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1.

UN KNOW-HOW PER LE POLITICHE CULTURALI

1.1 LA DECISIONE PUBBLICA IN UN ORIZZONTE COMPLESSO

Perché è così difficile prendere e implementare decisioni pubbliche? Viziati da tempi lunghissimi,
veti incrociati, scarsità di risorse economiche, progettuali e di consenso, impossibilità di inquadrare
la singola scelta all’interno di un quadro di riferimento condiviso, i meccanismi attraverso cui ci
governiamo, tanto al livello della grande scelta strategica quanto a quello della decisione
amministrativa di interesse locale, sfidano la comprensione dei cittadini e, sempre più spesso,
anche di amministratori e dirigenti politici. I primi sono continuamente soggetti alla tentazione di un
fatalismo cinico, in cui nulla può mai cambiare se non in peggio, e spesso finiscono con il
demonizzare la sfera politica in toto: i secondi vivono una condizione di frustrazione e sterilità, in
cui il loro patrimonio ideale e intellettuale non riesce a diventare risorsa per il cambiamento
nell’interesse di tutti. Decidere nella sfera pubblica, e ancora di più concretizzare la decisione,
sembra essere diventato un esercizio nel migliore dei casi estenuante, e nel peggiore futile. Con
toni prossimi all’esasperazione, Bobbio [1996] riporta i risultati di una ricerca dell’IRES piemontese,
in cui cento progetti di uso del territorio venivano seguiti dal 1985 al 1995; in questi dieci anni solo
pochissimi di essi, tra enormi difficoltà, erano stati realizzati. Tutti gli altri erano rimasti bloccati, o
se ne era persa ogni traccia. La letteratura elenca numerosi esempi, ma sarebbe del tutto inutile
perfino riportarli: l’ostinata resistenza della realtà ai cambiamenti introdotti dalla decisione pubblica
fa parte dell’esperienza di ciascuno di noi, e perfino del senso comune.

Perché, dunque, questo avviene? Le spiegazioni che la teoria economica e sociale ha da offrire
sono molteplici. Si fa cenno ad informazione imperfetta e razionalità limitata [Simon 1967],
condizioni che peraltro caratterizzano l’agire economico di un’ampia gamma di attori e di situazioni
e non sono in alcun modo esclusive dei decisori pubblici. Si parla di cattura dell’azione di
regolamentazione e amministrativa da parte di interessi privati o gruppi di pressione [Lindblom
1959], senza tuttavia riuscire a spiegare, per esempio, i tempi pluridecennali che occorrono per
realizzare opere su cui vi è un consenso pressoché unanime.

Bobbio [1996] integra in maniera interessante le principali implicazioni pratiche di questi tentativi e
conclude che le condizioni in cui avviene il processo di decisione pubblica (informazione
imperfetta, razionalità limitata e interdipendenza con altri soggetti portatori di interessi non allineati)
rendono consigliabile l’inclusione di una platea piuttosto vasta di soggetti (i cosiddetti stakeholders,
cioè coloro che hanno un interesse alla decisione che si sta cercando di prendere) fin dalle prime
fasi del processo decisionale. Lo stato e molti enti pubblici, per contro, tendono a decidere in modo
esclusivo: la decisione viene presa a porte chiuse dai soggetti che la legge investe di questa
responsabilità, e solo da questi. Bobbio chiama questo modo di prendere decisioni razional-
giuridico, e osserva che sarebbe molto efficiente in condizioni di razionalità perfetta e
interdipendenza zero che, appunto, non si danno.

Questa posizione è venuta guadagnando popolarità in Europa (“concertazione”, “partenariato”,


“dialogo sociale” ricorrono assai spesso nei documenti di politica regionale della UE) e in Italia, con
l’esperienza dei patti territoriali. Nonostante l’evidente buonsenso della proposta di Bobbio, queste

Alberto Cottica
economia creatività cultura
alberto.cottica.net
pratiche non hanno affatto risolto il problema della decisione pubblica: ad alcuni anni di distanza, i
risultati di questo nuovo modo di intendere l’azione di policy sono infatti piuttosto controversi
[Cersosimo e Wolleb 2001]. E’ stato affermato che la crescente diffusione dei patti sociali a base
territoriale degli ultimi anni si è accompagnata ad un sensibile peggioramento della loro
performance, fenomeno riconducibile principalmente alla incapacità di individuare soluzioni
organizzative adeguate alla fase di implementazione ed alla eccessiva istituzionalizzazione
[Pinchierri 2001].

In questo studio muoviamo dall’ipotesi di lavoro che ciò che blocca la presa e l’implementazione
delle decisioni pubbliche sia la dissonanza tra il modello di decisione razional-giuridico, che è
quello a cui gli apparati burocratici pubblici e molti uomini politici e amministratori sono abituati, e il
fatto che le decisioni politiche nella realtà vengono prese in un orizzonte complesso. Usiamo
questo termine (complex foresight horizon nell’originale) nel senso illustrato da Lane e Maxfield
[1997]: un orizzonte complesso è una situazione nella quale fare previsioni attendibili è molto
difficile, perché non si sa dire con esattezza neppure quali soggetti saranno importanti ai fini di ciò
che si sta facendo sulla scala temporale rilevante. Per descrivere questa situazione, gli autori
usano una metafora molto forte. L’incertezza descritta a cui gli economisti sono abituati,
sostengono, si può paragonare a quella di un generale del diciottesimo secolo che contempli il
campo di battaglia dall’alto di una collina: egli non sa cosa farà il nemico, ma ne conosce la
consistenza, l’armamento, la dislocazione all’inizio della battaglia; può ragionevolmente escludere,
ad esempio, che nel corso della battaglia stessa l’esercito nemico raddoppi improvvisamente di
numero, o inventi e usi il bombardiere tattico. L’incertezza che caratterizza alcuni tipi di decisione
nel nostro tempo è invece simile a quella di un diplomatico bosniaco all’inizio del settembre 1995.
Egli non è in grado nemmeno di dire con certezza chi siano i suoi alleati e chi i suoi nemici;
combatte prima a fianco dei croati, poi contro di essi; non sa chi giocherà un ruolo importante tra
gli attori che appaiono sulla scena, le forze di pace delle nazioni unite, la NATO, i leaders
occidentali, le ONG; non conosce i loro obiettivi, né le loro risorse. Il suo mondo è caratterizzato da
una struttura mutevole, emergente, e da ambiguità cognitiva.

Un’implicazione importante del prendere decisioni (pubbliche o no che siano) in un orizzonte


complesso è che il concetto di strategia muta radicalmente. Gli economisti sono abituati a pensare
ad una strategia come ad una regola decisionale che ci dice come comportarci in ciascuno dei
possibili stati del mondo in modo da massimizzare i nostri vantaggi. Naturalmente questo concetto
si adatta molto male ad un ambiente nel quale gli stati possibili del mondo, semplicemente, non si
conoscono. Una strategia adeguata ad un orizzonte complesso deve necessariamente includere
elementi di monitoraggio e ricerca di elementi nuovi, meccanismi di aggiustamento per adattare il
proprio corso di azione a ciò che emerge, autorizzando ad una varietà di agenti a sperimentare
nuovi corsi d’azione. In questa nuovo concetto di strategia l’interazione e il confronto tra agenti
ricoprono un ruolo assolutamente centrale perchè la “mappa del mondo” di ciascuno di essi viene
continuamente aggiornata attraverso il confronto e la critica reciproca. Alcune relazioni, poi,
possono diventare generative, cioè relazioni da cui nasce un progetto di trasformazione della
realtà in grado di portare vantaggi a chi vi partecipa e di gestire la complessità della situazione
[Lane e Maxfield, 1997]. Di fatto, nel concetto di strategia proposto dalle teorie complex foresight
riveste un’importanza fondamentale la decisione di “con chi” interagire e vengono suggerite
modalità di riconoscimento ex ante del potenziale generativo di ciascuna relazione.

L’ipotesi di partenza di questo studio, dunque, è che la maggior parte delle decisioni pubbliche
vengano prese in un orizzonte complesso. Naturalmente il processo si autoalimenta: se un
processo decisionale non si trasforma in decisione presa e poi in decisione implementata in tempi
ragionevolmente brevi, aumentano le probabilità che il contesto in cui essa verrà applicata sia
molto diverso da quello che caratterizzava l’inizio del processo. Questo imporrà di riesaminare
alcuni dei passi, allungando ulteriormente i tempi e quindi approfondendo il solco tra il mondo per il
quale il processo decisionale tutto era stato originariamente pensato e quello nel quale la
decisione dovrà essere applicata e così via. In alcuni casi, come si è detto, questo porta ad uno
smarrimento completo del senso originale di azioni e progetti.

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Se questa ipotesi è vera, occorre chiedersi se e quali istituzioni e procedure possano essere
adeguate ad elaborare strategie di interesse collettivo e nella sfera politico-amministrativa in un
contesto caratterizzato da struttura emergente e ambiguità cognitiva. Siamo ancora all’inizio di
questa riflessione, ma probabilmente fare politiche in condizioni di complex foresight è una cosa
che è più simile al surf che alla scultura. Si tratta infatti, per un ente pubblico o un amministratore,
di valorizzare tendenze endogene all’economia e al territorio, raccordandovisi quanto più possibile;
di monitorare attivamente il territorio stesso interrogandosi sul’emergere di fatti, attori, strutture
nuove; di elaborare piani, ma di accettarne anche il superamento e l’accantonamento qualora le
circostanze mutino; di intrattenere relazioni vive con una serie di soggetti, prestando attenzione al
loro potenziale generativo; di tentare, attraverso scambi di informazioni e critica reciproca, di
generare una visione del mondo plausibile agli attori più rilevanti sul territorio; di accettare che il
controllo dell’azione amministrativa sia distribuito nello spazio degli agenti, cioè che agenti esterni
all’ente pubblico siano in grado di influenzare il corso degli eventi, cercando di fare in modo che
queste influenze conducano a risultati desiderabili per la collettività. Si tratta, quindi, di cavalcare
l’onda perché essa ci porti più o meno dove vogliamo andare, non di un atto di dominio della
mente sulla materia.

1.2 DA M ANCHESTER A MODENA: MUSICA , POLITICHE CULTURALI E COMPLEX


FORESIGHT

Con questo schema in mente ci siamo avventurati alla scoperta delle politiche per la musica poste
in essere nella città inglese di Manchester a partire dagli anni ottanta e della scena musicale
attualmente in essere nell’area modenese. Il nostro obiettivo era studiare Manchester per cercare
di enucleare gli elementi di successo, le cose che avevano funzionato nel promuovere una scena
musicale vibrante e di importanza internazionale; e di cercare, a Modena, alcune condizioni di
base da confrontare con quelle presenti a Manchester all’inizio del processo.

Dal punto di vista metodologico, abbiamo deciso di puntare soprattutto sulle interviste (oltre alla
collazione di pubblicazioni specializzate e dati statistici) per ricostruire il decollo della scena
musicale di Manchester; sulle interviste e su un questionario distribuito alle bands attive sul
territorio provinciale per valutare il potenziale dei giovani musicisti modenesi come risorsa
economica, oltre che culturale. L’elemento metodologicamente unificante dei due studi è
l’attenzione alle relazioni tra gli attori rilevanti e ai potenziali generativi di queste relazioni, che
immaginiamo nascere in orizzonti cognitivamente complessi. Nel caso di Manchester l’approccio è
stato naturalmente microstorico, e i notevoli risultati ottenuti dalla scena musicale sono stati
ricondotti ai rapporti di alleanza e collaborazione tra soggetti diversi che questi risultati hanno
ottenuto. Nel caso di Modena, il questionario è stato costruito con un’attenzione particolare alla
struttura di rapporti intrattenuti dalle bands giovanili, cercando di capire con chi esse hanno
relazioni e quali vantaggi (anche potenziali) queste relazioni hanno per i musicisti e la loro
creatività.

La vicenda delle bands modenesi si svolge certamente in condizioni di complex foresight. Come
ampiamente documentato nel secondo capitolo, le bands non hanno certo strategie di sviluppo in
senso compiuto: le loro mappe del mondo sono gravemente incomplete e non poche di esse
vivono una condizione di frustrazione della loro creatività. Eppure, coerentemente con le previsioni
della teoria, esse hanno una linea, che è quella di intrattenere relazioni. Relazioni le une con le
altre, relazioni con il mercato (oltre 400 concerti nel 2001, una cifra largamente al di sopra delle
previsioni del gruppo di lavoro) in qualche forma, relazioni con soggetti (produttori, musicisti
affermati, in qualche caso operatori dei media) che esse percepiscono come portatori di know-how
necessario per elaborare e portare ad un pubblico più vasto i loro progetti musicali. Proprio
l’apertura delle bands verso l’esterno, oltre alla loro tendenza a pensare l’attività musicale come a
una forma di autoinvestimento che potrebbe (e si vorrebbe) sfociare in un’occupazione vera e
propria nel settore artistico, marca la differenza più rilevante rispetto ad un’indagine svolta sul
territorio modenese alcuni anni fa [Rossi, 1992].

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Autoinvestimento, disponibilità al cambiamento e alle relazioni con il mondo, tensione verso la
professionalizzazione sono fattori rilevati in modo piuttosto coerente nelle bands dalla nostra
indagine. Essi ci inducono a pensare che sia ormai superata l’interpretazione del fenomeno dei
“gruppi da cantina”, come si diceva negli anni ottanta, come essenzialmente aggregativo e da
incoraggiare per la sua capacità di stemperare il disagio giovanile e “tenere i ragazzi lontani dalla
strada”. I dati elaborati da questa ricerca descrivono le bands modenesi come una piccola scena
musicale in potenza, quindi una risorsa culturale ed economica per la collettività.

Anche la storia di Manchester, raccontata nel terzo capitolo, è risultata adattarsi


sorprendentemente bene allo schema di interpretazione complex foresight. Il processo ha avuto
come punto d’inizio l’emergere in città, a metà degli anni ottanta, di alcune piccole imprese del
settore musicale che erano riuscite ad ottenere un discreto successo di mercato. Sollecitato da
alcuni soggetti con interessi nel settore culturale, il City Council ha deciso di sostenere questo
fenomeno aprendo una serie di canali formali e informali di comunicazione con gli imprenditori
stessi per capirne insieme le esigenze e cercare di conciliarle con l’interesse collettivo. La
relazione tra “imprenditori politici” (come Bob Scott, direttore di uno dei musei cittadini),
imprenditori musicali con un forte legame con il territorio (come Anthony Wilson, discografico con
l’etichetta Factory e fondatore di un club importante, l’Hacienda, e molti musicisti mancuniani di
successo che sceglievano di reinvestire i propri guadagni in attività imprenditoriali sul territorio), e
City Council è stata senza dubbio generativa. Questo non tanto perché ha avuto successo nel
perseguire l’obiettivo degli anni ottanta, quello di aiutare l’effervescente ma economicamente
fragile scena musicale mancuniana a consolidarsi e a creare, così, lavoro, ricchezza e vivibilità per
la città, ma soprattutto perché i suoi obiettivi sono cambiati nel tempo. Lo stile di lavoro e la
struttura dei ruoli dei vari agenti e sviluppati in risposta a quella prima esigenza e descritti nel terzo
capitolo sono stati poi estesi ad un’intera strategia di rinascita della città, gravemente segnata dalla
deindustrializzazione di tutto il nord dell’Inghilterra negli anni ottanta.

Praticamente tutti gli snodi importanti della rete di decisione e implementazione delle politiche
pubbliche presenti in quella prima fase sono stati riconosciuti perfezionati e istituzionalizzati. Le
consultazioni informali degli anni ottanta sono divenute un partenariato per uno sviluppo strategico
(Partnership for a community strategy). La platea di soggetti coinvolti si è allargata di molto, nel
riconoscimento che le politiche sono tutte integrate tra loro (per esempio, se si desidera che i
cittadini e i turisti frequentino discoteche e locali notturni, è necessario che essi dispongano di
trasporti pubblici notturni; dunque, l’azienda di trasporti pubblici va coinvolta nella definizione di
una politica culturale). Le azioni ad hoc dei primi anni sono evolute in una specie di plasticità
organizzativa che consente ai soggetti interessati, una volta riconosciuto e condiviso un problema
o un’opportunità, di consorziarsi per formare una piccola struttura, con un direttore, una segretaria
part-time e tre anni di tempo per risolvere il problema o cogliere l’opportunità (per esempio,
all’esigenza di potenziare e qualificare l’educazione musicale nelle scuole si è data risposta
costituendo il Music Service).

Rispetto a questo processo di evoluzione, il City Council ha scelto per se un ruolo di regista e di
facilitatore assai distante dal modello di decisione razional-giuridico. Non è stato l’iniziatore in
alcun senso del processo (i processi di sviluppo endogeni sono stati iniziati, come si è detto, da
imprenditori abili e fortunati; l’iniziativa di costruire relazioni e alleanze tra soggetti è venuta da
imprenditori politici e, in alcuni casi, da membri del consiglio comunale, ma in nessun caso dalle
strutture tecniche del comune), ma, una volta riconosciutolo, ha svolto un’intelligente azione di
legittimazione, mediazione e moltiplicazione. Il merito più grande ascrivibile al comune di
Manchester è però certamente quello di avere esportato con successo lo stile amministrativo che
l’esperienza con la musica aveva creato all’amministrazione della città in generale, come è
ampiamente dimostrato dalla storia della candidatura “strategica” della città ad ospitare le
Olimpiadi (in realtà si mirava ai giochi del Commonwealth, che Manchester ha effettivamente
ottenuto). Il comune è arrivato a riformare la sua stessa struttura amministrativa, creando il
“regeneration department”: si tratta di una specie di struttura tecnica composta da funzionari

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comunali che hanno il compito di aiutare i soggetti coinvolti nell’elaborazione continua della
strategia culturale a convertire le loro idee in progetti e a cercare risorse1. Con questo obiettivo,
Manchester ha forzato le strutture dei bandi europei, usando per esempio fondi Urban per
finanziare di fatto progetti culturali e sportivi, e ha fortemente ipotecato le risorse previste dai
meccanismi di premialità del Local Government Act: esponenti del comune hanno dichiarato di
puntare a presentare “la migliore strategia culturale della nazione” per ottenere finanziamenti
aggiuntivi. Il comune di Manchester, quindi, ha cavalcato un’onda piccola, quella dello sviluppo
endogeno del settore musicale degli anni ottanta, per poi passare su una più grande, quella della
rinascita della città negli anni novanta, aggiornando in continuazione i suoi interlocutori, i suoi
obiettivi, la sua struttura, la sua stessa identità. Difficile immaginare un esempio più compiuto di
strategia in un ambiente ad orizzonte complesso.

1.3 IMPARARE FACENDO: LE POLITICHE CULTURALI COME PALESTRA PER LA


DECISIONE PUBBLICA

Quali sono le implicazioni della ricerca per i modelli di decisione politica che più ci interessano in
questa sede, ossia quelli applicati al territorio modenese? Sarebbe semplice rispondere che le
innovazioni introdotte dal City Council di Manchester nella propria struttura, identità e stile
amministrativo in generale hanno caratteristiche desiderabili e quindi dovrebbero essere imitate.
Questa risposta, però, è forse troppo semplice per essere del tutto convincente. Amministrare
Modena, non meno che Manchester, è infatti un’attività che si svolge all’interno di un orizzonte
complesso, e la lezione di Manchester è appunto che, in queste condizioni, le strategie vincenti
sono quelle che moltiplicano le antenne e le occasioni di interlocuzione con gli agenti presenti sul
territorio, che cavalcano l’onda, che rispondono creativamente all’emergere di nuove situazioni. In
altre parole, noi sosteniamo che la vera lezione del “caso Manchester” non sta nel suo risultato (gli
evidenti segnali di rinascita della città, il riassetto del territorio, i giochi del Commonwealth,
l’aumento di investimenti diretti esterni e presenze turistiche, la formalizzazione di una strategia
culturale articolata e convincente) né nella sua riorganizzazione (la Parthership for a community
strategy, la costellazione di strutture ad hoc come il Music Service, il regeneration department del
comune). L’elemento più interessante di questa storia è, invece, nel processo con cui risultati e
riorganizzazione sono stati immaginati, perseguiti e ottenuti a partire da una situazione iniziale in
cui né gli uni né l’altra erano stati assunti come obiettivi.

Questa conclusione è coerente con la diffusione del controllo dei processi di decisione pubblica
osservata a Manchester: il City Council non è più l’unico soggetto che decide, pone in essere le
decisioni e ne valuta i risultati. Queste funzioni, invece, sono svolte collettivamente da una pluralità
di soggetti sia pubblici che privati. L’organizzazione e il modus operandi del City Council
mancuniano sono funzionali a questa situazione, e non potrebbero funzionare bene al di fuori di
essa. Se ne può concludere che il know-how per le politiche, il saper decidere e il saper fare,
consistono appunto nel governare i processi cognitivi e relazionali con cui le soluzioni emergono.
Si noti che, in questa formulazione, i soggetti che abbisognano di know-how per le politiche non
sono solo gli enti pubblici territoriali ma anche altri, e che tutti questi soggetti imparano insieme,
acquisendo competenze e ruoli funzionali all’evoluzione complessiva del sistema. Infatti, se
posizionamento della città, obiettivi e organizzazione della macchina amministrativa comunale
sono cambiati nel tempo, la cosa che è rimasta costante è la presenza di un canale di

1
Questa innovazione potrebbe essere molto rilevante. Pichierri (2001) attribuisce la insufficiente
performance di molti progetti territoriali all’incapacità delle pubbliche amministrazioni di dotarsi di strutture
organizzative adatte e dedicate alla realizzazione degli interventi.

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comunicazione di ottima qualità tra il City Council e una serie di altri soggetti sia pubblici che
privati, che hanno partecipato a tutto il processo.

Non è forse un caso che questa esperienza sia nata nell’ambito delle politiche per la cultura. Quasi
per definizione, infatti, le industrie della cultura (e in particolare quella della musica) sono
magmatiche e duttili, caratterizzate da struttura emergente e da un assetto cognitivo in continua
evoluzione. Sono, insomma, ambienti complessi, e richiedono strategie assai flessibili. Ci
permettiamo di concludere la nostra ricerca suggerendo che i decisori pubblici attivi a Modena
usino il settore culturale come palestra per mettere a punto procedure di analisi, decisione e
implementazione adatte a situazioni di complex foresight, accumulando così esperienze che
potrebbero poi essere esportate ad altri ambiti decisionali. I risultati incoraggianti circa il potenziale
delle bands modenesi indicano che esse potrebbero presto sollevare una piccola onda: potrebbe
essere interessante e istruttivo, per amministratori e uomini politici, interessarsene, ascoltarla e
cercare davvero di capirla prima e di aiutarne lo sviluppo poi. Chi pratica il surf, infatti, sa bene che
chi è in grado di cavalcare onde piccole non sarà colto del tutto impreparato quando si tratterà di
affrontare quelle grandi.

BIBLIOGRAFIA
Bobbio, L. (1997), “I processi decisionali nei comuni italiani”, in Stato e Mercato n°49
Bobbio, L. (1996), La democrazia non abita a Gordio – Studio sui processi decisionali politico-
amministrativi, Franco Angeli, Milano
Cersosimo, D. e Wolleb, G. (2001), “Politiche pubbliche e contesti istituzionali. Una ricerca sui Patti
Territoriali”, in Stato e Mercato n° 61
Lane, D. e R. Maxfield (1997), “Foresight, Complexity, and Strategy”, in A. Durlauf e D. Lane (eds),
The Economy as a Complex System II, SFI Studies in the Sciences of Complexity, vol. XXVII,
Addison-Wesley
Lindblom, Ch.E. (1959), “The science of ‘muddling through’”, Public Administration Review n°19
Pinchierri, A. (2001), “Concertazione e sviluppo locale”, in Stato e Mercato n°62
Rossi, M. (1992), I gruppi giovanili di musica rock nella realtà modenese, Comune di Modena
Simon, H. (1967), Il comportamento amministrativo, Il Mulino, Bologna

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