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01/10/13

Gottfried Leibniz (Mneme)

Mneme / Testo / Et moderna / Barocco / Gottfried Leibniz


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Gottfried Leibniz
Presentazione 1. L'opera 2. Il calcolo infinitesimale 2.1. I problemi 2.2. Il calcolo differenziale e integrale 2.3. Il teorema fondamentale 3. La logica 3.1. L'arte combinatoria 3.2. La concezione della verit 4. La teoria della sostanza 4.1. I princpi 4.2. Le qualit delle sostanze 4.3. La materia 5. La conoscenza umana 6. La teologia razionale 6.1. L'esistenza di Dio 6.2. La teodicea Esercizi

Presentazione: L'infinito nel mondo


Profondamente coinvolto nella vita politica e culturale del suo tempo, Gottfried Leibniz [p] intende far tesoro di tutte le giuste intuizioni della storia del pensiero per dar vita ad un sistema filosofico che dia ragione della ricchezza e complessit dell'universo. I suoi interessi spaziano in ogni campo del sapere. Meriti indiscussi vennero ottenuti nella matematica, dove contemporaneamente ad Isaac Newton [p] elabora le tecniche del calcolo infinitesimale, che permette di affrontare problemi altrimenti insolubili (come il calcolo dell'area di superfici delimitate da linee curve). Grandi risultati vengono ottenuti anche nel campo della logica, concepita come la scienza di maggiore generalit in quanto studia ogni formula per la sua sola forma, a prescindere dal significato dato ai termini. La concezione logica pi gravida di conseguenze riguarda la verit: vera solo la proposizione che esprime ci che gi implicito nel soggetto. Ci non elimina tuttavia la differenza tra proposizioni necessarie (che sarebbero vere in qualsiasi mondo possibile) e contingenti (che potrebbero essere false in un diverso universo non contraddittorio). questa distinzione che secondo Leibniz conserva anche uno spazio per la libert umana.
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Dalla teoria della verit Leibniz ricava la concezione della sostanza: essa deve comprendere una nozione cos completa da poter derivare da essa tutti i possibili predicati veri, in altre parole tutta la sua storia, compresi i rapporti con le altre sostanze. Ci significa che ogni sostanza (detta anche mnade) costituisce un mondo a s, e rispecchia le altre sostanze non perch esse esercitino un'influenza su di essa, ma piuttosto perch Dio ha prestabilito tra loro un'armonia. Dalle stesse premesse e suggestionato dal calcolo infinitesimale e dalle sue indagine fisiche, Leibniz ricava anche la concezione di un'universo infinitamente ricco, vivo in ogni sua infinitesima parte e pieno di energia. Il principio dell'armonia prestabilita permette d'altra parte di risolvere tanto il problema del rapporto tra corpo e anima (non ha senso cercare di determinare come interagiscano fra di loro), quanto il problema della conoscenza (ogni nozione ha in realt origine all'interno della mente). Questa forma peculiare di innatismo viene precisata attraverso il confronto critico con John Locke [p] . Le ripercussioni teologiche sono forse le pi celebri del pensiero di Leibniz. Egli non solo condivide in buona parte le dimostrazioni dell'esistenza di Dio trasmesse dalla tradizione (aggiungendo di suo la prova basata sull'armonia prestabilita), ma ritiene che la teoria dei mondi possibili sia una premessa sufficiente per fondare un perfetto ottimismo: Dio non avrebbe avuto alcun motivo di creare proprio questo mondo se esso non fosse il migliore. Il male evidentemente esistente dunque va considerato quello inevitabile per non rendere il mondo contraddittorio e dunque impossibile. In questo modo l'uomo possiede a priori l'assicurazione che il suo destino ultimo supera ogni desiderio e speranza.

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Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), Apollo e Dafne (particolare). L'opera di Bernini incarna bene alcune caratteristiche fondamentali dell'arte barocca: la mobilit, il senso della vita (che in questo caso sfrutta la narrazione mitologica per investire anche la pianta di alloro), soprattutto la scoperta di uno spazio infinito, non pi vincolato da precise strutture ma investito dal dinamismo delle figure. sorprendente notare come tutte queste caratteristiche si ritrovino nella contemporanea filosofia di Leibniz. In un sistema di pensiero che si propone di raccogliere e accordare la ricerca della verit di ogni tempo viene inglobata la teorizzazione di una infinita vita che percorre l'universo. Questo il migliore possibile per la presenza in esso della maggiore quantit di esistenza.

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Lipsia, 1646 -- Hannover, 1716. Studi a Lipsia diritto e filosofia. Nel 1667 inizi la carriera politico-diplomatica. Questa gli permise di entrare in contatto con il mondo intellettuale internazionale, con il quale tenne anche intensi scambi epistolari. Nel frattempo vagheggi il progetto di una unificazione politica e religiosa dell'Europa. Opere principali (per lo pi in francese, raramente in latino): Discorso di metafisica (titolo originale Trattato delle perfezioni di Dio, 1686, pubblicato nel 1846); Sistema nuovo della natura e della comunicazione delle sostanze, nonch dell'unione che c' tra l'anima e il corpo (1695); Nuovi saggi sull'intelletto umano (1704, pubblicati nel 1765); Saggi di Teodicea sulla bont di Dio, la libert dell'uomo e l'origine del male (1710); Princpi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714, pubblicato nel 1718); Monadologia (originariamente senza titolo, 1714, pubblicato nel 1720).

1. L'opera
Quando si osserva la produzione di Leibniz, la prima cosa che impressiona l'ampiezza dei suoi interessi congiunta all'importanza dei risultati che egli raggiunse in molti campi: oltre alla filosofia infatti occupano un rilevante spazio nelle sue ricerche anche la matematica, la fisica, il diritto, la teologia, la storia, la linguistica (senza considerare l'importanza anche della sua attivit pratica in campo diplomatico-politico e diplomatico-religioso). Da questo punto di vista si tratta di uno degli ultimi intellettuali veramente universali comparsi nella storia europea. Lo stesso spirito di universalit contraddistingue anche la sua opera filosofica in senso stretto, nella quale egli si preoccupa non tanto di contestare, quanto di elaborare un punto di vista dal quale si mostri la parziale verit delle opinioni prima di lui sostenute: Io approvo la maggior parte di ci che leggo. Sapendo da quanti lati le cose possono essere prese, trovo sempre qualche circostanza che scusa o difende il mio autore (Lettera a Placcius, 1693). La maggior parte delle sette hanno ragione in buona parte di ci che sostengono, ma non tanto in ci che negano (Erd. 702 a). Questa volont di ricerca di conciliazione spiega il gran numero di influenze che possibile rilevare nel suo pensiero. Anzitutto la grande filosofia greca (Platone a preferenza di Aristtele), ma anche la Scolastica (particolarmente Tommaso d'Aquino), che egli contrariamente a molti contemporanei valuta positivamente, e poi soprattutto i grandi filosofi del Seicento, confrontandosi con i quali sviluppa alcune delle sue idee pi originali: particolarmente Descartes [p], Spinoza [p], Locke, Newton, Bayle [p]. Questo eclettismo si
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accompagna ad una profonda fiducia nella possibilit della ragione umana e in particolare della filosofia: Leibniz perfettamente convinto che sia possibile giungere ad una spiegazione dei princpi della realt definitiva, e quella che cerca -- con una espressione che diventer celebre e sar talvolta ripresa -- la philosophia perennis, strutturata in maniera rigorosa e coerente. Ci malgrado, Leibniz non espose mai la sua filosofia in un'opera sistematica e completa, probabilmente perch troppo preso dai suoi impegni pubblici per credere importante il compito di divulgare le sue maggiori intuizioni. I suoi due testi pi ampi -- i Nuovi saggi sull'intelletto umano e i Saggi di Teodicea sulla bont di Dio, la libert dell'uomo e l'origine del male -- sono infatti scarsamente sistematici, affrontano solo problemi specifici, e per di pi avendo di mira pi la facilit di comprensione che l'esattezza. Presentazioni globali del suo pensiero vanno invece cercate in diversi piccoli saggi e importanti approfondimenti si trovano nell'epistolario. Le piccole discordanze che si possono trovare in tali scritti (probabilmente favorite proprio dalla mancanza di un'opera complessiva, che avrebbe dato l'occasione ad una revisione globale) non impediscono di tracciare un quadro sostanzialmente coerente, che eserciter tra l'altro nei suoi vari elementi grande influenza sull'illuminismo tedesco.
Lourdes Rensoli Laliga, G.W. Leibniz: Europa, China y la idea de Civilizacin, A Parte Rei. Revista de Filosofa , vol. 17.

2. Il calcolo infinitesimale
2.1. I problemi
La fama di Leibniz come matematico legata soprattutto alla prima sistemazione organica del calcolo infinitesimale. Di essa egli diede notizia in due articoli pubblicati negli Acta Eruditorum (Nova methodus pro maximis et minimis, itemque tangentibus, quae nec fractas, nec irrationales quantitates moratur, et singulare pro illis calculi genus, 1684 e De geometria recondita et analysi indivisibilium atque infinitorum, 1686). Tale pubblicazione diede origine ad una violenta polemica a distanza con Isaac Newton, il quale rivendic la priorit della scoperta e giunse praticamente ad accusare Leibniz di plagio. I documenti che possediamo sembrano far capire che entrambi giunsero indipendentemente alla stessa scoperta (formulata solo in termini differenti), che del resto era all'epoca preparata dalla soluzione gi nota di diversi casi particolari. Diamo qui, in una forma molto semplificata, un'idea dei problemi che il calcolo infinitesimale affronta e degli strumenti coi quali li risolve. Il presupposto del calcolo infinitesimale l'elaborazione della geometria analitica da parte di Descartes, vale a dire della possibilit di tradurre problemi geometrici in problemi algebrici e viceversa. Sul piano cartesiano, infatti, ogni funzione f(x ) = y rappresentata da una linea. Come noto, i polinomi di primo grado sono rappresentati da linee rette, quelli di grado superiore e le funzioni di altro tipo da linee curve. Proprio in relazione a questo secondo caso sorgono due importanti problemi: 1. Come calcolare l'area di una figura delimitata da linee curve? Esaminiamo il caso pi semplice: quello del trapezoide delimitato dai due assi, da una retta parallela all'asse delle ordinate e da una linea curva di funzione f(x ) = y. facile immaginare un metodo approssimato per calcolare quest'area: basta dividere il trapezoide in sottili rettangoli verticali e sommarne l'area. La base di ognuno di essi sar parte dell'asse delle ascisse, l'altezza sar calcolata usando la funzione f(x ). Ora, evidente che quanto maggiore sar il numero dei rettangoli, tanto pi preciso sar il calcolo dell'area. Ma come calcolare l'area esatta? Bisognerebbe dividere la figura in infiniti rettangoli e
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sommarne le infinitesime aree. possibile ci? 2. Come calcolare il coefficiente angolare della retta tangente ad un dato punto di una linea curva? Anche qui si pu pensare ad un sistema approssimato. Si pu scegliere nelle vicinanze dell'ascissa data un'altra ascissa, e calcolare le ordinate corrispondenti. Dividendo la differenza delle due ordinate per la differenza delle due ascisse si avr -- come noto -- il coefficiente angolare della retta passante per i due punti cos individuati. Non si tratta per di una tangente, perch essa attraversa la linea curva in due punti. Per ottenere il coefficiente della tangente bisognerebbe rendere infinitamente piccola la distanza tra le due ascisse (e di conseguenza tra le due ordinate), e calcolare il quoziente tra due infinitesimi. possibile?
I due problemi fondamentali del calcolo infinitesimale. Qual il coefficiente angolare della retta tangente in un punto di ascissa x' ad una curva f(x) = y? Qual l'area del trapezoide delimitato dai due assi, dalla retta x = x' e dalla curva f(x) = y?

2.2. Il calcolo differenziale e integrale


Il problema della tangente venne risolto con quello che Leibniz chiam calcolo differenziale. Con esso viene ricavata dalla funzione data y una funzione dy/dx (detta rapporto differenziale, da leggere de ipsilon su de ics), dove la d un operatore che indica il differenziale ovvero l'incremento infinitesimo delle variabili. Tale funzione esprime dunque il coefficiente angolare della retta tangente al punto di ascissa x della funzione originaria. Nel caso dei polinomi sono sufficienti due semplici regole: d(y + z) / dx = dy / dx + dz / dx d(ax n ) / dx = anx n-1 La prima regola stabilisce che il differenziale di una somma uguale alla somma dei differenziali degli addendi: in un polinomio quindi si tratta semplicemente di differenziare separatamente ogni termine. La
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seconda regola indica quale sia il rapporto differenziale di un monomio. Si noti che essa valida anche nel caso di costanti (che vanno considerati monomi di grado nullo) e di monomi con esponente negativo o frazionario. Bench la dimostrazione di queste due regole sia relativamente facile, la loro formulazione in termini cos generali fu senza dubbio geniale.
Riguardo alla notazione e alla terminologia, abbiamo usato quasi esattamente quella di Leibniz, che era sempre molto attento alla necessit di elaborare simboli comodi e coerenti. Essa ancor oggi (con poche modifiche) usata, quantunque sia stata abbandonata la teoria intuitiva degli infinitesimi che le stava alla base. Il simbolo dx rimane cos solo una comoda indicazione della variabile indipendente rispetto a cui bisogna differenziare la funzione (e anche un omaggio a Leibniz). Ai termini rapporto differenziale e differenziare vengono per oggi preferiti derivata e derivare, che risalgono a Joseph-Louis Lagrange [p] (1736-1813), che adoper per primo anche il simbolo y' (oggi largamente usato) per indicare la derivata di y.

La situazione simile per quanto riguarda il problema dell'area. Il procedimento qui introdotto venne chiamato da Leibniz calcolo integrale. Con esso dalla funzione data y viene ricavata una funzione Sy dx (detta integrale, da leggere integrale di ipsilon de ics), in cui il simbolo S una esse allungata che simboleggia la somma degli infiniti prodotti degli infinitesimi incrementi dell'ascissa per le ordinate corrispondenti. L'integrale dunque esprime, per ogni valore della funzione originaria, l'area del trapezoide delimitato nel modo prima descritto. Anche in questo caso per i polinomi bastano due semplici regole:

S (y + z) dx = Sy dx + Sz dx S (ax n) dx = ax (n + 1) / (n + 1)
Ecco un esempio di calcolo differenziale e e uno di calcolo integrale: d (x3 - 3x2 + 4) dx = 3x2 - 6x

S (2x3 - 4x + 2) dx = x4 / 2 + 2x2 + 2x

2.3. Il teorema fondamentale


La scoperta forse pi importante di Leibniz che i due problemi ora considerati sono strettamente legati, al punto che differenziazione e integrazione sono operazioni inverse: questo viene chiamato il teorema fondamentale del calcolo infinitesimale. Ci pu essere osservato gi nelle regole per i polinomi prima presentate. In termini simbolici: (d Sy dx ) / dx = y

S (dy / dx ) dx = y + c
Nella seconda espressione, la c indica che l'equivalenza vera a meno di una costante, come pu essere facilmente verificato anche intuitivamente.
Questo teorema fondamentale aiuta a chiarire alcune importanti applicazioni del calcolo infinitesimale nella fisica. Data la funzione che esprime lo spostamento di un corpo in dipendenza
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del tempo, la derivata rappresenta la velocit, la derivata della velocit (ovvero la derivata seconda dello spostamento) rappresenta l'accelerazione. Inversamente, data la funzione che esprime l'accelerazione in dipendenza del tempo, l'integrale del tempo rappresenta la velocit, l'integrale della velocit rappresenta lo spostamento. La celebre formula s = 1/2 gt2 (scoperta gi da Galilei) dunque un semplice integrale secondo della funzione f(t) = g. Queste applicazioni fisiche furono il punto di partenza della sistemazione del calcolo infinitesimale operata da Newton. In suo onore in tali casi si usa ancora la simbologia che egli elabor, in cui la derivata (flussione, diceva Newton) indicata da un punto sopra la variabile. Nella matematica contemporanea il calcolo infinitesimale viene per lo pi spiegato prescindendo dall'idea intuitiva di infinitesimo e usando invece il concetto pi facilmente definibile di limite (al nome di calcolo infinitesimale viene di conseguenza preferito quello di analisi, introdotto nell'uso soprattutto da Leonhard Euler [p] [1707-1783]). Questa diversa interpretazione, anticipata da Jean Le Rond d'Alembert [p] (1717-1783) nella celebre Encyclopdie e resa rigorosa da Augustin-Louis Cauchy [p] (1789-1857), fa evidentemente vacillare le conseguenze metafisiche che Leibniz credeva di poter trarre. Bisogna per anche ricordare che il problema del continuo, che Leibniz affront in connessione con il calcolo infinitesimale, ancora oggi di grande attualit e per diversi aspetti insoluto. Inoltre, negli anni '60 il matematico Abraham Robinson [p] (Nonstandard Analysis, North-Holland, Amsterdam 1966) mostr come fosse possibile dare un fondamento rigoroso all'idea di infinitesimo, partendo da alcuni sviluppi della teoria dei numeri transfiniti di Georg Cantor [p] (1845-1918), un matematico che come Leibniz sostenne l'esigenza di ammettere l'infinito attuale.

3. La logica
3.1. L'arte combinatoria
Bench le ricerche di Leibniz nel campo della logica siano in s molto importanti, la loro importanza storica molto limitata: egli infatti non pubblic praticamente nulla di ci che scopr, e si dovette attendere la fine dell'Ottocento perch ci che per lui era gi cosa nota venisse gradualmente riscoperto. Lo studio della logica visto da Leibniz in gran parte come alternativa al Discorso sul metodo di Descartes, giudicato troppo vago nei suoi criteri della chiarezza e distinzione: Vedo che gli uomini del nostro tempo abusano molto di quel famoso principio continuamente ripetuto: qualsiasi cosa percepisco chiaramente e distintamente di qualcosa, vero, ovvero pu essere enunciato di essa. Spesso infatti agli uomini che giudicano frettolosamente sembrano chiare e distinte cosa oscure e confuse. Dunque l'assioma inutile se non vengono usati dei criteri del chiaro e del distinto ... e se non consta la verit delle idee. Del resto non sono da disprezzare quei criteri di verit degli enunciati che sono le regole della logica comune, che anche i geometri usano, che cio nulla va ammesso come certo se non provato da un'accurata esperienza o da una solida dimostrazione; e solida dimostrazione quella che rispetta la forma prescritta dalla logica, non come se fossero necessari i sillogismi ordinati al modo scolastico ... , ma almeno in modo che l'argomentazione sia conclusiva in virt della forma (come esempio di un'argomentazione nella forma debita potresti dire anche un qualsiasi calcolo legittimo); cos n bisogna omettere qualche premessa necessaria, e tutte le premesse o devono essere gi da prima dimostrate, o almeno vanno assunte a mo' d'ipotesi, nel qual caso anche la conclusione ipotetica. Coloro che osserveranno attentamente queste norme facilmente si proteggeranno da idee ingannevoli (Meditationes de cognitione, veritate et ideis [G 4.422-426]).
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Leibniz non intende per semplicemente riprendere la logica antica e medioevale, ma concepisce l'idea di una sua radicale rifondazione, che viene da lui posta sotto il nome di arte combinatoria e che eserciter una certa influenza anche sui posteri. In tale denominazione implicito un netto progresso rispetto alle idee precedenti in materia: Chiamo arte combinatoria quella scienza (che si pu dire anche in generale caratteristica, o speciosa), in cui si tratta di tutte le forme o formule delle cose, cio della qualit in genere, o del simile e dissimile, in quanto da a, b, c, ecc. (che possono rappresentare quantit o altro), tra loro combinate nascono via via altre formule; essa si distingue dall'algebra che tratta delle formule applicate alla quantit, ovvero dell'eguale e dell'ineguale. L'algebra, pertanto, subordinata alla combinatoria, e si serve continuamente delle sue regole, che peraltro sono di gran lunga pi generali, e valgono non solo per l'algebra soltanto, ma anche per l'arte decifratoria, per vari generi di giochi, per la stessa geometria trattata linearmente al modo degli antichi, insomma, dovunque entri in gioco la similitudine (Sulla sintesi e l'analisi universale, fine [G 7.292-298]). Leibniz concepisce insomma la logica come una scienza puramente formale, che offre una base universale per tutte le scienze. Il modello di tale scienza offerto dalla matematica: in essa infatti il linguaggio naturale, di sua natura soggetto ad ambiguit e fraintendimenti, abbandonato in favore di un linguaggio artificiale, che permette di effettuare la deduzione come un semplice calcolo di natura meccanica, cio tramite la combinazione degli elementi del linguaggio; la stessa cosa deve avvenire nella logica, che dunque assume l'aspetto di una sorta di matematica generalizzata (e che perci viene chiamata da Leibniz anche mathesis universalis). Anche il nome caratteristica allude allo stesso fatto: la logica deve operare su simboli (caratteri) indipendentemente dal loro significato. Quest'idea, bench in parte ispirata dalla lettura di Hobbes e di Lullo, in realt di gran lunga pi profonda; tra l'altro, essa rispecchia esattamente la concezione di logica che si affermer nel Novecento, e che per questi motivi viene spesso chiamata logica matematica.
Enrico Barsanti, Leibniz e la lingua characteristica universalis, Enrico Barsanti Web Site, http://www.prismanet.com/barsanti/filosofia/charuniv.html. Eduardo Agero Mackern, Leibniz y el sueo cartesiano de la lengua universal, A Parte Rei. Revista de Filosofa , vol. 1.

3.2. La concezione della verit


Esiste una nozione logica che assume un'importanza fondamentale per l'intera filosofia di Leibniz. Si tratta del concetto di verit, evidentemente legato alla comprensione della logica come arte combinatoria e dunque puramente formale. Ecco uno dei numerosi testi in cui Leibniz si pronuncia con chiarezza al riguardo: palese che ogni predicazione vera ha qualche fondamento nella natura delle cose, e quando una proposizione non identica, vale a dire quando il predicato non compreso espressamente nel soggetto, bisogna che vi sia compreso virtualmente, e questo ci che i filosofi chiamano in-esse, dicendo che il predicato nel soggetto. Cos bisogna che il termine del soggetto racchiuda sempre quello del predicato, di modo che colui che intendesse perfettamente la nozione del soggetto, giudicherebbe anche che il predicato gli appartiene. ... Dio, vedendo la nozione individuale o ecceit di
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Alessandro [Magno], vi vede in pari tempo il fondamento e la ragione di tutti i predicati che si possono dire di lui con verit, come per esempio che egli vincer Dario e Poro, fino a conoscere a priori (e non per esperienza) se morto di una morte naturale o avvelenato, il che noi possiamo sapere solo grazie alla storia (Discorso di Metafisica, 8 [G 4.427-463]). In sintesi: la ragione della verit di una proposizione va trovata sempre e solo all'interno della proposizione stessa, e cio nell'inclusione del predicato nel soggetto; questa inclusione pu essere o evidente (il triangolo equilatero un triangolo) o soltanto virtuale, nel qual caso necessaria un'analisi completa del soggetto per mostrarvi la presenza del predicato, bench quest'analisi alla mente limitata dell'uomo possa risultare di fatto impossibile. Tutte le proposizioni vere hanno dunque di per s la loro dimostrazione a priori, cio indipendentemente dall'esperienza, anche se la maggior parte vengono conosciute dall'uomo solo a posteriori, e cio dall'esperienza: che il 1 gennaio del 2000 a Roma faccia un certo tempo di per s ha la sua dimostrazione a priori, in sguito cio ad un'analisi del concetto di atmosfera terrestre; ma di fatto noi lo verremo a sapere solo quando giunger quel giorno, dunque per esperienza. Tale concezione di verit non identifica per la realt con la necessit, come avviene in Spinoza? Leibniz rifiuta esplicitamente questa conseguenza tirata gi a suo tempo da Aristotele: Sembra che in questo modo sar distrutta la differenza tra le verit contingenti e necessarie, che la libert umana non avr pi alcun luogo, e che una fatalit assoluta regner su tutte le nostre azioni cos come su tutti gli altri avvenimenti del mondo. ... Io dico che la connessione o conseguenza di due tipi: una assolutamente necessaria, e il suo contrario implica contraddizione, e questa deduzione ha luogo nelle verit eterne, come sono quelle della geometria; l'altra necessaria solo ex hypothesi, e per cos dire per accidente, ma essa contingente in s, quando il contrario non implica affatto contraddizione. E questa connessione fondata non sulle idee del tutto pure e sul semplice intelletto di Dio, ma ancora sui suoi liberi decreti e sulla connessione dell'universo (Discorso di Metafisica, 13 [G 4.427-463]). Si tratta di un punto di estrema importanza nella filosofia di Leibniz, che dunque va ben chiarito. Le due proposizioni il triangolo ha gli angoli interni eguali a due retti e Alessandro Magno vince Dario hanno entrambe il motivo della loro verit in s stesse, cio i predicati sono presenti nei rispettivi soggetti. La loro differenza chiara per quando si esaminano le proposizioni contrarie: il triangolo non ha gli angoli interni eguali a due retti e Alessandro Magno non vince Dario. La prima una proposizione certamente falsa, perch il concetto di triangolo con gli angoli interni non eguali a due retti contraddittorio, come pu essere facilmente dimostrato nella geometria euclidea. Ma il concetto di Alessandro Magno che non vince Dario non in s contraddittorio: bench nel nostro mondo esso non abbia esistenza, immaginabile un mondo diverso in cui Alessandro Magno perda. Le verit necessarie (o di ragione) sono quindi quelle valide in tutti i mondi possibili (e cio non contraddittori), le verit contingenti (o di fatto) sono quelle valide nel mondo reale ma non in tutti i mondi possibili. Esse sono dunque necessarie solo sulla base di una premessa (ex hypothesi): dato che questo il mondo esistente, allora necessariamente Alessandro vince Dario. Ci si pu esprimere anche dicendo che le verit necessarie sono fondate sull'intelletto di Dio, che pensa tutti i mondi possibili, mentre quelle contingenti sono fondate sulla volont di Dio, che ha deciso quale di questi mondi possibili creare, cio rendere reale.
Da ci si ricava anche che ci sono in realt proposizioni contingenti che, contro la regola generale, non hanno una prova a priori, o perlomeno non nel senso in cui la posseggono le altre: le proposizioni esistenziali, che affermano se qualcosa esiste o no. Nel concetto di Alessandro Magno non compresa la sua esistenza. Ci avviene -- eccezione dell'eccezione -- solo nel caso di Dio.
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Da questa concezione della verit discende la supremazia di due princpi logici: I nostri ragionamenti sono fondati su due grandi princpi: il principio di contraddizione, in virt del quale giudichiamo falso ci che la includa, e vero ci che opposto al contraddittorio o falso; e il principio di ragion sufficiente, in virt del quale consideriamo che nessun fatto potrebbe essere vero, o esistente, nessuna enunciazione vera, senza che vi sia una ragione sufficiente perch sia cos e non altrimenti, bench queste ragioni il pi delle volte possano non esserci affatto note. ... La ragione sufficiente si deve trovare anche nelle verit contingenti o di fatto, cio nella sequenza delle cose distribuite nell'universo delle creature, dove la risoluzione in ragioni particolari potrebbe andare fino ad un dettaglio senza limiti, a causa della variet immensa delle cose della natura e della divisione dei corpi all'infinito (Monadologia, 31-32; 36 [G 6.607-623]). I due princpi sono in gran parte complementari: se infatti il principio di contraddizione (detto anche di non contraddizione) afferma che le proposizioni in cui il predicato incluso nel soggetto sono vere, il principio di ragion sufficiente afferma che nelle proposizioni vere dev'esserci una ragione della loro verit, e cio anzitutto l'inclusione del predicato nel soggetto. Leibniz si preoccupa di far notare che questo principio si applica anche alle verit contingenti, in cui l'analisi del soggetto potrebbe dover andare all'infinito e dunque essere di fatto impossibile all'uomo (un'idea questa evidentemente ispirata dal calcolo infinitesimale).
Ci non significa -- come spesso stato affermato -- che il principio di non contraddizione riguardi solo le verit necessarie e quello di ragion sufficiente solo le verit contingenti: entrambi riguardano ogni verit. per vero che il principio di ragion sufficiente ha un'estensione maggiore di quello di non contraddizione, perch si estende anche alle proposizioni contingenti esistenziali, sebbene mutando leggermente di significato: l la ragion sufficiente della verit non pu consistere certo nella presenza del predicato nel soggetto. Proprio quest'uso del principio di ragion sufficiente in grado secondo Leibniz di condurre alla metafisica, che s'interroga sull'esistenza delle cose e sulla sua causa. Alfredo Spano, Il meccanismo metafisico della dottrina leibniziana dei mondi possibili, Filosofia in Italia .

4. La teoria della sostanza


4.1. I princpi
Dalla teoria della verit discende direttamente la teoria della sostanza, che Leibniz riteneva un caposaldo della sua filosofia e svilupp soprattutto nel confronto con Descartes e Spinoza. Fondamentalmente viene accettata la definizione logica, di origine aristotelica, secondo cui sostanza il soggetto di cui vengono predicati gli accidenti, mentre essa stessa non predicata di null'altro. Ma tale definizione va completata sulla base del concetto di verit prima esaminato: Possiamo dire che la natura di una sostanza individuale o di un essere completo di avere una nozione cos completa da essere sufficiente a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati del soggetto a cui
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questa nozione attribuita. Al contrario l'accidente un essere la cui nozione non implica affatto tutto ci che si pu attribuire al soggetto cui si attribuisce questa nozione (Discorso di Metafisica, 8 [G 4.427-463]). Non quindi sufficiente indicare la sostanza come soggetto di attribuzione, ma bisogna aggiungere che essa deve effettivamente comprendere tutti i possibili attributi veri. Questa semplice premessa in effetti ricca di conseguenze: Di qui seguono diversi notevoli paradossi. Tra gli altri, che non vero che due sostanze si rassomiglino interamente, e siano differenti solo numero, e ci che San Tommaso su questo punto assicura degli angeli o intelligenze, quod ibi omne individuum sit species infima, vero di tutte le sostanze, purch si prenda la differenza specifica come i geometri la prendono riguardo alle loro figure. Allo stesso modo, che una sostanza potr cominciare solo per creazione e perire solo per annichilazione; che una sostanza non si divide in due n di due se ne fa una, e che cos il numero delle sostanze non aumenta n diminuisce naturalmente per quanto siano spesso trasformate. Inoltre, ogni sostanza come un mondo intero e come uno specchio di Dio o meglio di tutto l'universo, che ciascuna esprime a modo suo, pi o meno come una stessa citt diversamente rappresentata secondo le differenti posizioni di colui che la osserva (Discorso di Metafisica, 9 [G 4.427-463]). Esaminiamo in ordine queste tre conseguenze. La prima, il principio di identit degli indiscernibili, discende direttamente dalla completezza che la nozione di ogni sostanza deve possedere. Che due sostanze distinte siano eguali per la loro nozione significherebbe che ad esse potrebbero essere attribuiti tutti e solo gli stessi attributi, anche accidentali: ma questo evidentemente assurdo. Ogni sostanza costituisce quindi una specie a s. Ugualmente dalla completezza della nozione nasce la seconda conseguenza: se una sostanza si dividesse in due ne verrebbero due nozioni incomplete, e dunque due accidenti, se due sostanze invece si unissero nascerebbe l'assurdo di una nozione doppia: dunque il numero delle sostanze pu aumentare o diminuire solo in modo extra-naturale, cio tramite il loro venire dal nulla o il loro (eventuale) tornarvi: cio appunto creazione e annichilazione. La terza conseguenza pi sottile. Se nella nozione di Alessandro Magno compreso il fatto che egli vince Dario, tramite essa posso in qualche modo conoscere anche quest'ultimo: e dato che nell'universo tutto connesso (non costituirebbe altrimenti un unico universo) ogni sostanza riflette tutte le altre infinite sostanze dell'universo, seppure in modo pi forte e vicino oppure pi debole e lontano. La definizione della sostanza porta per ancora una conseguenza, che Leibniz riteneva tanto importante da determinare la caratteristica fondamentale della sua filosofia: Ciascuna sostanza come un mondo a parte, indipendente da ogni altra cosa, fuorch da Dio; cos tutti i nostri fenomeni, cio tutto ci che ci pu mai capitare, sono solo delle conseguenze del nostro essere; e come questi fenomeni rispettano un certo ordine conforme alla nostra natura, o per cos dire al mondo che in noi (ordine che fa in modo che possiamo fare osservazioni utili per regolare la nostra condotta che sono giustificate dal successo dei fenomeni futuri, e che cos possiamo sovente giudicare sull'avvenire grazie al passato senza ingannarci), ci basterebbe per dire che questi fenomeni sono veri senza preoccuparci se sono fuori di noi e se altri li percepiscono cos: tuttavia verissimo che le percezioni o espressioni di tutte le sostanze si corrispondono, di modo che ciascuno, seguendo con cura certe ragioni o leggi che ha osservato, s'incontra con l'altro che fa altrettanto. ... Ora, c' solo Dio ... che pu essere causa di questa corrispondenza dei loro fenomeni, e che pu fare in modo che ci che
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particolare ad uno sia pubblico a tutti (Discorso di Metafisica, 14 [G 4.427-463]). Il motivo di ci semplice da capire: se la sostanza possiede una nozione realmente completa, tutto ci che le accadr gi scritto nella sua natura, e non dipende da una reale influenza di un'altra sostanza. Che io ora veda un libro dipende dal fatto che nella mia nozione compresa tale percezione, e non dal fatto che il libro eserciti un'influenza sulla mia sensibilit. La sostanza non ha n porte n finestre: con un paragone moderno, le sue percezioni assomigliano piuttosto alla proiezione di una pellicola che gi presente internamente. Ci per non significa che il mondo che percepiamo illusorio: dobbiamo anzi credere (seppure ne manchi una prova rigorosa) che esso esista, e che le percezioni di tutte le sostanze si corrispondano perfettamente come se esse avessero realmente influenza le une sulle altre. Ma questa corrispondenza non pu nascere spontaneamente, ma dev'essere predisposta da Dio: esiste dunque una armonia prestabilita tra tutte le sostanze.
Tutto ci fa capire perch Leibniz da un certo momento prefer a sostanza il termine mnade (dal greco mons, cio unit), che evidenziava pi chiaramente l'assoluta semplicit: La monade non altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice, vale a dire senza parti (Monadologia , 1 [G 6.607-623]). Sostanza non pi quindi soltanto l'unit organica, come per esempio nella filosofia aristotelica, ma ogni infinitesima parte della realt, considerata nella totalit delle sue determinazioni. Talvolta Leibniz usa anche il termine aristotelico entelcheia , il quale sottolinea la compiutezza e autosufficienza della singola sostanza.

4.2. Le qualit delle sostanze


Il principio di identit degli indiscernibili, e cio la necessit che tutte le monadi siano distinte per le loro qualit, conduce Leibniz ad ulteriori notevoli conseguenze: Una monade in s stessa non pu essere attualmente distinta da un'altra se non per mezzo della qualit e delle azioni interne, le quali non possono essere altro che le sue percezioni (cio, le rappresentazioni nel semplice del composto ovvero di ci che esterno) e le sue appetizioni (cio il suo tendere da una percezione all'altra): questi sono i princpi del mutamento. Infatti la semplicit della sostanza non esclude la molteplicit delle modificazioni, che devono trovarsi insieme in quella stessa sostanza semplice, e devono consistere nella variet delle relazioni con le cose esterne (Princpi della natura e della grazia, 2 [G 6.598-606]). Da una parte diventa pi chiaro dunque che cosa significhi che ogni monade uno specchio vivente dell'universo (Monadologia, 56 [G 6.607-623]): essa lo proprio perch viene individuata dall'insieme delle proprie percezioni. Dall'altra si comprende, dato che solo percezione e appetizione (cio desiderio) possono dare individualit, che ogni monade di sua natura viva, e l'intero universo dunque totalmente pieno di vita in ogni sua infinitesima parte (un punto di vista questo che Leibniz vede confermato dalle osservazioni rese possibili ai suoi tempi dall'invenzione del microscopio): Ciascuna porzione di materia pu essere concepita come un giardino pieno di piante, o come uno stagno pieno di pesci. Ma ciascun ramo della pianta, ciascun membro dell'animale, ciascuna goccia dei suoi liquidi ancora un tale giardino o un tale stagno (Monadologia, 67 [G 6.607-623]).

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Ci tuttavia non significa che la vita delle monadi sia tutta dello stesso livello. Bisogna invece distinguere tre gradi gerarchici. Il primo quello della semplice monade, che come visto dotata di percezione e appetizione; il secondo quello dell'anima, che una monade dotata in pi di memoria: gli esseri che la posseggono sono gli animali; il terzo infine quello della mente (o spirito), che un'anima dotata in pi di ragione e coscienza: e sono solo gli uomini a possederla. L'esistenza di tale gerarchia secondo Leibniz serve anche a smentire l'equivalenza sostenuta da Descartes tra percezione e coscienza: tutti gli animali e i viventi inferiori posseggono percezioni senza averne coscienza riflessa, e anche nell'uomo la maggior parte delle percezioni avvengono in maniera inconscia, senza cio che si ponga attenzione alla loro presenza, o addirittura senza che sia possibile farlo (come per esempio nel sonno). Ma come possibile concepire con queste premesse l'unit dell'anima con il corpo e il loro reciproco rapporto? Riguardo al primo problema la difficolt consiste da una parte nell'impossibilit di concepire l'unione di pi sostanze in un'unica, dall'altra nella necessit di attribuire sostanzialit anche alla minima particella del corpo. Per Leibniz la soluzione (espressa del resto in termini non poco oscillanti) consiste nel concepire un rapporto di subordinazione, che prevede una monade dominante o centrale; tale rapporto permette di parlare del vivente complesso -- seppure in modo un po' improprio -- come se fosse un'unica sostanza: Ciascuna sostanza semplice o monade distinta, che costituisce il centro d'una sostanza [composta] (ad esempio d'un animale), nonch il principio della sua unicit, circondata da una massa composta da una infinit di altre monadi, che formano il corpo proprio di quella monade centrale, che si rappresenta secondo le affezioni di esso, come una specie di centro, le cose che le sono esterne (Princpi della natura e della grazia, 3 [G 6.598-606]) Ci ovviamente non toglie che il corpo continuamente si trasformi, e che quindi delle monadi continuamente entrino nella sfera propria dell'anima e ne escano. Il secondo problema di soluzione pi semplice, date le premesse. La soluzione non infatti altro che un'applicazione del principio dell'armonia prestabilita: Immaginatevi due orologi da parete o da polso che vanno perfettamente d'accordo. Ora, ci pu avvenire in tre modi. Il primo consiste nell'influenza reciproca di un orologio sull'altro; la seconda nell'opera di un uomo che vi si preoccupa; la terza nella loro propria esattezza. ... Mettete ora l'anima e il corpo al posto di questi due orologi. Il loro accordo o simpatia arriver anche in uno di questi tre modi. La via dell'influenza quella della filosofia comune; ma poich non si riuscir a concepire che particelle materiali o specie o qualit immateriali possano passare da una sostanza all'altra, si obbligati ad abbandonare questa sensazione. La via dell'assistenza quella del sistema delle cause occasionali; ma ritengo che ci significa introdurre un Deus ex machina in una cosa naturale e ordinaria, laddove secondo la ragione egli deve intervenire solo in modo da concorrere a tutte le altre cose della natura. Cos resta solo la mia ipotesi, cio la via dell'armonia prestabilita da un artefice divino previdente, il quale fin dall'inizio ha formato ciascuna di queste sostanze in una maniera cos perfetta, e l'ha regolata con tanta esattezza, che solo seguendo le proprie leggi, ricevute insieme con il suo essere, essa si accorda cos con l'altra; tutto come se ci fosse una influenza mutua, o come se Dio vi mettesse sempre la mano al di l del suo concorso generale (Nuovo sistema della natura, e 3 [G 4.477-487]).

David Scott, Leibniz's Model of Creation and His Doctrine of Substance, Animus, vol. III (1998), http://www.mun.ca/animus/1998vol3/scott3.htm.
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Brandon Look, Unity and Reality in Leibniz's Correspondence with Des Bosses, The Paideia Project, http://www.bu.edu/wcp/Papers/Mode/ModeLook.htm.

4.3. La materia
La teoria delle monadi trova importanti applicazioni e specificazioni anche nel campo fisico, al quale Leibniz dedic molta attenzione. Un primo mbito di problemi riguarda il cosiddetto labirinto del continuo, cos chiamato per l'evidente difficolt che ne presenta lo studio, nel quale facile per la mente umana smarrirsi. Il punto di partenza pu essere considerato il fatto che la materia ci si presenta come divisibile. Ma divisibile fin dove? Ammettere che la divisione debba ad un certo punto fermarsi significherebbe ammettere degli atomi, cio delle parti ultime, estesi. Ma ci contraddice la teoria della sostanza, secondo cui i costituenti ultimi della realt devono essere assolutamente semplici, cio privi di parti e dunque di estensione. Del resto, anche ammettere che la divisione pu andare all'infinito non risolve il problema, perch significa ammettere che non esistano parti semplici: ma senza il semplice non pu esistere il complesso. Per Leibniz c' un'unica soluzione: malgrado i paradossi che ci comporta (messi in evidenza fin da Aristtele), necessario ammettere l'esistenza dell'infinito attuale, e non solo potenziale: Ciascuna porzione della materia non soltanto divisibile all'infinito, come hanno riconosciuto gli antichi, ma anche suddivisa attualmente senza fine, ciascuna parte in parti di cui ciascuna ha qualche movimento proprio (Monadologia, 65 [G 6.607-623]). Ci che a noi appare come materia continua in realt dunque l'aggregato di infinite monadi di dimensioni infinitesime (ancora una volta una posizione chiaramente ispirata dalla scoperta del calcolo infinitesimale). In questo modo dunque viene anche cancellata l'assoluta distinzione che Descartes poneva tra spirito e materia. La teoria della sostanza, e pi precisamente il principio di ragion sufficiente e il principio di identit degli indiscernibili, offre a Leibniz anche la possibilit di confutare l'opinione di Newton secondo la quale spazio e tempo sono enti in s, autonomi dalle cose che vi sono poste: Lo spazio qualcosa di assolutamente uniforme; e, senza le cose che vi si trovano, un punto dello spazio non differisce assolutamente in nessun aspetto da un altro punto dello spazio. Ora di qui segue (supponendo che lo spazio sia in s stesso qualcosa, oltre l'ordine dei corpi tra loro), che non pu esserci una ragione perch Dio, conservando le stesse posizioni dei corpi tra loro, abbia situato i corpi nello spazio in un certo modo e non altrimenti; perch tutto non sia stato invece posto a rovescio, per esempio scambiando l'oriente con l'occidente. Ma se lo spazio non altro che quell'ordine o rapporto, e non nulla affatto senza i corpi (se non la possibilit di metterne) allora quei due stati, l'uno come ora, l'altro supposto al rovescio, non differirebbero affatto tra loro. La loro differenza non si trova dunque che nella nostra supposizione chimerica della realt dello spazio in s stesso. ... la stessa cosa rispetto al tempo. Supponendo che qualcuno domandi perch Dio non ha creato tutto un anno prima, e la stessa persona voglia da ci dedurre che Dio ha fatto qualcosa di cui non pu esserci una ragione perch l'abbia fatto cos e non diversamente, gli si risponderebbe che la sua deduzione sarebbe vera se il tempo fosse qualcosa separato dalle cose temporali, perch allora non potrebbero esserci ragioni perch le cose siano state applicate a certi istanti piuttosto che ad altri, ferma restando la loro successione. Lo stesso argomento prova che gli istanti, distinti delle cose, non sono
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nulla, e che essi non consistono in altro che nell'ordine successivo delle cose; restando questo lo stesso, uno dei due stati (come quello della immaginata anticipazione [della creazione]) non differirebbe in nulla e non potrebbe essere distinto dall'altro che esiste ora (Disputa tra Leibniz e Clarke, 5.5-6 [G 7.345-440]). Queste premesse rendono impossibile a Leibniz indicare -- come aveva fatto Descartes -- nell'estensione l'essenza della materia. Bisogna piuttosto secondo lui riconoscere due caratteristiche essenziali, entrambe le quali sono di carattere dinamico e non semplicemente geometrico. La prima l'inerzia, ed la tendenza a perseverare nello stato di quiete o di moto finch non intervenga una causa esterna (in questo senso si parla di materia prima); la seconda la forza viva, che la causa del movimento (in questo senso si parla di materia seconda).
Entrambe queste caratteristiche infatti rispettano una norma che la teoria della sostanza ha dimostrato essenziale: esse si conservano , senza n aumentare n diminuire, in un sistema isolato. Nel primo caso infatti in questione la conservazione della massa, nel secondo la conservazione della forza viva, o, come oggi si dice, dell'energia cinetica (mv2). La scoperta di questo secondo principio viene rivendicato da Leibniz come un suo particolare merito; contemporaneamente viene dimostrato falso il presunto principio di conservazione della quantit di moto (mv) che era stato affermato da Descartes, e che Leibniz correttamente giudica vero solo quando si considera il moto in una certa direzione. In questo modo tra l'altro viene anche confutata la teoria con cui Descartes voleva spiegare l'influenza tra anima e corpo: la prima poteva secondo lui deviare il movimento corporeo verso un'altra direzione, senza con ci violare il principio di conservazione. Malgrado i limiti contenuti nella teoria di Leibniz, la sua formulazione delle leggi di conservazione in effetti la migliore che poteva esserci con le conoscenze dell'epoca. Anche laddove si notano incoerenze, che paiono rendere la filosofia naturale di Leibniz di minor qualit rispetto a quella di Newton, gli sviluppi della fisica contemporanea hanno mostrato come in effetti il primo avesse intravisto i problemi con pi radicalit rispetto al secondo.

Un ultimo problema consiste nella conciliazione tra la teoria della monade e la teoria della materia, che sembrano far riferimento a princpi incompatibili tra loro nella spiegazione del divenire. Ma si tratta di applicare ancora una volta il principio dell'armonia prestabilita: Le percezioni nella monade nascono l'una dall'altra per le leggi delle appetizioni o delle cause finali del bene e del male, che consistono nelle percezioni osservabili, regolate o no; mentre i mutamenti dei corpi e i fenomeni esterni nascono gli uni dagli altri per le leggi delle cause efficienti, cio dei movimenti. Ora, tra le percezioni della monade ed i movimenti dei corpi c' una armonia perfetta, prestabilita fin dal principio tra il sistema delle cause efficienti e quello delle cause finali (Princpi della natura e della grazia, 3 [G 6.598-606]). In questo modo Leibniz respinge l'eliminazione delle cause finali che aveva effettuato Spinoza, ma contemporaneamente non ammette che esse possano mutare l'ordine naturale dei movimenti, come sosteneva Descartes nella sua teoria del rapporto tra anima e corpo.
Wolfgang Malzkorn, Leibniz's Theory of Space in the Correspondence with Clarke and the Existence of Vacuums, The Paideia Project, http://www.bu.edu/wcp/Papers/Mode/ModeMalz.htm. Jos G. Higuera Rubi, Del horror al ocio en el Ars luliano y el problema del vaco en la discusin Leibniz-Clarke Principios teolgicos en la epistemologa de las ciencias, Convenit Internacional, n. 5, http://www.hottopos.com/convenit5/10.htm.
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Arto Repo, Leibniz on Material Things, The Paideia Project, http://www.bu.edu/wcp/Papers/Mode/ModeRepo.htm. Paul Raymont, Leibniz's Distinction Between Natural and Artificial Machines, The Paideia Project, http://www.bu.edu/wcp/Papers/Mode/ModeRaym.htm.

5. La conoscenza umana
L'occasione per Leibniz di approfondire il problema della conoscenza venne dalla lettura del Saggio di John Locke. Rispondendo punto per punto alle opinioni di quell'opera, e ripetendone persino la struttura, Leibniz compose i Nuovi saggi, che tuttavia non pubblic quando seppe della morte di Locke, sembrandogli scorretto contestare le idee di chi non poteva pi replicare. In questione non erano pi i princpi della conoscenza, che gi erano stati studiati in ambito logico, ma piuttosto le facolt e le modalit tramite cui la verit viene raggiunta dall'uomo. Leibniz assume una posizione eclettica, posta per sullo sfondo di un sostanziale neoplatonismo. Di origine neoplatonica anzitutto la distinzione che viene tracciata tra sensibilit e intelletto o ragione: Le idee intellettuali, che sono la sorgente delle verit necessarie, non vengono affatto dai sensi: e voi riconoscete che ci sono idee che sono dovute alla riflessione della mente, quando essa riflette su s stessa. Del resto vero che la conoscenza esplicita delle verit posteriore (tempore vel natura) alla conoscenza esplicita delle idee (come la natura delle verit dipende dalla natura delle idee prima che si formino esplicitamente le une e le altre), e le verit dove sono coinvolte le idee che vengono dai sensi dipendono dai sensi, almeno in parte. Ma le idee che vengono dai sensi sono confuse, e le verit che ne dipendono lo sono pure, almeno in parte; invece le idee intellettuali e le verit che ne dipendono sono distinte, e non hanno origine n le une n le altre dai sensi, sebbene sia vero che non le penseremmo mai senza i sensi (Nuovi saggi, 1.1.11 [G 5.39-509]). Va osservato che questa distinzione semplicemente qualitativa, e per di pi si compie attraverso infiniti gradi intermedi per il principio di continuit: sensibilit e ragione sono quindi solo due espressioni della stessa facolt percettiva. Alla ragione, in particolare, spetta il compito di indagare le verit eterne, o appunto di ragione, che sono valide in qualsiasi mondo possibile, dal momento che le verit contingenti possono invece essere conosciute dall'uomo solo per esperienza, e dunque con l'aiuto dei sensi. Questa distinzione viene usata da Leibniz anche per rifiutare l'empirismo radicale di Locke, secondo il quale nell'uomo non esiste alcuna idea innata anteriore e indipendente dall'esperienza: Si tratta di sapere se l'anima in s sia interamente vuota come delle tavolette dove non ancora stato scritto nulla (tabula rasa), seguendo Aristtele e l'autore del Saggio [Locke], e se tutto ci che vi tracciato venga unicamente dai sensi e dall'esperienza; o se l'anima contenga originariamente i princpi di pi nozioni e dottrine, che gli oggetti esterni risvegliano soltanto nelle occasioni, come io credo con Platone e anche con gli scolastici. ... Da ci nasce un'altra questione, cio se tutte le verit dipendano dall'esperienza, vale a dire dall'induzione e dagli esempi; o se ci siano verit che hanno ancora un altro fondamento. Infatti se alcuni avvenimenti possono essere previsti prima di ogni prova che si possa fare, manifesto che vi contribuiamo con qualche cosa da parte nostra. I sensi, quantunque necessari per tutte le nostre conoscenze attuali, non sono affatto sufficienti per darcele tutte, poich i sensi non dnno mai altro che esempi, vale a dire verit particolari o individuali. Ora, tutti gli esempi che confermano una verit generale, di qualunque numero siano, non bastano per stabilire la necessit universale di questa
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stessa verit: infatti non necessario che ci che successo succeder sempre allo stesso modo. ... La logica con la metafisica e la morale (delle quali l'una forma la teologia l'altra la giurisprudenza, naturali entrambe) sono piene di tali verit; e di conseguenza la loro prova pu venire solo da princpi interni, che vengono chiamati innati (Nuovi saggi, Prefazione [G 5.39-509]). In sintesi: l'esperienza non pu fornire mai verit universali; ma l'uomo di fatto conosce verit universali; dunque la loro fonte deve essere all'infuori dell'esperienza e trovarsi nell'uomo stesso. questo il motivo per cui Leibniz altre volte si dichiara sostanzialmente in sintonia con la teoria della reminiscenza platonica: ammettere princpi innati non significa dichiarare che l'uomo fin dalla nascita li possegga nella loro forma compiuta, ma piuttosto che la struttura del suo intelletto gi predisposta per portarle alla luce. Si tratta quindi di verit presenti virtualmente, come sarebbero in un blocco di marmo delle venature che gi delineino la forma che ne verr tratta. Con questo stesso significato l'assioma aristotelico-scolastico nulla c' nell'intelletto che prima non sia stato nei sensi viene ammesso, ma purch si aggiunga: tranne l'intelletto stesso. Cos intesa anche la posizione di Locke pu essere accettata: Forse il nostro abile autore [Locke] non s'allontana del tutto dalla mia opinione. Infatti, dopo aver impiegato tutto il suo primo libro a rigettare i lumi innati, presi in un certo senso, dichiara tuttavia all'inizio del secondo e nel seguito che le idee che non hanno la loro origine nella sensazione vengono dalla riflessione. Ora, la riflessione non altro che un'attenzione a ci che in noi, e i sensi non ci dnno affatto ci che noi portiamo gi con noi. Stando cos le cose, si pu forse negare che c' molto di innato nella nostra mente, giacch noi siamo per cos dire innati a noi stessi? (Nuovi saggi, Prefazione [G 5.39-509]). Si comprende cos quale sia il legame tra ragione e coscienza (o appercezione), che in effetti sono le due caratteristiche che abbiamo visto contraddistinguere l'anima umana.
Bench questa teoria di Leibniz sia diventata molto celebre, necessario osservare che in realt essa si pone da un punto di vista solo popolare. I princpi della sua filosofia permettevano infatti affermazioni molto pi radicali, giacch in senso rigoroso tutte le idee, intellettuali o sensibili che siano, sono innate nell'uomo: Nulla entra nella mente da fuori, ed una nostra cattiva abitudine ragionare come se la nostra anima ricevesse delle specie messaggere e come se avesse porte e finestre. Noi abbiamo nella mente tutte queste forme, e per di pi di ogni tempo, perch la mente esprime sempre tutti i suoi pensieri futuri, e pensa gi confusamente tutto ci che penser distintamente. E nulla potrebbe essere appreso se non ne avessimo gi nella mente l'idea, che come la materia di cui questo pensiero si forma. ... Aristtele ha preferito paragonare la nostra anima a tavolette ancora vuote, dove c' posto per scrivere, e ha sostenuto che nel nostro intelletto non c' nulla che non provenga dai sensi. Ci si accorda di pi con le nozioni popolari, come abitudine di Aristtele, mentre Platone va pi a fondo. Tuttavia questi tipi di dossologie o praticologie possono essere tollerate nell'uso ordinario, pi o meno come vediamo che coloro che seguono Copernico non smettono di dire che il sole si leva e tramonta (Discorso di Metafisica , 26-27 [G 4.427-463]).

Gustavo Micheletti, I pensieri sordi e l'inconscio, Res Cogitans. Saggi.

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6. La teologia razionale
6.1. L'esistenza di Dio
Cos come gi avveniva in Aristtele, la metafisica di Leibniz culmina di sua natura in una teoria di Dio. Il primo passo consiste nel dimostrarne l'esistenza. Differenti prove vengono ritenute valide. La prima la prova a priori di Anselmo, che era stata ripetuta da Descartes: data la nozione di essere perfettissimo, ad essa bisogna necessariamente riconoscere l'esistenza, perch altrimenti le si negherebbe una perfezione, cadendo in contraddizione. A tale prova va per aggiunto un passo preliminare, e cio la dimostrazione che la nozione di essere perfettissimo effettivamente possibile e cio non contraddittoria: il che facilmente fatto quando si osserva che la contraddizione, e cio l'incompatibilit tra differenti perfezioni, pu nascere solo quando nella nozione di una sia contenuto un elemento contrario alla nozione di un altro, il che per non pu avvenire quando si suppongono perfezioni assolutamente positive e semplici. La validit di questo argomento mostra che la nozione di Dio l'unica che implica l'esistenza, e dunque Dio l'unico essere necessario. La seconda prova usa in maniera peculiare il principio di ragion sufficiente, e viene talvolta giudicata da Leibniz la pi solida: Posto questo principio, la prima questione che si ha il diritto di porre : perch esiste qualcosa anzich nulla? Infatti il nulla pi semplice e pi facile del qualcosa. ... Ora, questa ragione sufficiente dell'universo non potrebbe trovarsi nella serie delle cose contingenti, cio dei corpi e delle rappresentazioni loro nelle anime: perch, essendo la materia in s stessa indifferente al moto e alla quiete, e a questo o a quel movimento, impossibile trovarvi la ragione del movimento, e ancor meno d'un determinato movimento. E bench il movimento attuale della materia venga dal precedente, e questo ancora da uno precedente, non ci si trova in una situazione migliore, quand'anche si vada lontano quanto si voglia: infatti, resta sempre la stessa questione. necessario, quindi, che la ragion sufficiente, la quale non abbia pi bisogno di un'altra ragione, sia fuori della serie delle cose contingenti, e si trovi in una sostanza che ne sia causa, ovvero in un essere necessario, portante con s la ragione della sua esistenza; altrimenti non s'avrebbe ancora una ragione sufficiente a cui fermarsi. Quest'ultima ragione delle cose chiamata Dio (Princpi della natura e della grazia, 7-8 [G 6.598606]).
Altre due prove sono tratte l'una dall'esistenza delle verit eterne, l'altra dall'armonia prestabilita. Secondo la prima, le verit eterne o di ragione non potrebbero esistere e dunque essere conosciute se non ci fosse l'intelletto di Dio che le pensasse. Secondo l'altra, le sostanze non potrebbero mostrare quella perfetta reciproca armonia se non ci fosse un essere perfetto che le ha create cos armonizzate. Entrambe queste due ultime prove appaiono in realt molto fragili. Quella basata sulle verit eterne sembra essere una petitio principii, perch suppone gi la loro dipendenza dall'intelletto divino. La seconda, bench talvolta venga citata da Leibniz come evidente, sembra in realt basarsi sul presupposto che la conoscenza sia causata dagli oggetti esterni, dei quali quindi si possa accertare l'armonia: il che proprio ci che la teoria dell'armonia prestabilita esclude! Tale sostanziale difetto si aggira soltanto ritenendo questa prova identica al classico argomento basato sul finalismo e la bellezza della natura, che bench evidente e ricco di forza psicologica tutt'altro che rigoroso, come la contemporanea filosofia di Spinoza mette bene in evidenza.

6.2. La teodicea
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Il pi tipico interesse di Leibniz in campo teologico razionale riguarda per il problema del rapporto tra Dio e il male, che Leibniz affront nei Saggi di Teodicea, il cui tema appunto la giustizia di Dio (secondo l'etimologia del termine teodicea, coniato da Leibniz). La scrittura di quest'opera venne in parte stimolata dalla lettura del Dizionario storico e critico (1697) di Pierre Bayle, in cui, su uno sfondo di avversione alla teologia razionale e in generale alla conciliabilit di fede e ragione, veniva sostenuta una soluzione manichea: bene e male sono due princpi aventi uguale realt. Molti dei temi dei Saggi di Leibniz erano in realt gi anticipati in opere precedenti, spesso nati dal confronto con Descartes o Spinoza. Punto di partenza per il problema della teodicea pu essere considerato ancora una volta il principio di ragion sufficiente: esso infatti deve spiegare non solo perch il mondo esista, ma anche perch tra gli infiniti mondi possibili concepiti dall'intelletto di Dio proprio questo sia stato scelto dalla sua volont: supposto che alcune cose debbano esistere, necessario poter rendere ragione perch esse debbano esistere cos e non altrimenti (Princpi della natura e della grazia, 7 [G 6.598-606]). Dalla risposta a questa domanda discende una delle dottrine pi caratteristiche di Leibniz: Dalla perfezione suprema di Dio segue che egli, producendo l'universo, ha scelto il miglior piano possibile, in cui c' la pi grande variet unita al massimo ordine; in cui il terreno, il luogo, il tempo, sono i meglio preparati, il maggior effetto ottenuto con i mezzi pi semplici e le creature hanno la massima potenza, conoscenza, felicit e bont che l'universo poteva conseguire. Infatti, poich tutti i possibili pretendono all'esistenza nell'intelletto di Dio, il risultato di tutte queste pretese dev'essere il pi perfetto mondo attuale che sia possibile. Senza di ci non si potrebbe rendere ragione di perch le cose sono andate cos e non altrimenti (Princpi della natura e della grazia, 10 [G 6.598-606]). Pi in particolare, Leibniz interpreta questa perfezione del mondo reale sulla base del principio generale della bont dell'essere: il mondo migliore quello che contiene pi esistenza di tutti gli altri. Che poi la scelta del mondo migliore da parte di Dio non impedisca la libert dell'uomo, si deduce dallo stesso motivo, gi visto, per il quale sussiste una reale differenza tra proposizioni contingenti e necessarie (e ci risolve il labirinto della libert).
L'interpretazione della libert umana in contesto teologico -- e dunque in rapporto alla grazia divina -- pone Leibniz nel vivo di un dibattito molto acceso nel suo secolo. Con la sua soluzione egli si avvicina sostanzialmente alla teoria sostenuta dal gesuita spagnolo Lus de Molina [p] (1536-1600), secondo il quale bisognava ammettere tre diversi tipi di conoscenza in Dio: oltre alla conoscenza della possibilit (scienza di intelligenza ) e alla conoscenza della realt (scienza di visione), anche la conoscenza del reale condizionale, vale a dire di ci che avverrebbe poste certe condizioni (scientia media ); ora, grazie a quest'ultima Dio ha portato all'essere un certo ordinamento di grazia, distribuendo i suoi doni in previsione della libera risposta degli uomini. Leibniz accetta questa soluzione (Saggi di teodicea , 1.40-44 [G 6.21-436]), unificando per, con la sua teoria dei mondi possibili, la scienza d'intelligenza con la scienza media. Il molinismo venne avversato soprattutto dai teologi domenicani, che sostenevano un'efficacia intrinseca della grazia di Dio. La disputa che ne nacque (controversia de auxiliis) venne portata nel 1607 davanti al papa, che si limit per a proibire ad entrambe le parti di accusare di eresia quella avversa, ordinando ai contendenti di tornare in patrias aut domus suas in attesa che Sua Sanctitas declarationem et determinationem, quae expectabatur, opportune promulgaret (DS 1090). La dichiarazione ovviamente non arriv mai.

Ma come giustificare l'evidente esistenza in questo mondo del male e del peccato? esso compatibile con la bont e onnipotenza di Dio? Qualche avversario ... risponder forse ... dicendo che il mondo sarebbe potuto essere senza il peccato
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01/10/13

Gottfried Leibniz (Mneme)

e senza le sofferenze: ma io nego che allora sarebbe stato migliore. Infatti bisogna sapere che tutto connesso in ciascuno dei mondi possibili: l'universo, qualunque esso sia, tutto di un pezzo, come un oceano; il minimo movimento vi estende il suo effetto a qualsiasi distanza, bench questo effetto diventi meno sensibile in proporzione della distanza; di modo che Dio vi ha tutto regolato in anticipo, una volta per tutte, avendo previsto le preghiere, le buone e le cattive azioni, e tutto il resto; e ciascuna cosa ha contribuito idealmente prima della sua esistenza alla decisione che stata presa sull'esistenza di tutte le cose. Cos nulla pu essere cambiato nell'universo (cos come in un numero) mantenendone salva l'essenza, o, se volete, l'individualit numerica. Cos, se il minimo male che accade nel mondo vi mancasse, questo non sarebbe pi lo stesso mondo, che tutto contato, tutto soppesato, stato trovato il migliore da parte del creatore che l'ha scelto. vero che si possono immaginare mondi possibili senza peccato e senza infelicit, e se ne potrebbero fare dei romanzi, delle utopie; ma questi stessi mondi sarebbero per altri aspetti molto inferiori al nostro nel bene. Non saprei mostrarvelo in dettaglio: come potrei infatti conoscere e rappresentarvi degli infiniti, e confrontarli assieme? Ma voi lo dovete giudicare con me ab effectu, perch Dio ha scelto questo mondo tale qual . Sappiamo d'altronde che sovente un male causa un bene, al quale non si sarebbe affatto giunti senza questo male. ... Non forse vero che si canta cos nella veglia di Pasqua nelle Chiese del rito romano? O certe necessarium Adae peccatum, quod Christi morte deletum est! O felix culpa, quae talem et tantum meruit habere redemptorem! (Saggi di teodicea, 1.9-10 [G 6.21-436]).
Questa soluzione, bench elaborata da Leibniz nel contesto del cristianesimo, differisce dalla tradizionale opinione scolastica, che sostiene s che Dio creando questo mondo ha fatto la cosa migliore, ma da questo non deduce affatto che questo sia il miglior mondo possibile. Ma la differenza fondamentale che Leibniz imposta la questione sulla base di un'idea di libert umana sostanzialmente ridotta rispetto a quella tradizionale cristiana, in cui si distingue chiaramente tra l'atto creativo di Dio e la storia del mondo: questa realmente co-affidata alla libert dell'uomo, una libert che pu essere reale solo a prezzo di poter essere usata anche contro il progetto divino.

La certezza che questo il migliore dei mondi possibili, e d'altra parte la possibilit dell'uomo di elevarsi alla conoscenza di Dio grazie alla ragione, costituiscono cos i presupposti pi solidi per fondare anche l'etica e indicare all'uomo il suo destino: Tutte le menti, sia degli uomini sia dei genii [= angeli], entrando per mezzo della ragione o delle verit eterne in una specie di societ con Dio, sono membri della citt di Dio, cio del pi perfetto Stato, formato e governato dal pi grande e dal migliore dei monarchi: in cui non c' delitto senza castigo, n buona azione senza ricompensa proporzionata, e infine, tanta virt e tanta felicit quante ne sono possibili; e ci non per un deviamento della natura, come se quello che Dio preparava alle anime turbasse le leggi dei corpi, ma per l'ordine stesso delle cose naturali, in virt dell'armonia prestabilita dall'eternit tra i regni della natura e della grazia, tra Dio come architetto e Dio come monarca; in modo che la natura conduce alla grazia, e la grazia perfeziona la natura con l'avvalersene. Cos, bench la ragione non ci possa insegnare qual il particolare il grande avvenire, riservato alla rivelazione, noi possiamo essere assicurati da quella stessa ragione che le cose sono fatte in un modo che supera i nostri desideri. Inoltre, poich Dio la pi perfetta e la pi felice delle sostanze, e quindi la pi degna d'amore, e poich il vero amore puro consiste nello stato che fa provar piacere delle perfezioni e della felicit di ci che si ama, un tale amore deve darci il pi grande piacere di cui
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Gottfried Leibniz (Mneme)

possiamo esser capaci, quando Dio ne l'oggetto (Princpi della natura e della grazia, 15-16 [G 6.598-606]). Regno della natura e regno della grazia, ovvero anche necessit e libert, o ancora fisica ed etica, sono cos quasi le due facce di una stessa realt, di cui per la seconda che indica all'uomo il suo destino.
Lourdes Rensoli Laliga, El Mal como parte del orden universal segn G.W. Leibniz, A Parte Rei. Revista de Filosofa , vol. 18.

Pronuncia
Gottfried Leibniz ["gOtfRi:t "laepnIts] Isaac Newton ["aIz@k "njUut@n] Pierre Bayle ["pjE:R "bEil] John Locke ["dZQn "lQk] Ren Descartes [R@"ne de"ka:Rt] Bento de Spinoza ["bEnto de spi"no:za] Joseph-Louis Lagrange [ZO"zEf "lwi la"gRA~:Z] Leonhard Euler ["le:onhaRt "O2l6] Jean Le Rond d'Alembert ["ZA~: l@"RO~: dalA~"bE:R] Augustin-Louis Cauchy [ogys"t}~: "lwi ko"Si] Abraham Robinson ["eIbr@h@m "rQbIns@n] Georg Cantor ["ge:ORk "khanto:6] Lus de Molina ["lwis demo"lina]

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