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Tra i "casi" che ingombrano da un buon numero di anni la nostra scena pubblica ne esiste uno di natura filosofica.

Si tratta del famoso "caso Heidegger" di cui sembra impossibile liberare davvero l'orizzonte o, almeno, le quinte della scena intellettuale francese. (Perch bisogna notare che non cos - tutt'altro! all'estero, e anche questo meriterebbe di essere analizzato). Al di l dell'imponente insieme di opere che gli sono state dedicate, e che hanno largamente esposto e analizzato i documenti del dossier, sembra perdurare un bisogno ricorrente che aizza periodicamente gli uni contro gli altri i partigiani della difesa e quelli dell'accusa, in un interminabile processo che non prevede alcuna istanza d'appello. Questo bisogno passionale o logico, e proprio questo difficile da sbrogliare. Senza dubbio gli accenti sono passionali, e tali passioni meritano che ci si interroghi su quel che le muove. Vi troppa enfasi, da una parte e dall'altra, per non cercarne i motivi. Ma il tema fondamentale logico, perch in definitiva non si tratta di nient'altro che di legittimare o delegittimare una filosofia in ragione dell'impegno politico del suo autore. Questa, almeno, la tendenza del dibattito - o dello scontro, poich spesso piuttosto questo aspetto che il "caso" in questione assume. E' solo una direzione tendenziale, dato che il pi delle volte si disposti da una parte dall'altra a distinguere piani e introdurre riserve, ma ci non toglie l'effetto d'insieme sia rimasto, da circa vent'anni, il seguente: un grande filosofo stato nazista, la sua filosofia ne dunque virtualmente macchiata da cima a fondo; oppure si deve affermare che egli non fu nazista, o lo fu a malapena e come per distrazione, se si vuole mantenere intatta l'immagine di un pensiero tanto puro quanto l'alba greca di cui ritrovava il fulgore. Mi sembra che il dibattito, cos com', racchiuda un errore filosofico e storico e che sia venuto il momento di liberarsene perch la posta in gioco importante. Non metter le parti una contro l'altra. In effetti, la difesa mostra con troppa evidenza come una devozione possa accecare o spingere alla denegazione secondo la formula freudiana del "s lo so, ma ci non toglie". L'accusa, in compenso, salvo qualche caso grossolano, prende le cose in maniera pi franca e pi accurata. Del resto, analisi notevoli e penetranti sono state prodotte dall'accusa, precisamente perch non si scartata per principio l'analisi. Detto questo, non voglio addentrarmi nelle distinzioni e nelle differenziazioni dei testi specifici. Senza parlare di nessuno in particolare, mi stupisco di questo: perch la questione viene o sembra trascurata, se non scartata, dalla condizione di possibilit, teorica e storica, di un tale sviamento politico da parte di un simile filosofo? (Segnalo di sfuggita che ci si potrebbe porre la stessa domanda a proposito di Carl Schmitt, intorno al quale vediamo delinearsi i prodromi di una faccenda analoga. I casi sono certi diversi, ma si somigliano).

Non mi chiedo come sia potuto accadere. Non ha alcun senso, il chiedere nell'accadere: piuttosto l'accadere, come tale, che chiede all'essere. O, almeno, prima pensavo che fosse cos. Prima, appunto, di questo accadere che ha in me, per la prima volta, la parola necessaria a che sia conosciuto. Mi hanno chiesto se avessi creduto ma per me, almeno in quel momento del loro chiedere, non aveva alcuna rilevanza. Si crede, ho creduto di rispondere, a qualcosa che non c'. Non era necessario qui riferirmi alla mia filosofia, bastava il pi basso dei catechismi cattolici. Volevano catturarmi ad un credere particolare, per farmi colpevole. Ma sono io che so che cosa sia il on essere pi capace di essere colpevole, loro non sanno che non saperlo non esserlo. H. ha ragione. Ho trovato scritto queste note oggi, aprendo questo taccuino. Devo averle vergate ieri, ma non ho un ricordo preciso al riguardo. Mi trovo qui, nella clinica di von G. da ieri, 17 giugno. Come io vi sia arrivato, non so, ma credo mi abbia portato Elfriede. Mi trovavo in uno stato semi-confusionale (l'espressione, evidente, non mia) come anche le brevi annotazioni possono indicare. Ma non ho una memoria precisa. Elfriede non con me. Qui sono solo. La mia camera piccola: un letto, un comodino, due sedie, un armadio. Questo tutto. Ma io non ho mai avuto bisogno di altro. Soprattutto adesso. Oggi mi hanno "visitato", un medico e un'infermiera. Mi hanno misurato la febbre. Hanno prescritto digiuno e delle pillole. Non ho niente da fare. Non devo pensare a niente. Meglio cos. Ho un vago ricordo di una lite ferocissima con Elfriede. Non so quali argomenti abbiano potuto determinarla. Lo chieder a lei, se mai verr a trovarmi qui. Non so se consentito dal regolamento. E' possibile che lo stato confusionale sia stato determinato dalla lite. Oppure viceversa. Oppure dalle ragioni della lite. O dalla mancanza di ragioni. Oppure dal mio antico odio per aver cercato delle ragioni dell'odio. Lo chieder ad Elfriede: lei sa che cosa sia il mio odio, e del resto ha fatto di tutto per farmelo sapere e io ho dovuto sempre cercare di distinguere fra il mio odio e lei immaginando una diversa corporeit all'immagine dell'odio. Non posso chiedere ad Elfriede ci che so gi, finirebbe per capire. Non ho bisogno di chiederle nulla. Non le ho mai chiesto nulla che volessi veramente sapere. Ma se cos non capisco le ragioni della lite. E' sempre stata cos al di fuori delle ragioni che ho pensato che io dovessi tenerne conto. E' forse questa la ragione del mio rapporto con Elfriede: sopravviene allorquando tutto stato negato come esistente fra noi. Per questo non posso fare ameno di Elfriede. Mi venuto sonno. Saranno le pillole. E' il giorno dopo. Non rileggo. E' possibile che anche questo venga ascritto allo stato particolare in cui mi trovo. Ne parler con il medico che verr a visitarmi

domani. Anche oggi, la "cura" il riposo. Ma un riposo indotto non certo un riposo, piuttosto un'assenza. Mi curano togliendomi misuratamente una parte consapevole, la parte che per il solito si denomina "vigile". Forse c'era troppo di "vigile" in me, ed stato questo a produrre lo stato particolare che chiamano confusionale. Occorre "la giusta misura" fra veglia e sonno, chi la supera perde da una parte e dall'altra. Capisco ora perch Lutero chiamasse il Vangelo col nome di sua moglie Caterina. Deve aver odiato il Vangelo. E' il 19 giugno 1945. La guerra finita da neppure due mesi. Oggi devo vedere il medico. Credo di ricordare perch ho litigato con Elfriede. Voleva che io riconoscessi che abbiamo perso la guerra. A me, un simile "riconoscimento" sembrava assurdo. A lei no. Io volevo uscire dalla guerra senza riconoscerla. Lei no. Io non volevo darle ragione. Lei non voleva averla, l'aveva e basta, perch imputava la guerra a qualcuno. Agli ebrei, in particolare. Ma io mi sono sempre rifiutato di credere che si potesse capire incolpando qualcuno. Se fosse cos, avrebbe ragione il cristianesimo. Ma il cristianesimo non ha ragione. Il cristianesimo non ha nulla a che fare con la ragione. Elfriede pensa come gli alleati, credono di aver vinto la guerra, Elfriede pensa di averla persa. Sono pari. Io no, io odio questi schemi elementari, io mi sono posto al di fuori: entro di essi sta l'etica della condanna, io ho dimostrato agli alleati che mi interrogavano che io con le "parti" non ho mai avuto a che fare, per me Hitler era superiore alle parti, per questo l'ho seguito, perch apparteneva a quella ragione superiore che non misurabile secondo le parti "in causa", e sono appunto quest'ultime che hanno fatto la guerra e l'hanno persa o vinta, lo stesso. Elfriede appartiene alle parti, e ha perso la guerra. Per me, la guerra non c' mai stata. Se non come elemento attivo, visibile, in certo senso, incarnato, di una conflittualit universale e perenne che si manifesta secondo scadenze intemporali, estetiche piuttosto, per relativizzare una forma di cultura e incendiarne le radici. L'ultima guerra era una di queste incarnazioni necessarie ma relative, transitorie, la parte "storica" e pertanto "visibile". Io mi occupavo dell'altra parte, quella pi "perenne" in cui il tempo ha tutt'altro carattere e significato. Anzi, non ha nessun significato in quanto non indica nulla. Ma queste ragioni non mi hanno assolto difronte agli alleati che mi hanno condannato al silenzio. Naturalmente, per me, sono del tutto insensate e indifferenti, condanna e assoluzione. Non cos il silenzio, perch l'unica parte "visibile" che io riconosco di quel conflitto per gli altri inesistente appunto la parola, e condannarmi al silenzio significa per me una perdita assoluta. In questo riconosco la mia origine cristiana. E' venuto il medico a "visitarmi". E' stato da me almeno due ore. E' uscito da poco dalla mia stanza. Annoto qualche osservazione sul nostro colloquio. Sapeva

chi sono: ha letto, dice, il mio libro. E' probabile che abbia letto qualcosa di Binzwanger su di me, cio qualcosa di oscuro, un'antropologia che si dice derivata dalla mia ontologia, ma non lo , perch dalla mia ontologia, che non un'ontologia, non pu derivare un'antropologia che non un'antropologia. Ma questo non ha davvero molta importanza. E' un uomo decente, come solo uno pseudoscienziato pu esserlo. Voleva sapere come mi sento. Abbiamo capito subito che era una pretesa assurda. Se io sapessi come mi sento, e se io potessi comunicare, a lui o altri, come mi sento, non sarebbe davvero necessario costruire gli ospedali (per racchiudere questo "sentirsi") e le chiese (per dedicarlo a DIO). Anche lui, per, ha fatto riferimento a una sorta di cedimento improvviso, che si sarebbe verificato qualche giorno fa e di cui, come ho detto anche a lui, non sono del tutto consapevole. Mi ha confermato che stata mia moglie Elfriede a farmi ricoverare. Ha fatto qualche apprezzamento su di lei che non condivido. Sulla natura, le ragioni e il carattere di questo "cedimento" anche lui non mi ha saputo dire molto. Qualcosa di pi sui modi. Ha parlato di uno smarrimento, come di un tremito morale, di un'incertezza nei movimenti del pensiero e del corpo, una disperazione assoluta che si manifestava nel rifiuto della parola, o meglio, di portare a fine le parole, che si interrompevano di colpo o si scontravano per cos dire nell'aria, per confondere i propri significati, per farsi incomprensibili, inesistenti, morte. Era come, diceva, se io non volessi proseguire oltre o non potessi e che il mio solo equilibrio fosse una situazione di stallo assoluto da cui era per me impossibile uscire perch ogni sortita avrebbe significato la morte o la perdita, la perdita, anzi. Qualcosa di simile, ora, mediante le parole del medico, mi tornava a mente. Ma, al contrario che a lui, tutto questo, questa situazione di smarrimento, di stallo, di disperazione mi sembrava del tutto consueta: era la descrizione della mia normalit, per cos dire, o almeno del mio odo di vivere, di "sentirmi" da sempre e soprattutto dai tempi, per me felici, di Marburg. E mi pareva anzi di dover attribuire ad essa il senso della mia vita adulta. Se aveva un senso. E forse della mia "filosofia". Se una filosofia. L'ho detto al medico e mi sembra che non abbia saputo contraddirmi. Heidegger, Tagebuch, in Michele Ranchetti, Scritti diversi, I etica del testo, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1999

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