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Tra crisi della riproduzione sociale e welfare comune

on 16 Dicembre 2013. Intervista a SILVIA FEDERICI - di ANTONIO ALIA Silvia Federici non ha bisogno di presentazioni. Militante e intellettuale femminista, da sempre impegnata nei movimenti sociali, stata tra le fondatrice della campagna Wages for Housework. Le abbiamo rivolto alcune domande per offrire una lettura della crisi e delle possibili alternative con cui sicuramente occorre confrontarsi. Lintervista si chiude con un commento ad un articolo di Nancy Fraser. Nellintervento, Silvia Federici ricorda limportanza di quel femminismo che ha ispirato lotte e riflessioni teoriche e che non ha concesso nulla ai processi di istituzionalizzazione neoliberale. Un femminismo che fa definitivamente i conti con la fine di ogni possibile riformismo contro cui occorre invece costruire nuove strutture e nuovi rapporti alternativi allo Stato e al mercato. La crisi globale esplosa nel 2007, a sei anni di distanza, non trova una soluzione di continuit e se la guardiamo da una prospettiva storica perde il carattere di fenomeno contingente. Al contrario sembra rappresentare un ulteriore tappa del processo di ristrutturazione delleconomia globale iniziato nella seconda met degli anni 70 che, con una formula forse un po generica, abbiamo definito neoliberismo. Sono almeno tre le dimensioni interdipendenti di questa crisi che tu hai definito sistemica: una crisi di accumulazione del capitale, una crisi fiscale ed anche e soprattutto una crisi della riproduzione sociale. Puoi dirci che cosa intendi con questultima categoria? Intendo che, sia pur in modi diversi, sempre meno il proletariato, in tutte le sue componenti, ha accesso ai mezzi necessari per la propria riproduzione. Dallo smantellamento del welfare, alla precarizzazione del lavoro, alla continua espropriazione di terre, boschi, acque, alla distruzione dellambiente, tutte le politiche al centro della globalizzazione tendono a separare i produttori dai mezzi di riproduzione, a svalutare la forza lavoro, e a creare una situazione in cui la possibilit di riprodursi implica una lotta quotidiana. una crisi che assume aspetti diversi a seconda dei luoghi e dei gruppi sociali, ma ormai verificabile in ogni parte del mondo, inclusa lEuropa. Per questo si riscontra sempre di pi la necessit di creare forme di riproduzione alternative al mercato e ai servizi pubblici gestiti dallo Stato, sempre pi evanescenti. Non si tratta, infatti, di una crisi contingente; anzi si dovrebbe smettere di definirla una crisi, termine che suggerisce una situazione temporanea. Il cosiddetto neoliberismo, in effetti, vuole liberare il capitale da ogni responsabilit nei confronti della riproduzione della forza lavoro, vuole cancellare i residui della politica keynesiana, che tuttora impegnano lo Stato a garantire (anche se sempre meno) certi livelli di riproduzione. Si tratta, quindi, di una svolta storica che spazza via ogni possibilit di mediazione, anche perch linterdipendenza economica e politica che la globalizzazione ha creato nellarticolazione dellaccumulazione capitalistica riduce gli spazi di manovra delle singole regioni. Gli effetti della crisi nella sua triplice dimensione si rendono evidenti soprattutto su scala metropolitana, come per esempio ci suggerisce il caso di Detroit, che abbiamo gi analizzato su commonware.org. Le citt per sono anche il terreno di lotte sociali e movimenti che insistono proprio sul terreno della riproduzione sociale. Le forme organizzative sembrano assumere i tratti di organizzazioni del comune, cio di forme di produzione e riproduzione della vita alternative al mercato e allo Stato. In che modo queste esperienze di lotta arricchiscono il nostro concetto di comune o ne sottolineano alcuni limiti? Nelle citt si rendono evidenti gli effetti e gli scopi di una crisi che spesso, per, comincia nelle campagne con lespropriazione delle terre, che oggi, come nel sedicesimo secolo, la condizione essenziale dello sviluppo capitalistico. Le megacitt dellAmerica Latina sono il frutto di espulsioni massicce di contadini/e dalla terra. Proprio per questo nelle periferie metropolitane che troviamo gli esempi pi significativi di produzione del comune, come, per esempio, loccupazione di terre per la costruzione di quartieri autogestiti, la creazione di forme di riproduzione collettiva come i comedores populares, i comitati per gli orti urbani, e cos via. Che cosa abbiamo imparato da queste esperienze? Anzitutto che la produzione del comune non pu essere mai solamente un fatto economico e/o una produzione di beni materiali da condividere, ma anzitutto deve essere produzione di rapporti sociali, circolazione di conoscenze,

superamento delle divisioni che le politiche istituzionali continuamente creano nel sociale, in altre parole deve essere produzione di nuove forme di lotta e di cambiamento sociale. Gli accampamenti periferici dellAmerica Latina, come Occupy Wall Street e le mille occupazioni che si sono verificate in tutto il mondo, e poi le banche del tempo, le libere universit, le fabbriche autogestite, tutti questi esperimenti ci insegnano che la produzione del comune tanto pi efficace quando non fine a se stessa, ma parte di un processo pi ampio quando gli orti urbani si collegano alle scuole e diventano luoghi di apprendimento e socialit, luoghi in cui le nuove generazioni imparano che il cibo non prodotto nei supermercati; quando la creazione di asili nido libera non solo tempo per il lavoro ma libera tempo per la lotta; quando le fabbriche autogestite sono inserite in una realt sociale che garantisce la distribuzione di ci che producono e aiuta a decidere cosa produrre. necessario quindi collegare gli orti, le libere universit, i vari knowledge commons o le strutture mediche comunitarie che si costruiscono nei quartieri, alle lotte nelle scuole, negli ospedali, nelle fabbriche. A questo proposito, negli Stati Uniti stiamo riscoprendo la grande variet di iniziative che esistevano nel proletariato prima del New Deal e che il New Deal ha cancellato. Fino agli anni 30 gran parte della sicurezza sociale era organizzata dal basso, da organizzazioni di lavoratori, che assicuravano pensioni, fondi per malattie o incidenti sul lavoro. Oggi, invece, la produzione del comune, almeno in Europa e negli Stati Uniti, solo agli inizi, perch la ristrutturazione industriale e la riorganizzazione del territorio che ne sono seguite hanno distrutto le basi materiali delle forme di organizzazione comunitaria che esistevano nelle aree proletarie, e viviamo in citt il cui tessuto sociale stato in gran parte disintegrato. Quindi il comune una realt in gran parte da costruire, possiamo intravederne solo alcuni elementi, e realisticamente progettare solo su scala limitata. Per necessario immaginare i nostri commons, per limitati che ora siano, come parte di un progetto pi ampio. chiaro, comunque, che non sempre facile, specialmente allinizio, tracciare una linea precisa tra ci che corrisponde a unimmediata necessit materiale e ci che si inserisce in una prospettiva politica larga. Negli anni che seguirono al golpe di Pinochet in Cile, nei quartieri proletari, come la Victoria, le donne si mobilitarono di fronte allo spaventoso impoverimento delle proprie famiglie, unendo le proprie forze per fare la spesa insieme, cucinare insieme, cucire insieme, avendo come unico scopo la sopravvivenza; per in questo modo ruppero lisolamento e la paralisi che il golpe aveva determinato e trasformarono anche il processo della propria riproduzione e il proprio ruolo nella comunit. A livello pi generale, direi che costruzione di forme cooperative/collettive di riproduzione anche quando motivata dalla necessit della sopravvivenza un passo per rompere lisolamento in cui oggi il lavoro di riproduzione organizzato, cosa di cui fanno le spese soprattutto le donne, e assume forme drammatiche in presenza di bambini piccoli o malati. Non possiamo evitare di notare la forte ambivalenza che caratterizza i commons. Se da un lato costituiscono straordinari dispositivi di soggettivazione, dallaltro sembrano perfettamente compatibili con le politiche di austerit in quanto strumenti di socializzazione dei costi di riproduzione. Non a caso in tempi di crisi i beni comuni sono entrati nellarmamentario retorico e politico dei partiti di governo. In Gran Bretagna, per esempio, il neoliberismo dei conservatori ha cambiato pelle. Se Margaret Thatcher, per giustificare le politiche di dismissione del welfare, sosteneva che there is no such thing as society, David Cameron qualche decennio dopo invece afferma la Big Society, ovvero la centralit dellautonomia e delle capacit produttive e cooperative presenti nel tessuto sociale. In Italia le amministrazioni arancioni fanno ricorso sempre pi spesso alla partecipazione e al lavoro volontario dei cittadini per sopperire alle lacune del pubblico nella fornitura dei servizi (biblioteche, manutenzione degli spazi urbani, ecc.). Quando il pubblico non riesce pi a garantire la riproduzione sociale si ricorre al lavoro e ai saperi diffusi nella societ. Come si pu sciogliere questa ambivalenza? Come evitare che i commons siano strumenti di gestione della povert invece che dispositivi di riappropriazione della ricchezza? Sono daccordo che il pericolo della cooptazione forte, anche perch la scoperta del comune sta avvenendo in aree politiche diverse. Oltre al tentativo di utilizzare le capacit produttive e cooperative presenti nel tessuto sociale per risparmiare sui costi della riproduzione sociale, troviamo oggi anche la proposta di istituire il comune come area legale intermedia tra il

pubblico e il privato, coesistente con entrambi invece che alternativa. C un area politica socialdemocratica, rappresentata, per esempio, da finanzieri come Soros, che si preoccupa delle conseguenze sociali di un processo di privatizzazione portato agli estremi, e si propone di creare spazi sociali capaci di attutire i contraccolpi della politica neoliberale.Come ho gi accennato, lunico modo per evitare che i commons siano cooptati, coinvolti in progetti di volontariato, o si traducano in una ridistribuzione della povert vedere il comune come un momento di un processo pi ampio di cambiamento sociale, di costruzione di un interesse comune e non come un fine in s. Non credo che esista una formula che ci immunizzi dalla cooptazione, ma esistono modi con cui misurare le potenzialit dei progetti che costruiamo, per esempio in che misura promuovo una ricomposizione sociale, nel territorio, o una riappropriazione di forme di ricchezza tempo, spazi, beni comuni o aumentano gli scambi solidali. Il vantaggio che oggi disponiamo di una vasta rete di esperienze che ci permettono di valutare varie forme di costruzione del comune, rapportate al contesto sociale in cui si collocano. Penso al grande sforzo che le comunit zapatiste stanno portando avanti per costruire una societ libera dai rapporti di mercato; penso anche alla rivoluzione nelle forme della riproduzione sociale che sta andando avanti nelle periferie urbane dellAmerica Latina, che porta Zibechi a parlare di societ in movimento. Queste forme di produzione del comune hanno radici storiche molto diverse da quelle che troviamo in Italia, o in Grecia o a New York. Per ne possiamo trarre esempi utili[1]. Credo che un esempio utile per valutare come i rischi della cooptazione possano essere evitati quello delle iniziative che si sono messe in piedi a Napoli in risposta alla cosiddetta crisi dei rifiuti. Io ne ho una conoscenza di seconda mano, derivata da interviste e articoli. Mi sembra per che in molti casi, soprattutto con la formazione della Zero Waste network, si sia trattato di forme di automobilitazione che si proponevano di cambiare i rapporti sociali nel quartiere e non solo eliminare la spazzatura. Per esempio si proponevano di resistere alla costruzione di inceneritori, di cambiare il sistema di riciclo dei materiali, di recuperare materiali destinati a essere scartati, di ridurre la produzione di scarti, e di aprire un dibattito pubblico sulle condizioni di un ambiente sano. Anche per questo, pare, il governo Berlusconi ha fatto ricorso velocemente allintervento dellesercito. Sul blog di Effimera ospitato dai Quaderni di San Precario stata pubblicata con un bel cappello introduttivo di Cristina Morini la traduzione di un articolo di Nancy Fraser che, dopo aver messo a critica la compatibilit di un certo femminismo con il neoliberismo, si conclude evocando un modello di welfare gestito dal pubblico. Tuttavia da qualche decennio, anche se in maniera differenziata, il settore dei servizi sociali e del welfare stato investito da profondi processi di finanziarizzazione e di aziendalizzazione che molta letteratura ha indicato con la formula New Public Management. Se da un lato queste riforme possono essere lette come uno strumento che il capitale utilizza per espropriare su un nuovo terreno la ricchezza sociale e tentare risolvere la crisi di accumulazione, dallaltro probabilmente possiamo interpretarle come una risposta dall'alto alla critica, agita dai movimenti sociali e femministi nel corso degli anni 70, al paternalismo e alle forme di controllo che caratterizzavano il vecchio welfare statale e fordista. Bisogna sottolineare che questi processi di riorganizzazione sono caratterizzati, a differenza di quanto sostiene la rappresentazione dominante del neoliberismo come Stato minimo, da un forte intervento dei poteri pubblici che devono assicurare per esempio la creazione e lespansione di un mercato, promuovere adeguati strumenti finanziari e garantire competitivit e deregulation. Di fronte a questa trasformazione del ruolo dello Stato e a partire dallo sforzo teorico e pratico di pensare e praticare forme di welfare comune, quale deve essere secondo te lattitudine dei movimenti nei confronti del pubblico? Ci si dovrebbe domandare che cosa ha spinto Nancy Fraser a questa improvvisa presa di coscienza che arriva con pi di trentanni di ritardo su quanto molte femministe hanno gi largamente denunciato, ed inoltre formulata in termini cos generalizzanti da precludere la possibilit di una salutare autocritica. Risponder invece con alcune precisazioni. Anzitutto, come ho gi accennato, attaccando il femminismo in generale Fraser contribuisce a seppellire tutta quellala del femminismo che gi negli 70 si muoveva in una prospettiva anti capitalista e ha poi puntualmente contrastato il progetto di istituzionalizzazione del femminismo portato avanti dalle Nazioni Unite, a cui una buona parte del movimento femminista ha

collaborato. interessante che Fraser abbia deciso di ignorare la campagna internazionale per il salario al lavoro domestico e, inoltre, il movimento femminista che si dispiegato negli anni 80, negli Stati Uniti e in Europa, contro la guerra, le frange radicali delleco-femminismo, ispirate (per esempio) allopera di femministe come Maria Mies e Ariel Salleh, il femminismo delle donne nere, e la grande variet di gruppi di donne nel Terzo Mondo in lotta per unaltra globalizzazione. Aggiungo che la critica che Fraser muove al femminismo a doppio taglio e, a mio avviso, inaccettabile. Se vero, infatti, che buona parte del movimento femminista a livello internazionale ha appoggiato e stimolato lintegrazione delle donne nel progetto neoliberale, altrettanto vero che le modalit di questo processo non sono quelle indicate da Fraser. Le femministe hanno giustamente criticato il salario familiare the family wage in quanto istituzione intesa a garantire un ineguale divisione del lavoro nella famiglia e nella societ, costruita sopra il divario tra salario e non salario. Come io e molte altre compagne abbiamo spesso denunciato, questa ineguale divisione del lavoro e il contrasto tra lavoro salariato e non-salariato sono stati elementi fondanti dellaccumulazione capitalistica. Il problema che sia le femministe liberali, sia le femministe socialiste hanno sottoscritto la svalutazione tipicamente capitalistica del lavoro di riproduzione, hanno abbracciato come unica via di emancipazione il lavoro salariato, proprio nel momento in cui era oggetto di una grande rifiuto da parte di lavoratori maschi e femmine in tutto il mondo, hanno abbandonato il terreno della riproduzione come terreno di lotta, accettando in pratica la sua svalutazione e la sua invisibilit come lavoro, nellipotesi che, una volta pienamente integrate nel mercato del lavoro salariato, le donne avrebbero avuto un maggiore potere sociale. Quello che successo, che molte di noi gi avevano previsto allinizio degli anni 70, noto. Lentrata in massa delle donne nel mercato del lavoro ha aiutato la ristrutturazione capitalistica del lavoro. Non a caso, si creata la necessit di un cambiamento nellassetto istituzionale, volto a garantire una (parziale) de-sessualizzazione del mercato del lavoro e listituzione di un rapporto pi diretto tra donne, Stato e capitale. Come ho detto, Fraser equivoca. La critica femminista allorganizzazione del lavoro e del salario nella famiglia, come anche la critica femminista al welfare state, stata non solo giustificata ma strategicamente importante per una politica femminista di classe. Come una vasta letteratura, a cominciare dal libro di Mariarosa dalla Costa Famiglia, Welfare e Stato (1983), ha dimostrato, listituzione del welfare nel New Deal era in funzione di un nuovo contratto sociale finalizzato allaumento della produttivit del lavoro e organizzata in modo estremamente selettivo e divisorio che per esempio escludeva le lavoratrici domestiche dalla Sicurezza Sociale (Social Security), oltre a essere organizzato in modo decisamente razzista. Ci non vuol dire che il welfare non si dovesse difendere, in quanto terreno di negoziazione e scontro con lo Stato per la riappropriazione della ricchezza sociale. Lorganizzazione che con altre compagne ho fondato a New York nel 1973, il Comitato di NY per il Salario al Lavoro Domestico, fin dallinizio ha appoggiato le lotte che le donne in welfare portavano avanti contro i tagli, per un ampliamento del reddito, per labolizione dei sistemi disciplinari connessi, per una diversa organizzazione e definizione sociale del welfare. Abbiamo sempre sostenuto che i soldi che le donne riceveva mediante lAFDC Aiuto alle Famiglie con Bambini Dipendenti rappresentavano un primo salario al lavoro domestico, in quanto rappresentava un riconoscimento da parte dello Stato che la cura dei bambini lavoro e lavoro sociale, non lavoro damore. Una parte centrale della nostra campagna stata dedicata a protestare contro le misure intimidatorie e la campagna diffamatoria che sempre pi lo Stato di New York e il governo federale, coadiuvati dalla stampa, hanno portato avanti contro le donne che ricevevano il welfare. Non capisco come Fraser possa ignorare tutto questo e spostare il tiro sulla critica femminista alla divisione sessuale del lavoro e al salario familiare. Per quanto riguarda il presente, credo che siamo in momento molto interessante, in cui la critica al welfare e al pubblico sacrosanta si coniuga, almeno negli Stati Uniti (ma mi pare anche in Spagna) con il tentativo di congiungere pubblico e comune, in modo che le lotte in entrambe queste aree si possano potenziare reciprocamente. Mi spiego. Il dibattito sullo smantellamento del welfare ha portato alla luce il fatto che fino agli anni 30, negli Stati Uniti, il 70% dei servizi poi organizzati dallo Stato era forniti da organizzazioni di lavoratori, che per esempio assicuravano pensioni, cure mediche, fondi per funerali, assicurazioni per la vita. Questa vasta area di iniziative (con tutti i suoi limiti, per altro riproposti dal welfare) ha provveduto alla

riproduzione di milioni di persone e ha cominciato a dissolversi solo dopo il 1935 con lavvento dello Stato del welfare. Ovviamente non si vuole riproporre un ritorno al passato, ma rileggere questa storia serve a sciogliere un immaginario collettivo spesso congelato riguardo alle possibilit di costruzione di unalternativa. altrettanto ovvio che lo Stato cerchi di catturare le iniziative con cui si cerca di creare forme pi cooperative e pi autonome di riproduzione; ma proprio per questo importante ricordare che una delle ragioni per cui il welfare state fu introdotto negli anni 30 fu proprio il tentativo di frenare lespandersi di queste iniziative dal basso, che erano la base del potere sociale delle molte Fraternitiesche proliferavano tra il proletariato, oltre al tentativo di frenare londata di lotte che era andata crescendo durante la Depressione. In conclusione, lalternativa non si pone nei termini concepiti da Fraser. Non so come si possa concepire oggi di vincolare il capitale a finalit di giustizia, o come si possa pensare di rafforzare i poteri pubblici. Il discorso invece come collegare le lotte per il comune alle lotte che i lavoratori e le lavoratrici nel settore pubblico infermiere, insegnanti, ecc. stanno portando avanti, in modo da congiungere le conoscenze e le risorse e costruire nuove strutture e nuovi rapporti alternativi allo Stato e al mercato. [1] A New York e in California, per esempio, alcuni collettivi, ispirandosi alle forme di autogoverno che esistono in varie comunit indigene dellAmerica Latina, hanno dato vita a accountability projects, cio iniziative che permettono di affrontare gli abusi commessi nei movimenti stessi senza ricorrere alla polizia, attraverso collegamenti con organizzazioni di quartiere che intervengono in situazioni di crisi, non per punire e escludere, ma per evidenziare limportanza di comportamenti solidali.

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