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Paolo Magrassi 2008 – Creative Commons Attribuzione / Non opere derivate

Il mito della ricerca


e la filiera dell’innovazione
Paolo Magrassi (www.magrassi.net)

Su innovazione, ricerca e sviluppo e tecnologia se ne dicono tante, qualche volta


a sproposito.
Ad esempio, non è vero che investendo più risorse in Università e ricerca
l’economia dell’Italia migliorerebbe di sicuro. Non è vero, perché la filiera
dell’innovazione è molto più complicata di così.

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Innovazione significa, in economia, l’introduzione di nuovi prodotti/servizi o di
nuovi processi produttivi, oppure il manifestarsi di nuovi comportamenti tra i
consumatori.
A volte le innovazioni sorgono come dal nulla, ossia dal basso e in modo
imprevedibile. Ciò accade quando nuovi comportamenti “emergono” dal
pubblico senza che si riesca a darne un’interpretazione basata sull’analisi della
psicologia dei singoli.
Il successo di un film o di una canzone, per esempio, sono imprevedibili.
Solo un film su venti di quelli prodotti a Hollywood è
profittevole. Quando i discografici investono su un brano
musicale sicuri che sarà un hit, ci azzeccano solo in meno di
un caso su cinque (M. Gladwell, “The Formula”, The New
Yorker, October 16, 2006, pag.138): l’X Factor è elusivo.
Nessun provider di telefonia mobile pensava che gli sms
sarebbero stati un successo, e sono stati gli utenti a
inventarne l’applicazione.
Potremmo continuare, ma ci siamo capiti: non disponiamo di metodi
deterministici per prevedere quali innovazioni emergeranno in economia (o,
peggio ancora, nella società), e possiamo ricorrere solo a metodi statistici.
Così, se produco 5 canzoni delle quali i miei esperti giurano che saranno
successi, ho una probabilità quasi pari al 100% di ottenerne uno. Se investo in
10 aziende start-up che mi sembrano promettenti, forse una mi apporterà ricavi
sufficienti a ripianare le perdite delle altre e a guadagnare complessivamente.
A ogni buon conto, l’alea non può giustificare un atteggiamento nichilista. Si
tenterà sempre di introdurre innovazioni. Semplicemente, è bene essere avvertiti
del fatto che non tutte funzioneranno commercialmente o comunque
socialmente.
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E come si introducono le innovazioni? Mettendo in azione una filiera produttiva
che è molto più articolata di quello che si è indotti a pensare quando si
contempla il semplicistico sillogismo: più ricerca -> più innovazione -> più
sviluppo.
Prendiamo, per capirci, l’introduzione di nuovi prodotti, e facciamo un esempio
nel mondo dell’elettronica.
Che cos’è un nuovo prodotto in questo campo? Può essere un prodotto finito,
come un nuovo computer, un nuovo smart phone o una nuova cella fotovoltaica.
Oppure può essere un prodotto intermedio, come una nuova pila, o un nuovo
tipo di microprocessore. I prodotti intermedi, a loro volta, hanno delle
componenti. Per esempio i microprocessori ne hanno tre cruciali: 1) il firmware,
ossia la logica che essi implementano, 2) i processi di
fabbricazione che si usano per produrli, e 3) il materiale di
cui sono fatti.
Questi materiali (3) sono sofisticate alterazioni di elementi
naturali come il silicio, il germanio, l’arseniuro di gallio e
così via. Negli anni ‘30 del Novecento si cominciò a
studiarli. Perché? Perché si cominciava a intravedere la
possibilità di costruire circuiti elettrici più efficienti, più efficaci e meno costosi
-come le valvole a stato solido. Come mai si cominciava a intravedere tale
possibilità? Perché il progresso della fisica quantistica, nei due decenni
precedenti, aveva portato a capire come si muovono gli elettroni dentro i
cosidetti semiconduttori, ossia silicio, germanio, arseniuro di gallio, eccetera.
Quegli studi degli anni ‘30 portarono, alla lunga, alla ideazione del transistor
negli anni ‘40: forse la singola più importante tecnologia del secolo, insieme al
DNA ricombinante.

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Gli studi di fisica e di chimica alla base del funzionamento degli elettroni erano
stati soprattutto europei. Ma i fisici americani che alla fine misero a punto il
transistor poterono usare liberamente quelle scoperte. Le scoperte scientifiche
sono pubblicate nei journal e nei convegni, discusse nelle università e nei
laboratori: sono accessibili.
La tecnologia del transistor fu brevettata dai famosi Bell Labs. Era
l’applicazione ingegnosa di una conoscenza scientifica preesistente.
Da quel momento, anche la conoscenza della tecnologia del transistor era
pubblicamente disponibile, solo che era utilizzabile, in sede industriale, solo
dietro compenso al titolare del brevetto.
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La mera disponibilità di un brevetto non assicura per nulla l’esistenza di un
prodotto. Occorre che qualcuno investa quattrini e ulteriori competenze allo
scopo di utilizzare quel brevetto per trarne un prodotto.
Se io avessi ricevuto per posta il brevetto dei Bell Labs, non
avrei mai trovato un investitore che mi finanziasse, perché non
avrei saputo che diavolo fare per trarre un prodotto (ossia dei
nuovi circuiti elettronici) da quegli schemi.
Dunque, comprato il brevetto, devo capirne il potenziale e devo disporre della
tecnologia e del know necessari per sfruttarlo: ingegneri, macchinari, periti,
maestranze, e quattrini.

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Dunque nacquero sia i circuiti elettronici a transistor sia la loro evoluzione, i
circuiti integrati, che abilitarono la vera e propria rivoluzione tecnologica in
corso.
Il finanziatore dello sviluppo dei circuiti integrati (che sono poderosi pacchetti
di miliardi e miliardi di transistor in pochi millimetri) fu sostanzialmente la
NASA, che ne necessitava per la missione Apollo. Senza quel finanziatore, non
avremmo visto sorgere i circuiti integrati negli anni ‘50.
E senza il Pentagono (che li voleva a bordo dei missili) come finanziatore, non
si sarebbe arrivati alla loro produzione di massa, che richiedette la creazione di
nuove fabbriche, di nuove competenze, di nuove catene logistiche.
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Inoltre, come tutti sappiamo, il diavolo si nasconde spesso nei dettagli. Quando
si passa alla fase pratica di realizzazione di un progetto, per geniale che esso sia
(e anzi, a maggior ragione se il progetto è troppo “geniale”), le sorprese non
sono mai finite. Bisogna risolvere un’infinità di problemi anche per costruire
una casa: figuriamoci un nuovo prodotto tecnologico, come un circuito o un
farmaco, basato su un brevetto recente!
Solo i bambini pensano che, trovata la formula, i giochi sono
fatti. Anche dal punto di vista di uno scienziato teorico, come
un esperto di fisica delle particelle o un genetista, il fatto che
qualcuno un po’ di anni dopo passi a tentare una
realizzazione pratica di una delle sue idee può apparire come un dettaglio di
poca importanza: tanto lui/lei si sta già occupando di altro. Ma per chi deve
approntare la fabbrica, assumere gente competente, convincere gli investitori,
vendere il prodotto e trarne un guadagno, la cosa sembra importantissima. E,
naturalmente, queste sono attività molto importanti anche dal punto di vista
economico.
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Comunque sia, dopo i transistor e i circuiti integrati, arrivarono i


microprocessori, che sono alla base di tutta l’elettronica attuale. E in seguito
arrivarono anche i primi superconduttori (un concetto fisico), gli esperimenti
con i computer ad arseniuro di gallio (una tecnologia), e mille altre diavolerie
sotto forma di prodotti finiti.

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Riassumendo, il know-how necessario per costruire nuovi prodotti tecnologici,
come ad esempio i computer (ma potremmo fare esempi in campi come la
genetica, l’agricoltura o la farmacologia) è spalmato su diversi livelli di
competenza:
1) principi generali di alto livello, come la fisica elettronica (o la biologia);
2) tecnologie intermedie, come il progetto dei circuiti (o delle molecole o delle
cellule);
3) regole empiriche dettate dall’esperienza e dal contesto applicativo, come il
processo produttivo mediante il quale si fabbricano i circuiti (o i farmaci o le
sementi) e/o si assemblano i prodotti, secondo standard qualitativi e di costo
prefissati.
Le innovazioni che avvengono al livello 1 raramente hanno un rilievo per
l’economia: debbono essere completate con innovazioni ai livelli
2 e 3. Ad esempio, una nuova invenzione della fisica dello stato
solido avrà un valore economico solo se e quando sarà seguita
da nuovi progetti di microprocessori. Questi, a loro volta,
resteranno senza alcun valore per l’economia fino a che non si
attueranno delle innovazioni in fabbrica, tali da consentire la
produzione di massa del nuovo circuito.
Nessuno degli sviluppi di livello 2 e 3 avrà mai luogo, poi, a meno che qualcuno
non decida di finanziarli. Occorre che qualcuno comprenda il potenziale
dell’innovazione avvenuta al livello 1, e decida che spendendo dei quattrini per
integrarla con innovazioni di livello 2 e 3 si troveranno dei clienti disposti a
pagare il prodotto finale innovativo, producendo così il ritorno
dell’investimento e un guadagno.
Anche questo è un discorso molto sottile. A volte di trovano (o per meglio dire
si cercano) clienti che pagano solo indirettamente: per esempio, gli utilizzatori
del motore di ricerca di Google ne pagano l’utilizzo solo attraverso la fruizione
dei messaggi pubblicitari.

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Quest’ultimo passo, ossia il portare il nuovo prodotto ai clienti e indurli a
comprarlo, è critico per almeno due ragioni.
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Innanzitutto, come sappiamo, anche il più bel prodotto del mondo potrebbe
rivelarsi un flop sul mercato, come il videotelefono che l’AT&T introdusse nel
1984 in Usa. Dunque, chi investe in innovazioni non
investe mai su una sola: deve distribuire il rischio.
Il che significa che gli investitori in innovazioni sono
investitori professionali. Occorre che esista
un’infrastruttura finanziaria in grado di capire il
potenziale delle innovazioni tecnologiche. Questa non è una cosa facile da
creare, e infatti in Italia e altri paesi è piuttosto gracile, almeno se confrontata
con paesi come gli Usa o la Svizzera.
Occorre, poi, un’infrastruttura di marketing che crei le condizioni per la
vendita. Il marketing deve spiegare dove stanno i vantaggi dell’innovazione e
cosa deve fare il cliente per accogliere il nuovo prodotto. Per un’azienda, ad
esempio, l’adozione di un nuovo software implica cospicue e necessarie
riorganizzazioni del personale e del lavoro.
Infine, occorre una rete di vendita e, in molti casi, di supporto al cliente dopo la
vendita.
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Ecco che abbiamo individuato ben cinque attività necessarie per la produzione
di un’innovazione di prodotto: invenzione, investimento, progetto industriale,
realizzazione, marketing.
Tutti i livelli devono cooperare armonicamente affinchè un’innovazione di
prodotto si realizzi con profitto per chi la utilizza e per chi vi ha investito. A
volte occorrono anni. Molte volte, l’impresa fallisce e nessuna innovazione ha
luogo.
E’ molto difficile, a livello macroeconomico, coordinare e armonizzare questo
gioco, questa filiera. Cosa può fare un Governo per stimolare nel suo paese giri
virtuosi di quel tipo?
Dovrebbe investire di più nella ricerca di base? Forse. Ma certo non è quella la
soluzione.
Le scoperte scientifiche che si pubblicano nei journal peer-reviewed o i raffinati
brevetti che escono dai laboratori di ricerca applicata sono solo il primo step
dell’innovazione e, si badi bene, sono accessibili a tutti, su scala planetaria.
Chiunque sappia farlo può leggere un paper scientifico interessante e trarne un
brevetto. Oppure comprare il diritto a sfruttare un brevetto esistente. Dunque,
serve, nel paese, di sicuro gente che sappia interpretare le scoperte scientifiche e
i brevetti.
Paolo Magrassi 2008 – Creative Commons Attribuzione / Non opere derivate

Quanta gente? È difficile rispondere a questa domanda senza avere analizzato


gli altri stadi dell’innovazione. Dire che, in un paese, ricercatori, pensatori e
creativi non sono mai abbastanza è un’affermazione impossibile da contestare.
Ma anche poco utile, perché si sa che, in pratica, quel genere di persone non
possono essere più di un 5 per mille della popolazione attiva.
Gli altri debbono essere competenti negli altri step dell’innovazione: ingegneri,
periti, operai, venture capitalists, esperti di marketing, manager, venditori.
E non è detto che tutte queste competenze debbano risiedere fisicamente in
Italia. L’importante è governare la filiera. L’iPhone è il prodotto di una filiera
governata dalla Apple, anche se contiene prodotti e servizi fabbricati in quasi
tutti i Continenti.

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