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Documentazione
Documento 1
Conferenza stampa d’inizio anno del segretario
generale della Cisl, Bruno Storti (1964)*
(estratti)
209
esempio) della nuova regolamentazione per permettere dopo tale scaden-
za di dar luogo con la necessaria celerità ed efficacia agli adeguamenti e
alle modifiche che l’esperienza potrebbe suggerire. Tra l’altro la realiz-
zazione dei suddetti obiettivi combatte efficacemente ogni tentativo po-
stumo di dar attuazione all’art. 39 della Costituzione e soprattutto contri-
buisce ad evitare una legislazione restrittiva dello sciopero;
c. una sistemazione chiara e coerente con alcuni princìpi fondamentali di
natura economica e giuridica della contrattazione collettiva rappresenta
poi una delle esigenze fondamentali di una seria programmazione econo-
mica.
Un’attività come la contrattazione che incide direttamente e profonda-
mente su alcune componenti basilari della realtà economica come la re-
munerazione dei fattori produttivi, i costi e i prezzi da un lato, e dall’altro
la distribuzione e la destinazione del reddito e quindi la formazione del ri-
sparmio e gli investimenti non può rimanere disancorata da alcuni princì-
pi base od essere incanalata in forme frammentarie e contraddittorie;
d. l’esigenza infine di creare sul piano generale un quadro istituzionale
omogeneo e coerente alla contrattazione collettiva non discende soltanto
dalla necessità di evitare regolamentazioni categoriali frammentarie e di-
sorganizzate, ma dalla volontà di ancorare saldamente tale regolamenta-
zione ai princìpi fondamentali di politica sindacale e salariale della no-
stra organizzazione.
11. Come è stato più volte chiarito e come risulta dalle indicazioni accen-
nate sopra, l’accordo quadro non tende in generale a porre in essere una
regolamentazione che si riflette direttamente sui rapporti di lavoro, ma
soprattutto delle norme che vincolano il comportamento delle organizza-
zioni interessate nell’attività negoziale.
Tale sistema di norme vincola i soggetti non soltanto nel momento
della produzione contrattuale, ma altresì nel momento dell’applicazione
delle regolamentazioni poste in essere con il contratto collettivo ai vari
livelli, e tende a creare un ordinamento costituito di norme obbligatorie
vere e proprie e di norme strumentali, che regolano i rapporti e le obbli-
gazioni delle parti a tutti i livelli e in ogni momento della gestione del lo-
ro potere contrattuale.
Circa il contenuto dell’accordo quadro, risalendo alla tripartizione
generale della materia sopra accennata, si ritiene che il primo gruppo di
argomenti, quelli attinenti alla produzione contrattuale, potrebbe essere
così articolato:
a. il contratto nazionale di categoria disciplina quegli aspetti del rapporto
di lavoro per i quali non si ponga la necessità o l’opportunità di una rego-
lamentazione differenziata a livello di settore omogeneo o di sottosettore
e di azienda;
b. nei contratti di categoria che interessano una pluralità di settori mer-
210
ceologi con caratteristiche tecnico-economiche diverse si possono inseri-
re clausole di rinvio, totale o parziale, di determinati istituti e materie ad
una regolamentazione differenziata di settore;
c. nei contratti di categoria si possono individuare istituti o materie che,
per loro natura o comunque per accordo delle parti, debbono essere rego-
lamentate al livello di aziende o di gruppi pluriaziendali.
Sotto il profilo giuridico la clausola di rinvio si presenta pertanto co-
me una norma strumentale che attribuisce alle parti il potere di regola-
mentare in sede contrattuale più ristretta alcune materie predeterminate.
Le singole clausole di rinvio potranno indicare i princìpi, le modalità e i
termini di svolgimento della contrattazione delle materie rinviate.
La contrattazione di settore e di azienda effettuata in forza delle clau-
sole di rinvio avrà carattere integrativo rispetto al contratto di categoria e
costituirà con questo per ogni singolo settore ed azienda un contesto di
norme unitario;
d. i soggetti della contrattazione collettiva sono in ogni caso da una parte
le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dell’altra le organizzazioni
dei datori di lavoro, con esclusione rigida di ogni altro organismo.
In particolare la contrattazione nazionale di categoria e quella integrativa
di settore è di competenza delle associazioni nazionali di categoria e
quella integrativa di azienda o di gruppo delle associazioni e dei sindaca-
ti di categoria provinciali, salvo il caso di aziende con organizzazione a
carattere nazionale o interprovinciale nel quale i soggetti della contratta-
zione sono le organizzazioni nazionali;
e. la riapertura del contratto, nella sua globalità o in singole parti, non
potrà avvenire, al di fuori della scadenza prevista, che in presenza di uno
di questi fattori:
– mutuo consenso delle parti;
– modifica rilevante delle condizioni di fatto esistenti al momento della
stipulazione del contratto, da accertarsi secondo procedure e modalità
prestabilite.
Le parti potranno sempre prevedere una durata differenziata delle singo-
le parti del contratto;
f. le organizzazioni contraenti si impegnano sulla base di loro autonome
valutazioni ad inserire nei contratti nazionali di categoria e di settore e in
quelli aziendali apposite clausole che prevedano la destinazione a rispar-
mio contrattuale di parte degli aumenti retributivi dei lavoratori, salva
espressa volontà contraria dei singoli.
Tali quote saranno destinate all’apposito Fondo nazionale il quale
provvederà a rilasciare titoli nominativi agli interessati.
12. Per quanto concerne il secondo gruppo di materie, quelle attinenti al-
l’applicazione del contratto e alle controversie relative, i punti più im-
portanti da regolamentare sono a nostro avviso i seguenti:
211
a. l’obbligo delle parti nella contrattazione integrativa in caso di mancato
accordo entro un termine prefissato nella clausola di rinvio, di deferire la
controversia alle organizzazioni di livello superiore, territoriale o catego-
riale, per l’ulteriore trattazione della medesima da effettuarsi entro un pe-
riodo di tempo prefissato.
L’approfondimento dei termini delle controversie economiche, anche
a livello più elevato rispetto ai soggetti direttamente interessati, oltre a
costituire una esigenza fondamentale di un efficiente sistema di relazioni
industriali (del resto tale procedura è parte essenziale dell’ordinamento
sindacale di molti paesi ad elevato sviluppo industriale) rappresenta un
elemento di normalizzazione del fenomeno della contrattazione assai im-
portante, ed è utile anche per un controllo centralizzato del movimento
rivendicativo aziendale.
È necessario naturalmente prevedere fasi di trattazione delle contro-
versie non troppo lunghe, tali cioè, da non ostacolare un efficace ricorso
in caso di necessità all’azione sindacale, e predisporre strutture organiz-
zative adeguate a tale attività che si presenta estremamente vasta ed im-
pegnativa;
b. la facoltà delle parti di prevedere delle clausole contrattuali tendenti
ad istituire procedure per una rapida e pacifica composizione delle con-
troversie derivanti dall’interpretazione delle norme dei contratti.
Per tale materia, che attualmente è regolata dai contratti di categoria
con norme estremamente varie e scarsamente efficaci, si potrebbe preve-
dere la trattazione in una serie di gradi conciliativi che potrebbero fun-
zionare a livello provinciale per i contratti aziendali e a livello nazionale
per i contratti nazionali.
Tali commissioni conciliative, che peraltro funzionano già egregia-
mente in alcuni settori dei servizi, potrebbero essere integrate in casi par-
ticolari (servizi di pubblica necessità) dal ricorso successivo a commis-
sioni arbitrali. Ciò potrebbe contribuire ad evitare l’intervento del legi-
slatore per eliminare il diritto di sciopero in tali settori.
L’utilità di tali procedure è suggerita soprattutto dalla contrattazione
aziendale che nella sua nuova fase di estensione e di riferimento a materie
complesse come i sistemi di cottimi, i premi collegati a fattori obiettivi e
la classificazione può generare una mole notevole di controversie per la
cui pronta soluzione sono necessari strumenti e procedure adeguate;
c. si possono infine fissare nell’accordo quadro alcuni princìpi nuovi in
materia di controversie individuali, impegnando le parti a creare mezzi
rapidi ed efficaci di composizione con l’inserimento nei contratti di cate-
goria, di settore e di azienda di apposite clausole che prevedano procedu-
re di conciliazione, articolate in una o più fasi, con la partecipazione di
rappresentanti sindacali.
Un elemento di novità notevole potrebbe essere costituito dall’intro-
duzione dell’arbitrato volontario sul piano generale. Tale innovazione,
212
che risponde pienamente alle indicazioni di politica sindacale della Cisl,
trova forse condizioni ancora non mature sia sul piano legislativo (per-
mangono ancora i divieti degli artt. 806 e 808 del Codice civile) sia sul
piano sindacale (atteggiamento di diffidenza della Confindustria e con-
trarietà di principio della Cgil), per cui tale aspetto potrebbe rappresenta-
te un grosso ostacolo nella stipula dell’accordo quadro.
D’altra parte nella prassi contrattuale, soprattutto a livello di azienda,
si vanno moltiplicando i casi di introduzione di procedure specializzate
(reclami, collegi tecnici ecc.) per singole materie come la classificazio-
ne, i cottimi, l’assegnazione del macchinario eccetera, che si sottraggono
più agevolmente ai divieti della legislazione vigente e meglio si adattano
alla particolarità delle materie oggetto di controversie.
Seppure sotto il profilo della loro natura giuridica non vengono con-
siderate decisioni ma pareri tecnici, le pronunce dei predetti organismi di
fatto risolvono le controversie che vengono loro sottoposte.
13. L’ultimo ordine di problemi, quelli attinenti alla tutela dei dirigenti
sindacali e al rafforzamento del sindacato, può essere affrontato o per
rinviarne la regolamentazione ai singoli contratti di categoria, come le
altre materie sopraindicate, oppure può essere risolto in maniera unifor-
me e completa nell’accordo quadro medesimo.
Ci pare che quest’ultima via sia da preferirsi, sia perché si tratta di
acquisire un sistema di garanzie generali che è opportuno sia uniforme
per tutti i settori, sia perché evita alle categorie di doversi impegnare, sia
infine perché una soluzione generale potrebbe rendere superfluo il venti-
lato statuto sulle libertà di fabbrica.
Per quanto concerne la tutela dei dirigenti sindacali si potrebbe pen-
sare di estendere loro le garanzie contro i licenziamenti e i trasferimenti
che attualmente sono riconosciute ai membri di Commissione interna. Il
problema presenta qualche aspetto di complessità poiché non è facile de-
finire in maniera soddisfacente per le parti la cerchia dei soggetti interes-
sati.
Per gli altri aspetti dei diritti sindacali si potrebbero adottare con
qualche miglioramento di dettaglio le clausole concordate dai metalmec-
canici per le aziende a partecipazione statale. [...]
213
lavoro dell’operaio contemporaneo nella moderna società industriale, mi
ero limitato a fare una precisa scelta a favore della realtà. Un movimento
sindacale inserito nella realtà e collegato alle nuove esigenze di tutela dei
lavoratori dipendenti, non è in nessun caso destinato all’isolamento. Tro-
verà certamente, come la Cisl sta trovando, nuove adesioni sempre più
numerose e nuovi incontri in tutti gli strati della società animati dall’a-
spirazione al miglioramento. Il colloquio e l’accordo con la Uil, che noi
pensiamo e speriamo suscettibile di ulteriori sviluppi, il dialogo sempre
aperto con quei lavoratori che si ispirano, nella Cgil, alla concezione so-
cialista propria del Psi, ci sembrano la prova migliore della nostra dispo-
nibilità a prospettive unitarie. Il resto – l’adeguamento o il declino delle
altre organizzazioni sindacali che pretendono ancora di subordinare le
esigenze di miglioramento dei lavoratori alle esigenze di partito – verrà,
per così dire, automaticamente. Convinti della legittimità e della solidità
della nostra impostazione, pur mantenendoci aperti e disponibili per ogni
esperienza unitaria, in atto o futura, che abbia per premessa l’accettazio-
ne di precise politiche da noi giudicate razionali, abbiamo puntato tutte
le nostre energie, nel 1963, e le puntiamo ancora, per il futuro, sullo svi-
luppo e sull’attuazione delle nostre politiche, nonché sul rafforzamento,
attraverso un piano pluriennale, della nostra organizzazione. Non ci
chiuderemo in noi stessi. Siamo anzi disposti ad accettare e a proporre
dibattiti, in forma anche di contraddittorio, con le altre organizzazioni
sindacali sui temi fondamentali della politica sindacale, quali il rispar-
mio contrattuale. Ma non abbiamo intenzione di lasciarci disperdere in
polemiche confuse nelle quali manchi un contenuto che interessi real-
mente la classe lavoratrice.
21. Della evoluzione intervenuta nella sede politica, noi siamo, a ragion
veduta, soddisfatti. Non ci nascondiamo nessuna delle difficoltà del mo-
mento. Sappiamo bene che la strada del progresso, anche in futuro, presen-
terà a chi vorrà percorrerla nuove difficoltà. Questo fa parte della storia.
Questo atteggiamento di soddisfazione è perfettamente coerente, del
resto, con la nostra linea. Noi abbiamo sempre ritenuto, infatti, che al
nuovo equilibrio economico-sociale dovesse corrispondere un nuovo
equilibrio politico, fondato sulle forze nuove espresse dalla società indu-
striale e in particolare dal lavoro.
Come non abbiamo nessuna difficoltà a dichiararci soddisfatti della
evoluzione politica intervenuta, così non abbiamo nessun complesso e
nessuna inibizione nel manifestare al governo le nostre eventuali riserve
su questo o quel punto della sua azione pratica. Facendo questo adempia-
mo, del resto, alla nostra funzione permanente di espressione autonoma
degli interessi del gruppo dei lavoratori, la cui rappresentanza non può
essere delegata ad altri che al sindacato. Stando così le cose, senza dram-
matizzare, abbiamo espresso esplicitamente il nostro dissenso all’on.
214
Nenni, circa la eventuale applicazione dell’art. 39 della Costituzione.
Qualche preoccupazione abbiamo anche sullo Statuto con il quale si vor-
rebbero assicurare i diritti dei lavoratori nelle fabbriche. Noi conosciamo
un unico tipo di statuto che regoli la posizione del lavoratore nel suo luo-
go di lavoro: il contratto. Conseguentemente faremo di tutto perché la
preoccupazione della tutela dei diritti dei lavoratori, e in primo luogo dei
responsabili sindacali, sia soddisfatta attraverso il contratto: quel nuovo
contratto che noi auspichiamo e che vogliamo favorire anche attraverso
l’accordo quadro interconfederale. Dal momento che il governo si pro-
pone di consultare su questa materia i sindacati avremo modo, comun-
que, di illustrare in quella sede il nostro punto di vista.
215
Documento 2
Proposta di accordo quadro per la contrattazione collettiva
della segreteria confederale Cisl (1964)*
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di vivaci critiche non solo da parte delle organizzazioni sindacali, ma an-
che da esperti dei problemi del mondo del lavoro.
In particolare si attribuiscono a tale tipo di contrattazione la tendenza
a fissare norme minime di tutela e di garanzia più ispirate a princìpi di
vago egualitarismo sociale che conformi alle reali condizioni dei lavora-
tori, un progressivo distacco dalla realtà aziendale in rapida evoluzione
sotto l’aspetto tecnologico, organizzativo ed economico, una cristallizza-
zione in tecniche e metodi simili a quelli legislativi, il suo immobilismo
nel tempo e di conseguenza l’instaurazione nelle aziende di relazioni di
lavoro al di fuori delle norme contrattuali. Una delle conseguenze più ri-
levanti di tale situazione viene individuata nella formazione di un forte
divario tra salari contrattuali e salari effettivamente corrisposti (fenome-
no dello slittamento salariale) che in taluni casi priva di significato eco-
nomico l’attività contrattuale o comunque ne sminuisce sensibilmente il
valore e la portata.
L’introduzione della contrattazione aziendale mira proprio a correg-
gere queste insufficienze del contratto nazionale adeguando alcuni aspet-
ti fondamentali di quest’ultimo, sia di natura economica che normativa,
alle differenziate condizioni delle aziende e alle diverse esigenze di tute-
la dei lavoratori.
L’azione delle organizzazioni sindacali, e in particolare quella della
Cisl, non tende però a sostituire la contrattazione aziendale a quella nazio-
nale, ma a creare un sistema contrattuale integrato in cui devono coesiste-
re sia sul piano giuridico che su quello economico il contratto nazionale e
quello aziendale, ponendosi questo in funzione integrativa di quello.
Tale evoluzione verso un sistema contrattuale complesso in cui coesi-
stono debitamente coordinati livelli contrattuali diversi si profila come il
punto di arrivo non solo dei sistemi contrattuali tradizionalmente accen-
trati come il nostro, ma anche dei sistemi caratterizzati da una contratta-
zione fortemente decentrata, come quella degli Stati Uniti.
D’altra parte la pratica della contrattazione aziendale si va diffonden-
do da alcuni anni in numerosi paesi europei pure legati ad esperienze
contrattuali centralizzate come la nostra, proprio per le insufficienze del
contratto nazionale, nelle nuove condizioni produttive, sotto il profilo sia
economico che sociale (Inghilterra, Olanda, ecc.).
Infatti un sistema contrattuale articolato a più livelli, mentre realizza
da un lato una tutela generale di tutti i lavoratori, consente, dall’altro di
adeguare il trattamento dei lavoratori e quindi i costi relativi, alle diffe-
renziate condizioni di efficienza produttiva dei singoli settori e delle sin-
gole aziende.
Il nuovo sistema contrattuale proprio per il suo carattere di comples-
sità pone alcune esigenze di coordinamento e di equilibrio sotto il profilo
giuridico, economico-normativo e sindacale tra i diversi gradi di contrat-
tazione, e tali esigenze non possono essere soddisfatte che in un contesto
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di rapporti sindacali chiaro, organico e coerente, in cui siano efficace-
mente indicati diritti, doveri e garanzie delle diverse parti.
La proposta di stipula dell’accordo quadro mira proprio a creare que-
sto nuovo contesto di princìpi, metodi e strumenti a cui ancorare lo svi-
luppo delle relazioni industriali del nostro paese.
218
e sindacale, l’attuazione dell’art. 39 costringerebbe tale realtà in una
stretta «gabbia» di marca corporativa e soprattutto frenerebbe inevitabil-
mente la dinamica contrattuale soprattutto sul piano aziendale.
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Documento 3
Documento sullo Statuto dei lavoratori
del Comitato esecutivo Cisl, (24 marzo 1964)*
* Pubblicato in Cisl, Documenti ufficiali dal 1962 al 1969, Roma 1970, pp.
316-327.
220
legge nell’esercizio dei diritti e nell’adempimento dei doveri»; che la le-
gislazione verrà adeguata ai princìpi democratici e alla Costituzione; che
in caso di assoluta urgenza si potrà anticipare la riforma di qualche punto
particolare dei Codici; che, nella riforma dei Codici, in sede di legisla-
zione speciale e particolare del lavoro, la condizione della donna dovrà
essere regolata sulla base del principio della parità morale e giuridica dei
sessi; che una vigile attenzione sarà data ai problemi della moralità e del-
la famiglia; e che, infine, vi sarà una particolare tutela dei diritti dei lavo-
ratori. Quest’ultimo punto è così formulato: «I partiti concordano altresì
nel proposito di elaborare, sentite le organizzazioni sindacali, uno Statu-
to dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza
nei luoghi di lavoro».
Ci si trova di fronte, dunque, a una dichiarazione di intenzioni («con-
cordano nel proposito») tipicamente politica, che attende di essere ulte-
riormente elaborata attraverso un processo di definizione affidato alla re-
sponsabilità dei quattro partiti di centro-sinistra e alla consultazione delle
organizzazioni sindacali, inquadrata nel contesto di un processo di ade-
guamento della legislazione ai princìpi democratici e alla Costituzione.
Rispetto a tale dichiarazione di propositi l’attività di elaborazione da
parte dei partiti e dei sindacati, i più direttamente interessati, risulta an-
cora scarsa. Per quanto riguarda i partiti, eccezione fatta per il Partito so-
cialista italiano, che ha elaborato, come si vedrà in seguito, attorno al te-
ma dello Statuto, una sua piattaforma di propaganda politica, non vi so-
no, al momento, segni di una attività di approfondimento e di precisazio-
ne su questo specifico tema. Né si è di fronte, al momento, a quella ela-
borazione in sede di studio – specie da parte degli studiosi di diritto – in
mancanza della quale il legislatore si trova di fronte a difficoltà che la
pura intuizione politica non è, da sola, in grado di superare.
Quanto alla consultazione delle organizzazioni sindacali al riguardo
essa è ancora a una fase assolutamente preliminare, essendosi limitata, a
questo momento, a una semplice operazione di scandaglio delle reazioni
delle distinte organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti ad opera
del vice presidente del consiglio, on. Nenni.
L’idea di uno «statuto» legale dei diritti dei lavoratori, che formalmente
non ha riscontro nelle recenti esperienze di altri paesi, (salvo, forse, il ca-
so della Repubblica democratica tedesca, il cui recente codice del lavoro
prevede qualcosa di analogo) è stata proposta dai dirigenti della Cgil, al-
cuni anni fa, come strumento per tutelare, attraverso determinate garanzie
formali, l’esercizio delle libertà sindacali nelle fabbriche, in un momento
in cui il clima politico generale e la situazione sindacale, in particolare,
221
ancora gravemente influenzati dai contrasti che avevano portato alla scis-
sione del 1949, erano occasione, nei luoghi di lavoro, del manifestarsi di
profonde e aspre tensioni sociali, sulle quali spesso si innestava l’azione
antisindacale, di pressione o di rappresaglia, di molti imprenditori.
Man mano che questo clima è venuto a cessare (o per lo meno ad at-
tenuarsi) la proposta per uno «statuto» dei diritti dei lavoratori, inizial-
mente concepita in termini di garanzia formale dei soli diritti di opinione
e di organizzazione dei lavoratori nella fabbrica, ha assunto un più ampio
e più eterogeneo contenuto. È così che, ai contenuti inerenti alla sua ori-
ginaria formulazione, altri si sono venuti, via via, affiancando, fino alla
odierna, complessa ed articolata, configurazione, consistente non soltan-
to nella difesa dei diritti di libertà ma in un complesso di altre garanzie
individuali, o collettive (giusta causa nei licenziamenti, disciplina dei li-
cenziamenti collettivi, riconoscimento giuridico delle commissioni inter-
ne ecc.). Sarà bene ricordare, inoltre, che al ravvivarsi del problema non
possono considerarsi estranee alcune recenti impostazioni di strategia
politico-sindacale, di prevalente ispirazione comunista, tendenti a trasfe-
rire, dal sistema alla fabbrica, i motivi di contestazione dell’assetto neo-
capitalistico, in modo da far emergere, nei luoghi stessi di lavoro, le ten-
sioni e le contraddizioni, ritenute proprie di tale assetto, e, così, provoca-
re condizioni favorevoli per l’unità d’azione.
La Cgil, che della proposta di statuto era stata ed è convita sostenitri-
ce, ha comunque precisato il proprio pensiero in materia, inviando, nello
scorso febbraio, una lettera al vice presidente del consiglio on. Nenni,
nella quale sono indicate una serie di misure legislative immediate, per
adeguare alle norme costituzionali, i «diritti democratici e di libertà dei
lavoratori nei luoghi di lavoro». Tali misure dovrebbero essere, in parti-
colare, le seguenti:
1. l’introduzione della giusta causa nei licenziamenti individuali e la tu-
tela contro i licenziamenti di rappresaglia;
2. la regolamentazione dei licenziamenti collettivi;
3. la regolamentazione del diritto alla riqualificazione professionale nei
casi di licenziamenti tecnologici;
4. l’abrogazione delle norme di legge e la nullità delle clausole contrat-
tuali che consentono al datore di lavoro di non corrispondere l’indennità
di anzianità in determinati casi di licenziamenti;
5. il riconoscimento legislativo delle commissioni interne;
6. garanzie speciali per i diritti democratici e di libertà dei lavoratori sui
luoghi di lavoro.
La Cgil, nella lettera menzionata, propone, inoltre, una serie di misu-
re a più lungo termine, da elaborare in un secondo tempo, aventi lo scopo
di «alleggerire il peso che si esercita sulle libertà e sulla personalità dei
lavoratori in conseguenza dell’adozione di nuove tecniche produttive».
Queste misure da discutere, in un primo tempo, attraverso dibattiti inter-
222
sindacali di base e, successivamente, con una conferenza triangolare, do-
vrebbero avere per oggetto i problemi relativi all’organizzazione del la-
voro (tempi e ritmi), alla selezione attitudinale dei lavoratori, al medico
di fabbrica, alla prevenzione antinfortunistica, ai regolamenti interni ecc.
La Uil si è limitata a dire che esiste un problema di salvaguardia dei
diritti soggettivi dei lavoratori come tali e di difesa dei rappresentanti
sindacali nell’azienda – problema che ha trovato solo parziale soluzione
nella contrattazione collettiva – e si è dichiarata, comunque, disposta a
discutere col governo e con la controparte tale problema, precisando per-
tanto che lo Statuto dei lavoratori dovrebbe essere concepito come dispo-
sizione di legge, preceduta da un dibattito tra le organizzazioni sindacali
dei lavoratori e dai datori di lavoro.
La Confindustria, con una sua nota, ha confutato e respinto, con ar-
gomentazioni di carattere strettamente giuridico, fondate sul diritto vi-
gente, le richieste immediate della Cgil, giudicandole sostanzialmente
inopportune ed improponibili.
223
sviluppo economico-sociale della collettività. Per questo non abbiamo
esitato, anche di recente, a proporre iniziative legislative in tema di rifor-
ma delle norme sul collocamento, in tema di istituzione del Fondo per
l’investimento del risparmio dei lavoratori, in tema di istituzione della
Cassa per la formazione professionale, in tema di istituzione degli enti di
sviluppo. Anche nel più ristretto campo dei rapporti di lavoro, la Cisl non
ha mancato di proporre ed appoggiare iniziative, dirette ad eliminare si-
tuazioni di particolare disagio e difficoltà, non sanabili altrimenti che
mediante opportuni interventi legislativi (ad esempio, la riforma del con-
tratto di lavoro a termine, il divieto di subappalto della mano d’opera,
l’abolizione delle clausole di nubilato ecc.). Il ricorso allo strumento le-
gislativo avviene, poi, normalmente nel campo dei rapporti di pubblico
impiego, nel quale, peraltro, è quasi sempre preceduto da una fase, più o
meno intensa, di negoziazione di fatto tra i sindacati e il pubblico potere.
Il rifiuto della Cisl ad accedere a soluzioni generali, meramente for-
malistiche, dei problemi inerenti al rapporto di lavoro alla presenza dei
lavoratori nell’impresa, discende da una convinta e ragionata adesione al
metodo contrattuale, non soltanto in ragione dei valori di libertà e di re-
sponsabilità, che tale metodo esprime nella misura più alta, ma per la sua
maggiore idoneità a risolvere le tensioni economico-sociali, nell’azienda
e nel sistema, senza alterare formalmente gli equilibri giuridici esistenti,
bensì, creando, nel fatto, più efficaci e reali condizioni di tutela e di pro-
gresso per i lavoratori stessi. La contrattazione collettiva offre, così, am-
pie possibilità, di positiva sperimentazione pratica, non soltanto nel cam-
po dei problemi inerenti agli aspetti strettamente remunerativi e normati-
vi del rapporto di lavoro, ma per tutte le questioni scaturenti dalla pre-
senza e dall’azione dei lavoratori nell’impresa, in quanto tali od organiz-
zati nel sindacato, per tutto ciò che si riferisce alla libertà, al progresso,
alla sicurezza delle condizioni del lavoro in senso lato.
Il metodo contrattuale è tanto più idoneo e necessario, quanto più le
questioni e le situazioni da affrontare toccano da vicino, l’assetto giuridi-
co dell’impresa e i poteri formali dell’imprenditore. L’evoluzione del-
l’impresa, nell’economia contemporanea per effetto anche dell’accen-
tuarsi del fenomeno del distacco progressivo della direzione della pro-
prietà, ha dato luogo – e dà luogo – ad una attribuzione di poteri direttivi
e di controllo a ristretti gruppi di comando e alla costituzione di una fun-
zione di direzione, che non coincidono se non raramente con i gruppi de-
gli apportatori di capitale. Questo fenomeno ha influito notevolmente
sulla trasformazione di fatto delle fonti e delle forme di esercizio del po-
tere imprenditoriale, anche se sono rimaste inalterate, almeno nel nostro
sistema, le linee generali dell’ordinamento giuridico dell’impresa.
Il problema più importante e più difficile a risolvere, nell’attuale fase
di trasformazione della società industriale, sta proprio in questo: come
favorire la evoluzione in atto, per le sue ragioni di funzionalità, di razio-
224
nalità e di equilibrio, e come, nello stesso tempo, garantire che l’eserci-
zio del potere direzionale avvenga nel rispetto degli interessi dei vari fat-
tori della produzione: fra questi, in primo luogo, del fattore lavoro.
Si riconosce ormai, sempre più chiaramente, che la limitazione e il
controllo dell’autorità di tali gruppi di comando, che rappresentano i rea-
li depositari del potere imprenditoriale, non sono realizzabili attraverso
mezzi interni, rivitalizzando, ad esempio, il controllo democratico degli
azionisti-produttori o chiamando i lavoratori a partecipare formalmente
alla gestione aziendale, o, attraverso mezzi esterni, esclusivamente con
leggi antitrust o con controlli politico-amministrativi o con controlli giu-
diziari. Per quanto riguarda l’azione di equilibrio esterno, è compito del-
la politica di programmazione economica e della politica sindacale, in
particolare, attraverso l’azione salariale, assicurare che l’interesse del-
l’impresa stessa sia perseguito nel quadro degli obiettivi e delle condi-
zioni, giudicati più vantaggiosi per l’interesse generale. Per quanto ri-
guarda i mezzi interni, che ci interessano più da vicino in questo caso, si
fa sempre più strada il convincimento che l’unica via per controbilancia-
re realmente il potere dell’imprenditore nella impresa è quella di raffor-
zare l’azione del sindacato dei lavoratori, chiamando questo a partecipa-
re, nelle forme stabilite dal contratto collettivo, alle responsabilità della
vita e della gestione aziendale.
La creazione di più efficienti condizioni di tutela dei lavoratori nel-
l’impresa non sembra essere, quindi, il risultato di garanzie formali, cala-
te dall’alto o dall’esterno, né tanto meno un problema di modifica del di-
ritto dell’imprenditore, ma un compito specifico del sindacato e della
contrattazione collettiva, orientata verso obiettivi di sempre più ampia e
complessa tutela delle condizioni di lavoro.
Le soluzioni contrattuali rappresentano, del resto, la via maestra, per-
corsa dalle più mature esperienze sindacali, per dar vita alla cosiddetta
«democrazia industriale», la quale si traduce, in termini pratici, in una
più penetrante partecipazione dei lavoratori organizzati alla vita e alla di-
rezione dell’impresa, nelle forme e nei modi liberamente stabiliti dalla
contrattazione collettiva.
Alla luce di queste generali considerazioni, non può non risultare privo
di realismo il proposito di risolvere questi complessi problemi attraverso la
elaborazione di uno statuto, mentre assolutamente inficiata da un vizio di
impostazione e di metodo appare la proposta, già elaborata, della Cgil.
Essa, infatti, si fonda sul fallace criterio di affidare all’esclusivo domi-
nio della legge e alla conseguente dubbia efficacia della tutela giurisdizio-
nale, la risoluzione di problemi che sono di pertinenza, o della politica ge-
nerale di promozione economico-sociale, o dell’evoluzione dei rapporti
collettivi, stimolata e dominata dalla libera contrattazione sindacale.
La Cisl, pertanto, pur non disconoscendo le ragioni e le motivazioni,
che stanno alla base della proposta dello Statuto da parte dei quattro par-
225
titi e che possono essere ricondotte all’esigenza fondamentale di assicu-
rare al sindacato determinate garanzie e determinati diritti, connessi alla
più efficace possibilità di esercitare, nei luoghi di lavoro, l’azione di tute-
la in favore dei soci, rimane convinta che la tutela dei diritti e degli inte-
ressi dei lavoratori possa essere più validamente e più efficacemente per-
seguita, per gli aspetti che strettamente riguardano la disciplina del rap-
porto di lavoro, sul terreno della libera contrattazione collettiva, e per gli
aspetti che riguardano il progresso generale dei lavoratori, sul terreno
della politica di sviluppo economico-sociale.
226
a. l’accordo interconfederale sui licenziamenti individuali nell’industria
del 18 ottobre 1950;
b. l’articolo 14 dell’accordo interconfederale sulle commissioni interne,
per quanto riguarda la tutela contro il licenziamento dei membri di questi
organismi;
c. speciali norme di legge (legge 15 agosto 1949, n. 533 e legge 26 no-
vembre 1965, n. 1161), che limitano il potere di licenziamento ad nutum
nei rapporti di lavoro dei salariati fissi dell’agricoltura (durata biennale
del rapporto).
È bene ricordare che l’accordo sui licenziamenti individuali è stato
tramutato in disciplina legale (dpr 4 luglio 1960, n. 1011), in virtù della
legge n. 741. Da ciò si può dedurre che il nostro sistema, almeno per l’in-
dustria, contempla già una disciplina legale restrittiva, pur con tutti i suoi
difetti, del principio sancito nell’art. 2118 del Codice civile.
Le soluzioni prospettabili in materia di licenziamenti individuali pos-
sono essere le seguenti:
1. l’introduzione per legge di un sistema di «stabilità reale», con la sta-
tuizione del principio della nullità assoluta del licenziamento, che non
sia giustificato, e con il conseguente mantenimento del rapporto di lavo-
ro, anche contro la volontà dell’imprenditore. Questa soluzione è pratica-
mente inefficiente per la sua eccessiva rigidità, ciò si traduce in un appe-
santimento della disciplina del rapporto di lavoro;
2. l’introduzione per legge di un sistema di «stabilità obbligatoria», me-
diante la istituzione del semplice obbligo di non recedere se non in co-
stanza del giusto motivo. Questa soluzione presenta minore rigidità ri-
spetto a quella precedente, in quanto lascia comunque al datore di lavoro
la libertà di recedere; essa, però, ha l’inconveniente, rispetto ad una solu-
zione contrattuale, di fondarsi, nella sua pratica realizzazione, sull’inter-
vento del controllo giudiziario, in ordine al giudizio di sussistenza del
giusto motivo;
3. l’introduzione di limiti al potere di recesso ad nutum per via di con-
tratto collettivo. Questa soluzione presenta le seguenti caratteristiche: a.
introduce limiti obbligatori al potere di recesso ad nutum di non meno in-
tensa efficacia pratica di quelli contenuti nei sistemi di «stabilità obbliga-
toria» (tali sistemi, infatti, non limitano realmente il potere di recesso
dell’imprenditore); b. consente il controllo sindacale dei motivi di reces-
so, senza toccare formalmente il diritto dell’imprenditore; c. incentiva le
forme di composizione, consensuale, per via di conciliazione ed arbitra-
to, delle relative controversie; d. non irrigidisce e non appesantisce la di-
sciplina legale del rapporto di lavoro. Per queste caratteristiche, una so-
luzione contrattuale dei limiti del potere di licenziamento, opportuna-
mente garantito da apposite procedure, sembra preferibile ad una solu-
zione legislativa.
B) La disciplina dei licenziamenti collettivi è attualmente prevista nel-
227
l’accordo interconfederale 20 dicembre 1950, trasformato in decreto le-
gislativo (dpr 14 luglio 1960, n. 1019). Tale disciplina ha una natura so-
stanzialmente diversa da quella relativa ai licenziamenti individuali, in
quanto diverso è il fenomeno economico-sociale rispetto al quale si vuo-
le intervenire. Il fenomeno dei licenziamenti collettivi, infatti, si riferisce
a una precisa situazione economica: quella di una azienda, o di un grup-
po di aziende, le quali incontrano particolari difficoltà nella loro gestione
economica e che, per non uscire definitivamente dal mercato, adottano
una serie di misure di riorganizzazione fra le quali vi può essere quella
della riduzione temporanea della mano d’opera giudicata eccedente. La
disciplina dei licenziamenti collettivi può intervenire, rispetto a questo
fenomeno, in forme dirette e immediate o in forme indirette e mediate.
Le forme dirette e immediate non possono avere che una efficacia li-
mitata e vanno valutate caso per caso. Determinate procedure possono
essere introdotte per dar tempo a una maggiore riflessione nelle decisio-
ni, e per consentire, in determinati casi, l’intervento dall’esterno del po-
tere pubblico locale o centrale. Ma si tratta di interventi che, per la loro
natura, non richiedono di essere formalizzati per essere efficaci.
Meglio di tutto può giovare, in ogni caso, la discussione col sindaca-
to, l’unica che possa entrare nel merito tenendo anche conto dei princìpi
che reggono il governo economico dell’impresa. Nelle moderne relazio-
ni industriali, comunque, la contrattazione collettiva dovrebbe coprire
opportunamente anche la materia relativa a riduzioni di personale in con-
seguenza del progresso tecnologico.
Sarebbe non solo errato, ma inefficace, pertanto, cercare soluzioni ri-
gide, legislative, volte a rendere possibili interventi diretti e immediati,
per questioni come quella dei licenziamenti collettivi motivati con la ne-
cessità di ridurre la mano d’opera temporaneamente eccedente.
È evidentemente compito della politica economica generale e, in par-
ticolare, della politica dell’occupazione e della formazione professionale
intervenire, in sede preventiva, al fine di evitare riduzioni di personale
socialmente dannose, anche se dettate da giustificati motivi economici,
e, in sede successiva, per creare nuove occasioni di lavoro e nuove fonti
di occupazione, che servano a riassorbire la mano d’opera licenziata ed a
riequilibrare il mercato. Si può pensare, in sede preventiva, di utilizzare
anche il meccanismo della cassa integrazione guadagni, al fine di con-
sentirne l’utilizzazione anche nelle ipotesi di riduzione dell’orario di la-
voro dovute a fattori tecnologici o a fattori congiunturali.
C) Quanto si è detto al punto precedente, non può non valere anche per
quanto concerne il diritto alla riqualificazione. La realizzazione dell’esi-
genza di riqualificazione non è un problema di disciplina formale, ma un
problema di politica della preparazione professionale, nel cui ambito va
collocato e risolto, in armonia con la politica dell’occupazione e dello
228
sviluppo economico generale. Nei contratti collettivi si potranno, co-
munque, prevedere, come si è detto prima, idonei mezzi e forme di inter-
vento, al fine di consentire ed agevolare ai lavoratori, licenziati a causa
di fattori tecnologici, il rapido reinserimento nel processo produttivo at-
traverso una riqualificazione delle loro attitudini tecnico-professionali.
229
a. dall’art. 39, primo comma della Costituzione, che prevede la libertà
sindacale nel suo più ampio significato; si tratta, è bene notarlo, di una
norma direttamente precettiva;
b. da un complesso di altre norme costituzionali, in materia di libertà di
associazione, di libertà di propaganda e d’opinione, di libertà di riunione
(artt. 17, 18 e 19);
c. dalla Convenzione n. 87 sulla libertà sindacale e la protezione del di-
ritto sindacale, e la Convenzione n. 98 sull’applicazione dei princìpi del
diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva, entrambi dell’Oil,
ratificate dall’Italia con la legge 23 marzo 1958, n. 367.
Queste due convenzioni costituiscono importanti strumenti di speci-
ficazione e di integrazione del principio generale di libertà sindacale,
contenuto nell’art. 39, primo comma.
Questo complesso di norme costituisce una cornice di garanzie for-
mali generali, sufficienti ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali
della persona umana, anche nei luoghi di lavoro. Naturalmente non può
escludersi a priori la possibilità di integrare tale quadro con un interven-
to legislativo ad hoc, che introduca forme speciali di tutela di alcune li-
bertà dei lavoratori e dei sindacati. Si tratta, però, di valutare l’opportu-
nità di un intervento legislativo in questa delicata materia, anche per il
sempre incombente pericolo di un suo allargamento ad altri ben più im-
portanti aspetti della vita del sindacato, sotto il falso pretesto di stabilire
illusorie garanzie formali. Non si vede, del resto, come possa l’ordina-
mento giuridico, accordare, in tale ipotesi, forme speciali di protezione ai
sindacati, senza, presto o tardi chiedere ad essi assai pericolose contro-
partite formali.
Sembra, quindi, più opportuna e più sicura la via del contratto collet-
tivo, anche per la statuizione di concrete forme di tutela dei diritti e delle
libertà dei lavoratori. Queste forme, già, sono previste in numerosi con-
tratti collettivi, in materia di trattenute sindacali, permessi, comunicazio-
ni sindacali ecc. Per questa ragione la Cisl ha ritenuto di inserire nella
proposta di accordo quadro sulla contrattazione collettiva apposite clau-
sole, anche per quanto riguarda i diritti sindacali. Tali clausole, in prati-
ca, dovrebbero riguardare: a. la libertà di comunicazioni sindacali; b. la
libertà di riunione per scopi sindacali nei luoghi di lavoro; c. la materia
delle trattenute sindacali; d. la materia dei permessi sindacali.
230
Documento 4
La risposta della Cisl al questionario del ministro
Delle Fave sullo Statuto dei diritti dei lavoratori (1964)*
1. Premessa
* Pubblicata in «Rivista italiana di diritto del lavoro», 1964, III, pp. 250-255.
231
preliminari ad ogni seria soluzione tecnica. Su tali problemi non può
mancare un adeguato chiarimento delle posizioni del governo e delle ri-
spettive organizzazioni sindacali; l’espediente del questionario, se può
essere di qualche utilità sul piano dell’ausilio tecnico per le elaborazioni
di provvedimenti già chiaramente individuati, non serve alla risoluzione
di un problema che noi riteniamo fondamentale, e perciò preliminare ad
ogni approfondimento tecnico-specifico: la scelta degli strumenti di at-
tuazione e dei contenuti da attuare rispetto alla iniziativa dello Statuto,
nel quadro di una interpretazione non rigida e non formale dell’impegno
politico contenuto nel programma del governo e sulla base di una visione
obiettiva e realistica delle esigenze di tutela dei lavoratori nell’attuale
evoluzione della realtà economico-sociale e della realtà dell’impresa.
La Cisl, pertanto, esprime qualche perplessità sulla fecondità del me-
todo di lavoro prescelto per dare avvio alla fase, politicamente assai im-
portante e delicata, di consultazione delle organizzazioni sindacali. Tale
consultazione, se vuole essere costruttiva e feconda, non può limitarsi al-
la richiesta di risposte a quesiti tecnici inerenti a soluzioni politiche già
prestabilite, ma investire il merito delle soluzioni stesse ed allargarsi in
una approfondita discussione sui problemi generali di impostazione e di
metodo, il cui esame soltanto può consentire, alle varie parti, di chiarire
le proprie posizioni, e fornire così, ai responsabili politici, da una parte, e
ai rappresentanti sindacali, dall’altra, elementi precisi di valutazione in-
torno alla scelta delle forme, dei modi e dei tempi più opportuni per ri-
solvere le varie questioni poste dal proposto Statuto dei lavoratori.
Sulla base di queste motivazioni, la Cisl ritiene di dover esprimere
ampie riserve sulla parte del documento del ministro del Lavoro che ri-
guarda il contenuto dello Statuto. Tale parte contiene, infatti, implicita la
scelta del metodo legislativo come metodo adottato e proposto (perciò
non formante oggetto di discussione in sede di consultazione con le orga-
nizzazioni sindacali) per dare attuazione ai problemi dello Statuto e, con
un richiamo ad una non bene precisata «opinione comune», già specifica
i singoli provvedimenti da attuare. Ad avviso della Cisl, sia i problemi
dei modi di attuazione dello «Statuto» che quello dei contenuti da attua-
re, non possono essere sottratti ad una approfondita discussione prelimi-
nare tra il ministro del Lavoro e le organizzazioni sindacali: si tratta di
valutare la bontà e l’opportunità delle soluzioni proposte sul piano legi-
slativo; si tratta di vedere se altre soluzioni non risultino più idonee a ri-
solvere i problemi sollevati; si tratta in sostanza di chiarire preliminar-
mente, anche per una delimitazione opportuna delle rispettive sfere di
iniziativa e di responsabilità, ciò che possono fare le organizzazioni sin-
dacali sul piano della regolamentazione contrattuale, e ciò che, invece,
possa essere affidato ad eventuali soluzioni legislative.
La Cisl, per la natura e le motivazioni della sua posizione generale
sulla iniziativa dello Statuto, si asterrà dall’entrare nel merito tecnico
232
delle singole iniziative, così come esse sono formulate e impostate nel
documento di lavoro. Essa, tuttavia, ritiene opportuno precisare le sue
idee generali sullo Statuto, proprio nell’intento di arrecare un contributo
positivo alla esatta impostazione e soluzione dei vari e complessi proble-
mi da esso sollevati: ritiene, inoltre, opportuno dedicare qualche conside-
razione sulle specifiche iniziative proposte in materia di licenziamenti
individuali, di riconoscimento giuridico delle commissioni interne e di
tutela dei diritti sindacali nella fabbrica.
La Cisl, nel valutare l’iniziativa dello Statuto nelle sue motivazioni stori-
co-sindacali e nella sua prospettata attuale soluzione, non può richiamare,
in linea generale e preliminare, il metodo e i princìpi sulla base dei quali
essa ha sempre concepito e realizzato, in termini di sostanziale autono-
mia, l’azione sindacale ordinaria a tutela dei lavoratori organizzati, a li-
vello di sistema, a livello di settore e a livello di unità produttiva. Tale me-
todo e tali princìpi indicano, in via primaria, nella libera e responsabile
contrattazione collettiva lo strumento più idoneo, da un lato per far parte-
cipare i lavoratori, in condizioni di effettiva autonomia e in ragione del lo-
ro indispensabile apporto alla produzione, alla distribuzione del reddito a
livello di settore e a livello di impresa, attraverso una razionale politica
salariale fondata sui due livelli integrati di negoziazione; dall’altro, per
arricchire la sfera dei loro diritti e delle loro libertà nei luoghi di lavoro,
attraverso l’ampliamento dei contenuti di tutela del contratto collettivo.
La Cisl, quindi, rifiuta, in linea generale, ogni soluzione meramente
formalistica dei problemi inerenti alla disciplina del rapporto di lavoro e,
in particolare, alla presenza dei lavoratori nell’impresa per una ragionata
e convinta adesione al metodo contrattuale, l’unico effettivamente capa-
ce di risolvere, con piena aderenza alla mutevole realtà del sistema eco-
nomico-sociale, le tensioni che in esso inevitabilmente si producono, in
particolare, quelle che si producono nell’ambiente di fabbrica. Queste
tensioni, connesse naturalmente al modo industriale di produrre, solleva-
no, nel delicato equilibrio giuridico dell’impresa, situazioni e questioni
che soltanto lo strumento contrattuale, per la sua adattabilità e per la sua
costante suscettibilità di perfezionamento e di amministrazione, può ri-
solvere in modo realistico ed adeguato.
È illusorio, quindi, ad avviso della Cisl, credere di poter risolvere i
complessi problemi e le delicate tensioni, che caratterizzano l’ambiente
dell’impresa, in seno alla quale i lavoratori contano, di fatto, solo ed
esclusivamente in ragione della loro forza organizzativa e contrattuale, at-
traverso strumenti di mera limitazione legislativa dei poteri dell’impren-
ditore. Lo strumento legislativo, per la sua rigidità, per la sua minore adat-
233
tabilità alle mutevoli situazioni, per le difficoltà obiettive che offre sul
piano dell’attuazione amministrativa e giurisdizionale, rappresenta soven-
te solo un fittizio sostegno alle esigenze effettive, immediate e quotidiane
di tutela dei lavoratori. È appunto in ragione della carente effettività e
funzionalità dello strumento legislativo che è più che mai opportuno affi-
dare, in via primaria, alla libera evoluzione della disciplina contrattuale, e
a livello nazionale e a livello di impresa, di regolare quegli aspetti e quei
problemi della presenza individuale o di gruppo dei lavoratori nell’impre-
sa, che direttamente tocchino la sfera delle loro libertà fondamentali, o le
esigenze non sacrificabili della loro dignità e della loro sicurezza.
La Cisl ritiene, pertanto, coerentemente alla sua ribadita fedeltà al
metodo contrattuale, di esprimere ampie riserve sulle soluzioni legislati-
ve prospettate dal documento del ministro del Lavoro a proposito della
disciplina dei licenziamenti individuali, delle commissioni interne, sulla
tutela dei diritti sindacali nell’impresa. Tali soluzioni non possono essere
considerate, ad avviso della Cisl, che semplici indicazioni (di metodo e
di contenuto) e non certo una rigida pregiudiziale, preclusiva di imposta-
zioni e strumentazioni diverse, specie sul terreno contrattuale, dei pro-
blemi di modifica o di revisione della vigente disciplina legislativa e
contrattuale delle materie sopraindicate. Una interpretazione dell’impe-
gno in tema di Statuto in senso esclusivamente legislativo compromette-
rebbe ogni possibilità di ulteriore discussione ed evoluzione del proble-
ma. Almeno per quanto riguarda la Cisl, una tale interpretazione sarebbe
assolutamente inaccettabile.
234
porto di lavoro. Queste difficoltà risultano, del resto, anche dal complesso
dei quesiti posti nel documento del ministro del Lavoro, e possono consi-
derarsi le seguenti: a. difficoltà di stabilire una esatta nozione legale del
«giustificato motivo» di licenziamento; b. difficoltà connesse al problema
dell’indennità di anzianità in relazione alla necessaria modifica dell’attua-
le art. 2120 del Codice civile; c. difficoltà di stabilire una efficace disci-
plina del licenziamento per ragioni sindacali; d. difficoltà connesse all’e-
sercizio della tutela giudiziale; e. difficoltà connesse alla esatta delimita-
zione della disciplina legislativa del licenziamento per quanto concerne le
dimensioni dell’impresa e per quanto concerne la distinzione tra licenzia-
menti individuali e licenziamenti collettivi.
La Cisl è pertanto più favorevole a studiare opportune soluzioni con-
trattuali del problema dei limiti del licenziamento ad nutum, allo scopo
di evitare le difficoltà segnalate e dar luogo ad una più duttile e funziona-
le disciplina, che possa essere invocata ed azionata dal lavoratore nel
quadro di autonome procedure contrattuali, senza costringere il lavorato-
re stesso a sottoporsi alle onerose formalità inevitabilmente connesse al-
l’esperimento della tutela giudiziaria.
C) Sul problema della tutela dei diritti sindacali nell’azienda, la Cisl non
può che condividere il giudizio cauto e prudenziale espresso nel docu-
mento del ministro del Lavoro, laddove si riconosce questo «il problema
più arduo […] difficilmente delineabile in norme». In realtà, esso coin-
volge una serie molteplice di diritti e di facoltà, che hanno un diverso
contenuto e diversi destinatari. Vi sono libertà e diritti che riguardano il
lavoratore in quanto cittadino (per esempio la libertà di opinione), libertà
e diritti che riguardano il lavoratore in quanto socio dell’organizzazione
sindacale (ad es. la materia dei permessi sindacali), libertà e diritti che ri-
guardano l’organizzazione sindacale in quanto tale (ad es. le affissioni
sindacali). Questa complessa trama di diritti e di libertà trova, oggi, nel-
l’evoluzione della contrattazione collettiva, come giustamente riconosce
il documento del ministero del Lavoro, una particolare regolamentazione
235
che può considerarsi, in prospettiva, certamente suscettibile di ulteriori
ampliamenti o perfezionamenti.
Appare, quindi, di estrema difficoltà, nonché di scarsa utilità, un
provvedimento legislativo diretto a codificare e a sanzionare in formali
diritti soggettivi quei poteri e quelle libertà che oggi prevede l’esperienza
contrattuale in atto, sia per quanto riguarda il singolo lavoratore, sia per
quanto riguarda l’organizzazione sindacale. Una eventuale sanzione legi-
slativa, oltre che cristallizzare la positiva evoluzione contrattuale su que-
sta materia, introdurrebbe elementi di rigidità e di obiettiva difficoltà sul
piano della concreta attuazione delle norme, col risultato di accentuare le
tensioni aziendali e di rendere del tutto vana un’eventuale disciplina inte-
grativa della contrattazione collettiva,
È necessario, inoltre, approfondire il problema dei diritti e delle li-
bertà sindacali nella fabbrica alla luce anche delle convenzioni internazio-
nali dell’Oil n. 87 e 98, ratificate dall’Italia con la legge 23 marzo 1958 n.
367. Si tratta di approfondire l’efficacia pratica e giuridica di tali conven-
zioni, con riguardo al nostro ordinamento interno, allo scopo di accertare
la loro precisa portata, in relazione anche al principio di libertà sindacale,
sancito dall’art. 39, primo comma della Costituzione. Sembra logico rite-
nersi che una eventuale legislazione in materia, non potendosi che limita-
re alla statuizione di norme generali, non possa prescindere dalle due cita-
te convenzioni internazionali. Essa potrebbe, anzi, tradurne il contenuto e
i princìpi generali. Alla contrattazione collettiva dovrà essere, in ogni ca-
so, riservato il compito della disciplina concreta della materia cosiddetta
«dei diritti sindacali», che trova nel contesto contrattuale odierno o in un
auspicabile contesto contrattuale quadro, il terreno proprio di regolamen-
tazione e la sede più idonea per una effettiva e funzionale applicazione.
4. Rilievi finali
236
Documento 5
Licenziamenti individuali (giusta causa):
sì al contratto, no alla legge (1966)*
237
dall’ambito sindacale a quello giudiziario. La opposizione del sindacato
democratico (Cisl) all’intervento della legge in materia di licenziamenti
individuali, non è soltanto legata ad un modo ideale di concepire la so-
cietà e la funzione dei gruppi sociali in essa operanti, ma anche alla pras-
si della negoziazione collettiva, che ha per suo conto e all’infuori di ogni
intervento, regolato la vexata quaestio.
L’introduzione di clausole per l’esperimento di procedure di concilia-
zione e di arbitrato nell’accordo interconfederale, pur risolvendosi nella
concreta limitazione dei potere di recesso dell’imprenditore, sta a garan-
zia di una duplice esigenza della moderna vita associativa: a. la parità dei
soggetti nei confronti del contratto; b. la regolamentazione convenziona-
le dei limiti all’esercizio dell’autonomia privata, al di fuori di una tutela
esterna, di ordine pubblico,
L’esperienza negoziale sino ad oggi realizzata conferma che se il li-
cenziamento cade nell’ambito del controllo sindacale, la tutela del sog-
getto ritenuto dalla norma economicamente più debole, diventa un fatto
operativo e si creano i veri presupposti alla stabilità dell’impiego, non
più demandata ai limiti rigidi posti dall’intervento statuale ed ammini-
strata, nella fase contestativa, dall’ordinamento giudiziario.
Per questo motivo la Cisl non ha caratterizzato la sua opposizione al
disegno governativo per come tecnicamente esso è strutturato e per le
improprietà, da un certo punto di vista, ragguardevoli, di alcune disposi-
zioni normative in esso contenute.
È sembrato infatti al sindacato democratico che le deficienze del te-
sto legislativo, di cui il dibattito parlamentare si è nutrito, si determinano
proprio ed esclusivamente per lo strumento della tutela che presuppon-
gono. Nessuna efficacia concreta ed immediata può avere una commina-
toria di nullità, come quella stabilita dalla legge a proposito dei licenzia-
menti determinati direttamente ed indirettamente da motivi di credo poli-
tico o fede religiosa, dalla appartenenza ad un sindacato e della parteci-
pazione ad attività sindacali. Nella realtà nessun prestatore di lavoro
verrà mai licenziato con una motivazione che determini la nullità dispo-
sta dalla legge. Ragion per cui sarà il giudice a dover essere investito
proprio da quel soggetto ritenuto «economicamente più debole» dalla ra-
gione sociale che muove il legislatore e determina la norma e non diven-
terà certo più forte quando dovrà sopportare l’onere di provare un motivo
diverso da quello contenuto nella notifica del licenziamento.
La contrarietà del sindacato democratico alla regolamentazione legi-
slativa della materia del licenziamento ha determinato l’astensione dalla
votazione della legge in aula da parte dei sindacalisti parlamentari della
Cisl, preannunciata dagli interventi sostenuti durante la discussione ge-
nerale del provvedimento che ha occupato complessivamente tre setti-
mane. Tale presa di posizione non va assolutamente confusa con una in-
disponibilità del sindacato democratico nei confronti di qualsiasi stru-
238
mento legislativo perché la Cisl non ha mai rifiutato la regolamentazione
per legge di materie non strettamente pertinenti alla natura del contratto e
quindi avrebbe sostenuto una iniziativa legislativa che avesse soltanto
modificato il già citato articolo 2118 del Codice civile. La verità è che un
sindacato maturo è anche consapevole dei rischi e dei danni che il potere
negoziale, a tutti i livelli, può subire per effetto di una interferenza legi-
slativa in materie e istituti creati ed amministrati dal contratto.
In tale direzione va considerata l’azione dei parlamentari sindacalisti
della Cisl, ai quali va il merito di aver sostenuto in un’assemblea, orien-
tata totalmente in senso contrario (anche i liberali hanno votato favore-
volmente), i princìpi fondamentali e irrinunciabili dell’azione democrati-
ca del sindacato. Per tale motivo si è ritenuto opportuno pubblicare in
questo fascicolo un’ampia sintesi di tutti i discorsi dei parlamentari della
Cisl e degli interventi di alcuni rappresentanti delle altre organizzazioni
sindacali perché al lettore fossero consentiti un diretto confronto delle
differenti tesi sostenute e il conseguente giudizio.
È stata una battaglia coraggiosa e coerente quella dei deputati sinda-
calisti e valida al di là del risultato finale, peraltro già scontato sin dall’i-
nizio, essendosi pronunciati a favore della legge comunisti, socialisti dei
tre partiti, democristiani, liberali, missini, gruppi intermedi, come le
Acli, e le altre organizzazioni sindacali. In una «esplosione» di demago-
gia che ha investito tutti i partiti politici e che ha veduto le più dubbie
convergenze – comunisti e liberali – non è stato facile assumere una po-
sizione critica nei confronti del provvedimento governativo, rischiando
oltre che l’isolamento, anche l’incomprensione di qualche lavoratore.
Ma i quesiti che oggi, a legge approvata, ci si deve porre per comprende-
re l’atteggiamento dei deputati sindacalisti, sono: il sindacato esce raffor-
zato dall’approvazione di una legge che affida ad altri poteri – la magi-
stratura – materie di sua stretta competenza? E i lavoratori, sono real-
mente più tutelati dalla legge per quel sommo loro bene che è il posto di
lavoro? Il tempo certamente fornirà le più ampie risposte. Ed è perché la
Cisl guardava al futuro che ha assunto quell’atteggiamento.
Bruno Storti
239
La seconda cosa, che è per noi di estrema importanza, è che almeno
una parte di questa legge ci trova d’accordo: ed è la modifica e, in con-
creto, l’abrogazione di alcuni articoli del Codice civile, che sono oggi in
contrasto con la realtà storica e con il sistema costituzionale. Anzi, noi
siamo sempre stati e siamo dell’opinione che sia un dovere politico del
Parlamento creare le premesse perché l’azione autonoma e contrattuale
del sindacato si svolga nelle condizioni obiettive di realtà legislativa e
nelle condizioni ambientali migliori.
Pertanto, questo è veramente un ruolo che crediamo di poter attribui-
re al pubblico potere, invitandolo ad operare in funzione di esso: sgom-
brare la legislazione vigente da tutte quelle norme che limitano, frenano
o mal regolano l’attività autonoma del sindacato nel momento in cui con-
tratta le condizioni che disciplinano il rapporto di lavoro.
Nella dichiarazione programmatica con cui il primo governo presie-
duto dall’onorevole Moro si presentò a questa Camera, era contenuta una
affermazione che poi ha dato lo spunto prima a una proposta di iniziativa
parlamentare e poi al disegno di legge governativo. L’onorevole Moro
affermò, infatti, che sarebbe stato impegno del governo di elaborare, sen-
tite le organizzazioni sindacali, uno Statuto dei diritti dei lavoratori al fi-
ne di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Chi vi parla diede con piena convinzione la fiducia a quel governo e
a quelli successivi, ma nelle proprie dichiarazioni su questo solo punto
del programma fece le più ampie riserve.
Se non desidero accusare di inadempienza il governo non posso
neanche certificare la sua piena adempienza su questo requisito del pro-
gramma. Su tale materia vi fu un solo incontro, organizzato dall’allora
ministro del Lavoro, onorevole Delle Fave, nel quale alle organizzazioni
sindacali che chiedevano (e avevano il diritto di chiedere) che cosa vi
fosse dentro la generica frase «Statuto dei diritti dei lavoratori», si disse
che con questa formula si intendevano tre cose: un progetto di legge sui
licenziamenti individuali (ed eccolo qui), il riconoscimento giuridico
dell’accordo sulle commissioni interne (almeno a quanto sembrò, ma
non si sono avute particolari conferme) e un non meglio identificato
provvedimento (o un insieme di provvedimenti) che servissero a regolare
la libertà dei lavoratori e dei dirigenti sindacali nelle fabbriche.
Sul secondo e sul terzo provvedimento in ogni caso, le informazioni
erano così sommarie che in, effetti questo incontro non portò a un dibat-
tito né ad una consultazione. E con questo primo ed ultimo incontro, sal-
vo alcuni approcci informali di questi giorni, l’impegno governativo di
sentire le organizzazioni sindacali si esaurì proprio mentre una almeno
delle organizzazioni sindacali di maggiore rilievo nel paese esprimeva le
più ampie riserve su quest’iniziativa e sulle altre, affermando la priorità
della contrattazione collettiva su ogni altro modo di regolare aspetti del
rapporto di lavoro.
240
La contrattazione collettiva, la contrattazione degli aspetti del rap-
porto di lavoro, è materia di sicura competenza del movimento sindacale,
e non v’è alcuno che lo contesti; ma come conseguenza immediata di
questo c’è anche il potere, il diritto del sindacato di contestare alcune
opinioni o alcune prese di posizione o alcune iniziative che la maggio-
ranza governativa, il governo, i gruppi parlamentari che compongono la
maggioranza governativa, i partiti – che sono in realtà la sostanza dei
gruppi parlamentari – propongono.
Qui si pone in tutta la sua drammaticità un problema che tutti stiamo
cercando di affrontare in questi giorni: questi due pilastri, questi due car-
dini della realtà d’una società democratica (sindacati e partiti) come de-
vono regolare i loro rapporti? Su un piano di contrasto? Su un piano di
accordo? Su un piano di subordinazione?
Non possiamo accettare subordinazioni: è necessario, invece definire
con certezza i limiti – non angusti – della competenza e dei poteri dei
partiti politici, quindi dei gruppi parlamentari, quindi della maggioranza
governativa, quindi dello stesso Parlamento. È soprattutto necessario re-
golare i limiti dell’ambito di competenza del movimento sindacale (an-
che se bisogna tener ben presente la sua dinamica), il quale per sua natu-
ra – e tutti gli osservatori attenti lo constatano – non può fare a meno, co-
me il più autentico rappresentante degli interessi dei lavoratori, di riven-
dicare il suo ambito di competenza relativamente ad una quantità di pro-
blemi (non dico soltanto economici e sociali, come questa che stiamo af-
frontando) che comunque direttamente interessano.
Intanto, occorre cercare di evitare al massimo le interferenze. Mi ri-
volgo soprattutto a voi, onorevoli colleghi, che avete come me responsa-
bilità del movimento sindacale: se vogliamo veramente che i bei discorsi
che stiamo facendo in questi giorni sull’autonomia del sindacato da quel-
lo, da questo e da quest’altro, non siano mere acrobazie verbali facciamo
in modo (questa è la formula più garbata) di invitare i partiti politici, tutti
i partiti politici – nel pieno rispetto che noi abbiamo della loro competen-
za, relativa soprattutto ai problemi di sintesi della società – di valutare,
sul piano dell’opportunità, non sul piano del diritto, se sia opportuno cer-
care di interferire il meno possibile in una materia che è di competenza
del sindacato e nella quale si può verificare che il sindacato dissenta (co-
me oggi accade a me e domani potrebbe capitare a qualcun altro). Un
sindacato che non sia autonomo non è un sindacato, è una mistificazione.
Ma l’autonomia del sindacato dai partiti e dai pubblici poteri, se se ne di-
sconosce l’autonomia contrattuale, se gradualmente gli si toglie un po’ di
questo potere, si riduce a un puro flatus vocis.
Cosa resterà del potere contrattuale effettivo se gli si sottrae la mate-
ria della conservazione del posto di lavoro, domani quella delle commis-
sioni interne, dopodomani si incide o si indebolisce la capacità contrat-
tuale di una determinata categoria?
241
Non si creda di rafforzare l’organizzazione sindacale sostituendosi ad
essa con il motivo che il sindacato sarebbe impotente (e si tratta poi di
provare questa presunta impotenza).
Se voi, onorevoli colleghi, volete, come volete sicuramente, vedere
crescere il sindacato, la sua capacità, la sua forza di tutelare gli interessi
dei lavoratori, dovete accettare che qualche volta esso sconti (se è vero
che è così) certe sue debolezze, piuttosto che trovarsi sostituito, scalzato
o paternamente assistito da chicchessia, anche dal governo: e questo dico
con tutto il rispetto che per la democrazia nutre un uomo di profonda fe-
de democratica quale credo di essere.
Al governo noi abbiamo qualcosa da chiedere in altri campi; abbia-
mo da chiedere che crei, anche con le leggi, condizioni obiettive perché
il sindacato esplichi in piena libertà, in piena responsabilità, nel pieno ri-
spetto della sua autonomia la propria attività, senza nessuna pretesa di
sostituirlo nella contrattazione e nelle autonome procedure che ne deri-
vano.
Si modifichi il Codice civile e avremo allora qualche atout di più per
intervenire, anche attraverso la contrattazione, nella delicata materia dei
licenziamenti collettivi.
In occasione della convocazione fatta presso il ministero del Lavoro
per la firma dell’accordo sulle commissioni interne, furono avanzate ta-
lune prospettive, nei confronti delle quali la sola cosa che posso assicura-
re è che, se si realizzeranno, sarà un bene altrimenti l’azione sindacale
cercherà di forzarle, perché ciò è giusto e lecito.
In occasione di quella convocazione, tutte le organizzazioni sindaca-
li, nessuna esclusa, hanno sottoscritto una dichiarazione di estrema im-
portanza, nella quale si dice: «Le organizzazioni sottoscritte concorde-
mente riaffermano la piena validità del principio riconosciuto dalla Co-
stituzione e confermato dall’esperienza maturatasi fino ad oggi, in forza
del quale la contrattazione collettiva costituisce il normale e naturale
strumento per la regolamentazione dei rapporti di lavoro nei loro vari e
molteplici aspetti».
Sono certo che ognuno di voi mi dirà che era d’accordo anche prima
che io leggessi queste dichiarazioni. È importante che intanto sia messo
nero su bianco e che quella dichiarazione sia stata sottoscritta da tutte le
organizzazioni sindacali. Si tratterà poi di vedere quale valore abbia, ab-
bia avuto o avrebbe questa dichiarazione se dopo questa meravigliosa af-
fermazione della priorità della contrattazione, si addivenisse poi all’abi-
tudine di richiamare, sistematicamente, l’intervento della legge.
È molto importante che oggi unanimemente si riconosca la priorità
della contrattazione. Ma quando nacque questo progetto la contrattazio-
ne non era ancora intervenuta. La legge non sarebbe intervenuta, perciò,
a dare efficacia generale al contratto o ad integrare il contratto; anche se
non si fosse fatto il contratto, la legge sarebbe intervenuta a sostituirlo in
242
anticipo. Da quel momento, contratti probabilmente non se ne sarebbero
fatti più, almeno nella materia nella quale interveniva la legge.
Eppure si sostiene che questa legge, tutto sommato, ha lo scopo di
dare efficacia generale agli accordi contrattuali.
Immagino che a questo punto qualcuno dirà: tutta colpa vostra; se
aveste attuato l’articolo 39 della Costituzione sarebbe raggiunta la effica-
cia erga omnes.
È necessario rispondere a queste obiezioni tanto spesso (e monotona-
mente) ripetute: per le stesse ragioni per le quali difendiamo l’autonomia
contrattuale del sindacato, difendiamo l’autonomia del sindacato da ogni
forma di istituzionalizzazione, proprio in omaggio al principio del primo
comma dell’articolo 39 della Costituzione che dice che l’organizzazione
sindacale è libera.
Se noi instauriamo come sistema che, fatto il contratto, oggi se ne in-
tegra un aspetto, domani se ne integra un altro, noi dobbiamo rispondere
a due domande. Anzitutto: troveremo sempre delle parti disposte a nego-
ziare? Non si tratterranno le parti dal negoziare dal momento che,
affermato il sistema di un intervento parlamentare, il contratto potrà an-
che essere modificato, ampliato o ristretto? Oggi il Parlamento facendo
una legge che assorbe ed integra un contratto collettivo, pare intenda mi-
gliorarlo o lasciarlo com’è. Ma il Parlamento può domani modificare
questa materia in altro senso, magari meno favorevole ai lavoratori.
Siamo proprio convinti che – ed è un problema che si fa sempre più
sentire nel nostro paese – nel momento in cui aumentano i conflitti, forse
anche perché il cittadino come singolo sviluppa le sue capacità, la sua
coscienza civica, la consapevolezza che è necessaria la lotta per il diritto,
siamo convinti che la cosa migliore sia riporre tutto nelle mani del giudi-
ce ordinario? Pur con il più grande rispetto per la magistratura, è questo
il modo migliore per amministrare, per regolare i rapporti derivanti dal
controllo? Per affermare i diritti che da esso nascono? Eppure esiste un
metodo, quello di natura privatistico-collettiva, rimesso al sindacato che
non solo vuole stipulare, ma vuole anche amministrare il contratto.
Guai se, a un dato momento, stipulato il contratto abdicassimo a que-
st’amministrazione, anche, sia detto con tutto il rispetto, in favore del giudi-
ce ordinario! Noi, stipulato il contratto, vogliamo amministrarlo noi stessi.
C’è un’altra ragione per la quale noi preferiremo sempre il contratto
alla legge: il contratto è uno strumento estremamente snello che può es-
sere disdettato dall’oggi al domani se si constata la sua inadeguatezza.
La legge può certamente essere modificata, ma non è che essa si modifi-
chi ad ogni stagione o ad ogni primavera e le procedure previste sono
piuttosto complicate.
A questo punto, prima di concludere, credo di dover rivolgere un ap-
pello, sul quale spero di trovare solidarietà.
Diciamo chiaramente ai lavoratori che, nonostante la volontà comune
243
di tutto il Parlamento, che è l’erede di quella Costituente che fece la Co-
stituzione, di impedire che l’appartenenza a una fede politica o a una fe-
de religiosa possa costituire motivo di licenziamento, noi non abbiamo
trovato il meccanismo idoneo a garantire effettivamente il lavoratore.
I casi sono due: o la legge non tutelerà meglio i lavoratori (e questa
sarà una grande delusione anche nei confronti del potere dello Stato), op-
pure farà sentire tutta la sua efficacia (e questa sarà la morte del sindacato).
L’organizzazione sindacale che rappresento ha fatto, come volgar-
mente si dice, i salti mortali per indurre la confederazione degli agricol-
tori a stipulare un contratto per quanto riguarda i patti agrari, e di fronte
al rifiuto noi abbiamo non voluto, ma subìto che la materia dei patti agra-
ri fosse regolata da questa Camera.
Ma io sono ancora dell’opinione che sarebbe stato molto meglio se an-
che questa materia dei patti agrari fosse stata regolata attraverso la contrat-
tazione. Non ho nessuna esitazione a dire che responsabile di questa situa-
zione fu a quell’epoca la confederazione degli agricoltori; e che perciò
un’organizzazione sindacale come la nostra, che pure tendenzialmente è
portata alla regolamentazione contrattuale, dovette piegarsi ad una diversa
impostazione, i cui risultati, peraltro, non sono stati molto egregi.
Ed oggi ci troviamo di fronte a capziose e bizantine interpretazioni,
nei meandri degli articoli di quella legge (naturalmente ciascuno preten-
de di avere ragione), per cui i casi sono due: o hanno ragione tutti oppure
hanno torto tutti quanti. La realtà è che ognuno applica a modo suo quel-
la legge ed intanto uno degli istituti soppressi da quella legge, la mezza-
dria, prospera in deroga alla legge. Ed ogni giorno si stipulano nuovi
contratti di mezzadria. E noi lottiamo, come lotteremmo se non si fosse
avuta quella legge, per tentare di dare la nostra interpretazione. È proprio
questo che io intendevo dimostrare: cioè che quella legge non ha affatto
facilitato la nostra azione e non ci ha evitato quello che è il nostro tran-
quillo dovere: di agire cioè come organizzazione sindacale attraverso la
contrattazione collettiva.
Noi abbiamo dimostrato lealtà senza alcuna possibilità di dubbio nei
confronti di questo governo, che noi abbiamo voluto; abbiamo dimostra-
to sempre indubbia lealtà nei confronti del gruppo parlamentare di cui
facciamo parte; ma abbiamo anche una lealtà che non può essere messa
in dubbio nei confronti della nostra organizzazione sindacale. Possiamo,
perciò, accettare regole di disciplina, quando si tratti di materie nelle
quali personalmente abbiamo il diritto di avere una opinione, ma che non
sono di pertinenza del sindacato. Quando, però, si tratti di una posizione
che il sindacato, che io rappresento da quindici anni, che il mio sindacato
sostiene contro tutto e tutti, quando si tratti di una materia che il Parla-
mento poteva anche non affrontare, che i gruppi parlamentari ed i partiti
che compongono questo Parlamento potevano anche non affrontare,
quando noi abbiamo la convinzione, in tutta sincerità, che questo disegno
244
di legge costituisce, bene o male, presto o tardi, un grosso attentato al-
l’autonomia del sindacato ed alla contrattazione, che esso costituisce in
questo momento un bastone fra le ruote di una contrattazione già stenta-
ta, in una situazione già difficile, in un momento di rimeditazione del
ruolo del sindacato nella società, allora voi potete capire perché, anche
con comprensibili preoccupazioni, noi riteniamo di non poterci pronun-
ciare a favore di questa legge.
Baldassarre Armato
245
giudici per poter far fronte al crescente tasso di litigiosità; altri dicono
che al contrario occorre trovare queste forme nuove di alleggerimento,
nel senso di favorire le forme autonome di regolazione di conflitti nel se-
no stesso della società.
Nessuno potrà negare che questo problema oggettivamente esiste ed
è un problema di fondo della giustizia italiana. Le analisi più recenti con-
dotte da istituti di ricerca e di indagine, estremamente apprezzati da tutti,
dicono che in una società che muta i suoi connotati per assumere quelli
di società industriale, il dinamismo dei rapidi cambiamenti, il grado di
conflitto, determinato ovviamente dal contrasto di diversi interessi in
causa, sarà sempre più intenso.
È opinione di chi ha proceduto a tale analisi che questi crescenti con-
flitti di gruppo e all’interno degli stessi gruppi non avranno mai soluzioni
permanenti ma solo temporanee.
Nel caso in esame noi ci troviamo in presenza di una risposta più per-
manente, quale può essere quella data da una legge, rispetto ad una solu-
zione più temporanea, quale quella codificata in un contratto. Si tratta di
una risposta inversa a quella data da altri paesi di più elevato sviluppo, i
quali ci insegnano che il punto di partenza per una soluzione corretta del
problema è quello di saper dividere il ruolo dello Stato da quello della
società civile, così da riuscire ad affrontare il fenomeno che va assumen-
do sempre maggiori dimensioni.
La via dell’alleggerimento del ruolo dello Stato passa proprio per le
procedure informali di conciliazione e soprattutto di arbitrato.
Voglio limitarmi in questo mio intervento a una pura e semplice regi-
strazione dei fatti. Appaiono però evidenti anche con un minimo di ri-
flessione le conseguenze che avrà questa legge agli effetti del sovraccari-
co della pubblica litigiosità.
Noi abbiamo anche il diritto di domandare: e la riforma dei codici? In
questi ultimi mesi migliaia di lavoratori sono stati denunciati dalla pub-
blica autorità alla magistratura perché colpevoli di esercitare le libertà
previste dalla Costituzione, perché colpevoli nel contempo di violare
quelle norme del cosiddetto codice Rocco, che è in aperto contrasto con
la Costituzione. Si tratta in particolare degli articoli 330, 340, 502, 504 e
505 del Codice penale. La magistratura qualche volta assolve, qualche
volta condanna in presenza della stessa imputazione; cioè, in presenza
della stessa imputazione, emette verdetti diversi. In fondo gli articoli del
codice fascista stanno ancora in piedi; lavoratori onesti vengono portati
nelle aule dei tribunali sulla base di una concezione dello Stato allora im-
perante, concezione improntata alla tutela massima dello Stato conside-
rato, chiedo scusa per le virgolette, «come organismo a un tempo econo-
mico, sociale, politico e giuridico, etico e religioso», come viene ricorda-
to sempre in quella relazione del ministro guardasigilli che ho già citato.
È legittima la domanda a questo governo, che tanta urgenza ed im-
246
portanza sul piano delle priorità ha conferito a questa legge sulla giusta
causa: quando saranno abrogati gli articoli del Codice penale che con-
sentono alla magistratura, in netto contrasto con il precetto costituziona-
le, di incriminare fior di galantuomini, di cittadini, di lavoratori colpevoli
soltanto di esercitare un fondamentale diritto di libertà sindacale come il
diritto di sciopero?
Tutto questo avviene nel quadro di una grande contraddizione stori-
ca. Cioè, nel momento in cui lo sviluppo della società italiana pone in
crisi il tradizionale modo di essere dei partiti, registra i limiti e l’angustia
dei tradizionali ordinamenti, vecchi e arretrati per una società così fortu-
nosamente e fortunatamente cresciuta, nel momento in cui si intensifica
il processo di articolazione delle strutture decisionali e la ricerca delle
soluzioni di sostanza subentra a quelle tradizionalmente formali, in un
equilibrio nuovo dei centri di poteri, che finalmente acquistano, in un
nuovo e più civile rapporto tra Stato e società; una autonomia sempre più
nettamente delineata, in questo preciso momento interviene questa legge.
Guardiamoci attorno: è o non è questo momento (lo riconoscono tut-
ti) un momento di grande passaggio della società italiana verso livelli di
organizzazione, di presenza e di rappresentanze più civili e più adeguati?
Le stesse forze politiche si avviano ad unirsi, ad incontrarsi sempre meno
sulla base di un presupposto dottrinale e ideologico, e sempre più nella
ricerca concreta delle risposte concrete, cioè delle soluzioni capaci di
guidare i fenomeni, di offrire le scelte ai problemi del nostro paese, sulla
base della ispirazione dei perenni o dei mutevoli valori che nel divenire
storico si sviluppano nel senso di una società destinata ad essere sempre
più dinamica.
Noi ci battiamo per un sindacato capace di uscire da una filiazione
partitica e politica e che nella netta distinzione delle responsabilità, non
nella contrapposizione, storicamente pretende la restituzione di ruoli e di
attribuzioni proprie anche in ogni forma di attività che investe l’ammini-
strazione di interessi collettivi: formare il contratto e amministrarlo per
allargare la sfera di gestione e di intervento del sindacato negli istituti del
collocamento, dell’addestramento, della preparazione professionale, del-
la previdenza e dell’assistenza, fino allo stesso diritto di essere gestori di
quel risparmio contrattuale, fino ad oggi campo esclusivo dello Stato e
degli imprenditori.
La nostra critica non riguarda né contesta il diritto del Parlamento,
ma l’opportunità di una decisione nel momento in cui tutti i sindacati si
sentono impegnati a meglio regolare le relazioni per un obiettivo di fon-
do che resta quello di rafforzare l’azione contrattuale.
Questa legge non realizza questo obiettivo, tende a distogliere la con-
fidenza del lavoratore verso il sindacato, confonde la sfera del pubblico
con quella del privato, crea attese che saranno certamente deluse.
Certo non è questa la strada per garantire dignità, libertà e sicurezza
247
nei posti di lavoro. Questo obiettivo non si realizza attraverso una com-
pressione formale e disordinata dei sindacati.
Questa legge forse avrà un grande merito: quello di chiarire il rappor-
to sindacati-Stato, sindacati-governo su tutta la materia che riguarda i la-
voratori. Questo rapporto fino ad oggi è stato più un atto formale che non
l’espressione di una sostanziale scelta politica. La legge che discutiamo
ne è un esempio. Vorremmo evitare che questo costume, se mi è consen-
tito dire, questo andazzo, si ripetesse. Alla distanza sia pure a malincuore
dovremmo convenire che al di là di un rapporto puramente formale si vo-
gliono lasciare inalterati gli equilibri, anzi gli squilibri di fondo della so-
cietà italiana, riservandoci magari lo spazio per una copertina di socia-
lità, per un libro già stampato che non appartiene ai lavoratori italiani ma
ai ceti e ai gruppi che sono stati i maggiori beneficiari dello sviluppo del
nostro paese.
Se è vero che esiste questo obiettivo, si discuta allora apertamente e
sinceramente non tanto una legge che ha come finalità la difesa di inte-
ressi singoli, ma si apra con i sindacati un vasto colloquio per scoprire
insieme come lo Stato può meglio sostenere la azione di tutela collettiva
dei sindacati: è in quest’ambito che può trovare migliore difesa e tutela
l’interesse del singolo lavoratore e viceversa.
Opponendoci a questa legge, noi non contestiamo la linea politica ge-
nerale di questo governo ma ne chiediamo una rettifica e un chiarimento
nel rapporto nuovo che veda nella formula di centro-sinistra non una rie-
dizione di un giolittismo riformistico, ma un impegno a vasto respiro e
livello che sottolinea il ruolo di uno Stato che promuove e non comprime
le libertà, che esalta i ruoli diversi, in una grande sintesi democratica.
Il nostro atteggiamento vuole essere un invito alle forze politiche ed
anche alle organizzazioni sindacali per una opportuna rimeditazione su-
gli effetti di questa legge. Se questa discussione è servita a scoprire nel
Parlamento e a meglio conoscere una forza reale che esiste nel nostro
paese, tanto di guadagnato: vorrà dire che allora questa discussione non è
stata vuota accademia, ma una occasione perché da un problema, per
quanto non rilevante, si trovasse avvio per un discorso di chiarimento tra
i sindacati, l’uno con l’altro, e tra tutti i sindacati ed il governo.
Se questo chiarimento non avverrà, non resterà che prendere atto con
amarezza di uno stato di incomprensione che certamente produrrà effetti
non positivi su un piano ed un contesto di carattere più generale.
Vito Scalia
248
l’opportunità di determinati approfondimenti, i quali vanno condotti nel-
le sedi sindacali, nelle sedi politiche e nella stessa sede parlamentare per
vedere più oltre, al di là della legge stessa.
Questa legge, richiama un rapporto di fondo, al quale dobbiamo ri-
farci se vogliamo interpretare correttamente il pensiero e la posizione
che ci distinguono. Si tratta del rapporto di fondo fra società e Stato nella
sua evoluzione. Tutto il dibattito è una testimonianza di ciò. E io credo
che chi leggerà domani sugli atti parlamentari questi nostri dibattiti, al di
là dell’episodio, al di là della discussione del caso, della specie, della
legge sulla giusta causa, rileverà questo: come tutto il nostro dibattito, le
nostre argomentazioni, siano fondate su una diversa concezione del tipo
di rapporto tra società e Stato.
Qui non si è discusso soltanto di una legge, ma anche dell’essere e
del divenire del sindacato, della nostra società, dello Stato. Credo che per
stabilire la differenza fra i diversi modi di intendere, quando non voglia-
mo fare molto fumo, bisogna andare alla ragione delle cose.
E la ragione del dissenso sta in questo: in un differente modo di vede-
re la società e lo Stato.
In una visione liberale, ispirata al più rigoroso individualismo, lo Sta-
to era visto in una funzione di predominio e di controllo e tutto rientrava
nella sua giurisdizione e competenza.
La nostra società non era contraddistinta da questo elemento nuovo –
il fatto associativo – che introduce un motivo nuovo e determinante di
valutazione nel rapporto fra società e Stato. Il lavoratore veniva visto, in
questa società liberale ottocentesca, come la parte contraente non solo
debole, ma estremamente debole, sola, indifesa, alla mercé dell’impren-
ditore, in una visione, evidentemente, che assegnava all’imprenditore la
parte di colui che assolveva alla funzione del persecutore del singolo,
che, senza la tutela dello Stato, senza la tutela giuridico-formale, non
avrebbe avuto alcune possibilità di attuare in modo diverso la sua difesa.
Oggi la società è enormemente cresciuta, si è articolata attraverso i
corpi sociali intermedi, è contrassegnata dal fatto associativo, dalla pre-
senza dei gruppi sociali dotati di autonomia privata collettiva. Non solo,
ma questi gruppi hanno vieppiù assunto, rispetto al periodo iniziale, for-
za e consapevolezza.
Si è modificato, in altri termini, il rapporto società-Stato, la dimen-
sione uomo si è sostituita alla dimensione individuo, e si è articolata in
comune, sindacato, provincia, partito, regione. Tutto ciò ha modificato la
funzione dello Stato e della legge nei confronti dei gruppi, facendola di-
venire sempre più, da fattore che permeava di sé tutto, da fattore di domi-
nio e di controllo globale, un fattore di garanzia delle autonomie delle
società intermedie.
Questa è la società pluralistica, policentrica, nella nostra concezione;
questa è la moderna democrazia industriale nel nostro linguaggio. In uno
249
Stato moderno e democratico l’esaltazione, la espansione, l’incentivazio-
ne delle autonomie dei gruppi sociali diventano una funzione essenziale
e primaria; e la legge – in questa visione nuova – non si sovrappone, ma
ordina, contiene, espande i contenuti di questa autonomia.
In un suo discorso sulle regioni l’onorevole Dell’Andro diceva tra
l’altro: «Lo Stato democratico che sta sorgendo parte dal rispetto del-
l’uomo, della persona umana, degli organismi sociali intermedi e si rico-
nosce come sintesi dell’esperienza giuridica già realizzata dagli uomini.
Non crea ma riconosce e tutela il diritto».
Allora, ecco il primo falso problema: quello dell’antitesi contratto-
legge. Non vi è un problema di antitesi, ma se mai di esaltazione, di in-
centivazione, di rispetto della sfera di autonomia negoziale e contrattuale
che è la prima espressione dell’autonomia di un sindacato.
Non vale sostenere, con un sapiente giuoco di parole, che legge e
contratto si integrano, si coordinano, si intrecciano. I verbi non bisogna
sprecarli per confondere le idee. La legge deve incentivare l’attività con-
trattuale determinandone le condizioni di ampiamento del contenuto; la
legge deve stabilire le condizioni di quadro generale, non sovrapporsi o
invadere la sfera dell’autonomia dei sindacati pregiudicando irrimedia-
bilmente il loro potere negoziale.
Non si tratta perciò di fissare limiti alla sovranità dello Stato.
La Cisl non si è mai opposta allo strumento legislativo: si tratta solo
di vedere quale sia la funzione stimolante, sollecitatrice, di questo stru-
mento.
Cade perciò acconcio riferirsi alla richiesta fatta dalla Cisl sulla abro-
gazione degli articoli 2118 e 2119 del Codice civile e in via subordinata
sulla riforma degli articoli 2118 e 2120. Il governo può darci atto di que-
sto. E veramente sarebbe stata cosa assai più semplice. So che è contro-
versa, ad esempio, onorevole ministro, la teoria se la pura e semplice
abrogazione dei due citati articoli sia sufficiente a risolvere il problema.
Ma sono convinto che considerando il recesso ad nutum un istituto su-
perato, sarebbe stato assai più proficuo e più produttivo di effetti se il legi-
slatore avesse abrogato una norma superata dall’evoluzione sociale, la-
sciando ai sindacati la libertà di azione nel disciplinare il contenuto della
loro attività negoziale. È la Cisl che ha chiesto la riforma dell’articolo 2118
del Codice civile attraverso l’introduzione pura e semplice del giustificato
motivo, nonché la modifica dell’articolo 2120 sull’indennità di anzianità.
I casi in cui noi abbiamo chiesto l’intervento del legislatore riguarda-
vano infatti norme cadute in disuso. Non vi è alcun accordo sindacale
che possa abrogare una disposizione di legge; e appunto per questo non
vi è stata altra possibilità che l’intervento del legislatore.
Sotto questo profilo abbiamo dichiarato non vi è alcuna opposizione
da parte della Cisl, in linea di principio, all’intervento dello strumento le-
gislativo. Noi lo sollecitiamo, assegnandogli però una precisa funzione.
250
Mi si chiederà: allora l’opposizione a questa legge che si discute è di
specie? Se la Cisl non è contraria alla giusta causa in sé e per sé per via
contrattuale, se non è contraria allo strumento legislativo, purché abbia
una certa funzione, allora l’opposizione è di specie. A parte il fatto che,
come ho già detto, vi sono considerazioni di principio ed altre ve ne sa-
ranno anche quando svilupperemo le argomentazioni sulla giusta causa,
vorrei esaminare però un terzo ordine di considerazioni.
A che cosa serve questa legge? Che cosa realizza in bene o in male,
in concreto e in principio? Noi vogliamo legare il licenziamento ad un
fatto oggettivo, ad un fatto specifico, a una giusta causa; esaminiamo al-
lora l’utilità globale di questa legge, per trarne un giudizio. Cominciamo
dal piano giuridico.
È stato qui detto che quanto è disposto nell’articolo 3 per il giustifi-
cato motivo ingenererà grosse confusioni. Sono perfettamente d’accordo
sul fatto che tentare la specificazione della dizione «giustificato motivo»,
riservando questo tipo di accertamento al giudice (ad esempio, per quan-
to riguarda il «notevole inadempimento di lavoro»), implichi parecchi ri-
schi, anche perché l’autorità giudiziaria è un’autorità esterna al mondo
della azienda; nulla conosce di questo mondo, quindi la quantitativa del-
la consistenza dell’inadempimento diventa una politica cardine. Che co-
sa significa poi «notevole»?
Vediamo dunque l’articolo 4. Per quanto riguarda la nullità del licen-
ziamento determinato da motivi di credo politico o di fede religiosa, ho
l’impressione – non derivante da mie considerazioni, ma dedotta da
quelle esposte da altri colleghi – che si tratti di una pura e semplice enun-
ciazione di principio.
L’esperienza di quanti esercitano la professione del sindacalista ci
consente di affermare, innanzitutto, che non si è dato, non si dà e non si
darà mai il caso di un datore di lavoro che motivi un licenziamento con
considerazioni di quel tipo.
Giustamente è stato ricordato che si parla della sostanza, non della
motivazione formale; cioè si parla di licenziamento «determinato», non
«motivato». Benissimo! Allora, sì, che siamo veramente in presenza del-
l’onere della prova diabolica, che dovrà dimostrare che le ragioni che
hanno spinto e determinato il datore di lavoro a quel licenziamento non
sono quelle indicate ufficialmente nelle motivazioni, ma altre più sostan-
ziali. E noi dovremo fare tutto questo nel grado di lentezza inevitabile di
una procedura giudiziaria!
Per la seconda parte dell’articolo 4 mi limito a dire soltanto che si
tratta di una dichiarazione politica di carattere programmatico, su cui vi è
un parere della commissione affari costituzionali (che quanto meno va
tenuto presente) il quale non consente sulla perfetta liceità di tale dispo-
sizione, che trova la nostra opposizione per ragioni di principio.
Per l’articolo 12 mi limito a rilevare la gravità di cristallizzare per
251
legge il principio della discriminazione. Infatti non è utile né possibile
fare con legge le distinzioni che è possibile fare in via contrattuale.
Questo primo ordine di considerazioni ci dimostrano – ed io non ho
fatto che ricalcare alcuni dei motivi che sono stati qui addotti da coloro
che hanno portato delle obiezioni di carattere giuridico – che il disegno
di legge ha delle grosse mende e nella sua attuale formazione serve mol-
to poco ai lavoratori, se non addirittura risulta controproducente in talune
ipotesi per gli effetti che ne possono derivare.
Di fronte al nuovo, moderno e di gran lunga complesso modo di or-
ganizzarsi e di esprimersi dell’autorità imprenditoriale, il ruolo e la pre-
senza del gruppo dei lavoratori nelle strutture produttive ed organizzati-
ve delle imprese assumono nuove caratteristiche e nuove prospettive.
Cioè: l’autorità del grande imprenditore – ecco il punto assai delicato, il
punto centrale di tutta questa argomentazione – è difficilmente suscetti-
bile di limitazioni e controlli efficaci sul piano giuridico formale. Non è
valso l’azionariato di tipo tedesco, non varrebbe l’istituzionalizzazione
del sindacato e delle commissioni interne: non è questo che riequilibra il
potere del grande imprenditore. L’unico grande potere reale che può con-
cretamente, dinamicamente contrapporsi alla vera e propria sovranità
dell’imprenditore è quello del sindacato, non in sé e per sé considerato,
ma in quanto agente contrattuale; si badi però, di un sindacato non muti-
lato, non politicamente asservito, non evirato del suo potere contrattuale
ma dotato della grande arma moderna del contratto collettivo. È quello
che avviene nei paesi anglosassoni.
Qualcuno dirà: ma noi siamo ancora in uno stato di grande arretratez-
za, in quello di una società che lentamente esce dalla scorza di società
agricola. Ma proprio perché la nostra diventa sempre più una società in-
dustriale, ha il diritto di ragionare in termini moderni, e non avveniristici.
In base a tali considerazioni risulta evidente che con questo disegno
di legge ci rivolgiamo in una direzione che non è quella dell’avvenire,
ma continuiamo per una strada tradizionale, che si adeguava alla società
agricola di ieri ma che non si adatta a una moderna società industriale.
Temo che approvando il disegno di legge, incoraggeremo una ten-
denza, diffusa purtroppo nel paese, a illudersi che tutto si possa risolvere
con una legge.
Mi domando: tutto ciò è educativo per i lavoratori? Crea in essi la
chiara coscienza delle dimensioni reali del problema? Secondo me certa-
mente no. Serve questa legge a riequilibrare il potere dell’impresa, a dare
sbocco adeguato alla crescente conflittualità? No certamente! Serve solo
ad affidare a qualcuno che è esterno all’impresa, a qualcuno che non co-
nosce niente dell’impresa la soluzione di questi casi.
Anche alla base della posizione che contestiamo v’è una deformazio-
ne giuridicistica, purtroppo assai diffusa. L’articolo 39 è il frutto di que-
sto tipo di deformazione giuridicistica nella valutazione del fenomeno
252
sindacale perché i costituenti, sì, dettero la libertà al sindacato con l’arti-
colo 39 della Costituzione, ma nel momento in cui davano la libertà al
sindacato non si accorsero di subire la deformazione della concezione
giuridicistica del sindacato, che non è neppure una deformazione propria
del periodo fascista, ma è propria di tutta una concezione, dell’attività
sindacale alla cui influenza i costituenti non si sottrassero. Ebbene, non
vogliamo questo tipo di sindacato. Siamo contrari al disegno di legge
perché esso fa più danno che bene, perché non serve a nessuno: non ai la-
voratori, non ai sindacati, non alla società pluralistica quale noi la conce-
piamo, non alla democrazia italiana. È stato detto da qualcuno che in
questa battaglia noi sindacalisti della Cisl siamo soli, quasi ciò signifi-
casse che noi abbiamo torto, e come se la ragione o il torto fossero una
questione di numero. Questa solitudine non ci preoccupa, perché noi sin-
dacalisti della Cisl siamo stati sempre soli, almeno agli inizi. Siamo stati
soli quando abbiamo ritenuto nostro dovere (e abbiamo preso questa de-
cisione con vivo rammarico) dare una dimensione nuova al sindacato e
offrire alla classe lavoratrice una diversa alternativa, consapevoli che
questo pur doloroso sacrificio andava compiuto nel nome dei lavoratori
italiani. Siamo stati soli quando abbiamo elaborato la teoria della con-
trattazione articolata; soli e derisi, in quanto si è per molti anni ironizzato
su questo nostro atteggiamento. Noi abbiamo saputo aspettare e dopo al-
cuni anni abbiamo assistito alla disputa per l’attribuzione della paternità
della contrattazione articolata, che un po’ tutti hanno voluto rivendicare a
sé per menarne vanto.
Non ci preoccupa dunque il fatto di essere soli anche oggi. L’impor-
tante è che alla nostra solitudine corrisponde una grande serenità di spiri-
to e la nostra piena consapevolezza di difendere anche in questa occasio-
ne i lavoratori.
In questo periodo, onorevoli colleghi, si cerca di costruire faticosa-
mente l’unità sindacale; ma io sono convinto che tale unità non può esse-
re ricostruita sugli errori propri del periodo anteriore al 1948. È una unità
che deve superare la subordinazione dei sindacati ai partiti e deve passa-
re attraverso la verifica dei grandi temi della collocazione del sindacato
nella società, del tipo di società che noi vogliamo, del rapporto tra so-
cietà e Stato che intendiamo instaurare, del modo di riequilibrare il pote-
re imprenditoriale all’interno delle imprese. Queste sono le grandi verifi-
che attraverso le quali passa l’unità sindacale.
L’unità sindacale potrà essere verificata e consacrata a condizione
che l’autonomia e la libertà, che tutti qui diciamo di onorare, siano servi-
te non astrattamente, attraverso espressioni puramente generiche e con-
cettuali, ma in concreto, attraverso l’ossequio pratico nella realtà quoti-
diana a questo tipo di impostazione.
253
Luigi Borghi
Carlo Borra
255
sciopero non esista in Italia, con tutti gli scioperi in atto, con tutte le ma-
nifestazioni che accompagnano gli scioperi stessi. È vero, non possiamo
lamentare che nel nostro paese manchi ufficialmente la libertà di sciope-
ro, la libertà di manifestare, né mancano indubbiamente le manifestazio-
ni di piazza a sostegno di questa libertà. Non ho timore di dire che forse
queste manifestazioni sono anche troppe e possono talvolta dare allo
sciopero un carattere non voluto. Ma perché ci sono queste manifestazio-
ni? Spesso esse sono effettuate per protestare contro quel che avviene
dietro alla facciata di una ufficiale libertà di sciopero impedita di fatto
nelle aziende; esse sono la reazione a tutta una serie di pressioni, di inti-
midazioni antisindacali che si attuano nell’azienda e che trovano nel li-
cenziamento di rappresaglia la loro espressione peggiore.
Sappiamo anche che l’opinione pubblica resta più impressionata
spesso da esasperazioni che possono avvenire durante lo sciopero fuori
dell’azienda, magari da disordini dovuti a elementi che nulla hanno a che
fare con le agitazioni operaie, che non dalle pressioni, dai ricatti e dalle
minacce che avvengono invece nel chiuso della fabbrica e che quindi l’o-
pinione pubblica non conosce.
Vorrei precisare che non è mio intendimento giustificare violenze e
atti di prepotenza limitativi della libertà di lavoro. Ritengo però doveroso
ricordare che certi metodi padronali stimolano reazioni incontrollate, e
come sia logico che fra i lavoratori si cerchi una solidarietà tendente a
contrastare il fine padronale, che indubbiamente è quello di indebolire,
così, la forza contrattuale dei sindacati.
Vorrei ancora rilevare che, se noi riconosciamo la logica di una pre-
senza delle forze dell’ordine, come avviene durante gli scioperi, per fre-
nare ogni intemperanza a garanzia della libertà di tutti – anche di coloro
che vogliono lavorare – in adempimento di un loro difficile dovere, al
quale in questo senso va tutto il nostro rispetto (pur se pensiamo che
massicce mobilitazioni di forze pubbliche possano talvolta solo esaspe-
rare gli animi), dobbiamo sottolineare che questa presenza sta a confer-
mare una differenza di trattamento a garanzia della libertà di sciopero e
della libertà di lavoro. A garantire la libertà di lavoro fuori dell’azienda
ci sono le forze dell’ordine; a garantire la libertà di sciopero dentro l’a-
zienda da minacce, da ricatti e da rappresaglie non ci sono le forze del-
l’ordine, e gli uomini di punta del sindacato, che cercano di reagire a
queste situazioni, sono licenziati.
Ecco la realtà incontestabile, che conferma la gravità della situazione
da questa legge denunziata. In questo senso – a parte se sia o no indovinato
lo strumento legislativo, se sia o no efficace il disegno di legge qui propo-
sto – credo che vada sottolineata la volontà politica del governo, che dimo-
stra con questa iniziativa di comprendere la situazione, di volerla porre al-
l’attenzione del paese e di voler dare migliori garanzie ai lavoratori.
Fatta questa per me doverosa premessa, debbo dire che non mi sem-
256
bra dubbio che l’iniziativa legislativa interferisca in un’area che è soprat-
tutto di competenza sindacale.
Il sindacato ha il compito di tutelare il lavoratore nei suoi rapporti
aziendali sotto ogni aspetto. È una tutela proiettata dinamicamente, in
termini di progresso delle condizioni di vita del lavoratore e della sua
stessa promozione sociale. In tal senso, è condizione indispensabile che
il sindacato possa agire liberamente, con responsabilità, ma autonoma-
mente; non limitato né imbrigliato da norme legislative, condizionate
spesso al rispetto della forma più che della sostanza, e tali da consolidare
posizioni statiche di fronte alla indispensabile carica innovativa dell’a-
zione sindacale. Cosa evidente in una legge di questo genere, dove la
«forma» che può giustificare la giusta causa può essere in netto contrasto
con la realtà di fatto.
È la mia, quindi, un’opposizione prevenuta contro qualsiasi legge
che tocchi la sfera degli interessi dei lavoratori? Personalmente, ritengo
che lavoratori e sindacati non debbano temere aprioristicamente una leg-
ge che sia veramente positiva e valida nell’interesse dei lavoratori. In
una società democratica pluralistica, soprattutto se rapportata ad una vi-
sione sociale cristiana, sindacati e partiti sono pur sempre strumenti al
servizio dell’uomo, della persona umana, strumenti che nel portare avan-
ti le esigenze della persona umana, nella sfera di loro competenza (e ciò
per il sindacato significa promozione a tutti i livelli della classe lavoratri-
ce) si servono di tutti i mezzi costituzionalmente idonei. E se il primo
mezzo per il sindacato rimane indubbiamente la contrattazione diretta,
non mi sentirei in una democrazia parlamentare di rifiutare l’apporto le-
gislativo, frutto della massima espressione democratica del paese.
Ma è altresì certo che se la legge è in contrasto con l’autonoma azio-
ne del sindacato, investendo la sfera di sua diretta competenza, allora es-
sa va portata avanti previa consultazione e accordo con i sindacati, cosa
che nella fattispecie non è avvenuta. Bisogna considerare la necessità,
soprattutto per un governo come quello attuale, di non pregiudicare l’in-
tervento del sindacato, limitandone di fatto un’autonoma azione. In que-
sto senso, per la Cisl – che è certamente l’organizzazione più sensibile
all’autonomia sindacale – questo disegno di legge pone grosse preoccu-
pazioni, per i princìpi che investe e per le conseguenze che prospetta; an-
che se è già stato qui ricordato (e non voglio ripeterlo) che la Cisl non è
contraria ad affrontare anche legislativamente la disciplina del licenzia-
mento ad nutum, con la modifica dell’articolo 2118 del Codice civile.
Che cos’è la giusta causa secondo questo provvedimento? L’articolo
2 stabilisce che l’imprenditore deve comunicare per iscritto il licenzia-
mento al prestatore di lavoro, e che il prestatore di lavoro può chiedere i
motivi che hanno determinato il licenziamento, motivi che il datore deve
dare pure per iscritto. L’articolo 5 stabilisce che l’onere della prova della
sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento
257
spetta al datore di lavoro. Ebbene, se raffrontiamo queste disposizioni
con quelle contenute nell’accordo sindacale del 29 aprile 1965, ci accor-
giamo che esse sostanzialmente non dicono niente di più di quanto è già
scritto in quell’accordo, anzi ne derivano conseguenze negative che cer-
cherò di chiarire meglio dopo.
Così questo provvedimento non offre nessuna garanzia in più rispetto
a quelle dell’accordo sindacale citato circa le conclusioni della procedura.
Se rimane accertata la mancanza della giusta causa nel licenziamento e
quindi la ragione del lavoratore, con questo provvedimento si chiede la
riassunzione del lavoratore licenziato, ma si prevede subito in alternativa
il pagamento di una penalità sostitutiva: questo perché si sa che difficil-
mente potrà verificarsi la riassunzione. In questo si ricalcano le orme del-
l’accordo sindacale, si dirà, ma con l’aggravante che si viene a legalizzare
di fatto, con legge, un licenziamento avvenuto anche senza giusta causa o
giustificato motivo. L’accordo lascia impregiudicata la possibilità di una
energica azione sindacale, che viceversa la legge limita e imbriglia.
Un’altra affermazione di principio notevole della legge è quella conte-
nuta nell’articolo 4, che dichiara nullo a tutti gli effetti il licenziamento de-
terminato in modo diretto o indiretto da motivi di credo politico o fede re-
ligiosa, dall’appartenenza ad un sindacato, dalla partecipazione ad attività
sindacale. Anche qui però rischiamo di restare nel campo delle afferma-
zioni generiche o di principio. È stato già detto che nessun licenziamento
viene ufficialmente giustificato da questi motivi inerenti al credo politico,
alla fede religiosa o all’appartenenza ad un determinato sindacato. E che
valore può avere quel «modo indiretto», qui ricordato ma non precisato,
che indubbiamente ha la sua importanza in un contesto di questo genere?
Qui mi si permetta un inciso. Vorrei ricordare un episodio che è stato
oggetto di una interrogazione da me presentata circa quindici giorni fa
sui licenziamenti avvenuti alla Fiat e alla Riv. Si trattava del caso di un
membro di commissione interna licenziato con motivi speciosi, per una
attività extra-aziendale, cioè in pratica perché svolgeva attività sindacale,
durante uno sciopero, come del resto è proprio di un membro di commis-
sione interna. È chiaro che un licenziamento di questo genere dovrebbe
rientrare nella fattispecie dei licenziamenti determinati in modo indiretto
dalla partecipazione all’attività sindacale, anche se i motivi portati a giu-
stificazione sono altri. Ma a chi tocca stabilire questo riferimento al
«modo indiretto»? Quale sarà l’osservatore neutrale che potrà ciò garan-
tire, come chiede il sindacato?
Ho lamentato, quando venne data risposta alla mia interrogazione,
onorevole ministro, che in quella occasione fosse stato riportato solo il
comunicato della direzione, che si rilevava negativo per i lavoratori. Ho
lamentato questo fatto proprio per richiamare l’attenzione del ministero
sulla necessità di pretendere dai suoi organi periferici relazioni obiettive,
non condizionate e non burocratiche.
258
Un’altra osservazione vorrei fare a favore dell’accordo sindacale: e
cioè che la procedura dell’accordo sindacale, in termini di tempo, è infe-
riore a quella della legge. Infatti l’applicazione della legge impone ne-
cessariamente tutta una regolamentazione burocratica di scadenza ed è
condizionata anche dalla carenza numerica dei magistrati. Tutto ciò si-
gnifica avere vertenze lunghe, periodi di incertezza; cosa che è peggiore
di eventuali rapide conclusioni negative.
Qualcuno potrebbe osservare che un accordo sindacale – mi pare sia
stato già osservato – vale solo per le parti contraenti, mentre una legge
vale per tutti. Mi auguro che non sia un sindacalista ad affermare ciò.
Certamente, una legge deve valere per tutti, guai se non fosse così. Ma
una legge di questo genere, di fronte alla constatazione che i lavoratori
non possono avere la loro vera garanzia di tutela che nella libertà ed au-
tonomia del sindacato (e tutto il periodo fascista, in cui la tutela era per
legge, insegna) non deve favorire un assenteismo sindacale, dando fitti-
zie garanzie a tutti, ma svuotando l’effettiva garanzia che può venire solo
dalla forza del sindacato. E questo pericolo, con questa legge, c’è.
La verità è che una legge in questo campo non può dare più di quanto
può dare un accordo. Può solo limitare la libera autonoma azione del sin-
dacato.
Esaminiamo per esempio il tanto discusso articolo 3. Sappiamo cosa
può significare «giustificato motivo», collegato a ragioni produttive od
organizzative dell’azienda. In questa enunciazione c’è posto per tutto:
qualunque riorganizzazione interna può essere motivo per licenziare,
quando non si voglia tener conto dei giusti diritti dei lavoratori e prende-
re lo spunto proprio da essi. Nessuno può negare, tuttavia, che una rior-
ganizzazione non possa esigere obiettivamente licenziamenti. È chiaro
che, di fronte ad una contestazione di questo genere, sarà difficile per un
lavoratore trovare nella legge un’adeguata tutela.
Esaminiamo l’articolo 9, a norma del quale, anche se è provato che
non esiste giusta causa, si applica una penalità, ma non vi è l’obbligo as-
soluto di riassumere al lavoro. È possibile modificarlo in meglio? Io cre-
do che sostanzialmente non sia possibile.
Ecco perché questa legge, a parte i motivi di fondo sollevati dalla Ci-
sl, suscita perplessità e preoccupazioni. Resta dimostrato che essa contie-
ne ottime enunciazioni, senza però precise garanzie, con il rischio abba-
stanza comprovato di un freno, di una limitazione all’azione autonoma
del sindacato.
Nerino Cavallari
Il discorso su uno Statuto dei diritti dei lavoratori nelle fabbriche e quin-
di su tema della giusta causa o giustificato motivo sui licenziamenti indi-
259
viduali risale ancora al 1951 e fu svolto in varie sedi sindacali, politiche
e culturali per dimostrare la costante violazione della Costituzione attra-
verso l’applicazione di norme di legge incompatibili con lo spirito e il
dettato della Costituzione stessa.
Alla fine del 1964, il ministero del Lavoro inviava a tutte le organiz-
zazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro un questionario sul-
lo Statuto dei diritti dei lavoratori, cui la Cgil e la Uil rispondevano posi-
tivamente, mentre la Cisl si opponeva con motivazioni di principio: in-
fatti, essa precisava che, pur non nutrendo preconcette e dogmatiche osti-
lità nei confronti degli strumenti di tutela legislativa dei lavoratori allor-
quando il ricorso a tali strumenti si rilevi indispensabile per il persegui-
mento di un interesse generale pubblico assunto dallo Stato in quanto ta-
le, il rifiuto della Cisl ad accedere a soluzioni generali meramente forma-
listiche dei problemi inerenti al rapporto di lavoro discende da una con-
vinta e ragionata adesione e preferenza al metodo contrattuale. La Cisl
affermava di non disconoscere l’opportunità di modificare in senso più
favorevole alle esigenze di stabilità del lavoratore l’attuale disciplina del
recesso ad nutum, quale essa è precisata e prevista dall’articolo 2118 del
Codice civile. La Cisl si presentava perciò disponibile alla discussione
della revisione dell’articolo 2118 del Codice civile, ma era più favorevo-
le a risolvere il problema definitivo attraverso una contrattazione.
Non può quindi sorprendere alcuno se oggi, mentre discutiamo il di-
segno di legge che tratta delle norme sui licenziamenti individuali per
giusta causa, i deputati della Cisl, come lo è chi parla, manifestano le lo-
ro perplessità e i loro dissensi. È pur vero che non è facile convincere i
lavoratori, soprattutto quelli sprovvisti di tutela contrattuale, della bontà
del nostro atteggiamento, però siamo certi che ancora una volta il tempo
darà ragione a noi: difendere le ragioni di principio, anche se in questa
circostanza sappiamo di essere in pochi e si corre il rischio di non essere
compresi dagli stessi lavoratori per i quali ci battiamo, è manifestazione
di coraggio, di coerenza e di fedeltà alle ragioni che ci hanno spinto a
creare nel nostro paese il libero sindacato; ragioni che da tutti dovrebbe-
ro essere apprezzate, anche se non condivise.
Nonostante questa realtà, la mia coscienza, pur con alcune perples-
sità, mi spinge ad esprimere il mio dissenso. È vero altresì che molti la-
voratori lamentano le gravi sperequazioni normative e salariali esistenti
tra categoria e categoria e all’interno della stessa categoria, tanto che
possiamo ben dire che, se si sono attenuate, forse troppo attenuate per
noi cristiani, le divisioni ideologiche esistenti nel mondo del lavoro, al
punto che alcuni ritengono giusto il momento di riparlare di una nuova
unità sindacale organica, è altrettanto vero che i lavoratori sono oggi, più
di ieri, fortemente divisi dalle notevoli differenze sociali-economiche
esistenti, tanto che li possiamo considerare divisi in varie caste più o me-
no privilegiate, a seconda che i lavoratori operino in questo o in quel set-
260
tore. Ed è naturale che si appellino alla legge per tentare di ottenere più
equa ripartizione del reddito nazionale e migliore distribuzione delle
conquiste contrattuali e sociali.
Purtroppo i sindacati di categoria non sempre sentono il solidarismo
di classe, al punto che oggi assistiamo al grave fenomeno che chi crea la
vera ricchezza non solo economica del nostro paese è spesso posto in
condizioni di guadagnare meno, di avere meno sicurezza nel presente e
nel futuro rispetto a coloro che offrono alla comunità nazionale soltanto
servizi. È forse anche questa ingiustizia che allontana dal sindacato mol-
ti, troppi lavoratori e li spinge a rivolgersi ad altre sedi, come quella legi-
slativa, per ottenere riconosciuti i loro diritti.
Sappiamo che vi sono questi stati d’animo; e le mie perplessità nel
dover respingere le soluzioni proposte dal disegno di legge in esame de-
rivano dal conoscere le condizioni in cui oggi si vengono a trovare molti
lavoratori italiani. Ma il mio atteggiamento critico è basato su questioni
di principio, poiché sono convinto che non si risolveranno i problemi che
la legge vorrebbe risolvere; perché si accentuerà la sfiducia dei lavoratori
verso il sindacato, si darà una ulteriore forza al padronato per resistere
alle giuste istanze sindacali, perché si creano demagogicamente nei lavo-
ratori speranze che poi saranno brutalmente deluse con grave nocumento
per tutti, accrescendo la sfiducia verso lo Stato democratico. Sono con-
trario altresì perché chi sarà licenziato ingiustamente non ritornerà più al
suo posto di lavoro, in quanto prima di riscuotere il risarcimento dell’e-
ventuale danno patito e riconosciuto dovrà attendere che la procedura
giudiziaria sia esaurita, il che significa dover attendere anni, rafforzando
così ancor più il padronato che, come sappiamo bene, premerà sul lavo-
ratore affinché accetti una transazione, qualunque essa sia, e alla fine
sarà il lavoratore che dovrà capitolare.
Se poi il padrone utilizzasse il metodo di licenziamento con due o tre
lavoratori invece di uno, tutta l’impalcatura legislativa verrebbe a cadere.
Questo obiettivo potrebbe essere conseguito facilmente dal datore di la-
voro.
In mille circostanze le tesi sostenute e portate avanti dalla Cisl non
furono subito comprese dalla grande massa dei lavoratori e furono avver-
sate da altre centrali, che non erano soltanto sindacali. Però esse si sono
poi dimostrate le uniche valide per avviare a concreta soluzione i proble-
mi della classe lavoratrice italiana.
Ciò accadrà anche per l’atteggiamento di critica e di perplessità che i
deputati della Cisl vanno sostenendo contro il disegno di legge ora al no-
stro esame. Dovremmo ancora una volta rivolgerci al mondo del lavoro
affinché abbia a comprenderci. Bisogna dire ai lavoratori che questa leg-
ge non risolve il problema del licenziamento per rappresaglia, che non si
limita a correggere il principio del recesso ad nutum, ma contiene una
più articolata disciplina sul piano sostanziale e processuale tale da creare
261
delicati problemi di collegamento e di conciliazione con la vigente disci-
plina contrattuale. Bisogna ancora dire che una rigida disciplina unifor-
me del licenziamento individuale può tradursi in una remora dell’occu-
pazione, in un periodo in cui il mercato del lavoro registra ancora sensi-
bili fenomeni di squilibrio. L’appesantimento normativo ed economico
della risoluzione del rapporto di lavoro e delle sue procedure, come bene
ha qui ricordato l’onorevole Greggi, che il progetto inevitabilmente in-
troduce, rischia di produrre effetti negativi sulla occupazione in atto, so-
prattutto sui nuovi occupandi. E questo soprattutto quando sempre più
necessaria si profila l’esigenza di attuare una politica più dinamica ed at-
tiva dell’impiego della manodopera.
La rappresaglia, la discriminazione, il padrone può sempre farla; e
soprattutto può farla nell’atto dell’assunzione del lavoratore. E se poi un
padrone vuole licenziare un lavoratore, non c’è barba di legge o di accor-
do sindacale che possa impedirlo: il lavoratore verrà licenziato, a meno
che lo spirito di solidarietà dei suoi colleghi non sia tale da porre in agi-
tazione con scioperi massicci tutta l’azienda, come in qualche caso si è
fatto con esito positivo. È questa capacità del lavoratore ad autodifender-
si che può impedire certe ingiustizie.
Dopo l’approvazione di questa legge, stante la rimessione al giudice
ordinario dell’azione di accertamento delle cause di licenziamento, forse
ci sarà impedito anche di scioperare e di difendere immediatamente an-
che quel lavoratore che, ingiustamente licenziato, abbia chiesto giustizia
attraverso l’azione sindacale della fabbrica.
Però quello che maggiormente ci fa esprimere riserve e perplessità su
questo disegno di legge, che vuole una articolata regolamentazione legi-
slativa dei licenziamenti individuali, è la preoccupazione di vedere il sin-
dacato ridotto ad un ruolo marginale in una materia che, per la sua va-
rietà e complessità, meglio si prestava ad una più duttile e differenziata
disciplina attraverso i contratti di lavoro.
Onorio Cengarle
262
Il nostro ordinamento giuridico configura il rapporto di lavoro quale
negozio giuridico bilaterale da cui consegue la nozione di rapporto di la-
voro a carattere privatistico in quanto le parti in causa, lavoratore ed im-
prenditore, basano i rapporti reciproci sulla coscienza, conoscenza ed
esplicazione di doveri e di diritti ben configurati e precisati da libera, au-
tonoma determinazione delle parti stesse. Tale concetto si è esteso de fac-
to mutandosi, da negozio giuridico bilaterale personale in negozio giuridi-
co bilaterale collettivo in seguito al conseguimento di sempre maggiore
rappresentatività dei sindacati in quanto associazioni portatrici di interessi
specifici di categoria. Il rapporto di lavoro continua comunque ad essere
un fatto negoziale e contrattuale liberamente e autonomamente accettato
dalle parti contraenti, salvo il caso ovviamente del rapporto di pubblico
impiego che ha carattere e sostanza completamente diversi.
Nell’ordinamento giuridico italiano si riscontra l’accentuazione dello
stato di inferiorità del lavoratore nei confronti dell’imprenditore: ciò è
spiegabile con ragioni storiche, ma non è accettabile né socialmente né
economicamente.
La possibilità di una effettiva tutela dei lavoratori nei confronti del li-
cenziamento individuale per via legislativa non è da ritenersi raggiungi-
bile in quanto sarebbe necessario modificare il concetto di rapporto di la-
voro, trasformandolo da fatto negoziale in imposizione di rapporti rigidi
precostituiti, il che contrasta con le più elementari leggi economiche. Lo
strumento legislativo, per sua natura rigido e schematico, non può adat-
tarsi – o lo può con estrema difficoltà e con ritardo – alla mutabilità delle
condizioni economiche ambientali particolari e generali che via via si
presentano nella realtà.
L’intervento legislativo mortifica il sistema contrattuale ed anzi
svuota di contenuto e di valore tutta l’azione sindacale, con ciò ottenen-
dosi l’eliminazione pratica dei cosiddetti organi intermedi, che non
avrebbero ragione di esistere se lo Stato dovesse recepire e trasformare
in legge i risultati della loro attività.
Sul piano sindacale tale pericolo è grave ed immediato, ma altrettan-
to sembra esserlo anche sul piano politico in quanto lo Stato assumereb-
be compiti e responsabilità proprie di particolari settori della società ma
non di tutta la società; travisamento completo quindi della stessa corretta
concezione dei compiti dello Stato. Altri Stati – ma sono pochi – hanno
adottato provvedimenti legislativi limitativi del potere di licenziamento
da parte dell’imprenditore. In Austria, alcune disposizioni di legge limi-
tano la libertà di licenziamento da parte dell’imprenditore dei membri ed
ex membri di un consiglio di impresa, e vietano il licenziamento quando
esso costituisca una crudeltà sociale e non sia motivato dalla situazione
dell’impresa.
In Brasile, un salariato con più di dieci anni di anzianità non può es-
sere licenziato che per colpa grave o in caso di forza maggiore.
263
In Francia, per procedere al licenziamento è necessaria anzitutto una
autorizzazione del servizio dipartimentale della mano d’opera. Il Code
du travail, nel disciplinare l’interruzione del contratto di lavoro a durata
indeterminata, fissa alcune clausole sul licenziamento dei salariati, im-
piegati ed operai. La legge 11 febbraio 1950 stabilisce che i contratti col-
lettivi devono regolare le condizioni di legittimità dei licenziamenti indi-
viduali.
In Germania, la legge 10 agosto 1951 stabilisce che la denuncia di un
rapporto di lavoro nei confronti di un lavoratore il quale è occupato da
più di sei mesi, senza interruzione, nella medesima azienda o impresa e
ha compiuto il ventesimo anno di età, è giuridicamente inefficace se è
socialmente ingiustificata. La denuncia del rapporto di lavoro si deve
considerare socialmente ingiustificata se non è determinata da ragioni
inerenti alla persona o al comportamento del lavoratore, ovvero da ur-
genti esigenze aziendali le quali contrastino con la prosecuzione dell’oc-
cupazione del lavoratore nell’azienda in questione.
In Olanda, quando il licenziamento viene ritenuto dal giudice mani-
festamente ingiusto, perché è stato effettuato senza giusti motivi o perché
il lavoratore era stato chiamato in servizio militare, o quando il licenzia-
mento è avvenuto senza tenere conto di regolamenti e di consuetudini, il
giudice può imporre al datore di lavoro indipendentemente dalla conces-
sione di un risarcimento o di una indennità, l’obbligo di ripristinare il
rapporto di lavoro.
Vorrei esaminare anche alcune norme che riguardano i paesi a regime
comunista, ma credo che il confronto sia improponibile, per il fatto che,
mancando la libertà in quei paesi, il sindacato diventa organismo di par-
tito e quindi per i lavoratori non si pone solo il problema del licenzia-
mento e della disoccupazione, che pure esiste, ma anche quello del lavo-
ro ad ogni costo, anche forzato, quando non si obbedisce alle ferree leggi
comuniste.
Riassumendo, solo in pochi Stati vi sono norme legislative che limi-
tano i licenziamenti individuali. Ritengo di non dovermi soffermare ad
esaminare la legislazione vigente in materia negli Stati come la Rau, Li-
bia, Costarica, Guatemala, Honduras, Spagna, perché è vero che vi sono
disposizioni che vietano i licenziamenti non giustificati, ma è altrettanto
vero che in quei paesi la legge viene ignorata, anche perché non vi sono
sindacati forti, capaci di tutelare i lavoratori. Dal che si può arguire che si
ricorre alla legge in quei paesi dove il sindacato è debole o non è libero
perché soggetto a questo o a quel regime dittatoriale. Nella maggioranza
degli altri Stati dove il sindacato è forte, la regola è che la materia viene
trattata, discussa ed elaborata dalle organizzazioni sindacali.
Lo Stato meglio consoliderebbe la garanzia economico-sociale che
con questa legge vuol fornire al lavoratore lasciando ai gruppi sociali,
nel rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento democratico, di auto-
264
governarsi anche laddove il rapporto paritario tra soggetti, dal punto di
vista economico e sociale, è sfavorevole al lavoratore. Tra le ragioni che
ispirano questo nostro atteggiamento va sottolineato il pericolo che una
rigida disciplina uniforme dei licenziamenti si traduca in una remora del-
l’occupazione, in un periodo in cui il mercato del lavoro, a seguito della
sfavorevole congiuntura, presenta fenomeni preoccupanti.
Se questo disegno di legge verrà approvato, si determinerà una inde-
bita e non richiesta interferenza del potere legislativo in una sfera di
competenze sindacale. Stabilito questo principio, esiste il pericolo che
tra non molto il Parlamento sia chiamato a deliberare anche su altri pro-
blemi che interessano il movimento sindacale.
Oggi si dice che il Parlamento è chiamato a migliorare con legge gli
accordi sindacali vigenti. Dato e non concesso che sia vero, chi ci assicu-
ra che un domani, per altre esigenze, il Parlamento non sia chiamato in-
vece a pronunciarsi anche contro alcune conquiste sindacali che oggi i
lavoratori hanno? Una volta creato il precedente, la strada è libera, ed io
credo di essere facile profeta prevedendo tra non molto discussioni e de-
cisioni sulla libertà di sciopero, sul riconoscimento giuridico dei sindaca-
ti eccetera. Ecco perché non sono né posso essere in coscienza favorevo-
le a questo disegno di legge.
Carlo Ceruti
265
astratta ed illusoria che ha finito nella trattativa sui licenziamenti con
l’imporsi alla controparte, di cui ben nota era la ritrosia rispetto all’aper-
tura del dialogo, agli altri sindacati, alla Cgil in particolare, contraria a
certi negoziati. La negoziazione ha consentito di raggiungere quei risul-
tati che possono giustamente considerarsi uno dei traguardi più notevoli
della vicenda sindacale contrattuale di questi ultimi anni.
La presentazione di questo disegno di legge governativo in Parla-
mento e la discussione che su di esso si sta svolgendo, hanno finito per
turbare, e forse rischiano di compromettere quella positiva atmosfera di
dialogo, dalla quale sono nati gli accordi sui licenziamenti e sulle com-
missioni interne e dalla quale i sindacati, e la Cisl in particolare, si ripro-
mettono il conseguimento di altri importanti risultati contrattuali.
Sorprende la scarsa fiducia dei sindacalisti della Cgil nel ruolo e nel
potere del sindacato. Bisogna infatti dire con chiarezza ai lavoratori che
il disegno di legge governativo non offre loro maggiori garanzie di quan-
to già non prevede l’attuale accordo e sottrae invece tutta la materia dei
licenziamenti alla competenza del sindacato. Chi vuole la legge vuole
che il sindacato rinunci alle proprie prerogative e al proprio potere d’ini-
ziativa sul recesso del rapporto di lavoro da parte dell’imprenditore. Chi
vuole la legge pregiudica i futuri traguardi dell’azione sindacale.
Ci si può chiedere in quale misura l’esistenza di diverse ideologie po-
litiche possa influire sulla determinazione di una concezione intesa ad at-
tribuire allo Stato la definizione e la soluzione di problemi che appaiono
per la loro natura più pertinenti alla società e, in essa, a determinati corpi
intermedi. In verità, per quanto possa essere sorprendente, nessuna ideo-
logia politica di per sé pregiudizialmente è fautrice di questa tendenza.
Forse solo gli ortodossi interpreti di uno Stato liberale di vecchia ma-
niera potrebbero sostenere la totale regolamentazione degli interessi della
società nell’ambito dello Stato. Quando si mandavano i lavoratori nell’In-
ghilterra a morire, in Australia nel 1826 si poteva sostenere una regola-
mentazione di questo tipo! Tutte le altre concezioni politiche ed ideologi-
che definiscono rapporti più flessibili tra la società o lo Stato. In partico-
lare nel pensiero cattolico il ruolo dei corpi intermedi è sempre stato po-
sto in evidenza rispetto a quello dello Stato. Nella società pluralistica i va-
ri gruppi sociali hanno un vasto campo in cui operare. In questo campo il
sindacato si pone come agente contrattuale ed il suo ruolo non può esau-
rirsi con la stipula del contratto, ma deve estendersi all’amministrazione
del contratto stesso, che solo può garantire il sensibile, continuo adegua-
mento dei contenuti contrattuali alle mutevoli esigenze della realtà.
Neppure il pensiero socialista ha mai aspirato a risolvere i problemi
della società nello Stato. Stato e società sono sempre stati valutati come
elementi dialettici. Nella concezione leninista lo Stato è il prodotto inevi-
tabile di una società divisa in classi. Il proletariato come classe dominan-
te si avvarrà dello Stato per liquidare i residui del capitalismo; poi lo Sta-
266
to, concepito come organizzazione della violenza per reprimere una certa
classe, dovrà estinguersi e il potere rimarrà alla classe proletaria.
I comunisti nostrani (e questo è veramente il capolavoro nuovo nella
concezione comunista del dialogo) insistono invece nell’affidare ad uno
Stato che essi dovrebbero considerare borghese (e considerano tale) il
compito di difendere gli interessi dei propri associati. Non si può che
trarne una conclusione, e cioè che il Partito comunista ritiene che uno
Stato borghese meriti più fiducia e abbia più poteri di quanto non meriti
fiducia e abbia poteri un’autonoma organizzazione di classe come la
Cgil. È vero per altro che si fa spesso confusione tra sociale e pubblico,
una confusione che come già nel passato, non giova oggi allo Stato, ai
cittadini e allo sviluppo democratico.
Quanto poi al fatto che non può ritenersi giustificato motivo di licen-
ziamento l’espressione di motivi politici o religiosi, l’affiliazione a un
sindacato o la partecipazione all’attività sindacale, ragioni queste tutte
previste anche nell’accordo interconfederale sui licenziamenti, non si ve-
de come al riguardo la legge possa portare una tutela maggiore. A pre-
scindere dalla considerazione ovvia che nessun datore di lavoro nella
motivazione, anche se nella realtà è stato diversamente, ha dichiarato
mai di aver licenziato i lavoratori espressamente per ragioni sindacali,
religiose o politiche, ed ha trovato sempre motivi di giustificazione di al-
tro tipo, come può l’azione che si svolge davanti alla magistratura quan-
do gli episodi ed i fatti importanti e significativi per i lavoratori si sono
ormai perduti nella notte dei tempi, essere più efficace della più imme-
diata e rapida azione sindacale?
Ma si può ragionevolmente ammettere che, contro le rappresaglie pa-
dronali, sia più efficace la pronuncia del giudice che non l’azione del sin-
dacato e la solidarietà dei lavoratori, proprio quando, come l’onorevole
Ingrao afferma, i padroni hanno a disposizione un esercito di legulei? Fa-
remo sciopero contro il pretore? Sarà una nuova moda che instaureremo
dopo questa legge; anche se la legge espressamente vieta lo sciopero
contro il pretore, noi lo faremo egualmente perché questa Camera lo
chiederà.
Ma in che cosa si concretizza la maggiore tutela dei lavoratori? Forse
che con l’approvazione del disegno di legge in discussione si evitano i li-
cenziamenti? Perché è questo che credono i lavoratori, che, dopo, licen-
ziamenti non se ne faranno più. Né si arriva ad assicurare un minimo di
tutela ai lavoratori delle piccole aziende, quelli che avendo un grado di
organizzazione sindacale minore avrebbero una maggiore esigenza di
protezione.
Ciò potrebbe avvenire solo se la legge prevedesse che nel caso di un
licenziamento sub iudice il datore di lavoro fosse obbligato a mantenere
il lavoratore nel posto di lavoro. Che cosa prevede, invece, la legge? La
sussistenza degli estremi del licenziamento per giusta causa o per giusti-
267
ficato motivo deve essere accertata; vale a dire il caso di licenziamento
deve essere sottoposto alla complessa procedura prevista dalla legge, fi-
no al ricorso al magistrato per ottenere la sua definizione: ma non a un
solo magistrato, a tutti i magistrati fino a quelli dell’ultimo grado. Il che
significa, tenuto conto dei normali tempi, attendere per lo meno tre anni
per via dei legulei che hanno i padroni: come ci ha detto l’onorevole In-
grao. Soltanto allora il datore di lavoro è tenuto a riassumere il lavoratore
entro il termine brevissimo – state attenti: questa legge è veramente for-
midabile, tempista, agisce con la velocità di ascesa dei missili verso lo
spazio siderale – di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versan-
do una indennità. Perché non di giusta causa si tratta, ma di equo inden-
nizzo in questa legge: questa è la verità. Chi ha soldi per pagare il licen-
ziamento di un lavoratore, se lo paga.
E vi è un’altra argomentazione che va svolta e che mi viene suggerita
proprio dall’articolo dell’onorevole Ingrao, laddove dice che la discus-
sione sulla giusta causa che comincia oggi a Montecitorio cerca di porre
rimedio ad una carenza grave che riguarda un punto decisivo della Costi-
tuzione: il diritto al lavoro. Sembra questa una ben angusta interpretazio-
ne del diritto al lavoro, riferita com’è ad una legge che non è davvero in
grado di evitare i licenziamenti e, in sostanza, neanche di garantire l’ef-
fettiva conservazione del posto al lavoratore eventualmente licenziato
senza giustificato motivo. Di qui la preoccupazione che l’approvazione
della legge in discussione possa in definitiva costituire per il Parlamento
e per il governo un comodo alibi da mettere davanti ai lavoratori, di fron-
te (e questo è per il governo) al ritardo e all’esasperante lentezza con cui
vengono assunte ben più importanti iniziative capaci di tonificare effetti-
vamente il sistema produttivo! Perché la vera tutela dei lavoratori dai li-
cenziamenti non si ottiene certo con l’approvazione del principio della
giusta causa per legge, che già è stata ottenuta in via sindacale! La tutela
dei lavoratori si basa fondamentalmente sull’equilibrio del mercato di la-
voro tra domanda e offerta, e quindi sulla ripresa dello sviluppo produtti-
vo, sulla ripresa della possibilità concreta di operare del movimento sin-
dacale.
Aurelio Colleoni
268
del 20 aprile 1965 e in quello del 4 maggio 1965 sui licenziamenti collet-
tivi punti di arrivo, bensì una tappa importante, nella dinamica vita del
sindacato, tappa che ha migliorato, adeguandoli alla nuova realtà econo-
mica e sociale, gli accordi del 1954. Così sarà per il futuro, quando il 31
dicembre 1968 – scadenza molto ravvicinata rispetto a quella del passato
– scadranno gli accordi che sono stati firmati lo scorso anno.
Inoltre, soccorrendo l’esperienza applicativa di questi anni (l’ammi-
nistrazione del contratto, come diciamo noi che operiamo in campo sin-
dacale), potremo chiedere il riesame, in tutto o in parte, delle convenzio-
ni in vigore, in armonia col nuovo assetto sociale ed economico e con le
esigenze dello sviluppo del paese.
La traduzione in legge dell’articolo sui licenziamenti individuali –
che per noi è collegato, si badi bene, a quello sui licenziamenti collettivi
– porterà inevitabilmente ad irrigidire la controparte in occasione delle
future trattative e per tutta quella contrattazione collettiva che andiamo
promuovendo ai vari livelli di attività e di presenza dal sindacato; a ren-
dere più pesante la lotta sindacale ingenerando sfiducia nella società de-
mocratica, caratterizzata dal pluralismo, nella quale i gruppi associati in-
termedi hanno il diritto di autodeterminarsi e creare le regole e le proce-
dure dei propri comportamenti, nonché di rivendicare il proprio spazio
contrattuale, nel quale possano muoversi in modo autonomo per la scelta
degli obiettivi, per l’indicazione dei metodi, per l’impiego dei mezzi na-
turali ed essenziali alla lotta sindacale.
Portare quindi sul piano parlamentare problemi di pertinenza del sin-
dacato è di per sé un fatto generatore di confusione che si aggraverà, se il
governo prenderà altre iniziative interferenti con la sfera propria del po-
tere sindacale.
La Cisl ha sempre condiviso la speranza che non soluzioni formali-
stiche ma una corretta e realistica assunzione di un metodo, quello con-
trattuale, fosse l’unica via per assolvere adeguatamente alla tutela dei la-
voratori.
Il sindacato si è collocato nella moderna società dal 1945 in poi, co-
me un gruppo autonomo che rifiuta di essere considerato una società mi-
nore bisognosa di tutele giuridiche speciali da parte del pubblico potere,
quasi fosse incapace di diventare maggiorenne. L’evoluzione verso il
«sindacato-associazione» è in atto; il superamento del «sindacato-assi-
stenza» (prima fase della nostra azione nel 1945, 1946 e 1947) e del
«sindacato-servizio», che caratterizzò in un certo momento la nostra atti-
vità, per giungere oggi al «sindacato-associazione», è in atto e si va
estendendo in tutte le zone del nostro paese, anche in quelle che non so-
no state investite ancora dal processo di industrializzazione.
Noi accettiamo le modifiche al Codice civile, ma non la normativa
delle procedure; in caso contrario comprometteremmo, anzi paralizze-
remmo le procedure conciliative e arbitrali, che sono la sostanza vera,
269
concreta, che l’accordo sindacale offre nelle vertenze per licenziamento
e per la loro rapida definizione.
Siamo convinti che ci troviamo di fronte, quando si tratta di contesta-
re il licenziamento ingiusto e di annullarlo, ad una precisa scelta: o si dà
al presente disegno di legge una formulazione diversa da quella attuale,
in modo che le decisioni della magistratura siano rapide e le riassunzioni
avvengano senza possibilità di alternativa in penalità compensative (al
proposito appare molto più logica la posizione assunta dalla minoranza
in commissione e gli emendamenti che ha preannunciato un oratore ad
essa appartenente) qualora non risulti dimostrata la esistenza dei motivi
di licenziamento; oppure non vi è che il ricorso all’azione sindacale per
ottenere le revoca del provvedimento. Non vi è altro. Ma nel primo caso
ritengo che sia difficile sfuggire ad un nuovo esame sulla costituzionalità
della legge con particolare riguardo all’articolo 41 della Costituzione che
postula la libertà dell’iniziativa privata in campo economico. Se verrà
emendata la legge nel senso che ho detto prima, mi pare che sarà inevita-
bile un nuovo accertamento di costituzionalità della legge.
Una posizione di questo genere implica anche un diverso atteggiamen-
to nei confronti di questa società basata sulla libera iniziativa economica
che noi accettiamo, mentre altri la contestano (ed è naturale che dal pro-
prio punto di vista e in base a una diversa concezione della società taluno
tenda a porre in essere quanto risponde alla sua ideologia). Diversamente,
come ho detto, per infrenare il licenziamento per rappresaglia non vi è al-
tro che tentare il ricorso all’azione sindacale e precisamente allo sciopero,
il quale, anche nelle attuali circostanze, può costituire un mezzo necessa-
rio, benché estremo, per la difesa dei propri diritti. Anzi in una società me-
no legata, come quella attuale, alle cieche leggi del liberalismo economico
lo sciopero resta ed è legittimo. Lo riconosce la costituzione conciliare
Gaudium et spes, quando afferma, tra i diritti fondamentali della persona
umana, quello dei lavoratori di fondare liberamente proprie associazioni,
che possano veramente rappresentarli e contribuire ad organizzare retta-
mente la vita economica, nonché il diritto di partecipare liberamente alle
attività di tali associazioni senza incorrere nel rischio di rappresaglie. In
caso di conflitti economico-sociali, si deve fare ogni sforzo per raggiunge-
re la loro soluzione pacifica. Benché sempre si debba, tutto, ricorrere a un
dialogo sincero fra le parti, lo sciopero tuttavia può rimanere anche nelle
circostanze odierne un mezzo necessario, benché estremo, per la difesa dei
diritti e la soddisfazione delle giuste aspirazioni dei lavoratori.
È ovvio che, se la nostra società riuscisse a dare pieno respiro e soste-
gno alle procedure negoziali, molti conflitti amministrati direttamente
dal sindacato non sfocerebbero nell’arma estrema di difesa che è appunto
lo sciopero. Possiamo quindi sostenere con estrema certezza che il potere
sindacale esperito nella contrattazione collettiva a tutti i livelli e per tutte
le parti del contratto di lavoro è l’unica garanzia di moderne relazioni in-
270
dustriali, di un clima di serena collaborazione all’interno dell’impresa, di
composizione dei conflitti inerenti al rapporto di lavoro.
Ecco perché, in conclusione, sono di gran lunga preferibili il contrat-
to e l’azione del sindacato: azione che si svolge – badate bene, questo è il
punto – nella tempestiva conoscenza dei fatti connessi al provvedimento
di licenziamento e si serve dell’esperienza, della specifica conoscenza
delle situazioni aziendali e delle capacità contrattuali dialettiche dei diri-
genti ad ogni livello, e quindi si pone nella condizione migliore per tro-
vare con il proprio immediato intervento la soluzione di un fatto che ri-
tiene di dover contestare.
Il licenziamento di rappresaglia va avanti secondo la procedura pre-
vista dai contratti. Ma è il sindacato che deve giudicare come reagire in
quel caso. Entrata però in vigore la legge, le procedure si allungheranno
inevitabilmente. Il licenziato, però, non può attendere il lungo tempo che
occorre per arrivare alla definizione in sede giudiziaria della vertenza. Di
fronte alla mancata possibilità di una rapida soluzione, non gli resterà al-
tra prospettiva che quella di accordarsi con la controparte al di fuori della
legge e senza il sindacato, in quanto il padrone, forte della posizione che
gli offre il dettato legislativo, rifiuterà certamente l’intermediazione del
sindacato.
Sono d’accordo con uno studioso francese quando scrive che «i mec-
canismi delle leggi hanno oggi meno importanza per proteggere i cittadi-
ni contro gli abusi dell’autoritarismo di quella che non abbiano i sindaca-
ti, capaci di agire tempestivamente e di muovere i loro organizzati per la
difesa di talune libertà». È per ciò che una società democratica non può
esistere oggi senza il riconoscimento del diritto di sciopero, che nella so-
cietà democratica è fatto fisiologico, non patologico (lo si sostenne quan-
do discutemmo a lungo sui fatti di Sarnico, a proposito di quell’azione
sindacale che costò la vita ad un lavoratore ed il ferimento di molti altri).
Il Parlamento si accingerà tra poco ad affrontare, per la prima volta, il
complesso problema della programmazione economica. Sarà un impe-
gno gravido di responsabilità; ma comunque lo si attui, non si potrà pre-
scindere dai sindacati, dal loro atteggiamento e dalle loro politiche sala-
riali. La Cisl si è dichiarata favorevolmente disposta nei riguardi dei fini
di una programmazione democratica anche se, com’è ovvio, rifiuta il
blocco dei salari. Anche in questo caso essa è disponibile per una discus-
sione con il governo, ma ritiene che partecipando alle scelte e alla formu-
lazione degli obiettivi del programma di sviluppo economico, gli obietti-
vi stessi si conseguiranno in tutto o in parte in funzione di un responsabi-
le comportamento nelle rivendicazioni salariali.
Da questo nostro atteggiamento il governo non potrà comunque pre-
scindere. Ed allora perché disattendere il nostro dichiarato desiderio di
non gradire un intervento dello Stato in una materia che riteniamo di
stretta competenza del sindacato?
271
Ci auguriamo nel futuro di non essere posti di fronte ad altre situazio-
ni che ci obblighino a dissentire. Diventerebbe difficile la nostra collabo-
razione con un governo del quale invece condividiamo pienamente la
formula politica e che i lavoratori militanti nella Cisl sostengono. Lo di-
co sicuro di interpretare veramente il loro sentimento.
Noi auguriamo ogni successo all’attuale governo, ma lasci esso alla
nostra responsabile scelta gli eventuali profili dell’area sindacale per i
quali deve operare la legge. La nostra astensione ha questo significato.
Luigi Girardin
L’intenzione di regolare per legge uno degli aspetti più importanti del
rapporto di lavoro – quello della sua sicurezza – investe direttamente le
prerogative più importanti e più gelose della autonomia del sindacato: a
cominciare dall’autonomia negoziale, che è l’espressione convergente
delle autonomie che un sindacato deve affermare, cioè autonomia dai
partiti, autonomia dal padronato e autonomia dai poteri pubblici. La libe-
ra e autonoma contrattazione collettiva del sindacato è il risultato finale
dell’azione che i lavoratori hanno saputo esprimere, della forza che han-
no saputo meritare; è il risultato di un sacrificio, di una lotta, e perciò as-
sume il valore di una conquista e il gusto di una vittoria.
Su questo principio mi pare che non vi possano essere diversità di
opinioni per coloro che sono impegnati nell’azione sindacale. Tutti colo-
ro che partecipano alla vita sindacale sanno che è questa la strada sulla
quale marcia il progresso del sindacato.
Ciò che ci divide profondamente e, purtroppo, divide le centrali sin-
dacali italiane, è la valutazione sull’opportunità di sottrarre una indiscus-
sa competenza della contrattazione collettiva ai suoi naturali agenti e di
trasferirla al potere legislativo, che nella sua sovranità ed autonomia si
pone al di sopra delle parti e legifera in materia in parte già regolamenta-
ta dagli accordi sindacali, e in ogni caso affidata alla competenza dei sin-
dacati, ponendo grosse ipoteche sul futuro stesso dell’attività contrattua-
le e sindacale.
È facile, e in via immediata producente, promettere ai lavoratori – i
quali subiscono nelle aziende le più amare esperienze in materia di di-
scriminazione e di rappresaglia – che questa legge risolverà i loro proble-
mi e che avranno una tutela per legge del loro posto di lavoro. È facile e
comodo questo tipo di atteggiamento, che senza altro sarebbe da preferi-
re per un sicuro quanto temporaneo successo presso gli interessati. Ma
ogni atteggiamento politico e sindacale deve essere accompagnato, se
vuol essere un atteggiamento responsabile, da una attenta valutazione
dell’esperienza e della realtà sociale nella quale ci troviamo ad operare.
Anzitutto ritengo che all’interrogativo se una legge che si proponga
272
di regolamentare uno o più aspetti del rapporto di lavoro intacchi o no
l’autonomia negoziale del sindacato, la risposta non possa essere che po-
sitiva: cioè, a mio avviso, una tale legge lede gravemente l’autonomia
del sindacato. E concordo altresì con la valutazione espressa da più col-
leghi, secondo cui questo precedente comprometterà la funzione del sin-
dacato dei lavoratori nella sua attività futura.
Ben più gravi sono però i motivi di fondo che ci rendono perplessi
davanti a questa legge e davanti alle motivazioni che vengono portate per
giustificarla.
Scegliendo la via della legge, anziché quella del contratto, per rego-
lamentare i licenziamenti, si priva il sindacato in tutto o in parte del con-
trollo su una materia che è essenziale per la sua funzione. È, questa, una
prerogativa del sindacato, che deve rimanere al sindacato e non essere
delegata ad altri.
Il 21 aprile scorso in un suo discorso in Campidoglio, il presidente
del Consiglio Moro, parlando sul tema dello sviluppo democratico della
società italiana, ribadiva il concetto del pluralismo sociale e calcava l’ac-
cento soprattutto sulla autonomia dei gruppi e sulla loro responsabile ed
autonoma funzione nell’ambito della società. Sono della stessa convin-
zione e dello stesso parere del presidente del Consiglio; però ritengo che
non dobbiamo solo affermare questi princìpi, ma, almeno quando ne ca-
piti l’occasione, dobbiamo tradurli nella pratica, e testimoniare – come
un gruppo di colleghi sta facendo in questo dibattito – che le nostre con-
vinzioni debbono trovare corrispondenza nelle decisioni che prendiamo.
Il sindacato moderno è una forza che si inserisce nella società per rin-
novarla e innovarla; e ciò presuppone una sua integrazione critica nel si-
stema, integrazione che si manifesta attraverso il continuo apporto di
idee per la definizione degli obiettivi generali della sua azione e presenza
nella società. Ciò comporta una struttura che rappresenti gli interessi dei
lavoratori, che sia autonoma e che eserciti una funzione responsabile e
indipendente. L’interferenza nel campo di azione e di responsabilità del
sindacato porta a un indebolimento dell’influenza del sindacato verso i
lavoratori, i quali, credendo di poter risolvere i loro problemi attraverso
interventi e strumenti diversi da quelli che possono essere il risultato del-
la loro partecipazione all’organizzazione e alla resistenza sindacale, an-
ziché essere stimolati, saranno scoraggiati all’associazionismo sindacale.
Il grande numero di lavoratori assenti dal sindacato non deve essere
motivo per il potere pubblico di sostituirsi alla sua funzione; questo si-
gnificherebbe anzitutto un atto di sfiducia nella capacità e nel ruolo del
sindacato, in secondo luogo non aiuterebbe, ma renderebbe ancora più
difficile il proselitismo sindacale. La tutela e la rappresentanza nella co-
munità nazionale degli interessi del lavoro debbono essere affidate al
sindacato, che, nella sua libertà ed autonomia, è un elemento insostituibi-
le nella attuale fase di sviluppo della nostra economia e della nostra so-
273
cietà, ed è anche la premessa necessaria per la stessa evoluzione in senso
democratico dello Stato moderno.
Così concepiti il valore e le caratteristiche che un sindacato deve ave-
re nel nostro paese, per essere in linea con i tempi e con le nuove esigen-
ze dei lavoratori, si può ben capire la ragione per la quale si ribadisce in
questa sede con tanta insistenza che il sindacato deve essere lasciato libe-
ro da ogni disciplina legislativa di carattere generale (mi riferisco parti-
colarmente al problema dell’articolo 39 della Costituzione), che vulnere-
rebbe il principio dell’autogoverno; e che deve essere lasciato libero an-
che da ogni disciplina legislativa particolare.
La garanzia del posto di lavoro che il disegno di legge tenta di assicu-
rare è legata strettamente, come tanti altri problemi del rapporto di lavo-
ro, alla presenza nell’impresa dei lavoratori associati sindacalmente. Le
grandi lotte sindacali di questi giorni, e particolarmente quella dei metal-
meccanici, hanno come obiettivo principale proprio l’affermazione di
questo diritto, che è essenziale per lo sviluppo del sindacato e per la tute-
la dei lavoratori proprio a livello aziendale.
È questo un fatto di estrema importanza, è una vera e propria rivolu-
zione, alla cui forza innovatrice sono affidati il superamento del senso di
estraneità dei lavoratori e la loro progressiva integrazione economica,
sociale ed umana nelle aziende, nelle forme liberamente concordate tra
sindacati ed imprenditori.
Illusorio sarebbe pensare di risolvere il problema della presenza dei
lavoratori nelle imprese attraverso la pura modifica dell’assetto giuridico
e l’introduzione di strumenti di mero equilibrio formale.
La norma legislativa non deve invadere ed appropriarsi delle compe-
tenze tipiche dell’autonomia contrattuale collettiva, ma deve svolgere
una azione costante di stimolo, di incentivo, di protezione della autono-
mia contrattuale collettiva, considerata nella sua funzione di strumento
primario di tutela dei lavoratori per il tramite delle loro associazioni sin-
dacali.
Il contratto collettivo, anche nella nostra esperienza, sta progressiva-
mente avviandosi verso una configurazione articolata e dinamica, che
ne accentua da una parte gli aspetti di strumento di continuo adegua-
mento delle condizioni di lavoro all’efficienza tecnico-produttiva dei
settori e delle imprese, dall’altra il carattere di acquisizione progressiva
di contenuti e di tecniche idonee a garantirne la permanente autoammi-
nistrazione.
È errato, quindi, porre il rapporto legge-contratto collettivo in termini
di mera contrapposizione o, peggio, di costante assorbimento del secon-
do nella prima, come è implicito nella tendenza a conferire dignità legale
ai risultati stabilmente acquisiti dall’attività contrattuale. Una ottimale
distribuzione di competenze tra legge e contratto collettivo, in un ordina-
mento rispettoso delle autonomie sociali intermedie, non può prescinde-
274
re dalla valutazione del tipo di interessi ai quali rispettivamente le due
fonti di regolamentazione si rivolgono.
Al corretto funzionamento dei rapporti tra tutela legale e tutela con-
trattuale offre un modello pratico di sicura utilità la legislazione del lavo-
ro dei paesi anglosassoni, la cui essenziale funzione – anche là dove per
ampiezza ed abbondanza potrebbe far pensare il contrario – è essenzial-
mente quella di precostituire un complesso di garanzie formali, atte ad
incentivare, a salvaguardare e a rafforzare il processo di libera negozia-
zione collettiva. La legislazione americana e quella inglese, ispirandosi
fondamentalmente al criterio della sussidiarietà rispetto ai mezzi dell’au-
tonomia sindacale e collettiva, offrono elementi di riflessione di estremo
interesse anche per l’Italia.
Vincenzo Marotta
275
di fondo. Forse soltanto interpreti veramente ortodossi dello Stato liberale
(se ancora ve ne sono) sarebbero autorizzati a sostenere la totale regola-
zione di ogni conflitto sociale, cioè della società, nell’ambito dello Stato.
Tutte le altre filosofie e ideologie in qualche modo cercano di definire i
rapporti tra società e Stato in una maniera più possibilistica, più flessibile.
Il pensiero cattolico dice chiaramente che la funzione dei corpi inter-
medi deve essere tenuta in debita considerazione rispetto a quella dello
Stato, la società pluralistica, come noi la intendiamo, come noi la voglia-
mo, postula necessariamente quanto ho detto. Il pensiero socialista non ha
mai aspirato a risolvere i problemi della società e dello Stato: Stato e so-
cietà sono stati valutati come elementi in perenne dialettica. È anche im-
portante vedere qual è il pensiero comunista sull’argomento. Nella conce-
zione leninista lo Stato è il prodotto inevitabile di una società divisa in
classi: il proletariato, organizzato come classe dominante, si avvarrà dello
Stato per liquidare i resti dello Stato capitalista; poi lo Stato, concepito
come organizzazione della violenza per reprimere una certa classe, dovrà
estinguersi, e di conseguenza ogni potere resterà nella società.
Questa precisazione è opportuna: non è soltanto una precisazione fi-
losofica, accademica; serve per chiederci perché mai i comunisti della
Cgil e del Partito comunista insistano per attribuire a uno Stato che essi
dovrebbero considerare borghese il compito di difendere gli interessi dei
lavoratori. Mi sembra che almeno in questo senso, almeno sul piano teo-
rico, noi possiamo arrivare al paradosso.
Nessuno nutre dubbi circa il fatto che la Cgil non ami confondersi
con la società attuale né con lo Stato attuale; non comprendiamo per qua-
le strana ragione la Cgil voglia delegare una parte così notevole della for-
za del sindacato a uno Stato di carattere borghese.
Qualcuno dice che noi saremmo in difficoltà nell’avvicinare i lavora-
tori, i quali sono stati abbondantemente sensibilizzati (quasi si trattasse
dell’attesa di una palingenesi), nella fiducia che questa legge possa risol-
vere tutti i problemi che sono stati in maniera cosi egregia sottolineati
anche in quest’aula.
Purtroppo, potremmo chiamarla la legge della grande illusione; per-
ché, in pratica, cosa avverrà? Quando vi sarà un licenziamento, chiamia-
molo sospetto, che si ha motivo di ritenere non intervenga per ragioni di
carattere economico, ma per altre ragioni, che cosa dovremo pensare?
Non è meglio che il sindacato scatti tutto alla difesa di questo lavoratore
per evitare un sopruso, anziché preferire che a ciò rimanga estraneo, per-
ché la questione è affidata alla magistratura?
Sappiamo bene che vi sono notevoli settori dell’attività umana di
fronte ai quali il legislatore deve fermarsi perché, giustamente, la materia
è di competenza della magistratura. Ma conosciamo anche le attese, co-
nosciamo anche la lungaggine delle procedure; sappiamo che (a parte il
fatto che la legge si presta a interpretazioni diverse) l’onere della prova
276
tocca poi al lavoratore; conosciamo anche la scappatoia che è stabilita in
questa legge, della penale che si potrà pagare.
lo non dico che i sindacati abbiano conseguito risultati eccezionali.
Anche i sindacati, nella contrattazione per gli accordi interconfederali,
non hanno potuto ottenere tutto. Infatti volevano andare oltre il plafond
dei 35 dipendenti e non ci sono riusciti. Ed anche questa lacuna è una la-
cuna di questa legge.
È stato obiettato: non è meglio che vi sia la legge e che il sindacato si
batta per sostenere l’applicazione della legge? Purtroppo, dobbiamo dire
che talvolta vale il contrario: esistendo la legge, i lavoratori si adagiano;
e noi potremmo ipotizzare proprio in conseguenza di questa legge una
minore forza, una minore presenza, un minore sostegno, una minore soli-
darietà dei lavoratori all’azione sindacale.
Questa legge potrebbe valere nei tempi quieti: è un parapioggia per
quando piove lentamente. Ma nei momenti di burrasca non potrà certa-
mente essere un elemento efficace. Ecco che ritornano quei concetti e
quei princìpi di inquadramento generale ricordati precedentemente da un
collega per quanto riguarda una politica generale di impegni da parte del
governo nel settore del lavoro; ecco che ritornano i princìpi ricordati dal
collega Sabatini, il quale giustamente ha affermato che senza una politica
di massima occupazione, di pieno impiego, di vera qualificazione della
manodopera questa legge non potrà essere il toccasana di ogni situazione.
Concorrono e devono concorrere diversi elementi per risolvere que-
sto angoscioso problema, che non è soltanto un problema di carattere
sindacale, ma è anche un problema di carattere morale.
E allora, se noi critichiamo questa impostazione, qual è la via che noi
indichiamo? La Cisl non è mai stata contraria a modificare il principio
del recesso ad nutum (è la via che noi indichiamo, cioè la riforma dell’ar-
ticolo 2118 del Codice civile); anzi, essa ha suggerito più di una volta al
ministro del Lavoro, in occasione delle discussioni intorno allo Statuto
dei diritti dei lavoratori, che qualora si intendesse procedere per via legi-
slativa, ci si limitasse a introdurre il principio del giustificato motivo,
riformando l’attuale articolo 2118 del Codice civile. Una tale riforma,
unitamente alla modifica dell’articolo 2120 sull’indennità di anzianità e
all’abrogazione dei divieti di arbitrato (articoli 806 e 808 del Codice di
procedura civile) avrebbe consentito l’introduzione del giustificato moti-
vo del licenziamento nel nostro sistema giuridico, senza alcun pregiudi-
zio per la libera evoluzione contrattuale, la quale potrebbe raggiungere
traguardi ben più avanzati di quelli previsti nell’attuale provvedimento.
Comunque, il nostro dissenso è un dissenso di fondo che tratta il pro-
blema generale, perché, in coerenza con i princìpi e con l’azione dell’or-
ganizzazione democratica dei lavoratori, noi contestiamo l’intervento
dello Stato nelle materie di pertinenza del sindacato in genere. Noi siamo
per l’autonomia del sindacato in genere. Noi siamo per l’autonomia del
277
sindacato non solo a parole: siamo per un’autonomia completa dal go-
verno e dai partiti. Il nostro dissenso, le nostre perplessità, i nostri dubbi,
la nostra presa di posizione – sia ben chiaro – non toccano minimamente
la nostra fedeltà alla politica di centro-sinistra, di cui siamo stati fautori e
sostenitori in tempi non sospetti.
Armando Sabatini
278
La preferenza che deve essere data alla norma definita contrattual-
mente sta nel fatto che le parti liberamente accettano e sottoscrivono
questi impegni, ritenendo di comune interesse ciò che viene concordato e
definito; mentre la legge ha sempre un aspetto di imposizione che è più
subita che accettata. Si finisce per conseguenza con l’avere una imposi-
zione, nei riguardi della quale si cercano tutti i motivi e tutti i pretesti per
eludere ciò che la legge dispone.
L’applicazione dei contratti è di conseguenza più agevole e normale
che non l’applicazione della legge. Lealtà vuole che alle norme contrat-
tuali non si venga in alcun modo meno, mentre si tende ad eludere le di-
sposizioni di legge, come dicevo, e ad aggirarle.
Si sono domandati ad esempio gli onorevoli colleghi quali effetti po-
trà avere sulle assunzioni una più rigida disciplina dei licenziamenti? Il
meno che si possa dire è che essa potrebbe diventare un ulteriore freno
alle assunzioni e un motivo per sottoporre a maggiori accertamenti da
parte del datare di lavoro chi aspira ad un posto.
Può essere estremamente pericoloso credere che in ogni caso quel
che è disposto per legge debba essere giusto e sempre accettabile. Noi
non abbiamo mai aderito a questa concezione del positivismo giuridico.
Ho l’impressione che vi costruiate, con la vostra concezione della vita
sociale e della vita politica, un vostro sistema in cui sono tenuti presenti
alcuni aspetti della funzione della legge e non altri.
Noi non ci proponiamo alcun ostruzionismo. E proprio perché questa
legge ha dato luogo ad una propaganda spicciola nelle fabbriche, in cui i
rappresentanti della Cisl sono additati come i difensori degli interessi de-
gli industriali, ci sia almeno consentito di illustrare a sufficienza i motivi
e le ragioni che stanno alla base del nostro atteggiamento.
Come è facile prevedere, i pretesti per evitare un’assunzione possono
essere infiniti. Io sono del parere che l’imposizione della manodopera
non sia né facile né possibile. Sono stato caporeparto di una grande
azienda e so quante valutazioni vengono fatte prima di dare il gradimen-
to per l’assunzione di un lavoratore; e non so proprio se valga la pena di
correre questo rischio, per ottenere gli altri risultati che ci si propone di
conseguire con questa legge.
Il problema è di vedere se sia conveniente accettare questa legge così
come essa è formulata e come è prevedibile che sarà applicata, o se non
sia più conveniente trovare una diversa soluzione del problema.
Ogni disciplina, a mio avviso, ha le sue conseguenze; e non bisogna
illudersi che ciò non avvenga anche in questo caso. Mentre i nostri pro-
positi tendono ad ottenere certi scopi, si possono avere poi conseguenze
diverse, al momento neppure sospettabili. Infatti, l’astuzia degli uomini
può risultare più efficace del previsto. Il detto «fatta la legge, trovato
l’inganno» potrà avere ancora una volta una conferma molto più ampia
di quanto possiate pensare, onorevoli colleghi. Il disegno di legge in di-
279
scussione, inoltre, non consente una esatta definizione della giusta causa
e un facile accertamento di essa. E dirò i motivi. Si dice che esso renderà
legittimo soltanto il licenziamento per giusta causa. Ma chi è in grado di
identificare esattamente e di configurare questa giusta causa? Se un dato-
re di lavoro dovesse motivare un licenziamento con ragioni inerenti alla
modifica della organizzazione produttiva oppure inerenti ad esigenze
contingenti dell’azienda o della congiuntura economica, ragioni per le
quali l’interessato è considerato non più idoneo alla prestazione, quale
sarà la competenza del pretore in materia?
Non si riuscirà mai ad affrontare, attraverso una norma giuridica, tutta
la complessità e la dinamicità di un problema di tale natura. Quando un
lavoratore sarà licenziato perché non adatto alle lavorazioni di una deter-
minata azienda o per esuberanza di personale, quali elementi di giudizio
potrà avere il magistrato per emettere un’adeguata sentenza? Viceversa,
se la regolamentazione del licenziamento viene affidata al libero gioco
della contrattazione sindacale, attraverso adeguate formule di mediazione
o di conciliazione (è proprio questo che dà forza alle organizzazioni sin-
dacali), sarà possibile fare intendere alla controparte la necessità di non
procedere a licenziamenti che non siano sufficientemente motivati.
Non illudiamoci che basti un provvedimento di legge per sanare la si-
tuazione esistente: non basterà neppure per mettere il magistrato in con-
dizione di discernere con avvedutezza e con conoscenza di causa. Biso-
gnerà ricorrere allora a tutta una serie di consultazioni e di perizie per
giudicare su una determinata vertenza. L’attività produttiva e tecnica è in
continua trasformazione e saranno infinite le motivazioni, anche quelle
che potrebbero sembrare le più ingenue, idonee a rompere di fatto il rap-
porto di lavoro.
Questi sono i motivi per i quali di fronte a questo provvedimento non
dimostriamo entusiasmo, come invece fanno altri colleghi. Attraverso una
politica di piena occupazione e di sviluppo economico, il lavoratore viene
tutelato in modo più efficace e più positivo di quanto possa tutelarlo la
norma giuridica avulsa dal contesto della realtà economica e politica. So-
no queste le condizioni necessarie per neutralizzare ogni possibilità di li-
cenziamento e per difendere l’occupazione. Quindi non bastano i contrat-
ti, né le leggi: occorre, che si crei una condizione economica in cui può
svilupparsi una situazione di tutela delle condizioni dei lavoratori.
Giuseppe Sinesio
280
ma di problemi sostanziali che danno contenuto all’attività e alla stessa esi-
stenza delle organizzazioni sindacali. Né si può ammettere, appunto, che i
sindacati nel nostro paese, incapaci di realizzare gli obiettivi per i quali so-
no spontaneamente nati, facciano appello al Parlamento per richiedere che
imponga attraverso la legge quello che invece è imprescindibile compito
dell’organizzazione dei lavoratori stabilire contrattualmente, quasi che la
vita dei sindacati fosse una vita grama, senza capacità di rottura, senza for-
za per tentare di ribaltare, in un paese democratico come il nostro, i rappor-
ti che si sono instaurati tra le varie forze della produzione.
Il sindacato crea con il suo potere contrattuale la normativa privata
dei rapporti di lavoro, cosciente che il sistema democratico nel quale agi-
sce e la cornice della legge formale che ne esprime la legalità pongono il
rapporto di lavoro come un contratto di scambio e che i soggetti svolgo-
no il loro ruolo e traggono la loro ragion d’essere dal potere contrattuale
che sono capaci di esprimere. Nella società pluralistica operano i vari
gruppi sociali: in questo ambito il sindacato si pone come agente contrat-
tuale ed è convinto che il suo potere negoziale non si esaurisce nelle con-
clusioni del risultato del contratto che nel tempo diventerebbe statico, ma
nella gestione dello stesso che garantisce l’adeguamento dei contenuti
contrattuali alle mutevoli esigenze della realtà economica e sociale. Chi
meglio del sindacato può pronunciarsi sulla pericolosità di uno strumen-
to legislativo nel giuoco dialettico tra parti sociali contrapposte?
La legge non solo non offrirà ai lavoratori quelle garanzie che legitti-
mamente sono richieste, ma sottrarrà al sindacato la sua prerogativa di
tutela e il suo autonomo potere di iniziativa. Appare di scarsa utilità un
provvedimento legislativo diretto a codificare in formali diritti soggettivi
quei poteri e quelle libertà che oggi prevede l’esperienza contrattuale in
atto. La sanzione legislativa cristallizzerà la positiva evoluzione contrat-
tuale in questa materia, creando difficoltà sul piano della concreta appli-
cazione delle norme, ed accrescerà le tensioni aziendali.
Se ci si fosse limitati ad abolire il principio del recesso arbitrario, op-
portunamente riscrivendo la disposizione dell’articolo 2118, e a modifi-
care la disposizione dell’articolo 2120 in tema di indennità di anzianità,
si sarebbero poste basi legali idonee a far evolvere positivamente il siste-
ma sul piano giurisprudenziale, attraverso un’opportuna elaborazione
giudiziale del giustificato motivo mentre ne avrebbe tratto prezioso so-
stegno il sistema contrattuale, cioè la disciplina attuale dell’accordo in-
terconfederale, senza preoccupanti interferenze sul piano processuale ed
applicativo.
La disciplina legislativa attualmente proposta vincola invece datori
di lavoro e lavoratori a determinate soluzioni che non possono non avere
carattere di rigidità. La prevista soluzione – consistente nell’alternativa
fra ripristino del rapporto e pagamento di una penale – mentre sul piano
legislativo si presenta come la più realistica e non appare comunque mo-
281
dificabile allo stato attuale del nostro ordinamento, poteva nel futuro
evolversi e sfociare sul terreno contrattuale nella soluzione unica o netta-
mente prioritaria. Così è avvenuto in alcune esperienze contrattuali, co-
me quella statunitense che prevede, nel caso in cui il collegio arbitrale
dichiari il licenziamento privo di giusta causa, il ripristino obbligatorio
del rapporto di lavoro.
Se poi si esamina il progetto dal punto di vista dell’articolazione spe-
cifica si possono fare alcune osservazioni. La definizione del giustificato
motivo è insoddisfacente per concorde parere di giuristi e di pratici.
È opera vana quella di voler definire il giustificato motivo. Si rifletta
attentamente sulla seguente formula: «notevole inadempimento degli ob-
blighi contrattuali del prestatore di lavoro». Essa è tale che restringe in-
giustificatamente la nozione di giustificato motivo: ad esempio non com-
prende le ipotesi dell’infermità successiva del lavoratore, dell’imperizia
oggettiva, dell’incapacità ad apprendere nuove specializzazioni eccetera,
che pure è assurdo non concepire come giustificati motivi di licenziamen-
to. Inoltre la formula adottata è tale che toglie ogni linea di confine tra
giustificato motivo e giusta causa ex articolo 2119 (una causa che non
consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto). Si potrà così
verificare l’assurdo che il datore di lavoro potrà licenziare per giusta cau-
sa e non per giustificato motivo, con conseguenze assai dannose per il la-
voratore (ad esempio, la giusta causa non comporta il preavviso).
Vi è ancora la nullità del licenziamento di rappresaglia, di cui ha par-
lato il collega Mosca. Poiché la motivazione di rappresaglia non sarà da-
ta dall’imprenditore, in realtà la prova della sussistenza dei motivi di cui
all’articolo 4 incomberà sul lavoratore e sarà come è facile intuire, una
probatio diabolica.
Di qui la inutilità della norma e della sanzione prevista. Dato e non
concesso che la prova sia raggiunta e che il giudice dichiari la nullità del
licenziamento, quali conseguenze si potranno avere sul piano giuridico e
pratico?
Il ripristino coattivo del rapporto di lavoro è inottenibile, stante il
principio nemo ad factum cogi potest, per il quale nel nostro sistema pro-
cessuale le obbligazioni di fare non sono suscettibili di esecuzione in for-
ma specifica. Si potrà ricorrere alla problematica applicazione dei princì-
pi riguardanti la mora del creditore (ex articolo n. 1206 e seguenti del
Codice civile). Ad ogni modo, dal punto di vista pratico, la sanzione del-
la nullità ha ben scarso significato.
Il punto più critico della disciplina legislativa proposta è quello rela-
tivo alla tutela giudiziaria. Di fronte all’unanime denuncia della crisi e
della inefficienza della giustizia del lavoro in Italia, non si riesce a com-
prendere in che modo una legge possa tutelare efficacemente le ragioni
del lavoratore, costringendolo a servirsi di avvocati e ad attendere mesi
ed anni prima di avere una pronuncia. Non si riesce a comprendere la sfi-
282
ducia del legislatore nei riguardi dell’arbitrato, che nel campo del lavoro
(come del resto riconoscono anche autorevoli processualisti) può svolge-
re un ruolo utilissimo e fondamentale.
Ancora: nel caso di dichiarazione giudiziale dell’insussistenza del
giustificato motivo si presenta l’alternativa: riassunzione del lavoratore o
pagamento di una indennità?
Con la norma dell’articolo 9 si cristallizza proprio quel sistema che
dai più viene ritenuto meno avanzato. Si consacra una soluzione la quale,
sul piano strettamente giuridico, non elimina il recesso ad nutum, in
quanto dà la possibilità al datore di lavoro di licenziare comunque, solo
aggiungendo l’obbligo di pagare una ulteriore indennità al lavoratore. È
allora ingannevole e fallace l’esaltazione della proposta disciplina come
eliminazione del recesso ad nutum!
Il recesso ad nutum non viene eliminato: cade pertanto la critica che si
fa all’attuale regolamentazione collettiva su questo punto, quello cioè rela-
tivo alla sua inidoneità ad intaccare il principio di cui all’articolo 2118.
Il recesso ad nutum può essere eliminato solo con un sistema di stabi-
lità reale del rapporto di lavoro, con un sistema cioè in cui l’essenza del
giustificato motivo reagisca sulla validità del recesso, lo renda cioè nullo
(è questa la soluzione propugnata dai massimalisti). Ma un tale sistema è
inattuale sul piano legislativo per le seguenti ragioni giuridiche, oltre che
per altre ragioni pratiche ed economiche: a. presuppone l’esatta identifi-
cazione del concetto di giustificato motivo; b. presuppone un sistema
processuale che consenta la coattiva restaurazione della prestazione di
lavoro; c. presuppone una giustizia rapidissima.
Parlando dei problemi del lavoro, un sistema di stabilità reale, garan-
tito per legge, rappresenta una evidente esasperazione massimalistica.
Non resta, quindi, che il sistema sperimentato dagli accordi interconfede-
rali: sistema obbligatorio, ma sostanzialmente limitativo del potere di re-
cesso, attraverso l’obbligo imposto al datore di lavoro di non licenziare
se non per giustificato motivo.
In conclusione, l’articolo 9 rivela in tutta la loro inconsistenza le pro-
messe decantate della disciplina legislativa dei licenziamenti; il recesso
ad nutum non è abolito ma ne è reso solo più grave l’esercizio. Ciò signi-
fica pertanto che non cesseranno i licenziamenti, né quelli di rappresaglia.
Mario Toros
Questo dibattito sulla giusta causa ha sollevato tra i lavoratori, e non solo
tra di essi, uno stato di attesa ed anche di speranza. Di ciò non possiamo
peraltro non preoccuparci; non credo di esagerare, infatti, se affermo che
il disegno di legge che stiamo esaminando può diventare un inganno per i
lavoratori se essi si lasciano illudere da certe presentazioni miracolistiche
283
della legge invece di considerare il problema nella coscienza, ad un tem-
po, della loro forza e della funzione primaria del movimento sindacale.
La Cisl continuerà la sua battaglia serenamente, come ha sempre fat-
to. Non è male ricordare la battaglia che essa ha a suo tempo condotto
per il conglobamento e così pure quella per la contrattazione integrativa.
Per tanti e tanti anni siamo stati soli a condurre la nostra battaglia tra l’i-
nerzia e lo scetticismo e purtroppo tra tanta incomprensione, anche di
una parte del mondo del lavoro. Ma il tempo è, come sempre, galantuo-
mo e ha fatto giustizia.
Noi sappiamo che proprio quelle battaglie hanno dato e stanno dando
un tono alla lotta sindacale italiana, soprattutto quella per la contrattazio-
ne integrativa, impostazione che vediamo ormai accettata da tutti, e por-
tata avanti anche da coloro che l’avevano tenacemente combattuta.
Intervenendo nel dibattito, l’onorevole Mosca, commentando la posi-
zione della Cisl, ha fatto intendere – almeno così risulta dai resoconti dei
giornali – che la Cisl abbia assunto questo comportamento perché non è
stata consultata dal governo. Non credo che si possa accettare questa va-
lutazione.
Non sono questi i motivi con cui la Cisl da tempo ha giustificato il
suo atteggiamento. Del resto, già affrontando il problema della concilia-
zione e dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, si è riferita alla conclu-
sione del convegno tenutosi a Berlino ovest nel 1957. In quel convegno
relatori furono autorevoli sindacalisti, legati alle più importanti centrali
sindacali di tutto il mondo. Essi illustrarono le loro esperienze quanto ai
risultati del sostegno legislativo di attività tipicamente sindacali e in par-
ticolare i sistemi di conciliazione e di arbitrato, operando una fondamen-
tale distinzione tra essi in base a un duplice criterio: il criterio della pre-
valenza dell’autonomia delle parti nella adozione di un sistema di conci-
liazione e di arbitrato, e quello della natura degli organi cui è devoluta la
funzione conciliativa e arbitrale.
Ritengo che occorra approfondire ulteriormente l’esame dei diversi
sistemi, tenendo conto della situazione nella quale operano i diversi mo-
vimenti sindacali e dei problemi che essi sono chiamati ad affrontare.
Comunque, la conciliazione volontaria può essere disposta – si diceva –
dalle parti oppure dalla pubblica autorità.
Noi abbiamo compreso e comprendiamo i motivi che hanno portato il
governo a presentare il disegno di legge e siamo certi che anche il Parla-
mento e il governo comprenderanno i motivi dei nostro dissenso, che non
sono da interpretare in senso politico, oppure come sfiducia al governo e
alla formula di maggioranza che lo sostiene e ci auguriamo possa sempre
sostenere il governo. La nostra posizione è il portato di un’esperienza che
abbiamo fatto, di un’esperienza che hanno fatto tanti sindacalisti nel mon-
do, soprattutto nei paesi più avanzati socialmente e dunque sindacalmente;
e abbiamo creduto e crediamo di dare un contributo ai lavoratori, al Parla-
284
mento, al governo, portando nel dibattito le esperienze di questi sindacali-
sti e le nostre esperienze di venti e più anni di battaglie sindacali. E si trat-
ta soprattutto delle esperienze che abbiamo fatto quando abbiamo affron-
tato il problema dei licenziamenti individuali, sia come battaglia sindaca-
le, sia portando il problema stesso davanti alla magistratura.
Onestamente abbiamo detto e ripetiamo che vediamo nelle relazioni
al disegno di legge una sostanziale unità per un fine comune. Pensiamo
che si debba discutere del metodo per realizzare questo fine.
Quando sostenemmo la battaglia per la contrattazione integrativa ci
preoccupammo che il sindacato fosse considerato primario agente con-
trattuale nell’interesse dei lavoratori. Ecco perché noi abbiamo il dovere
di preoccuparci della soluzione che si vuol dare al problema che il prov-
vedimento al nostro esame affronta, problema strettamente collegato a
quelli del riconoscimento giuridico delle commissioni interne e dello
Statuto dei lavoratori.
Nostra fondamentale preoccupazione è che siano risolti i problemi
della vera libertà sindacale, della difesa dei lavoratori, della loro crescita
democratica e civile. Proprio alla luce di tali preoccupazioni deve essere
interpretato l’atteggiamento da noi assunto in ordine al provvedimento al
nostro esame. Noi accettiamo dunque la modifica del Codice civile ma
esprimiamo riserve sulla procedura seguita, in quanto riteniamo che la
via percorsa non dia adeguate garanzie per il rispetto delle prerogative
del sindacato.
Non bisogna confondere ciò che è sociale con ciò che è pubblico.
Le legislazioni di certi paesi dell’America del Sud, della Spagna, del
Portogallo, di molti Stati africani sono una testimonianza della validità di
tale affermazione. Anche nel nostro paese vi è stata in passato una impo-
nente legislazione del lavoro, ma non sono stati in questo modo risolti i
problemi dei lavoratori né quelli della società, proprio perché ciò che è
pubblico non coincide con ciò che è sociale.
Dobbiamo vivamente preoccuparci che non si ripeta una sovrapposi-
zione del pubblico al sociale, il che già in passato non ha giovato ad alcu-
no. Per questo una riflessione è utile, anzi necessaria per tutti: per la
maggioranza, per il governo, per i sindacati.
Non è nell’interesse di alcuno compiere passi che, senza offrire reali
vantaggi ai lavoratori, alterino il delicato equilibrio tra Stato e società,
equilibrio che deve invece essere consolidato nell’interesse dei lavoratori
e della crescita della democrazia.
In questi giorni tante persone si sono occupate del problema affronta-
to dal disegno di legge. Non vorrei passare per uno che ama la polemica:
non è nella mia natura; vorrei soltanto dire a certi maghi, a certi pontefici
laici, che non bastano le enunciazioni nel campo dei problemi del lavoro,
come non bastano le pur importanti tavole rotonde. Su ogni problema del
mondo del lavoro i contatti con gli studiosi sono necessari e doverosi, ma
285
occorre poi anche promuovere un incontro tra il pensiero e l’azione, per
non restare fuori della realtà.
Concludendo, dichiaro di comprendere i motivi che hanno indotto il
governo a presentare il disegno di legge che stiamo esaminando; ma spe-
ro che il governo e la maggioranza che lo sostiene comprendano anche i
motivi di dissenso che ho avuto modo di esporre. E dato che non deside-
ro che un voto contrario venga interpretato come un atto di sfiducia nel
governo e nella formula di centro-sinistra – il che non è nell’intenzione
mia né in quella di altri colleghi particolarmente impegnati da tanti anni
nella tormentata vita sindacale – dichiaro che mi asterrò dalla votazione
di questo disegno di legge.
Amos Zanibelli
Ritengo si possa affermare con tranquillità che il dibattito, più che limi-
tarsi agli aspetti propriamente tecnici o giuridici della materia che forma
oggetto del disegno di legge in esame, ha spaziato su argomenti che in-
vestono direttamente la posizione del sindacato, la sua funzione, i rap-
porti tra i sindacati, il Parlamento e il governo, aggiungo, tra i dirigenti
del movimento sindacale e i gruppi politici ai quali gli stessi dirigenti che
siedono in questa Camera appartengono.
Un’opinione particolare è stata espressa su materie che attengono al-
la concezione dello Stato.
Noi apparteniamo ad un partito che nel 1949 ammise che i lavoratori
democristiani che partecipavano alla vita sindacale, dessero luogo a un
movimento sindacale libero e autonomo. A suo tempo si polemizzò, e pa-
recchio, sul fatto che quello cui ho l’onore di partecipare fosse veramen-
te un sindacato libero e autonomo.
Oggi la polemica si è molto smorzata, ma è fuori dubbio che, sul pia-
no storico, possiamo dire che la Democrazia Cristiana è stata il primo
partito in Italia, se non l’unico, che non abbia preteso la costituzione di
un sindacato cristiano, confessionale, ma che ha consentito ai lavoratori
aderenti di costituirsi in organizzazione sindacale autonoma e libera.
Dall’accettazione di questo principio al procedere, nella nostra so-
cietà, di un movimento di questa natura, è passato sicuramente molto
tempo; ma, di fatto, oggi si pone in modo veramente tormentoso per la
vita di un partito e di un gruppo parlamentare, la realtà di un sindacato
che, in piena autonomia, senza vincoli ideologici, si è costituito e si è
rafforzato nel nostro paese. È un sindacato che oggi si presenta anche
con le sue espressioni parlamentari, le quali, se partecipano alle battaglie
elettorali sotto determinati simboli, però rappresentano un sindacato che
ha una sua posizione autonoma che non può non trovare anche in questa
sede la sua espressione.
286
Oggi esiste una tormentata situazione di rapporti, frutto del progredi-
re di questa società democratica: è la crescita della nostra società verso
una sistemazione che, mi auguro, sia sicuramente democratica, per la fi-
ducia che ho nel sistema e nel metodo di libertà.
Dopo avere ascoltato tante considerazioni sul merito della legge pen-
so che se dovessimo prescindere da considerazioni di carattere generale
in ordine a ciò che il nostro movimento sindacale vuole e ciò che il pote-
re legislativo in questo momento sta facendo, potremmo sicuramente tro-
vare un punto di conciliazione nella valutazione tecnica di questo prov-
vedimento di legge.
Non mi accaloro in questo momento per difendere l’una o l’altra tesi;
dico semplicemente che sono contrario al disegno di legge nel suo com-
plesso.
Lo giudico un atto politicamente negativo, proprio perché intacca
quell’equilibrio delicatissimo nei rapporti tra il potere legislativo, il pote-
re esecutivo e il movimento sindacale. Sono alla ricerca di elementi di
evoluzione e mi domando se la strada che noi imbocchiamo, discutendo
questo disegno di legge, porti ad una reale evoluzione. La mia risposta è
negativa.
Dobbiamo sapere se quanto facciamo si pone nel senso della storia,
se vale per il domani o se invece stiamo risolvendo un problema che è
sollecitato dalla passione, dal tormento, da circostanze, da fatti particola-
ri che si determinano, ma contingentemente, nella vita attuale.
Ma siamo veramente consapevoli che questo Parlamento può assu-
mersi una così grave responsabilità di fronte a un movimento sindacale
democratico o comunque di fronte a un movimento sindacale organizza-
to nel nostro paese, la responsabilità di invadere con tanta tranquillità
questa singolare sfera di competenza? Ma noi abbiamo ancora forse la
concezione del Parlamento liberale e crediamo in ciò che sta scritto nel-
l’articolo 67 della Costituzione, che «ogni membro del Parlamento rap-
presenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di manda-
to»? Ma noi ci sentiamo di poter invadere questa materia con tutta tran-
quillità ignorando le organizzazioni sindacali?
Posso comprendere la necessità che il Parlamento non sia insensibile
davanti alle rappresaglie e agli altri fatti del genere che sono stati qui de-
nunciati, ma noi dobbiamo avere soprattutto la forza ed il senso di re-
sponsabilità di valutare obiettivamente questi fatti e di chiederci se essi
non si ripeteranno in avvenire anche in presenza di una legge come que-
sta. Dobbiamo cioè domandarci se non sia il caso di frenare questo ec-
cesso di entusiasmo che in certi settori si manifesta ai fini della elimina-
zione di fatti che esistono e traggono origine dalla realtà sociale e politi-
ca del nostro paese, e di guardare invece avanti per tracciare linee ed in-
dirizzi che abbiano un carattere definitivo.
Noi non legiferiamo per il contingente e per l’immediato, ma traccia-
287
mo schemi ed indirizzi che debbono riguardare il futuro. In questo senso
sarebbe opportuna una maggiore ponderazione.
Il rapporto di lavoro non ha urgente bisogno di una tutela giuridica.
Ma quanto spazio hanno dinanzi a sé il Parlamento ed il governo per fa-
vorire il determinarsi di condizioni favorevoli al lavoro! Sono urgenti gli
interventi dello Stato nella vita economica e nella vita sociale, non negli
aspetti giuridici del rapporto di lavoro! Non voglio richiamarmi qui a
teorie particolari ma soltanto allo Stato odierno, che interviene in settori
dove non era mai intervenuto. Il rapporto di lavoro trova la sua prima e
fondamentale base di tutela nell’esistenza di un certo equilibrio econo-
mico nel nostro paese, per cui la richiesta di mano d’opera sopravanzi la
disponibilità della stessa. Noi a questo dobbiamo guardare con particola-
re attenzione. Il lavoratore cosa domanda a noi? Una azione tale che gli
dia la garanzia di avere un lavoro, la garanzia della continuità di esso. Lo
illudiamo se lasciamo credere che esso sia una garanzia giuridica; è ben
altro! Il problema dei licenziamenti individuali, pur con il capitolo oscu-
ro costituito dalle rappresaglie, è pur sempre qualcosa di particolare,
qualcosa di minore che ci trova molto sensibili sul piano umano, ma che
non è sicuramente un grande fatto di cui lo Stato debba occuparsi in que-
sto momento.
Noi forse non abbiamo riflettuto a fondo e non abbiamo sempre valu-
tato in tutti i suoi aspetti particolari la funzione che assolve oggi il movi-
mento sindacale, anche sul piano della disciplina contrattuale di ogni ca-
tegoria. Oggi lo stesso sindacato, quello dei metalmeccanici, quello dei
metallurgici, quello dei tessili o quello dei lavoratori dipendenti degli al-
tri settori, ha una propria possibilità di contrattazione. Si realizza in tal
modo un collegamento tra la politica di un settore e quella generale, per
cui la tutela del lavoratore non si ha più sul piano contrattuale come pote-
va essere all’inizio di questo secolo. Investe una serie di altri interventi,
di cui si deve tener conto.
Tutto ciò pone evidentemente noi tutti di fronte a problemi nuovi.
Quanto si vuol fare con questo disegno di legge non è frutto di una esi-
genza immediata: è frutto, semmai, di una teoria vecchia e superata, di
alcuni propositi comprensibili anni fa, quando molti, certamente alcune
parti politiche, non credevano che lo Stato fosse conquistabile attraverso
l’azione democratica. Adesso che tutti riconoscono che lo Stato non è
qualcosa che rimane ancora sotto il vincolo e il controllo di gruppi capi-
talistici, ma è qualcosa che attraverso l’azione democratica può essere
controllato e guidato verso la risoluzione di quei problemi che interessa-
no i lavoratori, poniamoci su questa piattaforma: non sul piano delle pic-
cole rivendicazioni che riguardano l’una o l’altra categoria o il particola-
re, minuto aspetto di questo o di quell’altro problema. Questo perché esi-
stono problemi di fondo, e dobbiamo avere il senso della priorità nella
scelta dei problemi che si pongono nella vita del paese. Nella vita sociale
288
attuale è più urgente una crescita di coscienza e di dimensioni sindacali o
invece è più utile un intervento legislativo che vada a coprire ciò che il
sindacato non è riuscito completamente a coprire?
Questo è il punto fondamentale che noi cerchiamo di valorizzare. È per
questo che non stiamo a discutere se si va secondo o contro la Costituzio-
ne. Francamente, mi danno fastidio, nella mia modesta esperienza sindaca-
le, quei dirigenti sindacali che ad un certo momento si trasformano in co-
stituzionalisti, in avvocati, in professori di diritto, abbandonando così la
logica e il buonsenso che loro deriva dalla propria esperienza. Io sono con-
vinto che qui non si tratta di fare delle disquisizioni se andiamo o meno
contro la Costituzione o in particolare contro l’articolo 39 della Costituzio-
ne stessa. Qui si deve dire che non andiamo nel senso della Costituzione,
nel senso cioè di un ordinamento che vuol dare ai lavoratori, ai gruppi or-
ganizzati, alle società minori la possibilità di risolvere i problemi che sono
loro propri e ai quali lo Stato non deve guardare, ma in senso opposto.
Il problema, dunque, sta nel modo di concepire lo Stato, l’intervento
del sindacato e dello Stato, la posizione dei lavoratori nello Stato. Se mi
amareggia questo contrasto di opinioni, mi conforta però il fatto che ab-
biamo potuto portare in Parlamento questo problema e che da più parti si
guarda ormai con fiducia a queste posizioni, che non esprimono una vo-
lontà di servilismo a interessi particolari, a richieste di parte, ma fanno
parte veramente di un bagaglio di idee che vogliono per parte nostra in-
terpretare una volontà: quella, dei lavoratori, di crescere individualmente
e collettivamente, organizzandosi nella società.
289
rico semplicistico scetticismo. È necessario basare la risposta sui risultati
di osservazioni dirette ed oggettive.
Questa risposta è contenuta nelle due relazioni dedicate al tema della
osservanza delle norme protettive del lavoro redatte dalla Commissione
parlamentare di inchiesta sulle condizioni dei lavoratori in Italia che ha
visto di recente la fine della pubblicazione delle importantissime relazio-
ni. Questa risposta è contenuta in due relazioni e le relazioni sono state
fatte a conclusione di una lunga indagine.
Le conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle
condizioni dei lavoratori in Italia sono contenute nel volume III che trat-
ta, appunto, della osservanza delle norme protettive del lavoro.
A pagina 54, sotto il titolo «Considerazioni generali conclusive in
materia di osservanza della legislazione protettiva del lavoro», si dichia-
ra: «Una prima conclusione di ordine generale da trarsi è quella che il
nostro paese dispone, oggi, di un sistema di leggi protettive in materia di
lavoro che in effetti detta norme che si possono considerare idonee a ga-
rantire la tutela, sia della integrità fisica che della personalità morale del
lavoratore. Ciò posto, deve anche rilevarsi che tali leggi non sono mai
prive di effetti. Nella maggior parte dei casi esse sono applicate. Anche
quando non lo sono – in tutto o in parte – esse costituiscono sempre, co-
me è risultato alla Commissione, una remora per l’imprenditore, il quale,
anche se si preoccupa di ricorrere ad adattamenti o ad accorgimenti elu-
sivi, è pur sempre soggetto alla forza intimidatrice della legge. In una vi-
sione complessiva, le leggi protettive del lavoro costituiscono in Italia un
valido strumento di difesa dei lavoratori, anche se un certo numero di
inosservanze sono state rilevate non solo nelle aziende private, ma anche
nelle aziende a partecipazione statale. Va, in ogni modo, considerato che
la Commissione ha, comunque, costatato una viva preoccupazione, da
parte degli imprenditori, di ottemperare ai precetti posti dal legislatore.
Deve, pertanto, concludersi che lo strumento legislativo usato a protezio-
ne del lavoratore comporta sempre nel nostro paese effetti positivi, anche
se la sua efficacia non può non essere congiunta ad una certa gradualità
nell’adattamento dei destinatari ad ogni nuovo precetto».
Questo giudizio espresso qualche anno fa è tuttora valido e rispec-
chia anche la situazione attuale, situazione anzi che si è venuta aggravan-
do proprio nell’ambito dei licenziamenti individuali.
Purtroppo non è possibile eliminare in modo assoluto il ricorso al li-
cenziamento: vi si oppongono molteplici fatti di varia natura. Del resto,
il complesso delle norme contenute nel disegno di legge al nostro esame
contempla una equilibrata posizione che tiene conto della realtà delle si-
tuazioni sia individuali sia aziendali.
Ma almeno un obiettivo fondamentale viene raggiunto dalla legge:
quello di rendere edotto il lavoratore delle ragioni di un provvedimento
che tocca la sua sorte e quella della sua famiglia.
290
Il provvedimento, cioè, deve essere obiettivamente fondato e la pro-
va della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licen-
ziamento deve essere fornita il più ampiamente possibile dal datore di la-
voro. È stato osservato che questo risultato può essere raggiunto con
clausole dei contratti di lavoro. Senza dubbio la pattuizione sindacale
che viene condotta senza soste, aggiorna continuamente le posizioni eco-
nomiche e normative dei contratti collettivi.
Del resto il disegno di legge di cui discutiamo dichiara valide le di-
sposizioni di contratti collettivi e accordi sindacali che per la materia di
cui si tratta contengono condizioni più favorevoli al prestatore di lavoro.
Ed è questa la dinamica del progresso incessante nei rapporti di lavo-
ro: azione sindacale nelle categorie maggiormente sensibili e sindacal-
mente disciplinate, conquista della meta, creazione, quindi, delle condi-
zioni per un coronamento legislativo.
È un cammino che deve essere percorso e che, oltretutto, è indicato
dalla nostra Costituzione.
È indubbio che la dichiarazione documentata di recesso per giusta
causa avvicina la posizione di parità morale dei contraenti, così come
l’introduzione del recesso per giustificato motivo e la procedura messa in
atto dal disegno di legge.
È in questa luce che va giudicato il presente provvedimento. Ma so-
prattutto esso è espressione realizzatrice della funzione del Parlamento in
regime democratico parlamentare.
È il Parlamento che raccoglie gli impulsi, le sollecitazioni più varie
delle categorie, dei settori, degli interessi della comunità nazionale. È il
Parlamento che si fa carico istituzionale di vagliare queste sollecitazioni
e di metterle in sintonia con diverse e talvolta opposte sollecitazioni. È il
Parlamento che nel contrasto e nella varietà delle opinioni, dei convinci-
menti e delle formule tecniche, trova la soluzione più rispondente al fine
di una società civile e bene ordinata: quello del bene comune.
291
questo dibattito il meglio della loro elaborazione dottrinale ed anche del
loro sforzo intellettuale. Lo hanno fatto con tanto impegno, con tanta sin-
cerità e tanta passione che non si può loro negare il dovuto riconosci-
mento; e questo tanto più in quanto avrò occasione di concordare su al-
cuni punti e di dissentire invece su talune tesi da essi sostenute.
Pur con le sue lacune, pur con i suoi limiti, il testo elaborato dalla
Commissione migliora l’accordo sindacale che è stato stipulato parecchi
mesi or sono.
Sono d’accordo e riconosco che, anche se miglioreremo il testo della
Commissione, non avremo risolto automaticamente il problema delle ga-
ranzie complete dei lavoratori dalla rappresaglia padronale, dal licenzia-
mento non giustificato. Su questo punto sono completamente d’accordo
con i colleghi della Cisl e credo che dobbiamo guardarci tutti insieme dal
rischio di ingenerare eccessive illusioni intorno alla immediata operati-
vità di questa legge.
La mancata approvazione però, darebbe sicuramente ai padroni il
senso che l’arbitrio in base al quale essi licenziano per rappresaglia corri-
sponde a un diritto, tanto che il Parlamento non se l’è sentita di legiferare
in materia.
Avere una buona legge è sicuramente meglio che avere un cattivo
contratto. Nel caso specifico ci troviamo di fronte al miglior contratto
possibile nelle condizioni in cui l’abbiamo stipulato. Infatti, i contratti
sono figli delle situazioni nelle quali vengono stipulati. È evidente che la
contrattazione collettiva non è un momento nel quale le ragioni e i torti
delle parti si compongono sulla base del principio astratto del diritto. Le
ragioni e i torti delle parti al tavolo delle trattative si compongono sulla
base delle forze reali che ciascuna di quelle parti in quel momento rap-
presenta. Quelle forze non sono statiche, sclerotizzate, eterne, e possono
evidentemente mutare. Ma non vi è dubbio che il contratto è assai più
della legge, la conclusione di uno scontro reale di forze che sono attorno
al tavolo a rappresentare specifici interessi, indipendentemente dai
princìpi giuridici sulla base dei quali questi interessi possano essere ap-
poggiati o combattuti.
Non credo che si possa accettare la tesi secondo la quale una legge
che regoli la giusta causa rappresenta quasi un incentivo per il padronato
a compiere una discriminazione preliminare crescente fra i lavoratori
candidati al posto di lavoro. Penso che neanche in ipotesi un argomento
di questo genere possa essere accolto. Le discriminazioni padronali,
quando ci si trova di fronte a licenziamenti (e purtroppo spesso si verifi-
cano), hanno matrice diversa da quella della giusta causa ed hanno loro
canali diretti per affermarsi, indipendentemente da qualsiasi regolamen-
tazione contrattuale e giuridica riferentesi al problema della giusta causa.
Non mi pare quindi serio neanche l’argomento, formalmente più sot-
tile, che è quello della necessità di rispettare i patti. Pacta sunt servanda:
292
sono parole, queste, che ascoltiamo spesso da bocche che non sono quel-
le degli organizzatori sindacali. Noi, come organizzazione sindacale, ab-
biamo stipulato un accordo in buona fede ed abbiamo sostenuto in buona
fede – almeno noi della Cgil – all’atto della contrattazione che riteneva-
mo che il problema della giusta causa, della eliminazione di alcuni arti-
coli del Codice civile e così via, dovesse diventare materia di legge.
Non abbiamo fatto la politica del doppio binario. Quando abbiamo
contrattato a piazza Venezia con la Confindustria, abbiamo detto: faccia-
mo un accordo con voi, ma sia chiaro che per noi questi problemi neces-
sitano di una definizione legislativa.
In quella sede abbiamo operato con questa veste, e con questa posi-
zione esplicita abbiamo raggiunto un accordo; qui, in Parlamento, abbia-
mo un’altra veste: siamo deputati, rappresentiamo le masse popolari, fac-
ciamo parte dell’organo legislativo supremo del paese, e perciò abbiamo
il potere di decidere su ogni questione del genere, senza eccezione.
Se l’obiezione dei colleghi della Cisl di voler salvaguardare l’autono-
mia del sindacato fosse valida in questo caso, dico subito che sarei d’ac-
cordo con loro. Io non sono disposto a sacrificare sull’altare di nessun
dio l’autonomia del sindacato.
Ma si tratta di vedere se è vero che approvando una legge sulla giusta
causa noi sacrifichiamo in una misura grande o piccola l’istanza suprema
del sindacato, che, soprattutto nel momento presente, è quella della sua
autonomia.
Siamo d’accordo sul fatto che il sindacato deve avere il potere di
contrattare, che il sindacato è in quanto contratta; e quindi siamo d’ac-
cordo sulla priorità dell’obiettivo della contrattazione come ragion d’es-
sere stessa del sindacato. Ma non si può – io ritengo – da questa afferma-
zione, sulla quale nelle organizzazioni sindacali del nostro paese in que-
sto momento v’è in larga misura un accordo, automaticamente dedurre la
conclusione che se si contratta null’altro si può fare; perché i problemi
che si riferiscono alla situazione generale nella quale la contrattazione o
la definizione legislativa di certi aspetti del rapporto di lavoro avviene
hanno una importanza per i sindacati.
Sono d’accordo che è esistito e continua ad esistere nel nostro paese
un problema reale dell’autonomia del sindacato. Non nego che questo
problema esista; sono convinto che esista in realtà e sono anche convinto
che non sia del tutto risolto. Voi sapete che esisteva da parte nostra, in
particolare, sulla questione del rapporto sindacato-partito una teorizza-
zione che nella storia del movimento operaio internazionale è passata
sotto la formula del «sindacato-cinghia di trasmissione»; del resto esatta,
perché questa dizione rispecchiava esattamente il rapporto. C’era, dun-
que, una teorizzazione di un rapporto di subordinazione tra il sindacato e
il partito. Ma noi dobbiamo prendere atto, tutti, che a questi chiari di luna
(io parlo il 4 maggio 1966) ci troviamo in una situazione completamente
293
diversa: e oggi il problema dell’autonomia del sindacato, per esempio,
dal mio partito è considerato con una definizione completamente opposta
a quella della cinghia di trasmissione, cioè la posizione del mio partito ri-
spetto al rapporto sindacato-partito è quella, come voi saprete certamen-
te, di una assoluta autonomia.
Anche su questo problema oggi c’è da parte nostra uno sforzo per
giungere ad una definizione, in termini generali di principio, del rapporto
che si deve stabilire – appunto – tra sindacato e partito. Qualcuno potreb-
be dire che noi siamo i meno adatti a fare questo discorso.
Ma non vi sono soltanto le subordinazioni teorizzate; vi sono anche
quelle di fatto, pratiche, che possono essere anche non meno gravi, non
meno lesive dell’autonomia di quelle teorizzate nei testi dell’ideologia di
questo o di quel partito. Sono d’accordo, però, che una condizione di au-
tonomia reale del sindacato non è conquistata in toto e per sempre. Ten-
tativi di pressione esistono ed esisteranno, e saranno tanto più efficaci
sempre quanto più i sindacati saranno deboli e divisi. L’autonomia di un
sindacato dipende molto dalla sua forza e dalla sua unità.
Non illudiamoci che stabilire rigorosamente le incompatibilità signi-
fichi in realtà acquisire automaticamente un’autonomia reale dei sinda-
cati: perché questa può essere una condizione opportuna, in certi casi
magari necessaria, ma non sarà mai una condizione sufficiente per assi-
curare il rapporto di autonomia, che deve invece essere basato su un ben
più complesso sistema di garanzie.
Credo che la prima condizione per l’autonomia sia la capacità di ela-
borazione di un sindacato, nonché la forza intellettuale e morale che lo
sostengono, sulla base di una organizzazione democratica del rapporto
che si vuole stabilire e mantenere con i lavoratori, per avere con essi una
relazione che non sia da padre a figlio, ma sia concepita in maniera tale
che i lavoratori si sentano i padroni di questa grande cosa che essi hanno
voluto e creato, cioè la loro organizzazione sindacale.
Se fossimo convinti che questa è la condizione migliore, che il plura-
lismo sindacale è il non plus ultra per quanto riguarda la forza dei lavo-
ratori e l’autonomia dei sindacati, non avremmo altro da fare che conso-
lidare la situazione esistente. La verità è invece il contrario, anche se at-
tualmente le prospettive sono migliori rispetto ad alcuni anni addietro.
La vera ragione di questo miglioramento consiste nel fatto che oggi ab-
biamo rapporti unitari assai più stretti di alcuni anni fa. Nonostante ciò,
noi continuiamo a trovarci in posizione di inferiorità rispetto alla contro-
parte: tre organizzazioni sindacali sono troppe in un paese come il no-
stro, in cui il padronato tende ad essere uno, non solo all’interno delle
frontiere, ma anche sul piano internazionale.
Con una situazione nuova nei rapporti sindacali, con il raggiungi-
mento di una unità organica dei sindacati, potranno essere risolti anche
problemi sui quali è oggi impossibile trovare un’intesa.
294
L’esigenza di una norma di legge che renda obbligatori i contratti
collettivi è più o meno fortemente sentita in relazione all’applicazione
stessa dei contratti collettivi. Sono convinto che l’esistenza di un sinda-
cato unitario, con la forza grande che deriverebbe all’organizzazione dei
lavoratori da questa sua ricostituita unità, porterebbe naturalmente a con-
siderare anche questo problema in termini diversi. Noi chiediamo l’ap-
plicazione dell’articolo 39 della Costituzione perché la validità giuridica
dei contratti è una condizione per difendere gli interessi di quei lavorato-
ri nei confronti dei quali i padroni non applicano i contratti di lavoro.
Dobbiamo fare attenzione ai rischi che l’autonomia del sindacato può
correre in relazione ai problemi della contrattazione, per il tentativo della
Confindustria di unificare le vertenze, per la politica dei redditi, che è
una politica di limitazione dell’autonomia contrattuale dei sindacati – di-
rei, per definizione – e anche per certi contenuti (che ci riserviamo di
chiarire con voi) delle proposte che voi della Cisl avete avanzato in ma-
teria di accordo quadro.
Non pretendo di disporre di argomenti sufficienti per convincere
qualcuno; però prego i colleghi della Cisl di riconsiderare la loro posizio-
ne, non per indebolire la difesa che debbono fare, che dobbiamo fare in-
sieme, della prerogativa dell’autonomia del sindacato; ma per vedere se
è proprio vero che questa legge, con i contenuti che in questo momento
prospetta e con i miglioramenti che noi speriamo che essa possa avere,
pregiudichi questo principio, che è comune a tutti noi e che noi, insieme
con voi, almeno altrettanto quanto voi, vogliamo difendere.
Noi, naturalmente, chiediamo invece al Parlamento di approvare ra-
pidamente questa legge.
295
va favorevolmente l’iniziativa legislativa governativa e parlamentare la
consapevolezza che il Parlamento doveva operare una precisa scelta po-
litico-sociale, in considerazione della necessità e della utilità di adeguare
la nostra legislazione ai nuovi postulati della giustizia sociale.
Ecco perché il dibattito si è accentrato attorno ai modi migliori per
rendere operante il principio della giusta causa nei licenziamenti indivi-
duali che per altro era già previsto nel Codice civile, pur se bisognoso di
indicazioni che ne precisassero l’interpretazione. Di qui la necessità di
operare una prima importante modificazione dell’articolo 2118 del Codi-
ce civile, predisponendo, come fa il presente disegno di legge, l’abroga-
zione del primo comma del citato articolo e cioè la definitiva liquidazio-
ne del licenziamento ad nutum. Conferma tale precisa volontà di adegua-
mento la puntuale precisazione del giustificato motivo del licenziamento
stesso. Ambedue le condizioni – precisazione dei termini per la giusta
causa ovvero giustificato motivo – hanno trovato nel provvedimento in
discussione una definizione che a mio giudizio può essere giudicata posi-
tiva.
Non è senza significato che una organizzazione sindacale come la
Cgil, che con tanta coerenza e tenacia da anni è impegnata al consegui-
mento della giusta causa nei licenziamenti individuali come una delle
tappe importanti per la difesa della libertà e dei diritti dei lavoratori con-
tro le azioni illecite o di rappresaglia, abbia ieri accolto con soddisfazio-
ne l’iniziativa del governo e giudichi oggi complessivamente positivo il
testo sottoposto alla nostra discussione quale risultato del lavoro delle
commissioni riunite. Ed a me sembra puerile l’ironica affermazione che
vuole assegnare a noi la pretesa che con questa legge attendiamo la ces-
sazione di colpo di tutti i licenziamenti individuali ingiusti o illeciti. Noi
valutiamo positivamente ed apprezziamo la legge quando, sopprimendo
il licenziamento ad nutum, cancella dalla nostra legislazione la vergo-
gnosa possibilità del licenziamento del lavoratore con il solo cenno del
capo, sostituito oggi con sistemi più moderni ma ugualmente avvilenti
per il lavoratore e che sostituiscono al cenno del capo fredde righe buro-
cratiche che comunicano semplicemente che l’opera del lavoratore non
serve più all’azienda. Pur nella convinzione che nella legge si rafforzerà
il diritto del lavoratore, siamo consapevoli che essa da sola non può ba-
stare a creare una situazione nuova e tale da garantire a tutti la libertà e i
diritti dei lavoratori. Tale conquista richiederà ai lavoratori altri sacrifici,
ai sindacati rinnovati impegni per conseguire la completa definizione del
diritto del lavoratore ed al Parlamento altri e nuovi provvedimenti che
trasformino ed adeguino il codice alla lettera ed allo spirito della Costitu-
zione: in una parola che si realizzino i numerosi provvedimenti che in
questa aula sono stati più volte auspicati e che il governo ha riassunto nel
suo impegno programmatico come lo Statuto dei diritti del cittadino la-
voratore.
296
Ma è però incontestabile il fatto che già di per sé questa legge è tanto
più importante in quanto stabilisce un nuovo orientamento della nostra
legislazione che va al di là dei limiti propri imposti dalla materia che è
chiamata a regolamentare.
È proprio in ordine di considerazioni riguardanti la tutela del lavora-
tore impegnato nell’attività sindacale, oltre che in quello di considerazio-
ni più generali, che non si possono stabilire due comportamenti diversi
nei casi di licenziamenti individuali, e perciò non ci convince per niente
la distinzione operata dall’articolo 12, quando prescrive che le disposi-
zioni della legge non si applicano alle imprese che occupano fino a 35 di-
pendenti.
Ci sono state rivolte in questi giorni alcune domande: quale utilità ha
questa legge che non stabilisce niente di più di meglio di quanto è stato
già conseguito attraverso libere contrattazioni sindacali? Non vi è in tale
atto un pericolo tendenziale, e cioè che da parte del Parlamento e del go-
verno ci si sostituisca, anche se oggi, nel caso specifico, in modo positi-
vo, ad attività proprie del sindacato e della contrattazione sindacale con
il rischio implicito di svuotarne la funzione? Quale senso ha più la con-
trattazione sindacale se poi in materie specifiche Parlamento e governo
possono modificare in meglio o in peggio il risultato della libera contrat-
tazione?
Per quanto riguarda la necessità e l’utilità della legge in discussione,
non voglio ripetere quanto ho già detto prima, sia a riguardo dell’indi-
spensabile adeguamento della nostra legislazione ai nuovi postulati di
giustizia sociale, sia per quel che la legge decisamente migliora nei con-
fronti della stessa contrattazione. Che poi l’iniziativa in questione possa
denunciare una tendenza pericolosa presente nel Parlamento o nel gover-
no, se anche si tratta di questione in generale sempre presente nella vita
politica di una comunità, nel caso specifico la cosa non ha in sé alcuna
caratteristica diversa dal semplice incontrarsi di due aspetti positivi: uno
realizzatosi in campo sindacale con la contrattazione, l’altro che si rea-
lizza in campo legislativo, non respingendo ma recependo i valori positi-
vi della contrattazione. Per altro è, questa della giusta causa, una materia
che da anni registra iniziative a livello parlamentare, sia per la natura in-
novatrice della stessa, sia per l’assoluta intransigenza della parte impren-
ditoriale. E non può sfuggire a nessuno che la contrattazione dei licenzia-
menti individuali ha acquistato tale estensione in quanto da tempo la ri-
vendicazione di una regolamentazione legislativa della materia come
parte dello Statuto dei diritti dei lavoratori era stata recepita in un pro-
gramma di governo, con l’assunzione di un impegno in tal senso.
La Cgil ha avuto più di un’occasione per dimostrare la giusta valuta-
zione che essa fa del valore della contrattazione sindacale. Altrettanto
numerose sono state, attraverso scritti ed atti, le prove che testimoniano
la nostra volontà di salvaguardare il sindacato e la contrattazione da ogni
297
ingerenza o condizionamento, da qualunque parte fossero tentati. Così
come ci siamo sempre impegnati a meglio definire i termini dei rapporti,
in modo da non attentare mai alla sovranità del Parlamento o da attribui-
re al governo funzioni che la Costituzione gli nega. Proprio in questi
giorni abbiamo avuto modo di vedere con soddisfazione come la richie-
sta da parte della Confindustria di un impegno che noi ritenevamo inac-
cettabile in quanto avrebbe significato condizionamento dell’attività del
governo e della