie nere. Alcuni fla-
shback confermano: i garibaldini che vanno allat-
tacco, i bersaglieri che, nel 1870, attraversano un
ponte di Roma e sullo stesso ponte vediamo passare
le camicie nere nel 1922: O Roma o morte. Senza
soluzione di continuit. Il continuismo storico del
film ha caratteristiche diverse da quello degli anni
Trenta: il Risorgimento, in questo caso, serve a giu-
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Senso (1954) di Luchino Visconti
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stificare le violenze squadriste, non ancora coopta-
zione. Pasquale ha usato la sciabola garibaldina
contro i Borboni e il manganello contro i comunisti.
Anche in Un balilla del 48 (1927) di Umberto
Paradisi assicurata la continuit (fin dal titolo) fra le
imprese eroiche di un ragazzino mazziniano e le azio-
ni della giovent fascista. Che il fine pedagogico del
film fosse questo dimostrato dalle reazioni della cri-
tica: Paradisi [ha] trattato italianamente e da ottimi
patriotti il tema, raggiungendo efficacemente il fine
propostosi, che era quello di incorniciare in uno stes-
so quadro le due epiche et gloriose: la vigilia del
Risorgimento e la restaurazione dellItalia imperiale, a
opera del Fascismo e del suo Duce, scrive un anonimo
recensore su LUnione Sarda (8). Negli anni Venti il
cinema cerca di introiettare il Risorgimento nel fasci-
smo salvandone laura rivoluzionaria, quindi cercando
di mettere assieme la posizione di Gentile con quella
di Maccari. In I Martiri dItalia (1927) Domenico
Gaido cerca di stabilire la continuit nellottica del-
lattivismo e dello slancio rivoluzionario, nel privilegio
dellazione sulla mediazione. La critica recepisce il
messaggio: LOttocento fu il secolo dellUnit dItalia,
rinsaldatasi in un infrangibile blocco dacciaio negli
avvenimenti di ieri: 1915-18 e 1922: quarta guerra
dIndipendenza, Marcia su Roma, avvento del
Fascismo (9).
Verso la fine degli anni Venti, la posizione ufficiale
del fascismo inizia a stabilizzarsi. In Il piccolo
Decamerone Fascista di Luigi di San Giusto del
1928, il Risorgimento non ha nulla a che fare con la
rivoluzione borghese e liberale: qualcosa che sale
dalle profondit della stirpe, lurgenza arcaica della
razza italiana, una rivoluzione popolare, interclassi-
sta, che unisce il Nord al Sud in un comune sentire
contro i parolai borghesi che dividono il Paese. Nel
1933 Mussolini detta la linea e 1860 di Blasetti la tra-
duce nel suo film il cui scopo : Evocare latmosfera
del 1860 per molti aspetti simile a quella del 1920-
1922. Torrenti di chiacchiere, torre di Babele politica,
incoscienza della immanente rovina di ogni possibilit
di unione della Patria. Nuclei isolati di patrioti e di
ribelli muti, decisi, votati alla morte resistono nella
fiducia di un Uomo che convoglier le loro forze e altre
ne attirer fatalmente quando porter la realt politi-
ca attuale dal campo della discussione a quello del-
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Il brigante di Tacca del Lupo (1952) di Pietro Germi
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lazione (10). LItalia risorgimentale che d fiducia a
un uomo la stessa Nazione che ha dato fiducia a
Mussolini; un Paese travolto dal chiacchiericcio poli-
tico, dalle contrapposte e paralizzanti fazioni partiti-
che che impediscono la riunificazione nazionale cos
come il biennio rosso del dopoguerra aveva, per
Blasetti, portato lItalia nel caos. Ci voleva un uomo
con la U maiuscola capace di convogliare le forze pas-
sando dalle parole ai fatti. Questo Uomo si chiamava
Garibaldi e si chiama Mussolini.
Caduto il fascismo, il primo cinema repubblicano,
dopo una serie di prodotti oleografici e mitologici
sul Risorgimento, legge i Quaderni dal carcere di
Gramsci (pubblicati tra il 1948 e il 1951), introietta
Neorealismo e cinema hollywoodiano, e risente, dopo
il 1948, del peso della sconfitta resistenziale. Nel 1952
Camicie rosse di Alessandrini offre unepopea nazio-
nal-popolare fatta di onorevoli sconfitte e lesaltazione
dellirregolarit delle formazioni garibaldine. Il rac-
conto della sconfitta del progetto rivoluzionario riflet-
te il clima di sconfitta che, nel 1952, regnava tra le
forze che avevano sperato in un radicale cambiamen-
to politico (tra gli sceneggiatori cerano Renzi e
Serandrei). Sempre nel 1952 escono La pattuglia sper-
duta di Nelli e Il brigante di Tacca del Lupo di Germi,
che segnano un punto di svolta nel racconto risorgi-
mentale. Il film di Germi, che coniuga il western al
clima del Meridione italiano, non lascia spazio n alla
celebrazione sabauda (i bersaglieri sono l solo come
forza antagonista per il dominio del territorio), n a
quella marxista, che vorrebbe spiegato il brigantaggio
come fenomeno derivato dalla mancata politica meri-
dionale dello Stato unitario. Il Nazzari-Giordani, capi-
tano dei bersaglieri alla Henry Fonda, l animato
solo dal desiderio di obbedire a un ordine pi che a
portare giustizia e libert: il suo pi rispetto delle
norme extrasoggettive della legge che decidono a chi
deve appartenere uno spazio e le regole a cui sotto-
messo.Vincono i sabaudi perch pi forti, pi spregiu-
dicati, perch hanno dietro di loro il potere e attorno
a loro si muove un mondo imbelle e inerte. Lassenza
di giudizi e di pedagogia identitaria cost al film la
condanna del tempo, ma a distanza esso si rivela
molto pi lucido di tante corrette rappresentazioni
del Risorgimento.
La pattuglia sperduta la storia di una pattuglia di
soldati sabaudi che si perde tra le campagne durante
la battaglia di Novara nel marzo del 1849. Perch
sono l, che cosa rappresenta per gli otto della pattu-
glia il Risorgimento? Dicono che se vinceremo la
guerra, il re far fare una ferrovia. Questo vuol dire
lavoro, dice uno. Dopo la guerra voglio scendere a
Torino; dicono che l c lavoro per tutti nelle fabbri-
che, dice un altro. Non parlano di Patria, di sentimen-
ti patriottici, di ideali liberali, ma di unItalia unita che
dia possibilit di lavoro. Nelli ha lo sguardo puntato al
1945 pi che al 1849, a un Risorgimento che avrebbe
dovuto venire incontro ai problemi sociali pi che a
unificare meramente uno spazio geografico-politico, e
forse a una Resistenza che non stata in grado, nono-
stante il valore eroico di chi lha combattuta, di soddi-
sfare questi bisogni. Il film, non a caso crediamo, si
chiude sul campo di battaglia di Novara, tra cadaveri
e macerie: le speranze di costruire un nuovo Paese
dovranno ancora aspettare.
Sempre di quegli anni (la datazione esatta incerta),
Alberto Moravia scrive un soggetto sulla vita di Silvio
Pellico che riflette le posizioni storiografiche e gli
atteggiamenti ideologici della sinistra del tempo: un
film sul Risorgimento deve mostrare che i problemi
dei liberali ottocenteschi non furono diversi dai
nostri; essi dovettero affrontare le stesse oppressioni,
le stesse polizie, la stessa indifferenza, le stesse carce-
ri, gli stessi supplizi e questo perch pubblico deve
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(8) Anonimo, in LUnione Sarda, Cagliari, 23 maggio 1927.
(9) G. Feraci, in La Vita Cinematografica, Torino, 1 aprile 1927.
(10) Alessandro Blasetti, Confidenze di Blasetti, La Stampa, 23
maggio 1933.
Senso (1954) di Luchino Visconti
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rendersi conto, dopo ventanni di fascismo, quanto sia
duro e difficile lottare per la libert e quanto sia pre-
ziosa la libert stessa. Nel Risorgimento, nel
Fascismo, e nella Resistenza ci sono stati uomini one-
sti che hanno combattuto per la libert affrontando le
stesse carceri e spesso sono stati perseguitati dai loro
fratelli (vedi Rsi?). Cambiano motivazioni e cornici,
ma il continuismo storico permane a fini pedagogici e
politici.
Pi complesso, e sufficientemente indagato, il caso
Senso (1954) di Visconti. Ci limitiamo qui ad alcune
osservazioni. Boito, come del resto il Verga di Libert
e Camerati, esprimono nei loro racconti la negativi-
t dellillusione risorgimentale e il senso di disfaci-
mento e di grigiore esistenziale forse metafora del
mancato rinnovamento postrisorgimentale. Anche se
prevale nel film di Visconti il racconto della fine di
unepoca e di una classe, almeno nelle intenzioni del
regista vi la volont di creare un parallelo con lItalia
post-resistenziale, con la crisi sociale e politica del
dopoguerra italiano. In Senso, dice Visconti c la
materia per fare un discorso agli altri: per quelli che
vogliono capire e anche per quelli che fingono di non
capire. Anche se nel 1866 la gente vestiva in maniera
diversa, i problemi, le situazioni non cambiano. Il
mancato rinnovamento risorgimentale fa il paio con
quello resistenziale. Interessante, a riguardo, un
brano tagliato a causa di un pesante intervento censo-
rio dellallora Ministro della difesa, il democristiano
Giuseppe Ermini. La scena mostra Ussoni che cerca di
difendere il valore e limportanza delle formazioni
volontarie combattenti (il riferimento e il parallelismo
alle formazioni partigiane assolutamente evidente)
dagli attacchi politici dellesercito sabaudo.
Ussoni: Abbiamo fatto limpossibile per costituire
queste formazioni volontarie. Il loro compito di ope-
rare alle spalle del nemico, e ora lei mi dice Ma giu-
stamente si gridato ai quattro venti che tutte le forze
dItalia dovevano prendere parte alla guerra. Abbiamo
risposto allappello. Abbiamo dato un contributo
superiore a ogni aspettativa. Capitano Meucci:
Capisco la sua preoccupazione. Daltro canto, lei sa
meglio di me che le guerre si combattono con un eser-
cito fedele, saldo, compatto. Ussoni: Lordine che lei
mi ha trasmesso rispecchia la ripugnanza di tutto
lesercito, a cominciare dal signor generale
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Il Gattopardo (1962) di Luchino Visconti
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Lamarmora, per le forze rivoluzionarie. chiaro che si
vogliono escludere queste forze dalla guerra.
A nove anni dalla fine della guerra il centrismo
democristiano sembrava indissolubile e le vie italiane
al socialismo lontane; in quel 1954 muore Stalin e di
l a poco vi sar il ventesimo congresso del Pcus e i
moti dUngheria: per gli intellettuali di sinistra non
tempo di fanfare o di consapevolezze fiduciose per un
futuro migliore, ma di ripensamenti, di chiusure
coscienziali, di riletture del passato per cercare di
capire quali contraddizioni impediscono o hanno
impedito allItalia un regime sociale diverso.
Dopo Senso, bisogna aspettare il 1960 per ritrovare
un nuovo film sul Risorgimento. In quellanno,
Rossellini firma Viva lItalia! la cui sceneggiatura
affidata a un team da compromesso storico:
Antonello Trombadori, Sergio Amidei, Diego Fabbri,
Antonio Petrucci. Rossellini, avviandosi verso la sua
stagione didattica, crede di aggirare gli scogli storio-
grafici, politici e ideologici sedimentati sul
Risorgimento mettendo in scena luomo Garibaldi
seguendo un resoconto veritiero dei fatti e fornendo
allo spettatore dati essenziali dellaccaduto in forma
didascalico-spettacolare-documentaristica. Se vero
che nel film si vede un Garibaldi con i reumatismi e le
pantofole, non si toglie tuttavia lEroe dei Due Mondi
dalla solita oleografia. Viva lItalia! non n una nar-
razione storico-critica, n una semplice cronaca auten-
tica, e nemmeno un Risorgimento senza eroi di
gobettiana memoria, come forse avrebbe voluto il regi-
sta. La recensione di Guido Fink si diverte a ritrovare
nel film i do ut des di sceneggiatura: [] si combatte
il mito del Risorgimento come conquista sabauda, ma
si sorvola o si equivoca volutamente sulla posizione
della Chiesa e del papato; si parla bene di Garibaldi
e male di Vittorio Emanuele Il, ma si finiscono poi
per dare tutte le colpe a Cavour, che fra laltro luo-
mo delle leggi Siccardi e della libera Chiesa in libero
Stato. [] Per quanto riguarda il resto si pu trovare
una prudente e decolorata, ma riconoscibile applica-
zione della tesi dellOmodeo, il Risorgimento come
frutto di una discordia occasionalmente concorde,
del convergere casuale di forze contrastanti (11).
Due anni pi tardi, Visconti realizza Il Gattopardo,
che conferma la difficolt di alcuni intellettuali italia-
ni di mescolare il verbo storiografico marxista alla
propria vena poetica e al proprio mondo. Nelle sue
dichiarazioni il regista si diceva convinto che il lavoro
di Tomasi di Lampedusa non fosse per nulla in con-
traddizione con la storiografia democratica e marxi-
sta, e sostiene di aver preso le mosse da Gobetti,
Salvemini e Gramsci. vero che il film si offre a una
lettura classista: la decadenza di una classe, laristo-
crazia fondiaria incapace di reggere il confronto con la
nuova borghesia, una Sicilia percorsa dai fermenti
rivoluzionari garibaldini che titillano in alcuni giovani
aristocratici il desiderio di farne parte semplicemente
perch giovani, lascesa di una classe di camaleonti
pronta a sfruttare il Risorgimento per trarne vantag-
gio e riaffermarne il potere. vero anche che il film
non epicizza la conquista dei Mille e la guarda di
sbieco, dalle finestre dei palazzi del Conte di Salina, e
vi appare solo in alcune sequenze (la presa di
Palermo) che Visconti inserisce dentro il tessuto narra-
tivo alla stessa stregua della battaglia di Custoza in
Senso: un elemento pittorico. Ma anche vero che in
primo piano appare qualcosaltro: la storia damore di
Tancredi e Angelica, il senso di morte, la mancanza di
stile della nuova borghesia, la nostalgia (di Visconti)
per un tempo che non c pi o che starebbe per fini-
re. questo proustismo viscontiano a prevalere sulla
lettura del Risorgimento come rivoluzione mancatao
tradita, come un passaggio storico del potere di una
classe a unaltra classe che modifica solo letichettae
non la sostanza dei rapporti sociali. Dunque un
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(11) Guido Fink, Il mestiere del critico, Cinema Nuovo n. 150,
marzo-aprile 1961, pp. 156-157.
Allonsanfn (1974) di Paolo e Vittorio Taviani
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Risorgimento fallito per colpa dei tanti Gattopardi ita-
liani, e dunque (e perch no?), anche una Resistenza
fallita perch malgrado qualche ammodernamento
gli aneliti di libert sono stati assorbiti e deformati.
Alla fine degli anni Sessanta, il clima politico a sini-
stra si arroventa ed preceduto da un diffuso atteggia-
mento antiborghese che contesta gli ideali, la morale,
i comportamenti della classe dominante. Registi come
Pasolini, Bellocchio, Bertolucci, Taviani esordiscono
partendo da una formazione culturale e linguistica
diversa dai padri, e sono partecipi di un dibattito
politico che orfano di Palmiro Togliatti, di un
Paese guida, lUrss, che ha ucciso i piccoli padri e
messo in crisi le speranze di un Sol dellavvenir, di
un Pci che si sente compartecipe, pur non essendolo,
del riformismo sociale. La crisi non si trasforma in
abbandono della lotta politica e artistica, ma diventa
contestazione, ricerca, costruzione di alternative, ritor-
no al mito della rivoluzione in s contro la reazione e
gli ammorbidimenti riformistici. La sinistra si lacera,
nasce un fronte politico che si definisce extraparla-
mentare che osanna la lotta di classe, il potere del
popolo, la dittatura del proletariato, la difesa delle
classi contadine e operaie. Il cinema, una parte del
cinema italiano, risente in vario modo del clima e del
dibattito che riprende in mano la storia del nostro
Paese rileggendola in chiave fortemente classista.
in questottica che il Risorgimento la nascita di una
Nazione che non ha risolto i problemi del Sud, che tra
rivoluzione e reazione ha preferito la seconda lascian-
do inalterati gli equilibri a favore dellaristocrazia e
della borghesia terriera a scapito dei contadini e delle
masse popolari. Il dibattito si concentra sui temi del
rapporto tra rivoluzione e riformismo, tra modificazio-
ne radicale del presente e mediazioni e compromessi
con le possibilit di trasformazione.
Significativo a proposito Bronte: cronaca di un mas-
sacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972)
di Florestano Vancini. Il sottotitolo del film indicativo
sia nei termini cronaca e massacro che nel concetto
che vi sottinteso, e cio qualcosa che si voluto
nascondere non solo a livello politico ma anche storio-
grafico. Cronaca vuol dire che si vuole non interpretare,
ma ridare fedelmentelevento; e massacro gi un giu-
dizio negativo: Bixio e Garibaldi hanno fatto molto di
pi che sedare una rivolta, hanno compiuto un atto cri-
minale. Alluscita del film nei cinema, dopo il divieto
della Rai di mandarlo in onda, le reazioni furono diver-
se: la destra grid alloltraggio alla patria; la sinistra,
soprattutto lestrema, lo accus di mostrare un popolo
violento senza coscienza sociale e politica; la destra vole-
va un Risorgimento immacolato, oleografico, deamici-
siano; la sinistra extraparlamentare un popolo che esi-
steva solo nella sua testa. Paolo Macry, rivedendo Bronte
nel 2002 nella copia restaurata, coglie nel segno quando
lo definisce un Risorgimento visto con la lente del
Sessantotto: [] il ricordo del 1968 si confonde conti-
nuamente con la rievocazione del 1860, in un sottile e
non arbitrario gioco di rinvii. Il carbonaio Calogero
Gasparazzo (al quale gli sceneggiatori fanno dire:Santo
diavolone! E come si fa a fare la rivoluzione contro i
cappelli se chi la comanda un cappello?) un rivol-
toso del 1860 o un extraparlamentare? Limmagine del-
loperaio Gasparazzo della striscia di Lotta continua
finisce col sovrapporsi a quella del carbonaio di Bronte.
E lavvocato Lombardo sembra un rappresentante di
quella che veniva allora bollata come sinistra tradizio-
nale (12).
Nel 1974, i fratelli Taviani girano Allonsanfn. La
spinta della contestazione si attenuata, la rivoluzio-
ne sognata resta lontana, la Dc bene in sella anche se
il Pci di l a poco otterr uno dei migliori risultati elet-
torali della sua storia. il tempo delle riflessioni, dei
giudizi, e dei primi tradimenti, ovvero del comodo
ritorno nel sistema di un ceto sociale che lo aveva con-
testato. I Taviani vedono lungimirantemente qualcosa
che accadr: la Restaurazione. Guido Aristarco non
ha dubbi: il film dei Taviani condanna i tradimenti di
quegli intellettuali e di quei borghesi che nel corso di
due secoli hanno prima abbracciato la causa e poi
lhanno tradita ritornando nel comodo alveo della loro
classe; mentre per Tullio Kezich i Taviani hanno colto
un momento di riflusso della sinistra europea dopo la
caduta dei fervori bonapartisti (ma i giovani sono
autorizzati a leggere il film come una storia di oggi,
dopo il 68) (13). In definitiva, la critica del tempo, il
pubblico politicizzato, colto, percepiva nel film la con-
danna di un certo presente: il riflusso dellaristocrazia
europea veniva analogicamente assimilato al riflusso
della borghesia italiana della met degli anni Settanta
e persino al quieto riformismo del Pci.
Con Noi credevamo di Martone si chiude, per ora,
lepopea risorgimentale. Lo accompagna un clima
politico e sociale in disfacimento e il nostro sguardo ne
assume i paradigmi: vi gi nel Dna della nascita della
Nazione tutta la strutturale debolezza di una classe
che ha accolto, favorito, e acclamato Berlusconi, ma
anche un orizzonte internazionale. Dopo l11 settem-
bre, dichiara Martone riflettendo sul rapporto fisio-
logico tra terrorismo e lotta per lidentit nazionale,
mi chiedevo: com possibile che il nostro Paese, che
ha cos a lungo combattuto per la sua indipendenza,
non abbia conosciuto niente del genere?. Tra dieci o
ventanni la fluttuazione dello sguardo potr leggervi
qualcosa del nostro presente.
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(12) Paolo Macry, Il massacro visto dal Sessantotto, Il Corriere della
Sera, 23 gennaio 2002.
(13) Giovanni Grazzini, Allosanfn, Gli anni Settanta in cento film,
Laterza 1976, p. 251.
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E ferva pure lallegra giovinezza
presso la soglia della sepoltura,
e risplenda dintorno la natura
indifferente nella sua bellezza!.
(Aleksandr Puskin, Quando vado errando per chiassose
vie, 1829)
1. Scritto nella primavera del 1945, il saggio La
natura non indifferente costituisce per Sergej M.
Ejzenstejn (1898-1948) il culmine di una riflessione
pi che ventennale sul film muto come costruzione
plastica autonoma fondata essenzialmente sul mon-
taggio: un vero e proprio contrappunto (kontra-
punkt), in senso musicale, di immagini in movimen-
to e in reciproca attrazione. I pezzi di montaggio
determinano non solo il movimento della scena ma
anche la sua musica. [] Come dallo schermo
parlaun volto muto, cos risuonalimmagine. Ed
il paesaggio a risuonare pi frequentemente:
infatti il paesaggio lelemento pi libero del film,
il meno gravato da compiti ausiliari e particolar-
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IL CINEMA E IL SUO DOPPIO
SAGGI
L ARCHITETTO, IL PITTORE E LA CENTRIFUGA
Sergio Arecco
Da pag. 63 a pag. 67: Il vecchio e il nuovo (1929) di S.M. Ejzenstejn
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mente duttile per la trasmissione di umori, stati
danimo ed emozioni. La natura non indifferente
(neravnodusnaja priroda) appunto la dicitura,
parafrasata da un verso di Puskin, atta a definire la
funzione di tale paesaggio emozionale e patetico
un pathos del tutto intellettuale, connesso con la
rappresentabilit del pensiero , frutto dello sconfi-
namento del rappresentato nella dimensione musi-
cale di uninfinita fluidit di forme: in altre parole
nella cosiddetta musica plasticao musica del pae-
saggio (muzyka pajzasa), indispensabile al cinema
muto per raccontare acusticamente ci che solo
lelemento sonoro riesce a esprimere con assoluta
pienezza.
2. Appena un anno dopo, tra il 1946 e il 1947,
Ejzenstejn, instancabile nella sua teorizzazione a
posteriori di un cinema oramai consacrato dalla sto-
ria e proprio per questo bisognoso, a suo parere, di
una consacrazione anche concettuale, capace di
determinarne in forma definitiva la genesi peculiare
e le complesse dinamiche, riarticola il tutto in un
saggio complementare, Il pathos, destinato per a
restare incompiuto e, forse a causa di tale incompiu-
tezza, costretto ahim a pagare uno scotto di subal-
ternit rispetto a La natura non indifferente.
Perch ahim? Perch proprio nel saggio Il
pathos che Ejzenstejn teorizza il cinema, inteso
come concatenazione delle costruzioni musicali e
patetiche, con il cinema stesso, suo e di altri registi,
e non con il ricorso extrafilmico ad altre arti come
la musica classica o la letteratura dei cui esempi
La natura non indifferente infarcito, con
unoverdose di critica letterario-musicale che va a
scapito di una specifica critica cinematografica. Gli
esempi addotti in Il pathos, essendo perlopi atti-
nenti allestetica del film e ai suo contrassegni spe-
cifici, risultano invece, nella loro esaustivit e rein-
venzione filmologica, un preziosissimo compendio
di loci ejzenstejniani, ripercorsi dalla memoria deco-
struzionista di chi li ha creati come altrettanti snodi
di una formalizzazione poetica e di una mentalit
estetica. A cominciare dal primo il paragrafo
introduttivo ha un titolo che gi tutto un program-
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ma: La centrifuga e il calice del Graal. Il quale,
pur mantenendo il modello di Bronenosets
Potmkin (La corazzata Potmkin, 1926) come ine-
vitabile sottofondo, punta senza mezzi termini, per
identificare il concetto di estasi plastica, a un cam-
pione della filmografia ejzenstejniana considerato
(non a torto) minore, per un intrinseco squilibrio
costruttivo dovuto ai molti ripensamenti indotti dal
Ministero della Propaganda e da Stalin in persona:
Staroe i novoe (Il vecchio e il nuovo, 1929).
Il film, iniziato nel 1926 come opera in qualche
modo propagandistica al servizio di quella mec-
canizzazione dellagricoltura invocata da Lenin,
promosso indirettamente ad autore delle didasca-
lie, quale primo passo del processo rivoluzionario
e insignito in quanto tale di un titolo spiccatamen-
te politico, Generalnaja linija (La linea generale),
viene di fatto interrotto per dar luogo a unaltra
opera di propaganda a sua volta contestata dal
regime per limpianto troppo sperimentale,
Oktjabr (Ottobre, 1928, concluso con un anno di
ritardo, per via dei contrasti interni, rispetto al pre-
visto 1927, decennale della Rivoluzione dOttobre)
e infine completato nel 1929 con un prolisso va e
vieni di sequenze prima montate al posto giusto e
poi smontate e rimontate al posto sbagliato, pro-
prio per compiacere un potere politico incline, per
la sua natura dispotica e intollerante, a esprimere
sempre e comunque disappunto per gli esiti rag-
giunti. Nel caso di Ejzenstejn, sempre e comunque
esiti di forte impatto poetico-politico e mai esclusi-
vamente politico.
3. La centrifuga. O, meglio, il pathos della centri-
fuga, o, pi in generale, il pathos della macchina,
gi rilevabile in numerose sequenze del Potmkin
non c nulla che affascini o incanti di pi il costrut-
tivista e cubofuturista Ejzenstejn, figlio darchitetto
e studente dingegneria, del funzionamento interno
di un congegno meccanico, di un macchinario indu-
striale, con la sua poesia di leve, pistoni, cilindri,
denti, ingranaggi in pulsante estasi motoria. Nello
specifico, la centrifuga, una scrematrice che trasfor-
ma il latte in panna e burro, si accende, agli occhi
eccitati del regista il quale chiama a supporto del
proprio entusiasmo gli scritti di uno storico del
cinema come Maurice Bardche di unautentica
luce interiore, quasi a sfidare il calice del santo
Graal. E le immagini di Il vecchio e il nuovo non lo
(li) smentiscono di certo, anzi traducono alla lettera
lallucinato allegorismo implicito in esse, intessuto
di lirismo dionisiaco e di frenesia orgiastica,
secondo una linea ascendente che visualizza non
solo la trasformazione miracolosa del latte in
panna e burro ma la stessa trasformazione miraco-
losa dei contadini, inizialmente scettici e sulla
difensiva, in contadini alloffensiva, definitivamente
conquistati dal prodigio della macchina. Fino
allesplosione finale, suggerita dal buon esito della
prova, visto che la scrematrice stata presentata
alla gente del kolchoz da un perito agronomo come
se fosse un oggetto misterioso, coperto alla vista da
un telo bianco protettivo, prima di essere messo
cautamente in funzione (Si condenser?, Non si
condenser?). E che funzione! Il piacere sensuale
della collettivit agricola di fronte alla crema che
zampilla come sperma e viene raccolta dalle mani
tese dei presenti stupefatti come una manna divina,
non pu vantare altra correlazione plastica, per il
metaforico Ejzenstejn, se non quella di un vortice di
fuochi dartificio, di roulettes impazzite, di potenti
getti dacqua! Con la contadina Marfa Lapkina, il
personaggio-guida del film lei che importuna
senza risultato i kulak immersi in uninerzia oblo-
moviana e scuote i compagni diffidenti con il bel
risultato della centrifuga, fino a indurli a fondare
prima una cooperativa dotata di un fondo comune e
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poi, a dispetto delle estenuanti lentezze burocrati-
che, ad acquistare un trattore e una falciatrice , che
esulta tra gli spruzzi biancolattei e richiama esatta-
mente la libido dionisiaca.
4. La fusione di rigore documentario e di poesia
costituisce una vera Georgica, e lautentico Virgilio
Ejzenstejn, Dovzenko, continua ad annotare
Bardche, includendo equamente nel paragone il
concomitante film di Aleksandr P. Dovzenko (1894-
1956) Zemlja (La terra, 1930): concomitante non
solo dal punto di vista temporale ma soprattutto
dal punto di vista tematico-ideologico, essendo
anchesso incentrato sui temi innovativi dellindu-
strializzazione delle campagne, della colpevole reni-
tenza dei kulak reazionari, delloscurantismo della
Chiesa ortodossa, della diffidenza dei vecchi conta-
dini, dellentusiasmo della nuova generazione
rappresentata dal giovane protagonista Vasilij
volta allimprocrastinabile allestimento del kolchoz
e allavvento delle macchine agricole. Quasi che, da
pittore qual (e non in pectore, pittore e disegnato-
re effettivo, in giovent), Dovzenko intenda compe-
tere con larchitetto Ejzenstejn e fornire, al posto
della sua versione arditamente ed epicamente tec-
nologica del progresso, una propria versione, lirica
e introspettiva, esistenziale ed elegiaca. Quasi che,
da paesaggista qual , cantore della fertile terra
ucraina con le sue magiche distese di campi ora
arati ora mietuti e di frutteti ora in fiore ora in
piena maturazione, intenda rispondere in concreto
non polemicamente, solo da artista antitetico per
sensibilit figurativa allastratta idea ejzensteinia-
na di paesaggio sonoro o plastico, sintesi altret-
tanto astratta del gigantesco lavoro di correlazione
emozionale delle immagini. Quasi che, da narratore
ottocentesco qual , fedele a una nozione di perso-
naggio in carne e ossa, ben individualizzato e ben
coordinato con gli altri, non meno individualizzati e
storicizzati di lui con tanto di nome, cognome e
biografia personale , intenda proporre unalterna-
tiva alla struttura la Joyce dello sperimentale e
novecentista Ejzenstejn, concertata e concentrata
unicamente su personaggi-simbolo (in Il vecchio e il
nuovo Marfa Lapkina la sola ad avere un nome,
coincidente non a caso con il nome anagrafico del-
lattrice), titolari di una singolarit formale destina-
ta a fondersi nellunisono di un tutti collettivo che
il vero asse diegetico del racconto.
5. Dovzenko lento. Ejzenstejn rock. Bardche,
questo, manca di sottolinearlo (magari con altra ter-
minologia) nella sua analisi della convergenza tra
Il vecchio e il nuovo e La terra. Ma, per parte sua,
manca di sottolinearlo anche Ejzenstejn, il quale si
avvale del discorso di Bardche per trovare soltanto
un conforto autoreferenziale; dopodich, una volta
trovatolo, lo lascia cadere, cita per contrappeso ulte-
riori articoli ammirativi del pathos della scrematri-
ce e, sulla loro scia, pur di alludere a una qualche
divergenza tra s e Dovzenko ci aspetteremmo
almeno un cenno alle opposte modalit stilistiche, a
un rilevamento dellantitesi lento/rock , incorre in
un errore o in un equivoco di memoria.
Mentre [] nella scena intorno alla centrifuga il
procedimento della composizione permise di rag-
giungere un grado di frenesia estatica talmente
intenso che leroina del film sembrava costantemen-
te sul punto di scatenarsi in una danza orgiastica,
nella prima versione del film di Dovzenko, al con-
trario, in una situazione analoga, si poteva vedere
effettivamente una contadina nuda che, strappatisi
di dosso i vestiti, si dimenava freneticamente nella
sua stanza. Questa baba svestita, come la chiama-
rono i critici, fu naturalmente accolta con una leva-
ta di scudi. Non a torto, daltronde, perch una
simile immagine [nel contesto] di un tranquillo vil-
laggio ucraino [] dava proprio limpressione di un
corpo estraneo. [] Cos linfelice baba svestita fu
tolta dal film.
vero che La terra deve vedersela con la tempe-
sta di obiezioni avanzate dalla censura sovietica, ma
non saranno le singole scene a essere incriminate:
sar contestato lintero afflato panteistico del film,
il suo simbolismo, la sua cifra morbosamente
ucraina, la sua mancanza di un disegno propa-
gandistico preciso. Secondo gli organi preposti
allortodossia ideologica, insomma, La terra
unopera nostalgica, tradizionalista, nazionalista,
colpevole di uninterpretazione ancora religiosa e
patriarcale della natura, allinterno della quale lav-
vento della macchina il trattore, come in Il vecchio
e il nuovo viene vissuto con il medesimo pathos
creaturale dellavvento di un bambino.
E il bello che proprio cos. I censori, che non
sono cos ottusi, centrano il bersaglio. Nella compo-
sizione passatista di Dovzenko non sono contempla-
te, contrariamente alla composizione modernista di
Ejzenstejn, antinomie e discontinuit tra vecchio e
nuovo. Anzi, limmanenza o permanenza del primo
nel secondo si attua attraverso il persistente anco-
raggio del futuro nel passato e attraverso la pacata
omologazione dei cicli storici ai cicli naturali. Per
cui la morte di Vasilij, lardente alfiere del nuovo,
non viene affatto attribuita alla circostanza reale in
cui matura un agguato notturno perpetrato dal
figlio dellirriducibile kulak Belokon, Choma, che
spara al rivale sia sentimentale sia politico mentre
questi torna, ebbro di gioia, da un incontro damo-
re con la fidanzata , ma alla circostanza ideale che
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ha fatto di lui il partner per eccellenza della macchi-
na, ossia del trattore da cui viene travolto: suo con-
ducente privilegiato e sua vittima predestinata.
Come si resa necessaria lurina dei contadini per
riempire il radiatore rimasto a secco (Ce la fa?,
Non ce la fa?, sulla scia dei contadini di Il vecchio
e il nuovo in apprensione davanti alla scrematrice)
e consentire al trattore di raggiungere il villaggio e
al kolchoz di avviare la sperimentazione delle coltu-
re intensive, cos si rende necessaria unulteriore
assimilazione uomo-macchina, di fatto un sacrificio
spontaneo, per naturalizzare il mezzo, umanizzarlo,
riscattarne la funzionalit meccanica in funzionali-
t biologica. Al punto da celebrare il rito collettivo
dei funerali delluomo-macchina in un tripudio
pagano della natura naturans, facendo percorrere
alla bara una specie di cammino del sole (giusto per
citare il nome dato dal perito agronomo al kolchoz
di Il vecchio e il nuovo), tra laccarezzamento dei
rami dei meli e delle foglie dei girasoli e senza la
benedizione del pope!
Che Ejzenstejn, grande anarchico e grande esti-
matore di La terra, sia tratto in inganno dallebbro
di gioia e scambi lebbro di gioia Vasilij con lebbra
fidanzata, non di gioia ma dincontenibile dispera-
zione per lassassinio dellamato? Perch non
assolutamente vero, come scrive in Il pathos, che
la sequenza orgiastica della baba svestita, cos sto-
nata per il musicale e contrappuntistico Ejzenstejn,
sia stata espunta nella seconda e definitiva versione
del film. anzi un vero godimento, per lo spettato-
re di oggi, vedere la bellissima, formosa, carnale
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Elena Maksimova dimenarsi nuda e folle in casa
sua, correndo allimpazzata da una parete allaltra,
tendendo fino allo spasimo il corpo flessuoso e
venusto, come unebbra: tragicamente ebbra del-
lamore perduto, per, delluomo-macchina perdu-
to, non della macchina zampillante latte-sperma.
Ecco. Forse qui il punto, il nocciolo dellequivoco
poich lequivoco della baba svestita sacrificata
per questioni di buon gusto molto serio, e ricalca
lerrore gi commesso da Ejzenstejn scrivendo il sag-
gio Dickens, Griffith e noi (1944), nel quale il regi-
sta si sofferma a lungo e in dettaglio sullepisodio.
Devessere il sostrato dellanalogia sessuale a intro-
durre nel teatro della memoria di Ejzenstejn
unElena Maksimova baccante per frenesia idolatrica
della macchina e non delluomo-macchina. E usiamo
il forse dal momento che tutto questo processo alle
intenzioni si regge su una svista che sta ancor pi a
monte rispetto alla svista della baba rimossa o meno:
la svista secondo la quale, a memoria di Ejzenstejn,
c stata una prima versione di La terra in cui, in
una situazione analoga a quella della centrifuga, una
donna si strappava di dosso le vesti per lebbrezza. Al
che la soluzione potrebbe essere la seguente, stante la
nostra impossibilit di accedere a una lettura della
prima versione, successivamente (forse) amputata
dellinopportuna sequenza: a Dovzenko era tanto
piaciuta lidea panteistica di una donna che danza
una danza erotica da estrapolare semplicemente la
sequenza per trasferirla in altra sede, l dove sembre-
rebbe non meno arrapante far danzare alla donna
espropriata del suo uomo una danza macabra anzi-
ch erotica non sono forse la stessa cosa, eros e tha-
natos? mentre a Ejzenstejn era talmente spiaciuta
che abbin inconsciamente la mutilazione della
prima versione del film alla mutilazione in toto della
scena sospetta (senza preoccuparsi di andare a rin-
tracciarla sotto altra veste nella versione definitiva).
6. In effetti una prima versione di La terra esi-
stita anche se dubitiamo che comprendesse una
sequenza analoga a quella della centrifuga, essendo
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La terra (1930) di A. Dovzenko
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il film focalizzato sullestasi del trattore, e non
essendo immaginabile che una donna perda la testa
davanti a un trattore, sia pure provvisto di unaura
mitologica (il centauresco uomo-trattore). E che sia
esistita provvede a ricordarcelo lo stesso Dovzenko
in Problemi di drammaturgia cinematografica
rielaborazione anchessa a posteriori, come i saggi
di Ejzenstejn, dei contenuti di unesperienza ormai
trascorsa quando, nel discettare sul passaggio dal-
lampia sceneggiatura narrativa di un film alla sua
stringatissima trasposizione filmica, esemplifica
citando proprio la sequenza notturna di Vasilij
ebbro damore (Dovzenko impiega esattamente la
parola ebbrezza) in procinto di essere ucciso dal
rivale. Solo che i tagli a cui allude Dovzenko sono
tagli dettati dalla costituzionale concisione laconi-
ca specifica del film, per sua natura, opera darte
sintetica, non tagli strutturali o materiali, dei quali
non fa parola. Non lasciando quindi supporre, per
La terra, interventi tali da alterare la fisionomia del-
lopera e non dimentichiamo che, a scrivere, un
regista senza peli sulla lingua, pronto, contempora-
neamente alla stesura di Problemi di drammatur-
gia cinematografica, a denunciare la persecuzione
stalinista nei confronti suoi e della sua opera.
7. Lestasi del trattore. In Il vecchio e il nuovo
Ejzenstejn allegorizza prima lestasi della scrematri-
ce, poi lestasi del toro di razza la seconda miraco-
losa epifania assicurata dal perito agronomo dopo
quella della centrifuga, e visualizzata questa volta,
trattandosi di un eidolon, con un pathos esoterico,
da cerimonia primitiva, consonante con quella fasci-
nazione della tauromachia che trasparir dai mate-
riali dellincompiuto Qu viva Mexico! (id., 1932)
e infine, s, lestasi del trattore, ma solamente in
extremis, e con una messa a punto quanto mai labo-
riosa, articolata su ben tre livelli di approssimazione.
Primo livello: il trattore (marca Ford, lo stesso
modello del trattore di La terra), conquistato alla
causa del kolchoz grazie alla battagliera diatriba di
Marfa Lapkina con gli apparati burocratici, non fa
a tempo a discendere la pista dingresso al villaggio
che va subito in panne e i lembi di biancheria
intima eroicamente strappati da Marfa alla propria
sottoveste per ripulirne gli ingranaggi difettosi e
rimetterlo in marcia si riveleranno un mero pallia-
tivo. Secondo livello: il trattore, ancora al centro,
dopo un altro anno, del contenzioso tra la delegata
Marfa e gli uffici centrali, viene acquisito insieme a
una falciatrice, con un significativo ma non decisi-
vo passo in avanti nella gestione dei lavori agricoli.
Terzo livello: il trattore quando ormai il kolchoz
si trasformato in sovchoz modello non pi uno
solo, bens molti, una teoria di trattori che come
per partenogenesi proliferano luno dallaltro e
danno vita a una sorta di girotondo plastico del-
laratura. Procedendo con la tecnica prediletta
delle scatole cinesi, Ejzenstejn, arriva dunque a
estetizzare la macchina com nelle sue intenzioni,
a prezzo per di digressioni tali da compromettere
lorganicit e la leggibilit stessa del film. Viene
quasi il sospetto che lo faccia apposta, per alimen-
tare formalisticamente lescalation drammaturgica:
un sospetto inizialmente introdotto dal primo livel-
lo, allorch il regista, al cospetto del suo primo trat-
tore, letteralmente si perde nella delucidazione del
nesso uomo-macchina e nella messa in opera di
unautentica erotica voyeuristica del mezzo.
Sennonch, a fronte del palese impaccio con il
quale viene individuato il secondo livello (le visua-
lizzazioni esplicative di unaratura deficitaria, con-
dotta a forza di braccia, causa linsufficienza o las-
senza di cavalli e buoi; o di una mietitura non meno
deficitaria, condotta a mano dalle contadine, impe-
gnate con ettari ed ettari di messi ondeggianti), fa
pensare a una manovra che da volutamente diver-
siva si fa inutilmente dispersiva. E occorre attende-
re, dopo le due false partenze, la partenza-arrivo
finale dei mille-trattori-mille per assistere final-
mente alla manovra sovversiva tanto attesa, al ruti-
lante (cubofuturista) tourbillon delle macchine che
sottomettono c ancora e sempre, in Ejzenstejn
come in Dovzenko, il tropo sessuale in felicissimo
agguato le campagne a colpi di vomere. Dove non
si sa se apprezzare come merita lexploit
estatico/estetico o deplorare come merita, per via
dellineludibile didascalia In marcia verso il socia-
lismo, lacquiescenza patetica/politica.
BIBLIOGRAFIA (IN ORDINE DI RIFERIMENTO)
Aleksandr Puskin, Opere, a cura di E. Bazzarelli e G.
Spendel, Mondadori, Milano 1990; Sergej M. Ejzenstejn, La
natura non indifferente, a cura di P. Montani, Marsilio,
Venezia 1981
1
, 2003; Maurice Bardche, Histoire du cin-
ma, Denol, Paris 1935; Franois Albera, voci Ejzenstejn e
Dovzenko in Giampiero Brunetta (a cura di), Dizionario dei
registi del cinema mondiale, vol. I, Einaudi, Torino 2005;
Aleksandr P. Dovzenko, Taccuini, seguiti da Problemi di
drammaturgia cinematografica, Sansoni, Firenze 1973; Id.,
Memorie degli anni di fuoco, Mazzotta, Milano 1973; Sergej
M. Ejzenstejn, Dickens, Griffith e noi, in Id., La forma cine-
matografica, Marsilio, Venezia 1986; Dominique Chateau,
Franois Jost (a cura di), Eisenstein. Lancien et le nouveau,
Publications de la Sorbonne, Paris 2001; Sergio Arecco, voce
La terra in Id., Cinema e paesaggio. Dizionario critico, Le
Mani, Genova-Recco 2009; Victor Sklovskij, Sua Maest
Eizenstein, De Donato, Bari 1974.
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CONCORSO
In Henry di Alessandro Piva,
vediamo nellincipit il classico sfati-
cato del Sud che litiga con la madre
sulla cottura della pasta. Lui Spil-
lo, tossico allultimo stadio, speciali-
sta in pere. Naturalmente, deve dei
soldi al suo pusher (di colore,
ovvio). Non manca la strafica bion-
da che lavora in una palestra di
lusso. In breve tempo, si scatena una
romana faida incrociata tra pusher e
mafia: in mezzo, alcuni tossici morti
ammazzati o assassini. Uno di essi
accusato ingiustamente. Non manca
una riproduzione del Colosseo come
arma omicida, forse un omaggio al
tentato assassinio di Berlusconi.
Poteva mancare il poliziotto con la
moglie incinta e di sinistra? Insom-
ma, non ci si fa mancare nessuno
degli stereotipi del film di genere de
noantri, neppure una (voluta?)
reminiscenza del pasticciaccio di
gaddiana memoria. Il massacro
finale evoca invece analoghe situa-
zioni tarantiniane. Non si capisce
bene se si deve ridere o piangere, tra
overdose, duelli rusticani col coltel-
lo, scopate. Non imperdibile, insom-
ma.
The Bang Bang Club di Steven
Silver inizia, invece, rievocando gli
scontri tra zulu e sostenitori di Man-
dela appena scarcerato, nel 1994. In
questo conflitto cercano di inserirsi
alcuni fotografi, poi diventati il club
del titolo. Fatti veri, naturalmente,
anche se magari un po abbelliti.
Quello che poi vinse il Pulitzer,
allinizio, un freelance mezzo
matto che si getta a capofitto nelle
situazioni pi estreme, e finisce,
naturalmente, per immortalare luc-
cisione di un mandeliano. Ha cos il
suo contratto, e via con gli altri, che
lavorano per lo Star. Poteva man-
care la love story con la redattrice-
capo, strafica di prammatica? Poi
fotografa un nero cui hanno dato
fuoco, ed Pulitzer. Gli altri sono
meno fortunati. Il classico novellino,
come in Full Metal Jacket, si fa bec-
care alla prima uscita; un collega
veterano va fuori di testa e si suici-
TORINO FILM FESTIVAL 28
FESTIVAL
Winters Bone (Un gelido inverno) di Debra Granik
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da, nonostante un Pulitzer vinto con
una foto di un bimbo che muore di
sete in Sudan e un avvoltoio che lo
guata. Il senso di colpa lo vince.
Invece, lo spettatore vinto dal
senso di fastidio per un film peloso,
ipocrita.
Una citazione dallEsodo (Il
Signore combatter per voi e voi
sarete tranquilli) apre Smalltown
Murder Songs del canadese Ed
Gass-Donnelly. Il film esattamente
quello che annuncia il titolo. Una
piccola comunit mennonita del-
lOntario, una colonna sonora fasti-
diosamente gospel, lomicidio di una
ragazza. Indaga un poliziotto ex vio-
lento e ora eccessivamente pio, che
naturalmente alla lunga torna a
esplodere. Scene in ralenti, precetti
religiosi che appaiono regolarmente
sullo schermo, ritmo sonnambolico.
Intorno, un paesaggio boscoso alla
Twin Peaks. Al centro, la crisi di un
uomo che ne ha viste troppe. Con-
venzionale.
Vampires del belga Vincent Lan-
noo il solito finto documentario su
una comunit di succhiasangue.
Una famiglia, padre madre e due
figli, accetta di farsi riprendere da
una troupe nella sua vita di tutti i
giorni. Non manca dunque il break-
fast servito nelle bare con tazze di
sangue caldo, e amenit del genere.
Per il resto, proprio una famiglia
normale: la figlia contesta i geni-
tori, si veste di rosa, vuol diventare
umana; i vicini sono odiati perch
introducono come pasto degli immi-
grati illegali. Affiora il concetto che i
vampiri svolgono una funzione
sociale, eliminando la popolazione
indesiderata: giovani, malati, bam-
bini. La carne umana viene conser-
vata in frigo, il padre compra alla
figlia una bara tutta rosa. Sono otti-
mi clienti, comprano pi di una bara
nella vita. C una scuola per vampi-
ri, dove si insegna come mordere
utilizzando un manichino. Un han-
dicappato molto quotato perch,
insieme, carne e vegetale. Tra face-
zie di questo tipo, ogni tanto capita
il fattaccio, come lassalto dei vam-
piri a una villa e il massacro. La ses-
sualit libera. Ma nella comunit
quasi hippie qualcosa si inceppa,
qualcuno sgarra e allora scatta la
punizione, con lesecuzione degli
amanti, poi commutata in esilio in
Canada. Qui, tutto cambia, c la
democrazia, c integrazione con gli
umani. Insomma, un finto film di
vampiri per una vera, feroce satira
contro la societ classista belga.
Largentino Por tu culpa di Anahi
Berneri inizia come una family
comedy: la madre fa la lotta con i
due figli piccoli sul letto. Lei cerca
poi di lavorare al computer ma il
casino totale. C grande fisicit e
il piccolo si fa male. Dopo venti
minuti di film claustrofobico i tre
personaggi escono in auto e vanno
al pronto soccorso. Lei sostiene che
il bimbo caduto dal letto giocando.
Ci sono segni di percosse, la radio-
grafia segnala un braccio rotto.
Comincia il calvario della donna,
sospettata di aver picchiato il figlio.
Larrivo dellex marito non migliora
le cose. Anche luomo accusa la
donna, ma capiamo, verso la fine,
quando pap regala una pistola gio-
cattolo, che la mania per i giochi
pesanti e la carica di aggressivit
una faccenda che riguarda entrambi
i genitori. Non male come studio
famigliare.
Four Lions di Chris Morris inizia
con le riprese di un terrorista islami-
co utilizzate come addestramento. I
quattro leoni del titolo sono musul-
mani residenti a Londra che aprono
una cellula terroristica. Omar va in
Pakistan a imparare come si fa, ma
combina casini. In Inghilterra, non
va meglio. Il film sfotte i terroristi,
dipinti come una banda di scemi (a
un certo punto agitano la faccia per-
ch le foto vengano sfocate, oppure
Portrait of the Fighter As a Young Man di Constantin Popescu
Por tu culpa di Anahi Berneri
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si fingono gay per allontanare una
ragazza curiosa). Quando unauto si
ferma per un guasto, perch le
candele sono ebree: gli ebrei hanno
inventato le candele per controllare
il traffico mondiale. Uno dei quat-
tro salta per aria da coglione; i
superstiti si travestono da clown e si
imbottiscono di esplosivo per com-
piere un attentato durante una corsa
di beneficenza. A uno a uno saltano
tutti per aria senza far danni (i poli-
ziotti ammazzano uno che non cen-
tra niente, il proprietario di un
diner-kebab in cui si era rifugiato il
travestito da struzzo). Insomma, un
pateracchio non indegno del nostro
Checco Zalone, se non fosse per la
tragicit della faccenda.
Protagonista di Soul Boy di Shim-
my Marcus un giovane del Nord
inglese anni Settanta, appassionato
di musica soul e di ballo, con amica
disegnatrice e innamorato di una
bionda estetista che ha moroso fico
con auto veloce. Molta musica, molti
locali, buoni sentimenti. Il simbolo
del film la giacca lunga di cuoio e
lo scooter, come in Quadrophenia.
Lamico ama le pasticche, lamica
sta male in pista. Naturalmente
viene incastrato lui. Per campare fa
lautotrasportatore. Per arrotonda-
re, colleziona dischi singoli che poi
rivende. Il suo mito Tom Jones.
Una esagerazione di giacche di
cuoio, cravatte sgargianti, camicie di
raso rosa. Il marito della sua adora-
ta lo mena. Alla fine, immancabile
duello in pista con il cattivo come
in La febbre del sabato sera. Il riva-
le debole sulla piroetta, e dunque
vince lui. Divertente, anche perch
non mancano belle battute: lamica
delle Belle Arti chiama Matisse
Matrix.
In White Irish Drinkers di John
Gray c la grande sequenza del pas-
seggio dei due fratelli e la ragazza
fino al cimitero. Si spogliano nudi
tra i loculi, corrono, scopano come
maiali. Il protagonista dipinge in
una cantina sotto il ristorante di un
quartiere operaio di Brooklyn. Col
fratello non c feeling, anche perch
punk e ladro, sempre nei guai.
Quando la madre, che interpretata
da una rediviva Karen Allen, scopre
che il figlio un artista, ecco che il
film invaso da una retorica di
grana grossa. Non manca, ovvio, il
padre ubriacone che mena come un
fabbro. Quando arrivano gli Stones
per un concerto, il fratello si mette
in testa di rapinare lincasso, mentre
la madre sacrifica i risparmi per
comprare i tubetti di colore al figlio
minore. I suoi disegni piacciono
allAccademia, ma c il colpo da
fare. Era un trucco: non ci sono gli
Stones, il padrone del locale che
s arraffato lincasso. Nel casino
che segue, il fratello cattivo si trova
un coltello piantato nella pancia. Il
crimine non paga, nel pi conven-
zionale dei soggetti.
Immensamente pi interessante
Winters Bone di Debra Granik, che
poi ha vinto il Festival. Lincipit una
fattoria di legno, la ninna nanna che
culla dei bambini. La protagonista,
diciassette anni, la maggiore di tre
fratelli, la madre malata. Il padre
fuori su cauzione, ha ipotecato casa e
terreni, se non si presenta alludienza,
perdono tutto. Deve trovarlo. I vicini
cercano di aiutarla, la sorella sposata
nicchia, lo zio poco di buono anche. Il
campo di mobile homes in Missou-
ri. Baracche fatiscenti, un sacco di
crack. Le dicono che il padre morto
carbonizzato in un incendio di un
laboratorio di droga. Non ci crede,
prosegue le indagini con un furgone.
Va a trovare una ex del padre. Salta
fuori che il padre ha cantato ed
stato ucciso dalla gang di Thump,
bikers poco di buono. Bisogna ritro-
vare i resti, segare le mani per prova-
re che morto e dunque salvare la
casa. Detto fatto: le donne della gang
portano in canoa la ragazza nella
palude a segare la mano. Finale col
vecchietto che suona il banjo. Grande
film di atmosfere.
Glckliche Fgung/Blessed
Events di Isabelle Stever mette in
scena anchesso una donna con pro-
blemi. Simone una trentenne sin-
gle. In un Capodanno, beve come
una spugna e si ritrova a scopare in
auto con uno sconosciuto. Torna a
casa, fa il bagno, cuoce una bistecca,
vomita. incinta. Rintraccia luo-
mo, fa linfermiere. gentile, si met-
tono insieme, arredano la casetta.
Ma la donna non a posto, gelosa
della vicina. Poi si riconcilia, cucina
la fonduta per tutti. Assorta, ascolta
Danny Boy, che aveva udito nel
locale allinizio. La macchina da
presa segue costantemente Simone,
non labbandona. Il finale di un film
che un raffinato studio psicologico
la nascita di una bambina, laper-
tura alla speranza.
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Soul Boy di Shimmy Marcus
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Simone si chiama anche la protago-
nista di Les signes vitaux della regista
del Qubec Sophie Deraspe. Cura i
malati terminali, il moroso cuoco.
Ma Simone nasconde un segreto: le
mancano le gambe. Lo impariamo
quando la vediamo andare a letto,
togliersi le protesi. In un film inquieto,
la ragazza fa le seghe ai malati termi-
nali. Attorno, neve dovunque. Il moro-
so la tradisce, e, cosa pi grave, la rim-
provera di vivere la vita attraverso la
morte degli altri. addirittura sospet-
tata di praticare leutanasia, di passa-
re troppo tempo al Centro medico.
Nuovo incidente stradale, questa
volta col moroso che rischia di perde-
re. Invece, si riparte da capo, verso la
speranza. Bel film intenso sui lati
oscuri dellaltruismo.
Grandissimo western bellico Por-
trait of the Fighter As a Young Man
del romeno Constantin Popescu. Il
titolo joyciano, ma nel film c cita-
zione di Rilke. un film sulleroica
resistenza di un pugno di giovani libe-
rali contro loccupazione comunista
della Romania del 1944. Il senso del
film contenuto nella sequenza che lo
apre: uno studente di entomologia, in
un prato, armi in pugno, descrive una
coccinella, evidente simbolo della
libert. Da l in poi, imboscate, aggua-
ti, sparatorie, ritirate, esecuzioni di
traditori, massacri. Le stagioni passa-
no, gli anni passano, ma gli indomiti
ragazzi, pur ridotti di numero e allo
stremo per fame e freddo, resistono.
Le azioni belliche del film sono messe
in parallelo con le riunioni saccenti di
partito in cui si spiega la filosofia della
repressione della resistenza. I preti
sono torturati, i contadini massacrati.
Ma, alla fine, quando arriva la notizia
della morte dellodiato Stalin, tutti si
mettono a cantare. Godiamo con loro.
Molto buono anche Last Chestnuts
del giapponese Zhao Ye. Arriva un
autobus, ne scende una donna. La
mdp rimane su di lei a lungo, Siamo
in campagna. Lei cerca il furgone blu
del figlio scomparso. Inizia uno strano
percorso, anche bizzarro. Ad esempio,
in quel paese la gente porta i gatti a
un tipo che li ama. Tutti sono gentili,
offrono zuppe. Ricordano il ragazzo.
La madre rintraccia la ragazza che
era col figlio in una foto. Fuma in con-
tinuazione, nervosa. Impara, e noi con
lei, che il figlio morto. Non solo, da
una registrazione apprende di essere
ammalata terminale di cancro. Va
sotto un castagno a raccogliere frutti
del bosco. La raggiunge la madre
della ragazza. Incredibile, cos tanto
con cos poco.
Alberto Morsiani
FESTA MOBILE
FIGURE NEL PAESAGGIO:
IL FUORI CONCORSO,
SPESSO IL VERO
MOTIVO DINTERESSE DI
UN FESTIVAL
Lattesa era tutta per Hereafter,
ultima fatica dellinstancabile Clint
Eastwood, film di chiusura della
manifestazione. E Eastwood non
delude. O meglio, difficile deludere
con una sequenza iniziale che si
inserisce in unideale antologia dei
migliori incipit della sua ampia fil-
mografia: siamo sullo stesso livello
pressappoco di Gli spietati, di
Mystic River o di Potere assoluto.
In soli dieci minuti si assiste a
unautentica lezione di messa in
scena, alla capacit di articolare
equilibri opposti in perfetta conti-
nuit, di tenere cadenze mozzafiato,
transitando dalla sapiente orche-
strazione della suspense alla beffar-
da creazione di false piste che con-
ducono al sovvertimento delle cer-
tezze. Il resto una riflessione, a
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Jack Goes Boating di Seymour Hoffman
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tratti programmatica, sul limite
osmotico che separa la vita dalla
morte, con il concetto allegorico di
soglia a rappresentare una costante
figurativa che organizza spazi e
situazioni del racconto. Tre storie
apparentemente estranee che si
connettono, superando incompren-
sioni e solitudini incomprimibili: al
di l della soglia e del contatto ori-
ginato dalla connessione fatale tra i
vari personaggi, diventa centrale
latto forte del vedere, principio
metanarrativo che innesca una spi-
rale interna alla storia narrata e ai
meccanismi di ricezione dello spet-
tatore. Dando vita anche a un para-
dosso involontario: la scrittura di
Peter Morgan in Figure nel pae-
saggio anche unaltra sua sceneg-
giatura, The Special Relationship di
Richard Loncraine a tratti pare
impossessarsi del visibile del film,
ed eroderne lintensit alla ricerca
di una meditazione profonda ma
essenzialmente verbale.
Altrettanto atteso era il ritorno di
Danny Boyle dietro la macchina da
presa dopo lincetta di Oscar e
premi vari per Slumdog Millionaire
(The Millionaire, 2008). 127 Hours
una vicenda tratta da una storia
vera, quella di Aron Ralston, moun-
tain climber che nel 2003, intrappo-
lato in un canyon nello Utah, si
trov costretto ad amputarsi un
arto per liberarsi e tornare in super-
ficie. Nella trascrizione di Boyle la
storia di Ralston diventa un raccon-
to teso, pieno di invenzioni visive, di
fantasticherie a ritmo di videoclip
che rompono la linearit di una
vicenda relegata in un solo luogo.
Immagini disturbanti che sollecita-
no continuamente lo spettatore,
mettendone a dura prova la resi-
stenza. Al di l della restituzione
visiva, ci che Boyle propone un
approfondito confronto tra Natura
e Cultura, nel quale la prima sovra-
sta la seconda in spazio e influsso,
fino a che non emerge, prendendo il
sopravvento, listinto di conserva-
zione che annulla principi e cono-
scenze culturali, quasi ad affermare
che alla forza incontenibile della
Natura ci si accosta soltanto con
listinto e lirrazionalit. Boyle si
dimostra una volta di pi un regista
attento alla potenza spettacolare
del ritmo, con cui giustappone e
scardina ogni singola immagine, e
un grande utilizzatore della plastici-
t scenografica della natura, che
riesce ad animare, rendendola orga-
nica allo spazio e al racconto.
Grande impressione ha destato
anche Neds di Peter Mullan, attore
che quando decide di passare dietro
la macchina da presa lo fa seguen-
do contemporaneamente urgenze
sociali ed estetiche. Apologo sulla
violenza di una societ indifferente
ai suoi figli, ostile, in cui al singolo
non attrezzato e indifeso concesso
solo un percorso di abbrutimento a
cui concorrono le istituzioni con la
loro violenza e la loro ostilit nor-
mativa (e in questo, la splendida e
surreale sequenza finale, con il pro-
tagonista John che attraversa un
prato di uno zoo safari pieno di
leoni, assolutamente esplicativa
nella sua valenza simbolica). Film
sulla relativit del posto occupato
da un individuo nella societ, un
adolescente in formazione in questo
caso, nella periferia brutale (di Gla-
sgow) degli anni Settanta. Pellicola
che inizia con un ritmo e unironia
coinvolgenti, per trasformarsi, pro-
gressivamente, in una discesa negli
inferi dellabiezione. Grana sporca
delle immagini, regia impressioni-
stica, scenari che si pongono sem-
pre allegoricamente come specchio
dei mutamenti psicologici dei per-
sonaggi, e un interprete principale,
Conor McCarron, sorprendente per
la sua estrema espressivit, che si
fissa, paradossalmente, su primi
piani attoniti ed enigmatici.
La piacevole sorpresa arrivata da
un film apparentemente senza prete-
se, Super di James Gunn, una vita
nella Troma Pictures. Un divertisse-
ment, soprattutto per il pubblico: un
cuoco di labili speranze diventa
supereroe per recuperare laffasci-
nante moglie plagiata e fuggita con
una banda di trafficanti di droga.
Gunn gioca con i clich, li svuota, li
ricarica in una prospettiva ulteriore,
li sovradetermina e li miscela con il
linguaggio dei fumetti, ironizzando
sullimpeto giustizialista, sulleroi-
smo delluomo qualunque tanto caro
alla pubblicistica americana, oltre
che con lossessione verso uneduca-
zione coattivamente religiosa. Titoli
di testa magnifici: disegni animati
che si muovono sul tempo di una
canzone rock, ritmati, dinamici, raffi-
guranti i personaggi e le azioni che si
vedranno nel film; alla fine i due
bislacchi supereroi Crimson Bolt e
Boltie si assestano come se si mettes-
sero in posa per una foto ufficiale,
ma hanno il fiatone.
Da segnalare, inoltre, lesordio
dietro la macchina da presa di Phi-
lip Seymour Hoffman con Jack Goes
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Super di James Gunn
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Boating, commedia sulla precariet
di equilibri e traiettorie sentimentali
e meditazione, talvolta esilarante,
grazie a dialoghi impacciati, goffi,
incompleti, spesso solo accennati,
sulla difficolt di colmare la solitudi-
ne. Tono minimalista e ironia che si
genera dallinadeguatezza dei perso-
naggi nei confronti di scelte e situa-
zioni, in una New York dalla dimen-
sione quasi esclusivamente casalin-
ga. Tourne, di un altro attore affer-
mato, Mathieu Amalric, film sul peso
di un passato da cui non ci si riesce
a liberare, sugli errori commessi, sul-
lessere prigionieri delle proprie scel-
te e degli impulsi irrefrenabili. Ma
anche amaro e ironico affresco sul
confine tra maturit e vecchiaia, sul
terrore dellirreversibilit. Infine,
occorre almeno citare Kaboom,
nuova produzione di Gregg Araki, il
film che avrebbe fatto David Lynch
se avesse avuto una sensibilit gay;
Red Hill, robusto western contem-
poraneo scritto e diretto dallaustra-
liano Patrick Hughes, e Animal
Town del coreano Kyu-hwan Jeon,
seconda parte di una trilogia sulla
citt e sulla ferinit di unumanit
smarrita.
Giampiero Frasca
FESTA MOBILE
PAESAGGIO CON FIGURE
La sezione che il Tff dedica allo
sguardo sul reale ci ha ormai abitua-
to a mettere radicalmente in discus-
sione lessenza profonda della distin-
zione tra cinema documentario e
cinema di finzione. E sembra averlo
fatto questanno con una particolare
attenzione alla mobilit dello sguar-
do. Nella visione dei film selezionati
si ha infatti modo di assecondare la
costruzione di uno sguardo mobile
che si fa di volta in volta creativo,
lisergico, storico, pittorico, paesaggi-
stico, poetico, mistico, politico, antro-
pologico e d forma, come in un pat-
chwork, a una riflessione composita
sul rapporto tra luomo e il suo
ambiente. Un film come il filippino
Ang ninanais di John Torres lavora
per esempio proprio sul rapporto
realt finzione seguendo, letteral-
mente, la protagonista che attraversa
villaggi contadini vestendo di volta
in volta i panni leggendari di figure
della tradizione popolare.
Dalle atmosfere trascendenti e
poetiche di questo film si passa a
situazioni contestuali e filmiche pro-
fondamente diverse. Sullambiente
brutale e claustrofobico del carcere
si concentrano per esempio i due
film portoghesi: in 48, di Susana de
Sousa Dias, si evocano il passato
della dittatura e latrocit della tor-
tura attraverso voci che animano
fotografie che profumano di collodio
e trasudano dolore; ma la prigione,
quella di oggi per, raccontata
anche in Sem companhia di Joo
Trabulo che, componendo quadri
in un senso pi propriamente pitto-
rico che cinematografico , esplora
la possibilit che hanno i reclusi di
trovare, attraverso il potere immagi-
nifico dellaffabulazione, una ricetta
per affrontare la sospensione tempo-
rale cui sono costretti.
Mrner Universum, dello svizze-
ro Jonas Meier, e Danse des habi-
tants invisibles de La Casualidad,
del giovane regista francese Vincent
Le Port, si misurano, pur nelle
radicali differenza visive e narrati-
ve, con un ambiente che si muove
tra il familiare e lalieno; tanto
lironico film svizzero, che rico-
struisce in forma di intervista la
senile ossessione ufologica del
signor Mrner, quanto la visionaria
ricostruzione di una giornata lavo-
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Quils reposent en rvolte di Sylvain George
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rativa del minatore nella citt fan-
tasma de La Casualidad, paiono
infatti basarsi su un quesito esi-
stenziale non troppo differente: sta
lalienit nellindividuo o in ci che
lo circonda? Che forse poi un po
la domanda di fondo, bench decli-
nata sul piano della disumanizza-
zione progressiva della societ,
anche di un film fiume come Quil
reposent en rvolte di Sylvain
George. Attraverso lapproccio poe-
tico alla forma dellimmagine, la
dilatazione temporale, luso dram-
matico del bianco e nero, George
costruisce un film sublime, affasci-
nante quanto annichilente.
Lo sguardo errante della sezione
si posa poi a pi riprese su un
Medio Oriente affrontato come si
sfoglia un album di famiglia; il
caso dei due film di Carmit
Harash, Demain e Film de guerre,
che si immerge nella sua memoria
personale e in quella del fratello
lasciando affiorare nella grana
grossa dellimmagine le parados-
sali e sfaccettate ripercussioni del
condizionamento. Anche Kamal
Aljafari in Minaa elzakira parte
dal dolore personale per ricostrui-
re poeticamente il valore esisten-
ziale di una ferita come quella
inferta al popolo palestinese dallo
sradicamento territoriale e cultu-
rale. Diventano invece emblemi di
una carambola di esperienze, illu-
sioni, desideri, speranze, paure, i
volti di un Iran alla vigilia delle
elezioni su cui si concentra con
attenzione ritrattistica Sanaz Azari
in Salama isfahan.
Sul paesaggio vero e proprio si
concentrano, piuttosto, i due film
americani Avalanche di Carlos
Casas e Phill Niblock e Castaic
Lake di Brigid McCaffrey, che
esplorano fluttuando, i primi in
terra straniera la seconda in Patria,
le modificazioni del territorio e
della relazione tra esso e luomo.
Lo fa anche Julien Temple, che in
Requiem for Detroit? si misura,
attraverso lo stile documentaristico
che gli proprio (il montaggio ser-
rato, i materiali darchivio usati
con efficacia narrativa senza eguali,
la musica, personaggi che nel loro
essere fuori dal comune diventano
emblemi), con il tramonto del
sogno americano e il collasso del-
leconomia capitalista. Con un altro
collasso, quello di uno dei Paesi del
blocco comunista, si misura invece
Andrei Ujica in Autobiografia lui
Nicolae Ceausescu. Facendo parlare
solo le immagini tratte dagli archi-
vi della propaganda comunista
rumena, eccezion fatta per le poche
inquadrature in apertura e chiusu-
ra che mostrano il dittatore e alla
moglie dopo la caduta, il regista
riesce, con acuta intelligenza narra-
tiva, a lasciare che la parabola sto-
rica del personaggio si crei quasi da
sola, autoraccontandosi.
BEN RUSSELL: RECENT
ANTHROPOLOGIES E LET EACH ONE
GO WHERE HE MAY
In aggiunta al variegato catalogo
errante, la sezione dedica una picco-
la personale allartista visivo ameri-
cano Ben Russell. Nove cortome-
traggi e il primo lungometraggio del
regista articolano la personale, met-
tendo in gioco una sorta di vero e
proprio trionfo della mobilit dello
sguardo. Il viaggio, questa volta s,
chiave di accesso imprescindibile
per approcciare il lavoro dellartista
di Chicago: un viaggio antropologi-
co appunto, che ha al suo centro
proprio il rapporto tra uomo e
ambiente. questo che mette in
scena la lunga coreografia intorno
alla quale si costruisce il tessuto
visivo e narrativo del lungometrag-
gio: il viaggio-danza di due fratelli
del Suriname che attraversano il
Paese mettendo in discussione il
concetto stesso di schiavit, sia esso
da intendersi in senso culturale,
politico, folklorico, ambientale e,
non ultimo, visivo.
Ma questo che sta al centro
anche dei lavori brevi che si soffer-
mano sugli operai di Dubai come sui
fan di un concerto rock, sullespe-
rienza lisergica di una ragazza come
sul deserto del Sud America, pas-
sando per un test visivo che coinvol-
ge licona Richard Pryor e una per-
formance che lavora sullimmagine,
sul testo, sul rumore con una forza
evocativa e questi mistica di stupe-
facente intensit. Ben Russell porta
cos lo spettatore non solo nel suo
viaggio personale, ma anche in quel-
lo dei soggetti che filma, racconta,
mette in scena o semplicemente
osserva o, forse pi precisamente, lo
conduce nella loro esperienza impo-
nendo al punto di vista una solleci-
tazione estetica che da visuale non
pu non farsi teorica.
Chiara Borroni
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Let Each One Go Where He May di Ben Russell
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ONDE
Nuova edizione del Tff e nuovo
programma anche per la sezione
Onde, come sempre curata da Mas-
simo Causo e Roberto Manassero.
Anche questanno, attenzione rivol-
ta a ci che sta oltre. Oltre una ras-
sicurante abitudine della visione,
oltre la dittatura delle forme narra-
tive, oltre le rigide demarcazioni di
tecniche e linguaggi, oggi sempre
pi confuse. Fiction, documentario,
found footage, performance, anima-
zione, pornografia: tutto fa brodo
nel calderone di Onde, poich tutto
permette di guardare il mondo con
gli occhi curiosi di chi non si accon-
tenta. Anche la formula organizzati-
va rimane invariata: lunghi, medi e
cortometraggi si susseguono, combi-
nati tra loro, in un programma ete-
rogeneo, a tratti estremo, imbastar-
dito per vocazione.
Per quanto riguarda i lungome-
traggi, gli organizzatori di Onde
confermano il loro talento nello sco-
prire giovani autori: due dei tre film
pi interessanti della sezione sono
infatti esordi. Se il veterano Rafael
Filippelli, argentino, classe 1938, d
prova di una fulgida lucidit registi-
ca con il suo Secuestro y muerte,
una sorta di Buongiorno notte suda-
mericano che ricostruisce il seque-
stro Aramburu del 1970 con uno
stile asciutto, depurato, eppure asso-
lutamente empatico, Juho Kuosma-
nen e Ayar Blasco sono le vere rive-
lazioni della sezione.
Kuosmanen, finlandese, presenta
al Tff il suo primo lungometraggio,
The Painting Sellers (vincitore della
Cinfondation di Cannes), dimo-
strando, nonostante la giovane et,
rigore e maturit di sguardo. Ci che
viene messo in scena il ritratto di
una famiglia finlandese di basso
ceto sociale che si mette in viaggio
per raccimolare qualche euro ven-
dendo quadri porta a porta. Kuo-
smanen racconta un mondo freddo e
spento, guardando, con uno zelo che
a tratti ha il sapore della devozione,
al cinema dei fratelli Dardenne, ma
che ha il merito di riuscire a entrare
materialmente nella vita e nelle
situazioni delle persone. Lo sfondo
quello di una Finlandia che, come
nei film del connazionale Kaurism-
ki, vive nellinfelicit e nella chiusu-
ra verso lesterno, un Paese ostile, in
cui si rincorrono serate di canto rab-
bioso e immersioni nella vodka. Il
regista, pur non rinunciando ad
affondi beffardi, realizza un road
movie cupo, un viaggio tra terre
desolate che ha il sapore del
western, in cui una famiglia impe-
gnata nella lotta per la sopravviu-
venza affronta la scure della crisi
economica e quella, pi intima ma
nientaffatto semplice, delle relazio-
ni reciproche.
Ayar Blasco, anchegli argentino,
firma invece El Sol, una sorpresa
carica dinteresse tanto per gli spet-
tatori (lironia del registro) quanto
per gli studiosi (lacutezza della
riflessione). In uno scenario post-
apocalittico due disadattati vanno
ingenuamente alla ricerca della
societ perduta, ma simbattono in
un mondo dominato da corruzione,
violenza e turpiloquio estremo. Sce-
gliere lanimazione si rivela unop-
zione particolarmente felice: con
uniconografica evidentemente ispi-
rata a Beavis and Butt-head e
unestetica che dialoga con quella
del videogioco, Blasco ipotizza un
mondo giovanile sboccato e irrive-
rente, che proprio attraverso il lin-
guaggio animato e la sua capacit di
astrazione riesce a essere straordi-
nariamente incisivo.
Tra i cortometraggi, oltre ai lavori
dei Quay Brothers (Maska, anima-
zione in stop motion da un racconto
dellautore di Solaris, Stanislaw
Lem) e di Matthias Mller (Maybe
Siam, co-diretto con Christoph
Girardet), si distinguono nitidamen-
te due opere. La prima Long Live
the New Flesh di Nicolas Provost,
autore al quale gi lanno scorso gli
organizzatori di Onde avevano dedi-
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El sol di Ayan Blasco
loge de la raison di Wal Noureddine
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cato una corposa rassegna. Provost
in questultimo acuto esperimento si
affida alla pratica del found footage
per riciclare, distorcere e poi sfonda-
re limmagine, facendone affiorare
una sorta di essenzialit, liquida e
magmatica. Provost opera infatti un
percorso nel cinema horror a comin-
ciare da Shining, paletto ineludibile
e riferimento iniziatico del proprio
inventario. Alien un altro degli
oggetti con cui il film dialoga: ma se
l lalieno era incubato nel corpo
umano, qui lalterit si nasconde
dietro limmagine e preme per emer-
gere, fino a squarciarla, a dominarla
dallinterno. Progressivamente il
tasso di complessit aumenta e la
tecnica diventa sostanza: il cinema
di Cronenberg prende piede allin-
terno delle immagini, utilizzate chia-
rendo esplicitamente quale sia il
referente principale. Provost sembra
infatti voler annunciare lavvento di
una nuova carne, limmagine, stra-
ordinariamente duttile e facile da
manipolare. E, attraverso le tecniche
di manipolazione digitale, sembra
voler svelare la natura segreta del-
limmagine contemporanea, creando
un modello in cui convivono lim-
magine del futuro (la sintesi compu-
terizzata) e quella del passato (le
sbavature dei pixel, simili a pen-
nellate impressioniste).
Laltra visione folgorante loge
de la raison, del libanese Wal Nou-
reddine. Amo la vita. Per questo ho
scelto la droga: recita cos la provo-
catoria sintesi esistenziale del regi-
sta. Ma il suo lavoro, lungi dallo
sciogliersi nellinconsistenza della
boutade, innanzitutto un autori-
tratto tossico e alterato, il tentativo
di riflettere su una deriva individua-
le traducendone visivamente il
disordine mentale e la sensazione di
una perenne nomadismo (Noureddi-
ne si infatti trasferito prima in
Francia, poi negli Stati Uniti). Die-
tro, ovviamente, c la guerra, il suo
lascito indelebile, ma anche lassur-
dit della vita e la certezza inamovi-
bile della morte. Lostensione pub-
blica della propria dipendenza ha
radici che affondano in profondit,
al di l di qualunque capriccio nar-
cisista.
Grande protagonista di questa
edizione stato infine lomaggio
dedicato allopera cinematografica
(integrale) di Massimo Bacigalupo.
Oltre che autorevole accademico e
profondo conoscitore della poesia e
della letteratura americana e ingle-
se tra lOttocento e il Novecento
(suoi alcuni capitali scritti su
Pound e Wordsworth, oltre a nuove
edizioni italiane, tra gli altri, di
Melville, Dickinson, Eliot, Stevens,
Frost, Heaney), Bacigalupo stato
anche, infatti, un nome di punta
dello storico underground italiano,
nonch fondatore, negli anni Ses-
santa, di quella Cooperativa del
Cinema Indipendente che aveva
riunito a Roma nomi indelebili del
panorama alternativo dellepoca:
De Bernardi, Baruchello, Grifi,
Brebbia, Capanna, Turi
Lomaggio, curato con la parteci-
pazione della Camera Ottica di
Gorizia e con lUniversit di Udine,
dove ha luogo larchivio Bacigalupo,
ha passato in rassegna tutte le opere
girate dallartista, in un periodo che
va dalla met degli anni Sessanta ai
primi Settanta, proiettando copie
rigenerate digitalmente per locca-
sione. Oltre alle proiezioni in sala,
divise in tre programmi cronologica-
mente successivi, stata allestita
anche una ricca mostra alla Gam di
Torino dal titolo Apparizioni:
materiali di regia, story-board,
documenti, fotografie, strumenti di
lavoro di Bacigalupo sono stati rac-
colti e resi disponibili al pubblico
per la prima volta: uno scavo filolo-
gico dal forte sapore autobiografico.
Lorenzo Donghi
Attilio Palmieri
RAPPORTO
CONFIDENZIALE
Al suo secondo anno di festival,
rapporto confidenziale sceglie lhor-
ror. Se un anno fa questa sezione, con
la personale dedicata a Nicolas Win-
ding Refn, volle rendere unesemplare
istantanea della capacit di certo cine-
ma, giovane e indipendente, di essere
stile oltre che sperimentazione, nel-
lultima edizione ha dimostrato di
non voler tradire tale vocazione
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Long Live the New Flesh di Nicolas Provost
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costruendo attraverso un percorso
incentrato non sulla figura di un auto-
re solo, ma su un eterogeneo comples-
so di pellicole una rassegna che
focalizza attraverso la pi consueta
delle declinazioni della scrittura filmi-
ca, quale il genere, nuove forme
della contemporaneit cinematografi-
ca. I selezionatori del festival hanno
motivato la loro scelta sostenendo, a
ragione, come lhorror rappresenti
oggi un genere che grazie alle proprie
capacit metamorfiche in grado,
forse ancor pi che in passato, di tro-
vare nuovi approdi estetici (il 3D oltre
al digitale), nuovi media cui rivolgersi
( sbarcato in modo definitivo anche
alla televisione), nuovi pubblici (non
pi solo i giovani e giovanissimi) e
soprattutto una nuova ragion dessere
e una vitalit, che ne fanno sempre
pi il destinatario prediletto di tanto
cinema indipendente.
Mai come oggi, per, lhorror
sembra diventato anche un forte
mezzo di comunicazione e di esor-
cizzazione delle paure globali. Nel
solco del cinema dellorrore mili-
tante introdotto da Romero sugli
inizi degli anni Settanta, il genere
cinematografico forse pi sfruttato
di sempre pare aver definitivamente
scoperto la propria natura politica e
una vocazione quasi sociale. Giun-
gendo sino a fabbricare incubi e
mostri che sempre pi travalicano
gli schermi e invadono la realt
sotto forma di paure quotidiane. E
non un caso, infatti, che la cinema-
tografia orrorifica di questi ultimi
tempi abbia ricominciato, molto pi
che in passato, a indossare i panni
del reality, pescando a piene mani
da strutture di racconto inclini alla
forma documentaristica. Dando,
cos, luogo a una diversa tipologia di
orrore: basata molto pi sullemoti-
vit che limmedesimazione con
ambienti e situazioni suscita, piutto-
sto che su collaudate e tradizionali
forme di terrore affidate interamen-
te a effetti scenici e colpi di regia.
Proprio al mockumentary, appro-
do naturale di tale tipo di estetica, si
affida uno dei film della rassegna: lo
statunitense The Last Exorcism di
Daniel Stamm, film uscito in con-
temporanea nelle sale italiane.
Loperazione del regista, prodotto
della factory di Eli Roth, una sorta
di lettura personale delleterno con-
flitto tra ragione da un lato e religio-
ne e superstizione dallaltro, risulta
per piuttosto fiacca.
Pi felice appare la scelta di Colm
McCarthy che decide, con il suo
Outcast produzione britannico-
irlandese di portare il terrore nella
quotidianit delle periferie delle
nostre metropoli, tra orrori, cio, che
si mischiano ad altri orrori, allinter-
no di vicoli, sobborghi e fabbricati
nei quali non ci si stupisce di trova-
re fattucchiere, stregoni, mostri e
belve feroci.
Mostri che sono tuttaltro che
soprannaturali, invece, nel coreano
I Saw the Devil di Kim Jee-woon,
regista dal non trascurabile talen-
to (divenuto oggetto di culto e
ammirazione dopo il significativo
Two Sisters), ma che evidenzia, in
questa storia di morbosa e instan-
cabile vendetta, una scarsa attitu-
dine alla narrazione e una forte
affezione allenfasi e alla dramma-
ticit del pi tradizionale cinema
coreano.
Dagli Usa arriva lapocalittico
Vanishing on 7th Street dello spe-
cialista Brad Anderson, un thriller
soprannaturale dal ritmo serrato
che attraverso la descrizione della
pi atavica delle paure, quella del
buio, mette in scena langoscia pri-
mordiale delluomo nei confronti
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The Ward di John Carpenter
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della morte, di nemici sconosciuti e
dellestinzione della razza.
Ma quella che non pu assoluta-
mente mancare, tra gli emblemi del-
lhorror contemporaneo, la figura
del vampiro. Vera e propria effigie
della contemporaneit, incarnazione
pop e sex symbol di portata planeta-
ria dellultimo decennio, il sinistro
ematofago, nel film canadese Suck
di Rob Stefaniuk, ha le sembianze di
una splendida ragazza, bassista di
una band rock, che contagia uno a
uno tutti i componenti del gruppo.
La metafora, abusatissima, del dro-
gato come moderno vampiro, tutta-
via, non nobilita questo non-hor-
ror che, al di l di un cast farcito di
icone della musica e del cinema
(Iggy Pop, Alice Cooper, Moby, Mal-
com McDowell), non sembra disco-
starsi troppo dallestetica giovanili-
stica stile Mtv.
Pi incline alla tradizione classica
del cinema dellorrore laltro film
canadese della rassegna, Altitude di
Kaare Andrews, che insieme a Dam-
ned By Down dellaustraliano Brett
Anstey rimanda, pi di tutti gli altri,
ai b-movies vecchia scuola. Un film,
il primo, che ci ricorda i racconti di
avventura della serie Ai confini
della realt, nel secondo caso, inve-
ce, lispirazione arriva dai grandi
horror inglesi della Hammer.
Il principale richiamo, allinterno
della rassegna era, tuttavia, rappre-
sentato dallultimo film di John Car-
penter, The Ward, presentato, prima
che a Torino, soltanto al film festival
di Toronto. Nove anni dopo Fanta-
smi da Marte, Carpenter torna, dun-
que, al grande schermo con un hor-
ror classico, puro, limpido. A stupire
non sono certo lefficacia del raccon-
to, il ritmo impeccabile con cui il
film condotto o la finezza della
messinscena tutte cose alle quali il
maestro americano ci aveva abituati
quanto il fatto che Carpenter,
autore di numerose pietre miliari
dellhorror, non fosse mai precipita-
to in tanta ordinaria convenzionali-
t, lasciando nello spettatore ben
poco altro che un misto di fascino e
nostalgia.
Lorenzo Rossi
RETROSPETTIVA
JOHN HUSTON
Huston, il regista pi fantasioso
della sua generazione, ha fatto pi
di ogni altro, dallepoca felice di
D.W. Griffith, per ampliare, rinvi-
gorire e purificare lidioma essen-
ziale del cinema americano. Tutta-
via, fino a oggi, la sua opera non
a livello dei capolavori pi belli e
pi ricchi di immaginazione della
storia del cinema Presumibil-
mente, a Huston manca quel gene-
re di profondo impulso creativo e
di intenso scetticismo autocritico
senza i quali difficile raggiungere
la statura del grande artista (1).
Scritto pi di sessantanni fa, que-
sto giudizio di James Agee, che di
l a poco avrebbe collaborato alla
sceneggiatura del giustamente
celebrato La Regina dAfrica,
rischia di essere quasi definitivo
nostante si riferisca solo al primo
decennio di una carriera che si
sarebbe sviluppata ancora per
trentasette anni.
Ci sono autori che crescono alla
distanza. Non vogliamo dire che
Huston appartenga alla categoria
di quelli che vengono ridimensio-
nati dal trascorrere del tempo. Alla
fine della scorribanda sui suoi
trentotto film proposti dalla retro-
spettiva del Tff, pur senza volerci
adagiare in una schematica e rassi-
curante adesione allottica ormai
forse poco praticabile di politi-
que des auteurs, quella che rimane
tuttavia la sensazione di un per-
corso ondivago, continuamente
spezzato, punteggiato da compro-
messi e fallimenti, indugi e riaffio-
ramenti carsici. Ha dunque ragio-
ne la curatrice, Emanuela Martini,
quando afferma che sbaglia chi ha
frettolosamente definito classico il
cinema di Huston, sottolineando
viceversa lattitudine del regista
talvolta a innovare in proprio,
talaltra a porsi in sintonia con
levoluzione del cinema coevo,
cosa che lo ha portato, ad esempio,
a firmare opere come Fat City e La
saggezza del sangue che, inseren-
dosi in assoluta coerenza nel clima
della cosiddetta New Hollywood,
potrebbero benissimo apparire
girate da un trentenne alle prime o
seconde armi.
Appare tuttavia evidente che i
film del primo periodo, da Il miste-
ro del falco a Il tesoro dellAfrica,
passando per Il tesoro della Sierra
Madre, Stanotte sorger il sole,
Giungla dasfalto e La prova del
fuoco, pur con i loro alti e bassi,
presentano una serie di riconosci-
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The Battle of San Pietro
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bili costanti autoriali: la sconfitta
vista in qualche modo come vitto-
ria del male sul male e di conse-
guenza la centralit di un loser di
stampo hemingwayano, il lavoro
di un gruppo per costruire unim-
presa fatalmente destinata a sgre-
tolarsi, la constatazione, amara e
insieme disincantata, dellillusorie-
t di ogni valore di riferimento, la
solidariet virile, il sense of
humour che sopravvive anche sul
baratro della tragedia
In questo ambito, se la pellicola
desordio, pur appesantita da
qualche legnosit nella messa in
scena, ha il merito di segnare la
nascita del noir, Giungla dasfalto,
che parimenti rappresenta larche-
tipo del filone dello hold-up in
seguito frequentato da molti e feli-
cemente rivisitato e reinventato
dal Kubrick di Rapina a mano
armata, , a nostro modesto ma
fermo parere, il capolavoro di
Huston e uno dei capolavori del
decennio. A dir la verit, per certi
aspetti la contrapposizione sim-
bolica tra la campagna come luogo
della purezza e la citt come quel-
lo della perdita dellinnocenza, il
personaggio di Dix che punta
direttamente allanima senza gli
abituali diaframmi della distanza e
dellironia, la sequenza, magistrale
e straziante, della sua agonia in
quella corsa dellauto verso i verdi
prati delladolescenza scandita
dagli ottoni del meraviglioso score
di Rzsa che sciolgono il loro tur-
gore solo nel momento in cui i
cavalli ammusano il corpo ormai
senza vita dello sfortunato gan-
gster un film non del tutto husto-
niano nel concedersi il lusso di un
romanticismo senza speranza.
La frammentazione del discorso
autoriale giustifica da parte nostra
lincoerente rosario di citazioni dei
film successivi, in realt imposto da
limiti di spazio: Lanima e la carne,
incantevole commedia in qualche
modo speculare a La regina dAfri-
ca, in cui Bob Mitchum impiega
mezzora per tradurre a Deborah
Kerr il gergaccio dei marines e il
tempo che rimane a trattenere il
proprio corpo sulle soglie di quello
della novizia, alla quale come sem-
pre limmensa attrice inglese offre
le sfumature di ambiguit nelle
quali era maestra; Moulin Rouge e
Moby Dick, per il lavoro sul colore
del grande Oswald Morris, anche se
la riduzione cinematografica del
classico di Melville, comunque
pericolosa, inciampa di continuo in
un protagonista imbarazzante;
Luomo che volle farsi re, favola
epica magicamente sospesa tra
Kipling e Barks, con due attori
simpatici e al massimo delle loro
notevoli possibilit, impeccabil-
mente vestiti da Edith Head e son-
tuosamente collocati nellimpaga-
bile dcor costruito o scelto da Ale-
xandre Trauner; Lonore dei Prizzi,
sorta di sulfureo anti-Padrino godi-
bilissimo nonostante le contorsioni
maxillo-facciali dellistrione Jack
Nicholson; il testamentario The
Dead, dapprima calibratissimo nel
pullulare di personaggi e indizi, un
po sbrigativo ancorch commoven-
te nella chiusa a due, che solo par-
zialmente risolve i problemi del
rapporto con la forse intraducibile
complessit di uno dei capisaldi
della letteratura del Novecento.
Un approfondimento a parte
meriterebbero i materiali di propa-
ganda bellica. Huston afferma di
aver girato questi documentari
come i film di finzione, anche per-
ch lunica differenza che in un
caso si scrive prima la storia, poi si
girano le immagini, nellaltro acca-
de il contrario. Di fatto, si tratta di
lavori fra loro molto diversi per
modalit di realizzazione e impian-
to narrativo, anche se accomunati
dalla distribuzione da parte del War
Activities Committee of the Motion
Pictures Industry. Winning Your
Wings un divertente spot a favore
dellarruolamento in aeronautica
preso per mano da James Stewart
in divisa che, sceso dal Thunderbolt
che ha appena finito di pilotare,
illustra i benefici effetti della mili-
tanza nellarma. Report from the
Aleutians, incisivamente fotografa-
to in Technicolor, narra la quotidia-
nit degli aviatori su Adak, unisola
in capo al mondo che sarebbe pia-
ciuta a Flaherty, usata come base
per le spedizioni delle fortezze
volanti contro i giapponesi. Molto
pi problematico e per questo ini-
zialmente rifiutato dallalto coman-
do Usa, The Battle of San Pietro ci
sembra uno degli esiti pi compiuti
di Huston per lottica insieme
distaccata e pietosa con cui si guar-
da non solo ai belligeranti ma
anche alla popolazione civile, in
particolare i bambini. Davvero
impressionante, poi, Let There Be
Light, sulle cure prestate nel repar-
to psichiatrico di un ospedale di
Long Island ai militari traumatiz-
zati dalla guerra. Proibito per tren-
tacinque anni e si capisce perch
il film conserva ancor oggi il suo
perturbante impatto emotivo grazie
anche a contributi tecnici di assolu-
to valore come quello del cinemato-
grapher Stanley Cortez e del musi-
cista Dimitri Tiomkin, che compare
anche nei credits dei due titoli pre-
cedenti (2).
Paolo Vecchi
(1) James Agee, Undirectable Director,
Life, 18 settembre 1950, ora in Emanue-
la Martini (a cura di), John Huston, Edi-
trice Il Castoro, Milano 2010.
(2) A Torino stato proiettato anche il
meno interessante Tunisian Victory, diretto
da Capra, per il quale Huston ha rigirato
negli Usa le sequenze perdute nellaffonda-
mento della nave che le trasportava.
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Giungla dasfalto
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RETROSPETTIVA
VITALIJ KANEVSKIJ
Quando nel 1990 venne presenta-
to al Festival di Cannes nella sezione
Un certain regard, il lungometrag-
gio Zamri, umri, voskresni! (Sta
fermo, muori e resuscita!, titolo che
riprende una filastrocca per bambi-
ni) fu accolto con entusiasmo, con-
quist la Camra dor (a cui seguiro-
no altri riconoscimenti al film, al
regista e sceneggiatore Vitalij
Kanevskij, al suono e al giovanissi-
mo protagonista Pavel Nazarov). Il
percorso della nascita, della realiz-
zazione ( grazie alla confusione
della perestrojka che ho potuto gira-
re il film sono passato in mezzo ai
poteri che stavano cambiando, ha
ricordato Kanevskij) dellaffermarsi
del film era stato decisamente fati-
coso e complesso: a Cannes era
giunto attraverso Alan Parker (in
Russia per una sua retrospettiva) al
quale con molta insistenza lo affid
in videocassetta lautore; fu il cinea-
sta britannico a farlo conoscere al
direttore del Festival Gilles Jacob.
La pellicola ambientata nel
1947, in piena era staliniana, in
Siberia nella cittadina di Sutchan,
trasformata in una zona di detenzio-
ne dove sopravvivono nella miseria,
nella violenza, nel freddo e nella
sporcizia condannati politici, delin-
quenti comuni, prigionieri giappo-
nesi insieme con la gente del luogo,
e dove il mondo contadino si inter-
seca senza incontrarsi con le minie-
re e con un protoindustrialesimo
informe: unico, misterioso, richiamo
di una possibilit di fuga e di riscat-
to, i binari della ferrovia e i treni,
carichi di carbone, che sembrano
saper perforare il muro di un oriz-
zonte desertico senza fine. Un uni-
verso allucinante rappresentato con
grande efficacia da un modo nervo-
so, diretto, incisivo nel combinare
racconto sceneggiato e documenta-
zione, grazie anche a un bianco e
nero opaco che esprime la cupezza
del luogo e la sospensione delle esi-
stenze, un degrado che spesso con-
duce allautoannientamento.
Il protagonista il dodicenne
Valerka, un monello (si fa espellere
dalla scuola per aver sabotato i ser-
vizi igienici e viene ricercato dalla
polizia perch ha fatto deragliare un
treno) in perenne movimento, fanta-
sioso e irrazionale come sanno
esserlo i bambini, inconsapevole
degli esiti delle proprie azioni, insof-
ferente nei confronti della madre
(non ha padre) e di qualsiasi adulto.
ancora una volta la coetanea Gali-
ja a tirarlo fuori dai guai (quando in
fuga si aggrega a una banda di ladri
assassini) sacrificando la propria
vita. Il film fu distribuito in Italia
con i sottotitoli.
Lo stesso avvenne con il successivo
Somostojatelnaja zhizn (Una vita
indipendente) una coproduzione
franco-russa, presentato a Cannes nel
1992 ottenendo il premio speciale
della giuria ex aequo con El sol del
membrillo di Victor Erice che rac-
conta ladolescenza e i primi difficili
passi nella maturit di Valerka. Il
ragazzo si sente soffocare a Sutchan.
Sempre pronto alla zuffa, viene
espulso dalla scuola professionale.
Consapevole di avere deluso ancora
una volta la madre e sostenuto solo
dallaffetto di Valka (la sorella di
Galija) lascia la cittadina, raggiunge
una citt industriale sullestuario del
fiume Amure e trova lavoro in un
cantiere navale. Presto scopre che
tutto molto simile a quello da cui
era fuggito, e che anche il mare piat-
to un deserto insuperabile. Quando
Valka lo raggiunge, preoccupata per
il suo silenzio, disperata scopre che
lui quello di sempre, incapace di
affrontare responsabilmente la vita,
di amare e di non lasciarsi trascinare
dagli eventi.
La retrospettiva che Tff ha dedi-
cato a Kanevskij (alle proiezioni il
regista sempre stato presente,
intrecciando il suo cinema con i
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Qui e nella pagina a fianco, Sta fermo, muori e resuscita di Vitalij Kanevskij
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diversi momenti della sua esisten-
za), accompagnata da un prezioso
catalogo curato da Stefano Francia
Colle con il sottotitolo esplicativo
La tenacia dellinnocenza, ha per-
messo di riconsiderare Zamri, umri,
voskresni! e Somostojatelnaja
zhizn, in cui lautore ha rivisitato
per propria ammissione la sua
infanzia e adolescenza (sono una
sorta di amarcord, quello dellinfan-
zia meno amaro di quello delladole-
scenza che sfocia nella maturit,
come nei film riminesi di Fellini), e
di scoprire qualche brano della sua
carriera prima di Cannes e il lavoro
che ha compiuto successivamente.
Kanevskij (nato a Vladivostok
nel 1935) ha vissuto nellinfanzia
effettivamente nei luoghi in cui ha
ambientato i due film e si identi-
ficato in Valerka. La sua vita
stata ricca e movimentata. Poco
prima di diplomarsi in cinema nel
1966 fu condannato per stupro.
Scarcerato otto anni dopo riusc a
rientrare nel mondo del cinema e a
realizzare alcune opere, tra cui un
paio di lungometraggi prima del
1989, che per ha in seguito disco-
nosciuto o riconosciuto solo par-
zialmente. Fra queste Tff ha propo-
sto il cortometraggio Sekret chet-
vyorty (Il quarto segreto) del 1976,
una commedia solare e narrativa-
mente lineare con protagonista un
bambino vivacissimo alle prese con
un mondo in bilico fra natura e
macchine, fra fantasie legate alla
natura e giochi moderni.
Nazarov (che interpretato il ruolo
di Valerka, famigliarmente chiamato
Pasha, scelto dal regista fra un grup-
po di bambini che consumavano le
loro giornate nelle stazioni della
metropolitana) divenuto una sorta
di alter ego (se si preferisce un figlio
in cui ci si riconosce che si giustifica
sempre, anche quando per lennesi-
ma volta dimostra la sua vocazione
alla trasgressione casuale e velleita-
ria) del regista che ne ha seguito le
vicende esistenziali con affetto fino
al 27 maggio del 2010, quando per
il ventottesimo Tff ha girato linter-
vista Da Cannes alle sbarre: una
testimonianza di Pavel Nazarov:
ormai adulto, sposato con figli, pi
volte incarcerato per i suoi compor-
tamenti criminali, divenuto credente
convinto, continua ad affermare
buone intenzione di mutare vita con
assoluta sincerit senza riuscirvi,
probabilmente senza intimamente
volerlo. Il vecchio regista rivela una
sorta di ambigua nostalgia faticosa-
mente contenuta.
Pasha lo aveva ritrovato in carce-
re nel 1993 realizzando Nous, les
enfants du XX sicle (Noi i ragazzi
del XX secolo) sulla condizione dei
giovani emarginati nella Russia
postsovietica, uninchiesta inquie-
tante in cui il regista diviene una
sorta di osservatore partecipante,
anche emotivamente. E con lui
avrebbe girato, due anni dopo, alcu-
ne sequenze di un terzo lungome-
traggio autobiografico (rimasto
incompiuto per mancanza di finan-
ziamenti) ancora con protagonista
Valerka, irresponsabile e incosciente
come sempre, alle prese con il servi-
zio militare. Il film avrebbe dovuto
intitolarsi Raz,dva! (Uno, due!).
La retrospettiva ha proposto inol-
tre: lironico e disincantato medio-
metraggio del 2002 Kto bolche. Les
noveaux entrepeneurs russes (Il pi
grande. I nuovi imprenditori russi),
sulla nascita di un nuovo ceto socia-
le privo di etica e di aspirazioni dif-
ferenti dal denaro, sorto dalle ceneri
della societ sovietica; il pieno di
speranza lautomne dune nouvel-
le vie (Nellautunno di una nuova
vita, 2002), dedicato al Consiglio
municipale di Mosca e al suo impe-
gno a favore dei giovani in difficolt;
il cortometraggio Miloserdie bez
granic (Misericordia senza limiti,
2002), un ritratto ammirato della
deputata Zinaida Dragunkina,
impegnata a risolvere i problemi dei
pi poveri.
Kenevskij, dunque, dopo Somosto-
jatelnaja zhizn non ha pi girato
lungometraggi a soggetto. In tutti i
suoi film ha cercato di svelare la pro-
pria personale presenza con la sua
voce, come regista, come cantante e
come intervistatore che vuole parte-
cipare proponendo unidea del cine-
ma come forma di essere nella quoti-
dianit in un divenire della Storia di
cui si capisce poco, proprio come
accaduto a lui nel 1989, se non
quando i cambiamenti sono gi avve-
nuti e si percepiscono concretamente
i loro effetti. Per lui il cinema stata
unancora di salvezza e una prospet-
tiva esistenziale. Per questo ha dimo-
strato ricorrentemente il suo dispia-
cere nel dover constatare che il desti-
no di Pasha sia stato diverso dal suo,
che le molteplici occasioni che negli
anni lui gli ha offerto, di fare del cine-
ma un mezzo per divenire finalmente
adulto, si siano risolte in una catena
di fallimenti.
Gianluigi Bozza
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FIGLI E AMANTI
Un figlio pu avere un solo padre,
un padre molti figli. Questanno al Tff,
la sezione Figli e Amanti ne ha parto-
riti cinque: registi diversi, che hanno
scelto un film diniziazione e lhanno
condiviso con il pubblico del festival.
Scoprendo di avere lo stesso padre. Il
cinema.
ARGENTO VIVO
Avrebbe preferito Luomo con la
macchina da presa, ma anche Kino-
glaz va bene. Dario Argento sceglie
Dziga Vertov, la paternit prima del
film. Da Vertov ho imparato la gram-
matica del cinema, spiega fa un uso
assolutamente innovativo della mac-
china da presa, con quei carrelli alti e
solenni o le inquadrature tra le ruote
del treno. A quei tempi, non esisteva
nulla del genere.
Era il 1924 e Kinoglaz trasforma-
va uno strumento di propaganda, i
cinegiornali, in momento dindagine
e sperimentazione: i volti del popolo
dietro il volto di Lenin, i luoghi e i
riti di vita e di morte; Kinoglaz un
film di propaganda che non rinuncia
a mostrare le atrocit, i piedi scalzi, i
malinconici pionieri, il tubercolosa-
rio, il manicomio. C uno sguardo
interessante e terribile sulla realt,
c Vertov. Un autore davanguardia
pi che di stato, un uomo che non a
caso mor emarginato nel 1958, sotto
Stalin. Quello che affascina Argento
un cinema di visione. Il Cineocchio,
locchio cinetico che muove gli even-
ti, avanti e indietro nel tempo, e li
trasforma, il toro che rinasce dalle
proprie viscere, convertendo la fine
in inizio, generando movimento. Poi
sono arrivate altre passioni Fritz
Lang, i film della Hammer, La setti-
ma vittima di Mark Robson, Il bacio
della pantera di Jacques Tourneur e
ancora Fellini, Bergman e Antonioni
ma allorigine di tutto rimane il
gesto, del vedere e far vedere una
realt elettrica e veloce, come argen-
to vivo. La cinefilia non finisce mai,
conclude il regista ti butti, torni
indietro e ti butti di nuovo. Come i
tuffatori di Vertov.
IL FIGLIOL PRODIGO
Ho scelto questo film perch lo
vidi tardi, Saverio Costanzo scopre
Buuel a venticinque anni, e quando
lo vidi, capii cosa stavo facendo e cosa
volevo fare.
Il film LAngelo Sterminatore, del
1962. Costanzo lo vede e poi lo rivede,
negli anni a seguire, accostandosi alla
pellicola come al segreto di una para-
bola radicalmente laica. un film
che assolve al compito del cinema:
lasciare mistero allimmagine cinema-
tografica, commenta Non vuole
spiegarsi e non vuole terminare. Per
questo mi sembra ferocemente attua-
le, perch un film che mi interroga
sempre.
La storia costringe la borghesia
nello spazio di una stanza e di una
domanda: perch non possiamo usci-
re, perch non possiamo essere liberi?
E Costanzo risponde, o meglio dialoga
con il film: Oggi il cinema in una
barricata rispetto al passato, dice
non viene accettato pi nulla che non
sia spiegato e questa una perdita,
non una conquista. La libert della
forma di Buuel rivoluzionaria:
luso della simbologia religiosa come
provocazione anzich risposta, lim-
perfezione del film che ne esalta il
mistero. La potenza sta nel non detto
e nel senso, pi che nel significato.
Quando il pubblico chiede quale
influenza ha esercitato il film sul pro-
prio lavoro, risponde senza esitazioni:
LAngelo Sterminatore parla di
costrizione. Mi sono accorto che lo
faccio anchio, nei miei film. Come un
figliol prodigo, che si guarda indietro
e ritrova il padre.
NEL NOME DEL PADRE
Una data, due fotografie.
16 marzo 1978. The Long Good-
bye e il rapimento Moro.
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Langelo sterminatore di Luis Buuel If di Lindsay Anderson
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Carlo Mazzacurati ricorda cos lin-
contro con il film di Altman: La noti-
zia ce la diede un passante in biciclet-
ta, fuori dal cinema. Entrare assunse il
significato di una fuga, da quel
momento e dallItalia. Il cinema
diventa un rifugio, loccasione per sfi-
larsi dal mondo e infilarsi in sala.
Guardare linizio del film, il lungo
incipit con Marlowe e la gatta, fu un
atto di attrazione e astrazione. Non
sentivo pi nulla, mi allontanavo e mi
abbandonavo a uno stato di estasi.
Sempre spinto da quel desiderio, di
allontanarsi dalla Storia per trovare
un altrove di storie, torner a The
Long Goodbye in et pi matura. Il
tempo tira fuori al film una certa inge-
nuit che a quindici anni non vedevo.
come quando entri in una stanza
dopo tanto tempo e noti che il divano
piccolo e larredamento non per-
fetto come lo ricordavi; eppure sei
legato a quel luogo, perch ci hai tra-
scorso linfanzia. Mi piacciono i film
che contengono alcune imperfezioni,
forse. E gli piacciono i personaggi
come il Marlowe/Elliott Gould, in
apparenza perdenti e marginali, ma
dotati di sensibilit e di una forza poe-
tica capace di investire gli eventi. La
grazia del film sta tutta in un pensie-
ro etico: racconta di uno stupido
dinoccolato che riesce a risolvere la
storia. un film ancora pi morale,
perch lo fa un regista ironico, libero,
lontano dalla violenza. Nel posto in
cui ripariamo dalla vita, in un film
ambientato negli anni Settanta, ma
gremito di unidea di passato che non
va via: qui, troviamo il riscatto.
Fuori, un giorno di piombo. Den-
tro, Marlowe fa giustizia.
FIGLIO DI UNEPOCA
Daniele Lucchetti sceglie If e nel
periodo ipotetico ci mette lo stupore
per un film che ancora sorprende.
Oggi colpisce di pi per la crudelt
della sua prima parte, spiega la
violenza della Public School e il
senso di claustrofobia che evoca.
convinto di una cosa: non si
tratta di un film ideologico. Ander-
son mette in scena una ribellione
totale, lo scenario del cosa succede-
rebbe se una mitragliata si scaricas-
se su buoni e cattivi, insegnanti,
mamme e studenti, contro tutto,
anche contro la modernit. Cosa
accadrebbe al 1968? C un momen-
to storico che rimane fuori campo e
il regista lo interpreta restando sui
banchi, in aula, nel cortile: Per rac-
contare unepoca di liberazione,
mostra la costrizione. un film
estremo, ci porta in zone inesplorate
di quegli anni. Le inquadrature
sono ferme e oggettive, ma ci sono
novit in ogni sequenza; Lucchetti si
diverte a individuarle: la scelta del
bianco e nero, battute inaspettate
come Vammi a scaldare il cesso e
la magistrale sequenza delle frustate,
in cui la prospettiva cambia ogni
volta e ribalta la percezione. Laspet-
to che pi lo affascina il pubblico a
cui si rivolge Anderson, If parla
allet matura e capta i segnali di un
momento storico. un cinema per
adulti, un cinema che stato sosti-
tuito da film per adolescenti. E se
un regista si fa antenna di unepoca,
come Lindsay Anderson, i figli devo-
no ascoltare.
FIGLIO PUTATIVO
Verdone racconta di suo padre,
quello vero. Di uno storico del cinema
a cui Carlo ruba un proiettore 16mm,
per vedere Lo sceicco bianco.
Dopo un po salta fuori che questa
non una storia di padri e figli, ma di
famiglie allargate. Di figli putativi. C
Lo sceicco bianco, primo film di Felli-
ni, e ci sono le scelte: Un grande regi-
sta non si vede dai movimenti di mac-
china, ma dal senso del ritmo, dal
montaggio, dalla capacit di far reci-
tare gli attori. E ci sono i volti, nessu-
no casuale, che raccontano unanima,
il rapporto di un regista con una citt.
Secondo Verdone, Fellini fu innanzi-
tutto uno psicologo; arrivato al
cuore di una Roma cialtrona, impie-
gatizia, mitomane. Ha vissuto profon-
damente Roma e lha capita perch vi
si accostato dallesterno. Come
farebbe un figlio acquisito. O un padre
adottivo con i figli, gli attori. Non c
una faccia sbagliata nel film, conti-
nua Verdone e Sordi qui compreso
in tutto il suo potenziale di attore
anarchico, per questo Fellini lo volle
anche ne I Vitelloni.
Poi, i figli crescono e passano dallal-
tra parte (della barricata o della mac-
china da presa). Verdone confessa con
orgoglio di aver ereditato da Lo sceic-
co bianco lossessione per il personag-
gio del marito pedante, di aver seque-
strato Ivan Cavalli per rinnovarlo e
fonderlo a suggestioni reali, per ripor-
tarlo in scena nei propri film. Cos tor-
niamo allinizio, agli insegnamenti dei
padri e alla vita dei figli. Al cinema.
Chiara Zingariello
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Lo sceicco bianco di Federico Fellini
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Cinema Ritrovato:
Ford! Ford! Ford!
Il bolognese Cinema Ritrovato,
giunto alla ventiquattresima edizione,
appuntamento salutare, fa bene a
chi vuol bene al cinema. Mettiamo in
fila quanto di buono e ottimo cera
questanno: i film del 1910, giusti cen-
tanni fa; i film di Albert Capellani,
probabilmente il primo vero autore
della storia del cinema; una collana di
vues dei Lumire; un bel gruppo di
film degli anni Dieci con personaggi
di donne avventurose senza paura e
senza paragone; un altro gruppo di
film legati alla citt di Napoli con un
omaggio a Caruso; una imponente sfi-
lata di film di John Ford; un omaggio
a Stanley Donen; alcuni film esempla-
ri in Technicolor, tra i quali La regina
dAfrica, Senso e Johnny Guitar; un
omaggio a Pierre Etaix e ai suoi film
risuscitati. E poi Metropolis nella ver-
sione ormai quasi completa dopo lag-
giunta della mezzora ritrovata a Bue-
nos Aires: adesso siamo a 148 minuti
e 4.070 metri, sui 4.189 della versio-
ne iniziale del gennaio 1927. Pi Il
Gattopardo, Roma, La 317me sec-
tion di Pierre Schoendorffer, Acto da
primavera di Oliveira, rarit come La
statua di carne di Mario Almirante
(1921) e il Confucius di Fei Mu
(1940), il restaurato e sempre magni-
fico Boudu sauv des eaux di Renoir
(1932), il bellissimo Iris, fiore del
Nord di Alf Sjberg (1946) e altri film
sparsi di Dassin, Bergman, Robson,
De Toth, Gathak, Mattoli, Castellani,
Florey per un totale di trecentotre-
dici film in otto giorni.
In mezzo a tanta abbondanza e
continuando pur sempre a sbirciare
un po dappertutto nel programma,
abbiamo deciso di concentrarci sul
piatto forte: la trentina di film di John
Ford, compresi tra Straight Shooting
del 1917, quando Ford aveva ventitr
anni, e Pilgrimage del 1933, quando
era diventato il pi bravo di tutti.
Prima cosa che si impara quando si
vedono, tutti in fila, i film muti e i
primi sonori di Ford che questo
degli inizi gi il grande Ford. Non
un apprendista, sia nei suoi momenti
altissimi come anche in quei piccoli
film di routine e di genere, di ogni
genere, western certo, ma anche
avventurosi, campagnoli, commedie,
melodrammi, film di aviazione e di
marina, film minimi che continuer
ad amare e a girare fino al termine
della lunga carriera. Il Ford maggiore
di The Iron Horse, 3 Bad Men, Fours
Sons, Up the River o Pilgrimage, gi
quello di Ombre rosse, Sentieri sel-
vaggi, Sfida infernale e Luomo che
uccise Liberty Valance. Cos come il
Ford minore, spesso eccellente, di
Just Pals (1920), Kentucky Pride
(1925), Hangmans House (1928) o
The Brat (1931) gi quello che con-
tinuer a girare film quasi tenuti
nascosti, che piacevano solo a lui e
che sono meravigliosi come Il sole
splende alto (1953), uno dei suoi pi
belli, fino al film di addio, Missione in
Manciuria (1966).
Quel che si nota subito, raccoglien-
do le ricorrenti suggestioni che vengo-
no da ogni film, alto o basso, eccezio-
nale o minimo, sono alcune preferen-
ze e predilezioni: certi modi di costrui-
re il racconto; la voglia di essere sem-
pre popolare; unadesione ostentata e
commossa al mondo della gente
umile; la passione per le atmosfere
rurali; lo schierarsi senza se e senza
ma dalla parte degli ultimi, di pove-
racci, ubriaconi, emarginati e deboli; il
suo inchinarsi davanti alla figura di
ogni madre; il non riuscire a soppor-
tare ricchi e riccastri, borghesi e
dandy; lattrazione per il melting pot
americano con gli irlandesi in primo
piano; la libert nel mettere insieme
toni narrativi anche molto distanti;
quel suo passare senza preoccupazio-
ni, da una sequenza allaltra o nella
stessa sequenza, da un registro dram-
matico al lirico, dal meditativo al
comico, fino a formare un impasto
sorprendente di modalit emotive;
lammirazione per le istituzioni mili-
tari; una vera e propria ossessione per
le parate, le sfilate, i funerali, i festeg-
giamenti, le bevute di gruppo.
Qualche film, grande e piccolo.
Lepopea ferroviaria e nazionale di
The Iron Horse (Il cavallo dacciaio,
1924) ben conosciuta, vi si mescola-
no la storia fastosa della frontiera
mobile che avanza sui binari con tante
storie personali e minime, inserite in
maniera anche zoppicante e precaria
dentro il quadro dinsieme. Molto
meno visto e molto meritevole di
esserlo 3 Bad Men (I tre furfanti,
1926), film anticipatore dei motivi
portanti dei grandi western posteriori.
Ambientazione: la corsa alle terre del
Dakota, nel 1877. Storia di redenzio-
ne di tre fuorilegge, molto amata da
FESTIVAL E RASSEGNE
The Iron Horse (1924) di John Ford
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Ford che laveva gi raccontata in
Marked Men (1919), film purtroppo
perduto che Ford riteneva il suo muto
migliore. Storia che Ford racconter
ancora in 3 Godfathers (In nome di
Dio, 1948). Evidenti nel film i richia-
mi biblici, la terra promessa e i tre
Re Magi, i virtuosismi fotografici,
lironia e il dramma, il quotidiano e il
celeste, e soprattutto il raccontare for-
diano, cos semplice, cos naturale.
In Four Sons (Lultima gioia,
1928), la figura della madre occupa il
posto centrale. Allinizio del film sta
per scoppiare la Prima guerra mon-
diale e siamo in Baviera (alla fine
saremo in America) con forte sposta-
mento del baricentro narrativo nella
terra dei nemici. Mamma Bernle ha
quattro figli: il pi grande parte per
gli Stati Uniti, due perdono la vita al
fronte, il pi giovane resta con lei, poi
viene arruolato a forza. Joseph, intan-
to, diventato cittadino americano,
viene mandato a combattere sul fron-
te francese. Sar lui ad abbracciare il
fratello morente. Finita la guerra,
Joseph chiama con s la madre a New
York. Ford disse che Four Sons era la
sua prima storia veramente buona.
La guerra distrugge la vita di ogni
comunit, anche di quelle dei nemici.
Le madri dei nemici sono come tutte
le madri, tutti i soldati sono uguali fra
loro, ognuno di loro ha una madre. Il
film commovente e semplice, un
melodramma vicino agli ultimi, sprez-
zante con chi li manda a morire, duro
con i burocrati che tentano di impedi-
re a una madre di ricongiungersi con
il figlio in America.
Tra le riscoperte fatte a Bologna un
posto di rilievo merita Up the River
(Risalendo il fiume, 1930), film
pochissimo visto, del tutto eccentrico,
con Spencer Tracy e Humphrey
Bogart. Il genere il carcerario, ma le
convenzioni sono usate in modo dav-
vero particolare fino a trasformare il
film in una commedia che sconfina
nellassurdo, in unatmosfera giocosa,
disinvolta e ironica. Il carcere il
luogo giusto in cui stare. Il mondo di
fuori ipocrita e tristissimo. In galera
si gioca a baseball, ci si diverte, si vive
tra amici. Un Ford sovversivo.
Pilgrimage (Pilgrimage, 1933)
ancora un film su una madre: posses-
siva e crudele. Per impedire al figlio di
sposare la ragazza che ama e che
aspetta un bambino, lei stessa che va
ad arruolarlo nellesercito. Il figlio
parte per la guerra e muore nelle
Ardenne. Passano gli anni, la madre
viene decorata e invitata a partecipa-
re a un pellegrinaggio in Francia sulle
tombe dei caduti. Prima resiste, poi
decide di andare. Torner cambiata.
Ancora quindi la guerra, una madre e
un melodramma famigliare. A lungo
sottovalutato, va oggi considerato uno
dei capolavori di Ford. Temi per lui
appassionanti, tutti in forma di duro
confronto: madre e figlio, durezza e
amore, errore e perdono. Temi e rac-
conto sviluppati in maniera voluta-
mente squilibrata, con salti marcati
tra la sentimentalit pi toccante e un
umorismo ruvido ed esplicito.
Qualcosa sugli altri film di Ford,
quelli tuttora considerati minori,
molti dei quali sorprendenti, come
Riley the Cop (1928), riassunto cos
nella didascalia di apertura: Un buon
poliziotto si riconosce dagli arresti che
non fa, film percorso da una anarcoi-
de vena irlandese. O come il virtuosi-
stico, nella sua fiammeggiante assur-
dit (parola di Lindsay Anderson),
The Black Watch (1929), con Victor
McLaglen, ufficiale scozzese delleser-
cito britannico, con Myrna Loy, ribel-
le principessa indiana (dellIndia), e
con il fratello Francis Ford in una pic-
cola ma memorabile parte. O ancora
come il pochissimo visto The Brat (La
trovatella, 1931), sbilenca commedia
romantica dalla quale Ford trae un
film agilissimo, giovane, sofisticato,
incantevole.
Premiati i migliori dvd editi nel
mondo. Miglior dvd: By Brakhage:
An Antology, Volume Two di Stan
Brakhage (Criterion). Migliori Bonus:
ex-aequo a Engineers Prites Project
e The Great Consoler di Lev Kule-
shov (Ruscico, Russia), October di
Sergey Eisenstein e Grigori Aleksan-
drov (Ruscico) e Die Freudlose Gasse
di Georg Wilhelm Pabst, (Edition Fil-
mmuseum, Germania). Miglior
Riscoperta di un film dimenticato:
The Exiles di Kent Mckenzie (Mile-
stone), Marijka Nevernice di Vladi-
slav Vancura (National Film Archive,
Rep. Ceca), Wunder der Schpfung di
Hanns Walter Kornblum (Ed. Fil-
mmuseum). Migliore Collana/Cofa-
netto: Roberto Rossellinis War Tri-
logy: Rome Open City, Paisan, Ger-
many Year Zero (Criterion). Miglior
dvd non fiction: La guerra filmada
(Filmoteca Espaola). Miglior dvd di
ricerca critica: La coquille et le cler-
gyman di Germaine Dulac (Light
Cone & Paris Exprimental). Menzio-
ni speciali: Irish Destiny di Issac
Eppels (Irish Film Archive), La rosa
di Bagdad di Anton Gino Domene-
ghini (Cinecitt Luce).
Bruno Fornara
Up the River (1930) di John Ford
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LE COMICHE KEYSTONE
DI CHARLIE CHAPLIN
Cofanetto di 4 dvd, Cineteca di Bologna, 2010 - 29,90
Dopo quasi centanni, il primo tempo dellopera di
Charles Chaplin ossia i trentacinque film girati per la
societ Keystone dal gennaio al novembre 1914 stato
finalmente riscattato dalle edizioni raffazzonate e incom-
plete (vedi i film-centoni distribuiti con disinvoltura nel
dopoguerra, o le versioni trasmesse per anni dalla Rai) e
presentato nella forma filologicamente pi completa pos-
sibile. La pubblicazione di questo cofanetto, compren-
dente quattro dvd, un vero e proprio avvenimento:
nasce nellambito del Chaplin Project, intrapreso nel
1999 dalla Cineteca di Bologna e dalla collaborazione
con il British Film Institute e Lobster Films, con lappor-
to determinante di tredici archivi fra i pi importanti di
Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Portogallo,
Olanda, Finlandia e Svezia. Il corpo dei primi film inter-
pretati e poi anche ideati e diretti da Chaplin, perlopi
della durata di uno o due rulli (dieci-venti minuti) con
leccezione del film di Mack Sennett Tillies Punctured
Romance (Il romanzo di Tillie), che dura oltre ottanta
minuti e costituisce al tempo stesso il primo lungome-
traggio e lultimo film in
cui Chaplin si lasci
dirigere da un altro regi-
sta stato smembrato
e disperso perch egli
stesso non si preoccup
di acquistarne i diritti e
di proteggerlo dagli
scempi e dalle mano-
missioni mercantili. Fra
laltro, come spiega
bene il documentario
Inside the Keystone
Project di Serge
Bromberg e Pauline
Richard (racchiuso fra
gli extra), la stessa
Keystone sfruttava i
film allingrosso e non si
faceva nessuno scrupolo
di conservarli adeguata-
mente. Basti pensare
che di nessuno dei tren-
tacinque film soprav-
vissuto il negativo origi-
nale e, come scrive il
direttore della Cineteca
di Bologna, Gian Luca Farinelli, nellintroduzione del
booklet, solo di alcuni titoli arrivato nelle nostre mani
un positivo di prima generazione e [] per la maggior
parte abbiamo ritrovato solo materiali di seconda o terza
generazione. La collazione fra i migliori positivi esisten-
ti ha consentito di ricostruire le edizioni pi complete
possibili, ma manca ancora allappello Her Friend the
Bandit (distribuito in Italia col titolo Charlot bandito
gentiluomo) di Sennett, che era gi scomparso quaran-
tanni fa.
Vedere questi film restaurati minuziosamente (perlopi
dal laboratorio LImmagine Ritrovata) e allineati nellor-
dine cronologico, consente innanzitutto di assistere alla
genesi di Chaplin come autore completo di se stesso,
attraverso il graduale ma rapido dominio delle risorse
narrative ed espressive della macchina-cinema e la magi-
strale tesaurizzazione e adattamento alla nuova forma
darte delle formidabili esperienze che egli aveva gi pre-
cocemente acquisito sul palcoscenico.
Quando Chaplin approd alla Keystone, nel dicembre del
1913, aveva appena ventiquattro anni ed era alla sua
seconda tourn statunitense con la compagnia di Fred
Karno. Si era gi messo in luce per le sue interpretazioni
(tanto che in una pubblicit del luglio del 1914, quando
aveva gi girato venti film, menzionavano ancora le sue
performance nello sketch Mumming Birds). Sembra che
Sennett lo avesse invitato su indicazione di un dirigente
della New York Pictures e fin da subito il metodo
Keystone, basato sulla rapidit e lo sfruttamento di gag
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DVD
Kid Auto Races at Venice, Cal.
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elementari, affidate soprattutto agli inseguimenti, non
piacque allattore inglese, che amava gi rifinire e perfe-
zionare ogni scena fin nei minimi dettagli. Ma in quellin-
tensissimo apprendistato, egli speriment tutto quello
che poteva sperimentare (tecnica, generi narrativi, dire-
zione dei comprimari) e, sfruttando limmediata, formi-
dabile popolarit ottenuta fin dai primi cortometraggi,
pot arrivare a imporre la propria volont, cos da dirige-
re egli stesso i suoi film (dal tredicesimo film, Caught in
the Rain, ma probabile che il precedente, Caught in a
Cabaret, fosse una co-regia con la primattrice della
Keystone, Mabel Normand).
Naturalmente, la creazione e le prime evoluzioni del per-
sonaggio del vagabondo costituiscono uno dei fenomeni
pi impressionanti: nella successione cronologica dei film
Keystone, assistiamo alle variazioni di identit, costume,
mimica gestuale ed espressiva, che Chaplin via via impri-
me alla sua geniale invenzione, gi definita nei suoi con-
notati essenziali fin dalle prime apparizioni ma via via
perfezionata, arricchita, cesellata con nuove soluzioni e
soprattutto con il disegno graduale dellinteriorit e del-
lemotivit del personaggio. Il primo film dove apparve
sugli schermi il vagabondo Kid Auto Races at Venice,
Cal. (Charlot si distingue), uscito il 7 febbraio del 1914,
in realt il secondo a essere stato realizzato, ma il vero
esordio di Charlot Mabels Strange Predicament fu
distribuito appena due giorni pi tardi non poteva esse-
re pi emblematico: vediamo Charlie mentre cerca in tutti
i modi di entrare nellobbiettivo della macchina da presa
di due operatori che stanno filmando una gara di macchi-
ne per bambini. Sotto lo sguardo divertito di un pubblico
gi conquistato, si scontra con loperatore, che il suo
primo regista, Henry Lehrman, in un riflesso diretto di
quanto accadeva nella realt: i due si erano detestati
immediatamente e Lehrman faceva sistematicamente
tagliare in moviola le gag inventate da Chaplin, per ten-
tare di sottometterlo. Nel film, che si chiude non a caso
con un primo piano di smorfie quasi grottesche di
Chaplin davanti alla mdp, domina gi la lotta furiosa e
selvaggia che al centro di tutti i film Keystone. una
lotta per la sopravvivenza che Chaplin fin dalla prima
apparizione cinematografica in assoluto, Making a Living
(Charlot giornalista, dove nonostante il titolo italiano, il
suo personaggio non ha nulla a che vedere col vagabon-
do), nei panni di un vilain con baffi a manubrio, monoco-
lo, finanziera e cappello a cilindro interpreta, unendo
una irriducibile purezza alla crudelt maliziosa (e non di
rado perfino sadica) di un bambino gi segnato dalla
scuola della strada.
I film Keystone sono dei mirabolanti balletti percorsi dal-
lenergia febbrile di marionette che combattono per la vita
e si percuotono ferocemente in un moto perpetuo. In que-
sto circo acrobatico e feroce, che finisce per dare vita a una
serie di coreografie stilizzate e crudeli, Chaplin appare nei
primi film, segnato da un trucco e da una mimica pi greve
di quella che diventer abituale in seguito, e man mano
che prende il potere sui film che interpreta, impone inven-
zioni mimiche sfrenate e spasmodiche (si pensi allesila-
rante Dough and Dynamite). Appaiono gi in nuce nume-
rose idee che svilupper e perfezioner nei film successivi,
anche nei lungometraggi pi celebri, come il tema fonda-
mentale della disparit di classe (in Caught in a Cabaret) e
la fusione stilistica di pathos, dramma e comicit (in The
New Janitor). Un elemento di fascino particolare, e che
ricorre in vari film, il cinema nel cinema, sfruttando il
dietro le quinte degli studi Keystone per gag talvolta magi-
strali (come in The Masquerader, dove assistiamo al trave-
stimento femminile di Charlie che si prende una rivincita
sul licenziamento).
Il libretto che accompagna i dvd comprende le note accu-
rate ed esaurienti di Jeffrey Vance su ogni film e su ogni
restauro e un testo della curatrice Cecilia Cenciarelli sulle
prime proiezioni dei film di Chaplin in Italia. Gli extra
sono splendidi: bisogna ricordare un estratto del corto-
metraggio ritrovato nel giugno 2010 di A Thief Catcher,
dove Chaplin appare brevemente nei panni di un
Keystone Cop, il bel film danimazione Charlies White
Elephant (1916) di John Colman Terry e H.M. Shields, il
pregevole documentario sui luoghi delle riprese ieri e
oggi, Silent Traces di Jeffrey Castel, e le preziose e illumi-
nanti interviste a storici del cinema del calibro di David
Robinson e Peter Von Bagh.
Roberto Chiesi
Caught in Rain. Sotto, Mabels Strange Predicament
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NOTE A MARGINE.
APPUNTI PER UN FILM
SUL SETTE LUGLIO
di Nico Guidetti
Camera del Lavoro di Reggio Emilia - s.i.p.
Nel pomeriggio del 7 luglio 1960, a Reggio Emilia, cin-
que manifestanti che avevano risposto allappello della
Cgil per una protesta contro il governo Tambroni, soste-
nuto dallesplicito appoggio del Msi (il partito neofasci-
sta), caddero sotto il fuoco della polizia nel centro della
citt. Due piazze collegate: Piazza della Vittoria, che
ancora si chiama cos, e Piazza Cavour, che dopo quei
fatti divent Piazza Martiri del 7 luglio. Il film di Nico
Guidetti, nato da unidea di Luciano Berselli (che ha col-
laborato alla sceneggiatura), segue a tratti la voce di
Paolo Nori, autore del libro Noi la farem vendetta (ed.
Feltrinelli) e, per cos dire, gira attorno al luogo dellec-
cidio. Ma come? Fisicamente, certo, perch opera nella
citt di oggi e la confronta, grazie a reperti filmati depo-
ca, con quella del 1960; ma soprattutto per suggestione
ideale e simbolica: rimasto qualcosa di quei fatti nella
coscienza collettiva?, sembra
chiedersi lautore.
Il tempo non parla al tempo, si
sa, ma una evocazione autenti-
ca permette di ascoltarne gli
echi. Specie se, come ha tentato
Guidetti, ci si sforza di far
emergere affinit lontane, si
diseppelliscono frammenti e si
cercano residue voci di testimo-
nianza. Come quella di Jessica
Farioli, nipote del Lauro caduto
a poco pi di ventanni davanti
alla chiesa di San Francesco,
che ama i cavalli e ne avrebbe
voluto uno nero perch nere,
dalle fotografie, erano le
sopracciglia del nonno. I morti
di Reggio Emilia hanno ispira-
to una celebre canzone di
Fausto Amodei (epica quanto
dolorosa e sommessa) e compa-
iono, con precoce rammarico,
in un poco celebre ma bellissi-
mo romanzo di Pratolini uscito
nel 1963, La costanza della
ragione: e cambi Governo
e ritorn lordine, la conviven-
za, il cielo chiuso. [] Quel san-
gue che ci bolliva dentro, che a
Reggio e Palermo ragazzi della mia et e anziani []
lasciarono una volta di pi sul selciato, lo lavarono gli
acquazzoni dautunno.
Alle parole di Pratolini sembra rimandare il film, con la
sua citt tranquilla, impigrita dallestate e dallagio, con
le sue piazze trasformate, messe a nuovo; con i suoi per-
sonaggi avulsi dallantica tradizione operaia il delegato
metalmeccanico di colore Jefferson Riascos Cabeza, i gio-
vani di un centro sociale che lottano contro gli sfratti e
tuttavia raccolti attorno alla Fiom, il sindacato rimasto
combattivo ma anchesso in odore di marginalit, pur se
numerosa ed energica.
Insomma si respira loblio in Note a margine che del-
loblio sembra assumere tempi e umori, adombrando una
sottesa ma nitida polemica si avverte il presente di una
citt che ha spinto la tragedia fuori dal teatro e, con essa,
un bel pezzo di coscienza collettiva. La voce di Nori,
accompagnato da Mirco Ghirardini al clarinetto, infatti
quella di un forestiero che guarda con stupore a un epi-
sodio accaduto mezzo secolo fa ma vissuto come attuale
fino agli anni Ottanta, se vero come vero che la can-
zone di Amodei accompagn il Sessantotto e il dopo.
Scendendo da immobili panoramiche, Guidetti torna pi
volte sul teatro delle piazze, si ferma un po attonito,
osserva le fontane colorate e mi fa tornare in mente un
testo di pochi versi dedicato da un anonimo allappena
ristrutturata Piazza Martiri: ma s lavete aperta / che
occasione / via dal rimorso / e dallinfantile / paura
duna certa / restaurazione.
Tullio Masoni
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1 NOVEMBRE 2010
Muore a 47 anni per infarto a Denver George
Hickenlooper, nato a Saint Louis il 14 gennaio 1963.
Elaborando, insieme a Fax Bahr, su materiali girati da
Eleanor Coppola, realizz Viaggio allinferno, sulla lavo-
razione di Apocalypse Now, trionfo a Cannes 1991. Altri
documentari dedicati a Dennis Hopper, Peter
Bogdanovich e Monte Hellman. Ma ha firmato anche, per
limitarsi alle uscite italiane, The Criminals [in
vhs]/Delitto senza colpevoli [in tv] (1996), Giochi sporchi
(1999), Lultimo gigol (2001). A fine anno luscita
postuma di Casino Jack.
6 NOVEMBRE 2010
Muore a 66 anni a Lakeville (Connecticut), sopraffatta da
leucemia ventennale, Jill Clayburgh, nata a New York il
30 aprile 1944 ed esplosa nel 1978 con Una donna tutta
sola di Mazursky. Ricca di suo, dopo una scuola di teatro
e il debutto a Broadway, esordisce sullo schermo a fianco
di De Niro in Festa di nozze di De Palma (1969). Una
ventina di film tra cui Luomo terminale (Hodges, 1974),
La storia di Wanda (Sargent, 1975), Wagon-Lits con
omicidi (Hiller, 1976), Gable e Lombard: un grande
amore (Furie, 1976), E ora: punto e a capo (Pakula,
1979), Amarti a New York (Weill, 1980), Una notte con
vostro onore (Neame, 1981), Hanna K. (Costa-Gavras,
1983), Cambiar vita (Beresford, 1993). Da noi, ha dato
lelegantissimo corpo e le ancor pi fascinose mani
allindimenticabile madre di La luna di Bernardo
Bertolucci (1979). Lestrema parte della carriera in fortu-
nate serie tv, da Law and Order a Nip/Tuk a Dirty
Sexy Money. Suo ultimo film, Amore e altre droghe, a
fianco di Anne Hathaway.
11 NOVEMBRE 2010
Muore a Los Angeles, allet di 91 anni, Agostino De
Laurentiis, noto come Dino, nato a Torre Annunziata
(Napoli) l8 agosto 1919. Vero e unico tycoon (in ogni
accezione) del cinema italiano e oltre (si rimanda alla
bella ancorch un po smussata biografia Dino di Tullio
Kezich e Alessandra Levantesi), esordisce come attore
diplomato al Centro Sperimentale, ma gi nel 1940 pro-
duce il primo dei suoi circa centocinquanta film, realizza-
ti in varie vesti. Direttore di produzione e poi produttore
esecutivo alla Lux (da ricordare almeno Il bandito, 1946,
e Riso amaro, 1948, ove incontra la futura moglie Silvana
Mangano), nello stesso anno d vita con Carlo Ponti alla
Ponti-De Laurentiis, dotata di propri stabilimenti.
Separatosi dal socio (pi modesto tycoon), nel 1964
costruisce con chiacchierate agevolazioni economiche i
teatri di posa della cosiddetta Dinocitt, a disposizione di
colossal con star hollywoodiane. Fra i suoi film italiani,
Tot a colori (1952), Europa 51 (1952), La strada
(1954), Ulisse (1954), Guerra e pace (1956), La grande
guerra (1959), Una vita difficile (1961), Tutti a casa
(1962), La Bibbia (1966), Lo scopone scientifico (1972).
Nel 1972, riservando la legge Corona i sussidi statali solo
ai film con il 100% di produzione italiana, decide sdegno-
samente di trasferirsi negli Usa, dove fonda la De
Laurentiis Entertainment Group e produce, tra gli altri,
Serpico (1973), I tre giorni del Condor (1975), Il giusti-
ziere della notte (1974), Lanno del dragone (1985), alcu-
ni remake come King Kong (1976) o Il Bounty (1984), e
anche un flop come Dune (1984). Si possono lodare il suo
eclettismo, una certa generosit, un forte intuito, ma su
tutto domina un senso degli affari alquanto spregiudica-
to. [lopedeluna]
12 NOVEMBRE 2010
La 01 (Rai) fa uscire Noi credevamo di Martone in sole
trenta copie. Il regista, in conferenza stampa, legge il giu-
ramento della Giovine Italia mazziniana e parafrasa la
triplice aggettivazione che chiude il film: LItalia gretta
come le trenta copie, superba come le frequentazioni di
Putin e compagni, assassina come le stragi mai chiarite.
Alla replica del direttore generale di Rai Cinema, Del
Brocco (Che ci possiamo fare se i giovani vanno a vede-
re solo i cinepanettoni?), il coproduttore Degli Esposti
risponde chiedendo che la Rai dimostri di credere nel
film, intensificandone almeno gli spot promozionali. Sulla
spinta forte dellaffluenza, le copie saliranno a cinquanta-
cinque alla seconda settimana e a settantasei la terza.
LE LUNE DEL CINEMA
A CURA DI NUCCIO LODATO
contedeluna@alice.it
Alle spalle, la potenza della Lirica:
Jill Clayburg in La Luna (1979) di Bernardo Bertolucci.
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13 NOVEMBRE 2010
Muore a Madrid a 89 anni Luis Garca Berlanga Mart,
nato a Valencia il 12 giugno 1921. Giovinezza avventuro-
sa e contrastata (padre antifranchista scampato a stento
allesecuzione, esperienza bellica sul fronte russo nella
Divisin Azul!), nel dopoguerra si iscrive alla scuola di
cinema spagnola, e debutta nel 1948 con un corto, grazie
anche allaiuto del futuro amico e collega Juan Antonio
Bardem, ancora al suo fianco per il successivo lungome-
traggio Esa pareja feliz (Una coppia felice, 1951).
Acquista notoriet a Venezia nel 1953, presentando
Benvenuto, Mr. Marshall!. Affiancato in ben sette film da
Rafael Azcona in sceneggiatura, gli si debbono anche
titoli quali Calabuig (1956), Placido (1961), lo splendido
La ballata del boia (1963), Life size. Grandezza naturale
(1974), la trilogia di La escopeta nacional (1977),
Patrimonio nacional (1981) e Nacional III (1982). Tra gli
ultimi, La vaquilla (1985) e Todos a la crcel (1993).
16 NOVEMBRE 2010
Muore a Milano a 84 anni Pietro Roberto Strub, in arte
Roberto Risso, nato a Ginevra il 22 novembre 1925: lap-
puntato dei C.C. imbranato nei primi due momenti di
Pane amore e fantasia/gelosia, diretti tra il 1953 e il
1954 da Luigi Comencini, che ricorse a lui anche per il
bel La valigia dei sogni (1953). Esordiente nel 1950 (Il
leone di Amalfi di Francisci), lasci il cinema nel 1968,
dopo alcuni anni gi inattivi, con Odia il prossimo tuo di
Ferdinando Baldi. Era stato diretto anche da Moguy
(Domani un altro giorno, 1952) e Franciolini (Le signo-
rine dello 04, 1954).
17 NOVEMBRE 2010
Muore a Roma a 82 anni Fulvio Fo, nato a Luino nel
1928. Fratello del pi celebre Dario, si fa le ossa come
organizzatore al Piccolo di Milano negli anni Cinquanta,
ma collaborando anche come aiuto e sceneggiatore con
Clouzot e Lizzani. Dal 1955 al 1960 direttore ammini-
strativo dello Stabile di Torino, passa poi a dirigere quel-
lo di Bologna. Dalla fine di quel decennio, fondata la coo-
perativa Gli Associati, ha cariche sempre pi rilevanti
nellassociazionismo teatrale, e si dedica soprattutto a
corsi di formazione per organizzatori e amministratori,
concorrendo a istruire pi di una generazione di nuovi
responsabili della vita di scena.
22 NOVEMBRE 2010
Muore a Monpanzier (Dordogna) a 82 anni Julien
Guiomar, nato a Morlaix (Finisterre) il 3 maggio 1928.
Studia con Pierre Renoir e lavora con Jean Vilar al Tnp,
brillando in spettacoli celebri. Nel cinema si propone alla
generale attenzione col 1969, come uno dei colonnelli
golpisti in Z, lorgia del potere di Costa-Gavras e nei
panni del curato spagnolo in La via lattea di Luis
Bunuel. Lavora anche per de Broca (Tutti pazzi meno io,
1966; Lincorreggibile, 1975), Malle (Il ladro di Parigi,
1967), la Kaplan (Alla bella Serafina, 1969), Deray
(Borsalino, 1970), Rappenau (Gli sposi dellAnno secon-
do, 1971), Petri (La propriet non pi un furto, 1973),
Tchin (Barocco, 1975), Sautet (Mado, 1976), Zidi
(Lala o la coscia?, 1976; Il commissadro, 1984), Dino
Risi (Caro pap, 1979; Sono fotogenico, 1980), Rosi
(Carmen, 1984).
26 NOVEMBRE 2010
Dopo trentasei anni, Peter Brook si congeda dal suo tea-
tro, il parigino Les Bouffes du Nord, con uno spettacolo,
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Il carnefice riluttante: Nino Manfredi, a destra, si avvia verso il suo
impegnativo destino nella scena finale di La ballata del boia (1963),
diretto da Luis Garca Berlanga Mart.
Lavori di precisione: Julien Guiomar, a destra con Jean-Paul Belmondo,
in Il ladro di Parigi (1967) di Louis Malle.
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Une flute enchante, che rilegge lopera mozartiana,
senza scene e costumi, in uno spazio libero: un piano in
scena, solo i personaggi essenziali, un cast a rotazione di
giovanissimi per unora e mezzo che condensa lessenzia-
le dei versi di Schikaneder senza intervallo. Da non per-
dere al Piccolo tra febbraio e marzo. Gira intanto sottoti-
tolato lItalia il suo precedente, formidabile allestimento:
il monologo The Grand Inquisitor, dai Karamazov di
Dostojevskij, interpretato dalattore-feticcio Bruce Myers
(lindimenticabile Krishna del Mahabharata).
27 NOVEMBRE 2010
Muore a 87 anni a Los Angeles, dopo lunga malattia,
Irvin Kershner, nato a Philadelphia il 29 aprile 1923.
Musicista iniziato alla rega da Roger Corman, e docente
allUniversit della California del Sud, vi incontra fra i
suoi studenti George Lucas, che gli affider la rega del
secondo (in ordine di realizzazione) film della serie di
Guerre stellari, Limpero colpisce ancora, probabilmente
il titolo pi azzeccato della filiera. Suoi anche Occhi di
Laura Mars (1978, sceneggiato da Carpenter), Robocop 2
(1990), e un Bond fuori dal coro, Mai dire mai (1983), col
riluttante Connery persuaso a rifare il se stesso di
Operazione Tuono (1965). Era Zebedeo in Lultima ten-
tazione di Cristo di Scorsese (1988).
28 NOVEMBRE 2010
Muore a Fort Lauderdale (Florida) di polmonite a 84
anni Leslie Nielsen, nato a Regina (Saskatchewan,
Canada) l11 febbraio 1926. Fratello del viceprimo mini-
stro canadese (1984-1986) Erik, naturalizzatosi america-
no, pur gi coinvolto in titoli quali Il pianeta proibito
(Wilcox, 1956) o Lavventura del Poseidon (Neame,
1972), conquista una tardiva fama mondiale grazie a
Laereo pi pazzo del mondo (Abrahams e i due Zucker,
1980) e Una pallottola spuntata (David Zucker, 1988) coi
relativi sequel. Ma comparso in ben cento film e in cin-
que volte tanti programmi tv.
3 DICEMBRE 2010
Anche la Sardegna per gli ottanta di Godard oggi ricor-
renti. Nella sala Arca del Tempo di Settimo San Pietro
(Cagliari), una Buon compleanno, Monsieur Godard!,
comprendente tra laltro lanteprima nazionale di Film
Socialisme: testa di ponte di una manifestazione che, in
primavera, proporr venticinque titoli, una mostra foto-
grafica e diversi laboratori. Lo stesso giorno Anna Karina
(settanta compiuti in settembre) rievoca con accenti
molto felici il loro incontro, la collaborazione in otto film,
da Fino allultimo respiro a La cinese, e il da lei almeno
mai rinnegato essersi amati
3 DICEMBRE 2010
e Bernardo Bertolucci annuncia il ritorno sul set:
Dopo due anni in cui credevo che non avrei fatto pi
niente, mi tornato il desiderio di lavorare. Sento odore
di cinema. Gesualdo da Venosa lho abbandonato, trop-
po costoso, non voglio pi fare cose cos. Penso a un film
a Roma delle dimensioni di Lassedio. Non posso dire
altro. Impossibile naturalmente non parlare di Godard:
Mi sono innamorato di lui negli anni Sessanta, mi senti-
vo il capo dei godardiani, ero pronto a picchiare per lui.
I miei film sono molto diversi dai suoi, ma lui ha vera-
mente sconvolto il modo di fare cinema. C il cinema
prima di Godard e il cinema dopo Godard. Gli ultimi
contatti sono stati durante le riprese di Dreamers, ci sono
due estratti dai suoi film. Gli chiesi come fare per i dirit-
ti. Puoi fare quello che vuoi con il mio materiale. Ma
ricordati, non ci sono diritti degli autori, solo doveri degli
autori, mi rispose da calvinista severo. Sono parole che
ho intenzione di dire ai Centoautori. E non so se saranno
popolari. Dodici giorni dopo, presenzier al MoMA alla
proiezione inaugurale della sua retrospettiva, con Il con-
formista. Diciassette i lungometraggi appositamente
restaurati da Cinecitt Luce; la prima americana assolu-
ta di La via del petrolio a sua volta restaurato e alcuni
documentari dedicatigli: Le voyageur italien di Fernand
Moskovitz, Once upon a Time Last Tango in Paris di
Serge July e Bertolucci secondo il cinema di Gianni
Amelio. Incredibile invece che i tagli mettano a repen-
taglio la concretizzazione del tradizionale convegno udi-
nese I maestri del cinema, dopo la connessa retrospetti-
va annuale, questanno a lui dedicata dagli organizzatori
friulani.
6 DICEMBRE 2010
Confermata la vendita, da parte della Disney, di Miramax
alla Filmyard Company di Ronald Tutor, parte essenziale
della quale rappresentata da Qatar Holding, il ramo
operativo dei fondi del sultano, gi divenuto proprietario
a Londra dei grandi magazzini Harrods appartenuti a
Mohamed El Fayed. Loperazione comporta anche la ces-
sione dei diritti su di uno straordinario portafoglio di set-
tecento pellicole, di cui pare imminente lacquisizione per
lo sfruttamento in rete da parte di Google per Youtube.
Lezioni di musica: a destra, un Leslie Nielsen epigono di Sister Act
in una scena di Spia e lascia spiare (1996) di Rick Friedberg.
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7 DICEMBRE 2010
Nellabituale classifica dei dieci migliori film dellanno, il
New York Magazine colloca al settimo posto Vincere di
Marco Bellocchio. [lopedeluna]
8 DICEMBRE 2010
Alla ventottesima edizione del Sulmona Film Festival, Le
quattro volte di Michelangelo Frammartino che Paolo
Mereghetti, nel suo consuntivo per il Corriere, dichiare-
r miglior film italiano dellanno unitamente a La bocca
del lupo di Marcello e Luomo che verr di Diritti si
aggiudica un meritatissimo Ovidio dArgento.
9 DICEMBRE 2010
Noi credevamo supera il traguardo provvisorio del
milione di spettatori. Un italiano su sessanta: nonostante
le difficolt frapposte al 150 dellUnit nazionale. Anche
mettendo in conto che gli spettatori leghisti (rivelatisi in
realt sparuti) abbiano a suo tempo potuto preferire il
Barbarossa di Martinelli, un signor risultato. A Martone
manca solo lessere stato affiancato, il giorno precedente,
a Frammartino, Marcello e Diritti dal Corriere: il letto-
re del Mereghetti 2011, appena uscito, pu subito leg-
gerne le indirette motivazioni
10 DICEMBRE 2010
Liv Ullmann legge a Stoccolma, alla cerimonia dei Nobel,
il discorso che Liu Xiaobo, premio per la pace costretto
alla contumacia dal governo cinese, scrisse nel dicembre
2009 alla vigilia della sua condanna a undici anni di car-
cere, in luogo di quello ufficiale di accettazione.
11 DICEMBRE 2010
Disco rosso per Gitai. A quattro giorni dalluscita pro-
grammata di Roses crdit, dal romanzo di Elsa La
RoseTriolet, prodotto e realizzato in Francia a poco pi
di mezzo secolo dalla pubblicazione dellopera della
sorella di Lilja Brik e consorte di Aragon, il distributore
annulla la stampa delle cinquanta copie previste. La
divergenza sulla programmazione tv, che Gitai avrebbe
accettato solo dopo luscita in sala: modalit accolta
France 2, a condizione che le versioni fossero diverse. Ma
il Centre National du Cinma che pure aveva concorso
al finanziamento rigetta lipotesi (Per noi esiste un solo
film), negandone laccesso al palinsesto di un canale
generalista gratuito a soli tre mesi dalla prima proiezione
pubblica: Mettere in gioco la cronologia dei media signi-
ficherebbe la morte economica del cinema. Luscita in
sala posposta al teleschermo fa ovviamente battere in riti-
rata il distributore. Una mostruosit amministrativa,
commenta lautore.
14 DICEMBRE 2010
Coerenti, in modo pi che simbolico, al loro cinema di
denuncia, il proletario Ken Loach e lirriverente Michael
Moore contribuiscono, rispettivamente con ventimila
sterline e ventimila dollari, al versamento della cauzione
di duecentoquarantamila sterline richiesta per il rilascio
di Julian Assange, il paladino della libert di stampa (e
non solo) o, a scelta, lirresponsabile trafugatore di segre-
ti di Stato. In ogni caso il re tanti re pi nudo.
[lopedeluna]
14 DICEMBRE 2010
Io sono lamore di Luca Guadagnino, con Tilda Swinton
interprete e coproduttrice, passato in Italia da Venezia
2009, facendo risaltare punti di vista assai contrastanti,
negli Stati Uniti tocca i cinque milioni di dollari dincas-
so, ed entra in cinquina per il Golden Globe al film stra-
niero, a consolazione della mancata designazione nostra-
na per la corsa agli Oscar.
16 DICEMBRE 2010
Muore a Santa Monica a 88 anni William Blake
McEdwards, in arte Blake Edwards, nato a Tulsa
(Oklahoma) il 26 luglio 1922. Nipote e figlio di registi
(del muto il nonno, teatrale il padre), trasferito a
Hollywood con la famiglia dalla pi tenera infanzia,
comincia da attore in piccole parti, e dopo la guerra in
Marina ne ottiene da protagonista (Pian della morte e
Duello infernale: Selander, 1949). Passa alla sceneggiatu-
ra (per la radio e laffine Richard Quine) ed esordisce a
sua volta nella rega nel 1955 con Quando una ragazza
bella, ottenendo una popolarit internazionale tre anni
dopo con Operazione sottoveste. Nella quarantina di tito-
li diretti, almeno quattro capolavori: Colazione da Tiffany
(1961), I giorni del vino e delle rose (1963), Hollywood
Party (1968) e Victor/Victoria (1982). Ma anche, oltre
alla serie forse troppo insistita della Pantera rosa
(ben nove film tra il 1963 e il 1993), uno straordinario
western singolo (Uomini selvaggi, 1971), uninedita
riflessione sul tramonto del West (Intrigo a Hollywood,
1988) e, in una carriera non ostile n al genere dramma-
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Nozze tormentate: La Seydoux in Roses crdit di Amos Gitai,
film bloccato in Francia da una controversia distributiva.
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tico n al thriller, una quindicina di commedie amare pro-
verbiali, oggettivamente eversive proprio del sistema hol-
lywoodiano (una per tutte: S.O.B., 1981).
17 DICEMBRE 2010
Muore a Parigi a 92 anni Niko Papatakis, nato ad Addis
Abeba il 19 luglio 1918. Greco di nazionalit, francese in
coincidenza con la Seconda guerra mondiale, gestisce la
Rose Rouge col boom di Juliette Grco, divenendo poi
linvidiabile marito di Anouk Aime (pi avanti di Olga
Karlatos). Passa negli Usa coi tardi Cinquanta, coprodu-
cendo Ombre (1959) di Cassavetes. Esordisce come regi-
sta nel 1963 con Les abysses, di ascendenza genetiana
(Les bonnes), escluso dal festival di Cannes. Del 1967 il
secondo film, realizzato in patria, Oi voskoi (I pastori).
Simpegna a favore del Fln durante la guerra dAlgeria,
ma passano ventanni prima del terzo, ancora in Grecia,
I Photographia (Il fotografo). Lultimo, Les quilibristes,
sar del 1992. Regista impegnatoe maledetto se mai ve
ne furono, ha goduto da noi della triste prerogativa di
non veder importare neppure uno dei suoi pur rilevantis-
simi lavori.
20 DICEMBRE 2010
A Teheran, Jafar Panahi, a quarantanove anni, viene con-
dannato a sei di prigione, e venti di interdizione dalatti-
vit professionale, dallespatrio e dal contatto con media
iraniani o stranieri, per la partecipazione a raduni e per
propaganda contro il regime. Sei anni di detenzione
anche per il suo aiuto Mohammed Rasoulof. Propongono
in Francia la costituzione di un comitato Frmaux,
Toubiana, Costa-Gavras, Tavernier e Bernard-Henry
Lvy. Paul Haggis e Sean Penn annunciano un viaggio in
Iran. Anche i 100 autori promuovono iniziative.
25 DICEMBRE 2010
Muore di polmonite in ospedale a Pittsburgh a 85 anni
John Warhola, fratello di Andy Warhol: per un ventennio,
dopo la morte del fratello, vicepresidente della Andy
Warhol Foundation for Visual Arts, cui si deve listituzio-
ne dellAndy Warhoh Museum, e diligente conservatore
della sua memoria.
27 DICEMBRE 2010
Muore a 61 anni di cancro a Versailles Bernard-Pierre
Donnadieu, nato a Neuilly-sur-Seine il 2 luglio 1949.
Attore teatrale, comincia nel cinema a met degli anni
Settanta (parti minori, ma film del livello di Linquilino
del terzo piano di Polanski e di Mr. Klein di Losey). Da
allora una sessantina di cast, anche con Lelouch (ripetu-
tamente), Chreau,Vigne, Resnais (La vita un romanzo,
1983), Goretta (La morte di Mario Ricci, id.), Giovanni
(Les loups entre eux, 1985), Oshima (Max mon amour,
1986), Tavernier (Quarto comandamento, 1987). In Italia
Battiato (Una vita scellerata, 1990), Comencini
(Marcellino pane e vino, 1991) e Negrin (tv: I guardiani
del cielo, 1996).
28 DICEMBRE 2010
Al Museo della Grafica di Pisa la mostra Carlo Ludovico
Ragghianti e i segni della modernit, nel centenario
della nascita del grande critico darte, teorizzatore troppo
frettolosamente accantonato del cinema arte figurativa.
contedeluna@alice.it
Interno newyorkese con champagne e finestra: Audrey Hepburn
in Colazione da Tiffany (1961) di Blake Edwards.
Pulizie di primavera: Colette Berg in Les abysses (1963)
di Niko Papatakis.
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Roberto Campari
IL DISCORSO AMOROSO
MELODRAMMA E COMMEDIA
NELLA HOLLYWOOD DEGLI ANNI DORO
Ed. Bulzoni, Roma 2010 - pp. 211
20,00.
Roberto Campari, che gi si era
occupato dei generi nel cinema ame-
ricano, ha ripreso con il presente
libro una sua pubblicazione del
1990. A parte la commistione dei
generi, melodramma e commedia,
essendo in un certo senso antitetici,
dovrebbero presentarsi del tutto
distinti; e invece, specie negli anni
Trenta, li troviamo spesso confusi, in
film difficilmente classificabili con
termine univoco. La ragione viene
condensata nella stretta relazione
fra il desiderio appagato (nella com-
media) e il desiderio irraggiungibile
(nel melodramma); lamore sem-
pre la molla di tutto, ma nel mlo
viene sublimato dalla morte.
E poi le varianti sono tante, e i con-
fini incerti: certi film (prendiamo
La valle dellEden, per fare un
esempio) sono melodrammi, come
qui si sostiene, o semplicemente
drammi?
Tanti i titoli, tante le citazioni; e i
richiami ai volti portatori dei risul-
tati pi probanti, quelli della
Lombard e della Hepburn, della
Garbo e della Dietrich, della Davis e
della Crawford; non a caso tutte di
volta in volta interpreti di donne
vincenti nella guerra dei sessi e di
donne sconfitte dalle passioni ma
sublimi.
Lautore del libro, che confessa le
sue predilizioni (La figlia del vento
di Wyler gli appare per esempio
uno dei migliori melodrammi hol-
lywoodiani in assoluto), dedica
capitoli appositi a Lubitsch, a
Capra, a Wilder (forse ne meritava
uno anche Cukor), illustra la casisti-
ca delle donne brillanti o tragiche
che siano, riservando particolare
attenzione per lultimo periodo
considerato a Marilyn Monroe. Ma
dopo di lei, poi, le cose cambiano a
Hollywood.
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LIBRI
La Federazione Italiana Cineforum (Fic) raggruppa in tutta Italia numerosi cineforum e cineclub. La Fic organizza corsi, seminari e convegni,
distribuisce film classici e inediti, fornisce consulenze in campo cinematografico, cura la pubblicazione della rivista Cineforum,
dellAnnuario del cinema e di altre pubblicazioni di cultura cinematografica.
Per informazioni su come fondare un cineforum e sulle modalit di adesione alla Fic ci si pu rivolgere alla segreteria (casella postale 10,
31041 Cornuda, TV, segreteria telefonica 0423639255, feditalcineforum@hotmail.com). I cineforum di nuova costituzione possono richiedere
gratuitamente nel primo anno di associazione due film distribuiti dalla Fic e dalla Lab80 Film (via Pignolo, 123 IT-24121 Bergamo, tel.
035342239, Fax 035341255, info@lab80.it). A cinque membri di ogni nuovo cineforum viene mandata in omaggio per un anno lo rivista
Cineforum. Tutti i cineforum affiliati ricevono lo rivista Cineforum, ottengono a prezzi speciali i film della cineteca della Fic e del Iistino
della Lab80 Film, hanno la possibilit di partecipare a convegni, corsi, mostre e festival del cinema.
Il comitato centrale della Fic, per il triennio 2008-2011, composto da Ermanno Alpini (Arezzo), Gianluigi Bozza (presidente, Trento), Claudia
Cavatorta (Parma), Dino Chiriatti (vicepresidente, Roma), Maurizio Cau (vicepresidente, Rovereto, TN), Bruno Fornara (Omegna, VB), Diego
Fragiacomo (segretario, Cornuda, TV), Giorgio Grotto (Schio, VI), Cristina Lilli (Bergamo), Roberto Marchiori (Legnago, VR), Adriano Piccardi
(Bergamo), Jurij Razza (Cernusco Lombardone, LC) Angelo Signorelli (Bergamo), Enrico Zaninetti (tesoriere, Novara).
Sono sindaci revisori dei conti e probiviri: Chiara Boffelli (Bergamo), Roberto Figazzolo (Pavia), Raffaella Leonardi (Oleggio, NO), Pierpaolo
Loffreda (Pesaro), Walter Pigato (Nove, VI), Giuseppe Puglisi (Ragusa), Piergiorgio Rauzi (Trento), Leo Rossi (Caerano San Marco, TV), Tonino
Turchi (Pesaro), Sergio Zampogna (Bergamo).
I dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente per linvio della pubblicazione e non vengono
ceduti a terzi per alcun motivo.
Federazione Italiana Cineforum
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Speciale Hereafter
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Anno 51 - N. 1 Gennaio/Febbraio 2011
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L.27/2/2004 n. 46)
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