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Francesco Lamendola

Esiste una identit veneta? E, se s, in che cosa consiste?


da poco che gli Italiani hanno scoperto il Veneto. Prima, di esso conoscevano solamente una serie di luoghi comuni e di banalissimi stereotipi, aventi un elemento in comune: la laboriosit e, al tempo stesso, lingenuit dei Veneti; ma le due caratteristiche erano percepite come complementari: tanto laboriosi da diventare facilmente fessi, cio preda di qualcuno pi scaltro e smaliziato. Poi arrivato il boom del Nordest, fra gli anni Settanta e Ottanta, vale a dire con un buon ventennio di ritardo su quellaltro boom che aveva traghettato lItalia nella modernit, quello del Nordovest. Solo che in quel caso, la manodopera necessaria al decollo del Triangolo industriale era stata fornita dai contadini meridionali immigrati a Milano, Torino e Genova; questa volta, invece, era stata fornita in loco, dalle stesse comunit e dalle stesse famiglie che avevano messo in piedi unazienda agile e intraprendente, giocando dinventiva e riducendo le spese per i magazzini a costo zero, mediante un massiccio utilizzo del trasporto su ruota (mentre il primo boom si era basato sul trasporto mediante rotaia). LItalia era rimasta stupita, ammirata e segretamente invidiosa: ma come, erano proprio questi quei poveretti che per decenni il cinema e le barzellette avevano sfottuto; quei contadini ultracattolici, un po tonti, gran lavoratori ma senza fantasia e senza iniziativa, quelle eterne servette che andavano a servizio dai signori di citt? E adesso costoro avevano messo su un modello industriale leggero, territorialmente diffuso e alternativo alle grandi concentrazioni del Triangolo del Nordovest, e perfino maggiormente competitivo rispetto ad esse? Ed erano diventati la locomotiva dItalia, i principali sovvenzionatori delleconomia nazionale, i principali contribuenti del gettito fiscale, i pi efficienti e virtuosi nelle pubbliche amministrazioni? Alle prese, per, con una concorrenza internazionale spietata, sul modello cinese, e con gli effetti della crisi finanziaria ed economica mondiale, anche il miracolo del Nordest ha mostrato tutte le sue fragilit, tutta la pericolosa improvvisazione delle sue basi; e, come prima cosa, stato costretto a far ricorso in misura esponenziale alla manodopera straniera poco qualificata, provocando pericolosi contraccolpi: primo fra tutti, labbassamento del costo del lavoro, la disinvolta trascuratezza delle norme di sicurezza sul lavoro e sulle strade (settori nei quali il Veneto detiene il poco invidiabile primato della mortalit), lulteriore concorrenza al piccolo commercio a conduzione familiare , nonch una serie di malumori e di tensioni sociali dovute alla difficolt di assimilare una popolazione straniera insediatasi massicciamente in pochi anni e che ormai si aggira, in taluni comuni, intorno al 10 e anche al 12% di quella totale. Questo senza tener conto del pazzesco aumento del traffico stradale, della continua, incessante cementificazione del territorio, dei livelli sempre pi alti di inquinamento e di malattie ad esso riconducibili (tumori compresi), del degrado del patrimonio naturale, cultuale ed artistico, nonch di un certo impoverimento spirituale che, se non ovviamente misurabile in termini oggettivi, incide tuttavia non poco sulla qualit della vita, come confermato anche dalle statistiche in aumento relative allabuso dellalcool e del tabacco o alluso di droghe, alle malattie depressive, ai suicidi o tentati suicidi; per non parlare del vertiginoso aumento della criminalit, dei delitti allinterno della cerchia familiare, della sensazione di insicurezza e di paura che spinge le persone a rinchiudersi in casa, specialmente la sera (perfino nel pieno dei centri cittadini avvengono stupri o rapine, talvolta anche in pieno giorno). 1

Ad ogni modo, quando era ancora in piena crescita la locomotiva del Nordest - perch non si dimentichi che, accanto al Veneto, marciavano a tutta velocit anche le due vicine regioni con il vantaggio dello statuto speciale, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, pi piccole ma altrettanto intraprendenti - questa parte della nazione ha incominciato a prendere consapevolezza del ruolo da protagonista ormai assunto e si data una forte rappresentanza politica, tale da influenzare gli assetti dellintero sistema nazionale dei partiti. Ora anche quei tempi sono gi quasi un malinconico ricordo, con la Lega Nord che ha deluso moltissimi simpatizzanti, non avendo saputo tradurre in realt quasi nessuna delle molte promesse fatte, dagli sgravi fiscali alle aziende, al sostegno delle famiglie - e tuttavia quellesperienza ha lasciato una traccia profonda, dalla quale non si potr prescindere in futuro, qualunque cosa accada: avendo preso coscienza di se stessi, i Veneti non ritorneranno pi a recitare la parte dei comprimari, buoni lavoratori ma sostanzialmente manipolabili. La loro reazione piccata alla scarsa attenzione dei media, nei primi giorni delle alluvioni del mese scorso che hanno colpito soprattutto le province di Padova e Vicenza (con il viaggio-lampo di Berlusconi e Bossi per far vedere che loro ci sono e non sottovalutano i problemi di quelle aziende e di quelle popolazioni), dimostra che hanno sviluppato un sentimento identitario abbastanza forte da far percepire come un sopruso la distrazione del resto dItalia nei confronti dei loro problemi, anche per la fiera consapevolezza di aver dato molto, fino ad oggi, allinsieme del Paese. Tutto questo ci riconduce a una semplice, ma non scontata domanda di fondo: si pu parlare di una specifica identit veneta, come di una identit di tipo nazionale? Alla quale segue, necessariamente, questaltra: se s, in che cosa essa consisterebbe, in che cosa si rivela ed chiaramente riconoscibile? Se lo erano chiesti una trentina di intellettuali veneti, nel corso di una serie di conversazioni pubbliche che, nel 1998, aveva promosso il Consiglio Regionale, in collaborazione con sette comuni della regione (Adria, Castelfranco, Cittadella, Feltre, Legnago, Portogruaro, Valdagno): da Sabino Acquaviva a Ulderico Bernardi, da Ferdinando Camon a Giovanni Dusi, da Edoardo Pittalis a Fulvio Roiter. Fra tutti quegli interventi, ci sembrato di particolare attualit quello di un intellettuale schivo e intelligente, un giornalista che era un autentico uomo di cultura, il compianto Giorgio Lago, che con tanta chiarezza e umanit sapeva parlare ai suoi lettori dalle colonne de Il Gazzettino; e ci parso che oggi, a dodici anni di distanza, valga ancora la pena di soffermarsi sulle sue riflessioni, le quali, semmai, hanno acquistato ancora pi forza e attualit dallevoluzione complessiva della societ veneta, in questo primo scorcio del terzo millennio. Ne scegliamo alcuni passaggi che ci sono parsi particolarmente stimolanti per sviluppare una ulteriore riflessione (da: Identit veneta, a cura di Cesare De Michelis, Tascabili Marsilio/Giunta Regionale del Veneto, 1999, pp. 202-03): Lidentit mia, sento che sono io e che non potrei essere nientaltro da quello che sono. Potrebbe finire qui lidentit, senza ulteriori aggettivi. Un interno di persona, ma anche una identit recintata, che tiene il mio io murato vivo, un gioco tutto solitario, una forma di labirintismo esistenziale, senza via duscita. Aggrego laggettivo veneta, identit veneta appunto, e avverto che lidem non pi lo stesso. Non sono pi mio, mi esproprio per cos dire, lidentico esce allaperto, si mete in relazione, va alla scoperta di un comune sentire, se ci sar. Lidentit diventa un sentimento plurale, la ricerca di un linguaggio, la nozione anche inafferrabile di tutta una serie di segni, come andare per piste allo stesso tempo battute e nuove, nuove per me, battute da generazioni. Come cantare in coro, tra nonni e figli. A scanso di fraintendimenti, lidentit come la sento io assomiglia un po a unideologia, ma del vivere. Un sistema di idee, di tradizioni, di suggestioni, di emozioni, di allusioni, anche di misteri, spesso di non-detto. Al contrario dellideologia, lidentit risulta per in larga misura inesprimibile come i sedimenti della vita. Qui non tento neppure di catalogare lidentit veneta, provo a 2

raccontarla cos come viene dal mio filtro. Do testimonianza, non prova, meno che meno lezione. Soltanto appunti di un viaggio dentro. Ogni mattina, dal quarto piano del mio condominio,apro fortunatamente le finestre sul Grappa, a pochi chilometri sullorizzonte. Nel guardarlo, capisco benissimo , tra me e me, che cos lidentit veneta, mi basterebbe. Lo guardo ma non lo vedo, perch il mio guardare si realizza tutto con il pensiero, non con gli occhi. Lultimo mio pensiero estetico. Nemmeno naturalistico: mi dice poco o nulla sapere che il Grappa ha quattro milioni di anni, che calcareo e carsico,, che ha una flora ricchissima, anche mediterranea, e, inaspettatamente, una fauna altrettanto ricca. Visto cos, il Grappa mi apparirebbe come un habitat da conservare, abbastanza neutro rispetto allidentit veneta in s. Ma lo sguardo si fa ulteriore, legge in controluce, coglie il luogo della memoria: come se, a distanza, fosse possibile in quellistante una topografia dellanima. Sento che il Grappa unaltra cosa allora, pensata, un luogo popolatissimo, paterno, di tante storie, e di un lungo silenzio interiore, guerra e pace, testimone di generazioni, magazzino di popolo, e del ricordo. Non un sentimento esclusivo dei veneti, visto che la ma identit mai esclude e recinta, ma che ai veneti parla naturalmente, senza mediazioni, facendo riconoscere il Grappa - che scelgo come unit di misura per il cumulo di storia e di storie che quasi lo annichilisce, una basilica a cielo aperto di ferite e di cultura, di incontro e di violenza, con i veneti a ospitare una tragedia nazionale a conservare ultima smemorata identit. un linguaggio muto lidentit, un intendersi al volo. Una carta didentit che propone i segni particolari, insieme, secondo un codice Morse passato di mano per impulsi mai solitari. Per lo pi dolorosi. Lidentit, lo dico soprattutto ai ragazzi, fugge la retorica, ne rappresenta il contrario. La retorica artificio, ostentazione, anche gioco della mente, divertimento culturale. Lidentit bella piena come una mela, cos poco astratta; carica di materiali di risulta, di con-divisione, poco ricamata, ha un doppio fondo. Ci che emerge e ci che stato. Se mangio polenta, alta una spanna come susava nel bellunese, non assumo un cibo, ma assaporo una civilt sepolta, verri e propri graffiti veneti. Se cammino lungo un sentiero del Grappa, sento la mia zolla, una solida persistenza, un allenamento alla trasmissione di valori,, quali e da chi a chi sempre pi difficile capire ma che meritano la nostra fatica. Tutto questo, per, rischia di assomigliare sempre pi a una voce che si perde nel deserto: il deserto delindifferenza, dellanonimit, di una alienante omologazione, tanto pi abietta quanto pi volontaria e scioccamente compiaciuta di s. Giorgio Lago era un gran signore dellanima e, con la sua sensibilit, aveva saputo cogliere lelemento essenziale dellidentit: qualcosa che non esprimibile mediante il Logos razionale, ma che si sente a fior di pelle, che si vive nel cuore della propria anima, come profonda intesa e comunione con la propria terra, con la propria gente, con la propria tradizione, senza esclusione dellaltro, ma anche senza smemoratezza di s. Oggi, quanto pi si diffonde il modello edonista e consumista del cosiddetto benessere, quanto pi acquista forza un progresso che soltanto materiale e che di nulla si cura se non del denaro e del modo in cui aumentarlo, un pericolo mortale minaccia lidentit veneta, cos come tutte le identit che hanno imboccato troppo in fretta e troppo superficialmente le vie dello sviluppo puramente quantitativo: la perdita dellanima. Il Veneto non pi terra di emigranti, come lo era ancora due generazioni fa, anzi diventato terra di immigrazione; non pi terra di contadini poveri e analfabeti, ma di numerosi piccoli imprenditori, di commercianti, di operatori di un terziario diffuso e sofisticato. Ma sono diventati migliori? Il loro senso di appartenenza, il loro legame con la terra e con gli antenati, si rafforzato o si indebolito, fino a sfilacciarsi completamente? Il pericolo, dunque, quello di un Veneto senza pi Veneti; popolato, cio, da persone senza radici, senza valori, senza il senso della memoria. 3

Non basta gridare identit veneta per fare lidentit veneta; anzi, quando si sente gridare, viene il sospetto che la cosa in s si stia irrimediabilmente perdendo. Lidentit la si sussurra, come si sussurrano allorecchio dellamata le dolci parole damore; non la si sbandiera, perch figlia del pudore e sorella della discrezione. Giorgio Lago, quel signore, aveva intuito la minaccia e laveva denunciata con parole profetiche; cos come, prima di lui, lo scrittore Guido Piovene (op. cit., pp. 210-11): Un valore delicato, per niente monolitico, anzi prismatico, che persino allinterno del Veneto assume una ricchezza, spesso non abbastanza colta, di sfumature. proprio questa levit veneta che dovrebbe aiutare i veneti a ragionare sullidentit con amore e garbo e ampiezza danimo. Lidentit a me pare riflessiva. Pi si sforza di cogliere laltro, pi coglie se stessa, pi indaga sulla propria radice, pi comprende altre radici. Oggi i confini on segnano la fine, ma linizio: i mondi non s chiudono al confine, ma ricominciano. Non pu essere lidentit, nessuna, tanto meno la veneta a farsi confine. Lidentit un bene prezioso, da curare. Senza, diventeremmo pazzi, straniti, sradicati; senza memoria calda, ciascuno ridotto a isola di s, finiremmo tutti nel manicomio della globalizzazione. La globalizzazione cammina nonostante tutto; gli economisti le affidano un compito virtuoso; il mondo che si spalanca, uomini e merci che superano dogane e angosce, barriere che vanno pezzi, sviluppo che contagia, forse il detonatore di nuove fughe dal destino del sottosviluppo. Sar questo, mi auguro. Ma domando: ciascuno di noi, nel suo infinitesimo di mondo, nel suo microscopico ubi consistam esistenziale, nel suo barlume di partecipazione al globale, dove potr fermare un suo punto di equilibrio tra linfinitamente grande della comunicazione e linfinitamente piccolo della persona? importante chiedersi ora, subito, con quali strumenti vivere il villaggio globale, entit che considero il pi clamoroso ossimoro mai inventato dal linguaggio. Villaggio, il micro, globale, il macro, dello stesso tempo, nello stesso luogo, allo stesso modo, con la stessa TV, gli stessi tic, le stesse mode, la stessa Coca-Cola, lo stesso smarrimento di fronte a una espressione indicibile come villaggio globale, terribile perch gi banale. Ho bisogno pi che mai di qualcosa di non friabile, di misurabile. Lo dico per me, ma soprattutto pensando allesperienza dei ragazzi, che dovrebbero guardare a noi - la mia generazione - non come ai padri, ma come ai bisnonni! A 61 anni mi sento trisavolo dei miei figli perch sulla nostra stagione, tra gli anni trenta e il duemila, si sono depositate ere non una vita. O, meglio, vite, faglie, rotture di stili, un radicale altro mondo, la scienza supersonica, tanti mondi repentini, che rendono noi inattuali, forse, felicemente eredi di noi stessi, con tre/ quattro generazioni dentro, allo stesso tempo testimoni e attori. In un racconto dublinese di Joyce, si lamenta il secolo scettico rimpiangendo altri tempi, tempi spaziosi se ricordo bene. E tuttavia preferibile sfuggire alla nostalgia, per tenere in pugno il senso dellidentit veneta: cambiare senza perdersi, pregare la vita, tenere un occhio di riserva sul sentiero che ci ha portati qui. Tempi spaziosi, forse, non so, perduti o da reinventare, non so. Guido Piovene temeva una civilt veneta consegnata a ospiti occasionali, senza storia su un fondale storico. Noi. Speriamo che queste brevi riflessioni portino un contributo alla riflessione sul senso e sul valore del concetto di identit, cos come vorremmo poterlo trasmettere alle nuove generazioni. Senza memoria non si costruisce nulla; n si pu procedere, se non ricordando: perch i nostri passi verso il domani siano illuminati dai sacrifici e dagli sforzi generosi di quanti hanno percorso, prima di noi, le nostre stesse strade. Se viene tolto questo, il cammino della vita diventa qualcosa di insensato, di assurdo, tanto per i singoli che per le comunit; non resterebbe che un caos aberrante, ove ognuno va brancolando, solitario e feroce, pestandosi i piedi a vicenda col proprio simile e nulla vedendo di ci che sta oltre la punta del proprio naso. 4

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