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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE

Corso di studio in lingue e letterature straniere


Piano didattico “Lingue e scienze del linguaggio”

Titolo della prova finale:

CONSIDERAZIONI SUL FUÞARK SCANDINAVO

Prova Finale in Filologia Germanica

relatore Presentata da
prof. Giulio Garuti Simone
Diego Ferioli

correlatore
prof. Alessandro Zironi

II sessione di laurea
Anno Accademico 2006-2007

1
LISTA DELLE ABBREVIAZIONI

a.n.e. ante nostra era


C consonante
eb. ebraico
got. gotico
gr. greco
IE indoeuropeo
n.e. nostra era
p. es. per esempio
pers. persona
PGmC proto-germanico
pres. presente
cfr. confronta
sec. secolo

SEGNI CONVENZIONALI

Si è adottato per la trascrizione fonetica l’alfabeto dell’Associazione


Fonetica Internazionale (IPA/API: vedi INTERNATIONAL PHONETIC ASSOCIATION
[1999]), con l’eccezione delle spiranti (fricative o approssimanti) sonore
(in IPA β e dz) bʫ e gʫ, per le quali si sono invece scelte le varianti
tradizionalmente in uso nel campo della germanistica.

< deriva da
> passa a
/ in alternanza con
* precede una forma ricostruita (e quindi non attestata)
[...] trascrizione fonetica
/.../ interpretazione fonematica
<...> rappresentazione grafematica
: lunghezza

2
§1. Introduzione

Il periodo storico denominato Era Vichinga (fine sec. VIII - XII) è


un periodo di profondi cambiamenti per una parte d’Europa, l’area
germanica settentrionale, fino a quel momento rimasta relativamente
isolata dal resto del Continente. In quest’area, verosimilmente nei primi
due secoli della nostra era, viene adottato un sistema grafetico simile
agli alfabeti mediterranei, il fuþark o scrittura runica, le cui prime
testimonianze certe sono attestate dal 200 n.e. circa [DÜWEL 2001:3]. In
questo primo periodo si parla di fuþark germanico
(fuQaRkgW:hnij$pys:tBeml5do1), poiché esso viene usato senza
significative variazioni da diverse stirpi germaniche.
Il principio dell’Era Vichinga, convenzionalmente fatto coincidere
con l’attacco vichingo al monastero anglosassone di Lindisfarne nel
793, vede il fuþark germanico profondamente modificato da un
processo di riforma iniziato almeno un secolo prima. Tale riforma
avviene in un periodo in cui i Vichinghi2 colonizzano nuove terre,
organizzano spedizioni per razziare ricchi centri monastici e città nelle
isole britanniche e sul Continente, intrattengono rapporti commerciali
che si estendono fino ai dominî arabi nell’India occidentale. Da civiltà
stanziale, materialmente arretrata e culturalmente isolata, i Vichinghi
irrompono nell’Europa cristiana, dando inizio ad un processo che si
concluderà con l’entrata dell’Europa nella Scandinavia pagana, ovvero
con la cristianizzazione e la creazione di stati feudali centrali sul
modello franco3.
Le cause e le dinamiche degli avvenimenti dell’Era Vichinga sono
strettamente legate al periodo storico immediatamente precedente
(560/70-800 n.e.), che assume diversi nomi a seconda delle varie

1 In questo saggio si è scelto di usare per praticità la serie standardizzata desunta dalla pietra di
Kylver [KJ: Gotland 1]. La divisione in ættir (‘famiglie’) tramite puntuazione, non presente sulla
detta pietra, è invece desunta dal bratteato di Vadstena [KJ: Östergötland 2].
2 Con ’vichinghi’ si intendono qui le popolazioni germaniche settentrionali che all’interno dei già
dati limiti cronologici dell’Era vichinga sono stanziate nei territori corrispondenti agli odierni
stati di Norvegia, Svezia, Danimarca, nonché quei gruppi che da detti territori fondano
insediamenti d’oltremare, p. es. sulle Føroyar (Fær Øer), Islanda, Orcadi e Shetland, in
Groenlandia e nell’ America settentrionale, più vari territori nelle Isole britanniche, sul
Continente (Normandia), lungo la costa baltica nonché lungo i corsi d’acqua dell’odierno
entroterra russo e ucraino. Per un inquadramento etnologico e linguistico, si veda BARNES [2003].
3 Per una storia dell’area germanica settentrionale fino alla cristianizzazione, si veda HELLE
[2003].

3
tradizioni storiografiche nazionali: in Norvegia è detto ‘Periodo
merovingio’ (dalla somiglianza di alcuni artefatti rinvenuti sulla costa
norvegese occidentale con altri in territorio franco), in Danimarca
‘Giovane Età del Ferro’, mentre in Svezia è tradizionalmente chiamato
‘Periodo di Vendel’. Nel sec. VI si assiste ad un periodo di depressione
economica - forse dovuto all’arrivo della peste bubbonica - in cui il
numero degli insediamenti agricoli si riduce drasticamente, le sepolture
si fanno meno fastose, le cifre demografiche paiono precipitare. Ciò
accade tuttavia solo nelle zone costiere della Norvegia meridionale,
mentre l’est del Paese e della penisola scandinava sperimenta in questa
fase inziale un periodo sia di evoluzione agricola e prosperità, che di
ristrutturamento sociale [SOLBERG 2000:178-202]. Nell’ultima fase del
Periodo meronvingio vengono fondati importanti e ricchi centri
commerciali come Ribe nello Jutland, nel quale beni di lusso vengono
scambiati tra il Nord e il regno franco, e Staraja Ladoga nella Russia
settentrionale. Nuove zone agricole e la diffusione di ricche tombe a
tumulo testimoniano l’ascesa di una nuova classe dominante [MYHRE
2003:84-5].
Alla fine del sec. VI la pratica di erigere pietre runiche si sposta
dalla Norvegia a quelle che oggi sono le province svedesi meridionali, in
particolare Blekinge, per trasferirsi poi alla fine dell’ VIII in Danimarca.
Contestualmente si assiste a una drastica diminuzione dell’attività
epigrafica runica, in relazione al periodo precedente e in particolare a
quello successivo, nel quale si verifica una vera e propria esplosione
[SPURKLAND 2006:38].
Il passaggio dal fuþark germanico a quello scandinavo si realizza
nel corso di 2 secoli circa, ovvero dal 500 al 730 n.e.4, e consiste nelle
le seguenti modifiche: 1) segni complessi vengono abbandonati, o
sostituiti con altri – nuovi o già esistenti – più semplici, oppure vengono
semplificati, in modo tale che ogni runa sia costituita da un’unica asta
alla quale vengono eventualmente apposti uno o due bracci e/o uno o
due occhielli; 2) le rune corrispondenti alle plosive si riducono sicché i
grafemi non esprimono più l’opposizione distintiva [± sonoro]5; 3) i

4 GRØNVIK [2001:64] indica il 700 come spartiacque tra i due alfabeti. Dal 500 al 700 si
parlerebbe ancora di fuþark germanico ma nella sua fase più tarda, con la lingua affetta dai
primi casi di apocope; il periodo dal 700 al 730 viene invece detto ”große Umwälzung” e definito
cronologicamente dalla pietra di Eggja [KJ: Sogn og Fjordane 101] e dal cranio di Ribe [DR: North
Jutland 203].
5 B /p/, /b/; t/l /t/, /d/; T /k/, /g/.

4
grafemi vocalici non rendono conto delle nuove vocali metafonizzate
comparse dopo il periodo della sincope (secc. VI- VIII)6, anzi, per le
motivazioni enunciate al punto 1), rappresentano solo 4 dei ben 18
fonemi vocalici del norreno7 (16 nei manoscritti islandesi dal sec. XII,
con la perdita di /Nj:/ e /æ/)8; 4) le semiconsonanti /j/ e /w/, l’ultima
delle quali passa poi a /v/ in alcuni contesti fonetici, non vengono più
distinte dai loro corrispettivi vocalici /i/ e /u/; 5) segni divenuti obsoleti
perché riferentesi a fonemi scomparsi, come 49, p (sul cui valore
fonemico, come si vedrà, sussistono dei dubbi), nonché la da sempre
superflua 5 [ANTONSEN 2002:102-103], escono definitivamente dal
fuþark; 6) i nomi delle rune cambiano conseguentemente ai mutamenti
interni della lingua, cosicché alcuni grafemi cambiano valore e altri
diventano inservibili (il legame acrofonico tra il nome e il valore
fonemico si deteriora) e scompaiono; 7) l’interazione dei fattori fin qui
enunciati produce, dal punto di vista meramente numerico, la riduzione
dell’inventario grafetico da 24 a 16 rune (fUqÄRk:hNiæC:tbmly10).
A tale elenco va aggiunto che l’esigenza di semplificazione che
governa la riforma causa la comparsa di una variante più semplificata,
quella delle rune a braccio corto (fUq»rk:eniAs:t›4l§11), e una più
semplificata ancora, quella delle rune senz’asta (ÏûÛÀÒ?ÈÎÌàs‡èËÉÊ12),
caratterizzate dalla riduzione o appunto dalla mancanza dell’asta e
quindi dall’esclusiva presenza dei bracci e degli occhielli.

6 Ovvero /æ/, /æ:/, /ø/, /ø:/, /y/, /y:/, /Nj/ e /Nj:/. Tra le nuove vocali, anche se non è prodotto
di metafonia, è da considerare la vocale nasale /ã/ (anche indicata come /ą/, successivamente
passa a [a:] e poi a [Ǥ:], e soppianta dunque /Nj:/ nel sistema). Per una periodicizzazione delle
fasi linguistiche dal nordico primitivo ai giorni nostri, e per le tavole dei sistemi vocalici e gli
effetti della metafonia nelle diverse fasi, vedi TORP, VIKØR [2003:32-41] e GRØNVIK [1987:167-
189].
7 vedi nota 13.
8 u /u/, /u:/, /y/, /y:/, /o/, /o:/, /ø/, /ø:/; N /a/, /æ:/ (e /æ/), /Nj/ (e /Nj:/); i /i/, /i:/, /e/, /e:/;
Ä /ã/; inoltre, u /v/, e i /j/.
9 Dato il valore controverso talvolta attribuito ad alcune rune, ho scelto di non accompagnarne
nessuna con la traslitterazione, a patto che essa non sia strettamente necessaria (come nel
citare testi provenienti da iscrizioni, o quando mi riferisco ad arcigrafemi, ovvero a grafemi con
un alto numero di varianti, tale da renderne problematica la scelta: in questi casi la
traslitterazione appare in grassetto). Ogni simbolo runico, così come ogni altro appartenente ad
altri sistemi di scrittura diversi da quello latino (per il quale vengono usati i convenzionali <>), è
qui inteso sempre come grafema.
10 Standardizzazione composita, tratta da MACLEOD [2002:25].
11 Standardizzazione basata sulla pietra di Rök [SR: Östergötland 136].
12 Standardizzazione tratta da JANSSON [1987:28]

5
Come risulta in parte evidente soprattutto dai punti 2) e 3), la
lingua delle iscrizioni runiche scandinave più antiche, il nordico
primitivo13, subisce profondi cambiamenti in un periodo di tempo
relativamente ristretto. Il problema della modificazione del fuþark in
tale direzione, cioè della semplificazione assoluta ai limiti – se non oltre
- della funzionalità, quando invece l’inventario fonemico della lingua si
arricchisce considerevolmente, ha dato origine a vari tipi di teorie, le
quali costituiscono l’oggetto di questo saggio. La questione diventa
ancor più problematica se si considera che nello stesso periodo gli
Anglosassoni ampliano – e complicano – la loro serie runica, che arriva a
comprendere ben 31 segni (di cui 28 effettivamente utilizzati nelle
testimonianze epigrafiche), per rendere conto di mutamenti fonetici
analoghi a quelli avvenuti in Scandinavia. Le posizioni degli studiosi che
si sono pronunciati in merito sono state organizzate da BARNES
[1987:29] in cinque gruppi (ripresi solo con ordine leggermente diverso
da SPURKLAND [2001:91-2]); secondo tale raggruppamento, la riforma del
fuþark potrebbe essere attribuita a:

a) significati magico-esoterici legati al numero delle rune;


b) un periodo di isolamento culturale e di declino dell’arte
scrittoria in Scandinavia;
c) forme delle rune e praticità grafica;
d) problemi interni ai cambiamenti fonologici avvenuti nel
periodo della sincope;
e) cambiamenti concernenti i nomi delle rune.

MACLEOD [2002:121] aggiunge anche la possibilità di un’influenza


proveniente da altri sistemi di scrittura, e verrà anche discussa una
recente teoria da me definita ‘lessicologica’.

13 È qui in uso la seguente terminologia, conformemente a RAMAT [1988:248-251] e CAVAZZA


[2005:362-364]: il termine ‘nordico primitivo’ designa la lingua delle iscrizioni runiche più
antiche (fuþark a 24 segni), ed equivale sostanzialmente al termine ‘germanico settentrionale’
(più spesso però riferentesi al gruppo linguistico a prescindere dall’epoca); la fase linguistica
successiva prende invece il nome di ‘antico nordico’, ‘nordico arcaico’ o ‘norreno’. Tale
nomenclatura viene a volte a coincidere con le denominazioni ‘antico islandese’ e ‘antico
norvegese’, ovvero con ‘nordico occidentale’, rendendo spesso non chiaro se il termine includa
anche le varianti orientali, cioè l’antico svedese e l’antico danese, nonché il gutnico. In questo
saggio vengono usati i termini ‘nordico primitivo’ e ‘antico nordico’ (‘norreno’) in una accezione
inclusiva delle varianti orientali, corredata delle dovute specificazioni, qualora necessarie.

6
La presente ricognizione delle teorie finora avanzate e qui sopra
catalogate non mancherà tuttavia di mettere prima di tutto in relazione
detta riforma con alcuni problemi che stanno, per così dire, a monte,
che concernono cioè questioni di tipo metodologico e la natura
dell’approccio al materiale runico qui discusso, nonché l’origine stessa
delle rune.

§2. Metodo

La runologia è notoriamente fin dai suoi albori un territorio


multidisciplinare. Ciò comporta in primo luogo, oltre a punti di vista
divergenti, una pluralità di approcci talvolta radicalmente differenti in
quanto dettati da differenti contesti di studio. MARSTRANDER [1929:164]
definì la runologia come una combinazione di “paleografi, lingvistikk,
arkeologi og mytologi”; sebbene la componente magico-mitologica
rivesta un ruolo ben ridimensionato rispetto al passato, c’è un tacito
consenso sulla veridicità del complesso di tale considerazione. Ciò non
impedisce, tuttavia, che singoli runologi eleggano a fortiori una delle
dette componenti disciplinari a parte privilegiata, talora per ragioni
soggettive di formazione accademica, talaltra per ragioni
oggettivamente argomentate. In particolare, è stata denunciata da
alcuni l’esigenza di norme positivistiche per la fondazione una
runologia più linguistica [WILLIAMS 1992, BARNES 1994, PETERSON 1995];
altri hanno sottolineato come linguistica e paleografia non possano
assolutamente essere considerate separatamente [ANTONSEN 2002:1-2],
mentre altri ancora hanno puntato ad un taglio storico-archeologico
[FISCHER 2005]. Chi ha optato per quest’ultima possibilità, ha
giustamente sottolineato l’importanza dello studio in situ delle
iscrizioni runiche – che poi significherebbe in museo nella maggior
parte dei casi.
La linea che si è scelto di adottare in questo saggio è quella
indiretta della rassegna delle posizioni di diversi studiosi su un
particolare problema runologico. Ciò significa che il materiale
runologico che interessa il problema della riforma scandinava del fuþark
non occupa una posizione centrale. Una tale scelta di tale taglio
‘indiretto’, però, non è da considerarsi imparziale, in quanto si propone
di essere in primo luogo critica. Tuttavia, ritengo necessario ammettere

7
che una critica completa delle posizioni così come è stata qui intrapresa
non è possibile senza un’approfondita analisi delle fonti primarie, alle
quali purtroppo non si è potuto dedicare molto spazio.
Un’altra importante considerazione che verrà ulteriormente
confermata nel presente elaborato è quella del primato, in linea con
ANTONSEN [2002:1-2], della paleografia e della linguistica viste come due
facies della stessa disciplina. La paleografia è infatti un prerequisito per
la filologia, intesa come lo studio di testi nel loro contesto storico
(campo in cui storia e archeologia sono direttamente interessate), ma
non è prescindibile dalla conoscenza della lingua usata nelle
testimonianze paleografiche in questione. Esistono poche eccezioni a
questo modello fondamentale, ovvero casi in cui il paleografo deve
trasformarsi in crittografo [cfr. DÜWEL 2001:183-188], mentre il
contributo del linguista diventa poco o nullo (cfr. il pittogramma sulla
pietra di Kylver [KJ: Gotland 1]), ma la discussione di tali casi non è
particolarmente rilevante in questa sede.
Non sono tuttavia assolutamente d’accordo con FISCHER
[2005:48], il quale sostiene che alla runologia, essendo una disciplina
relativamente giovane, manca un metodo condiviso. Mentre da un lato,
infatti, le fondamenta di un metodo runologico [cfr. SPURKLAND 1987,
PETERSON 1995] mi sembrano più che condivise – ma, stando a BARNES
[1994], forse non sempre rispettate -, è d’altra parte chiaro che
l’adozione di un particolare tipo di approccio dipende in primo luogo
dal problema che si intende affrontare.

§3. Rune nate per scomparire

È estremamente difficile trattare il problema dell’origine delle


rune, dato che finora è stata proposta una moltitudine di soluzioni
diverse, nessuna delle quali definitiva; tuttavia, è anche difficile
prescinderne, in un’analisi completa dei problemi relativi alla riforma
dell’Era Vichinga. Ci sono infatti alcune rune la cui scomparsa, nel
passaggio al fuþark scandinavo, è forse strettamente connessa al
problema della loro origine.
Dal punto 5) nel §1 si evince che il fuþark germanico conteneva
grafemi superflui, uno dei quali, 4, il cui valore è stato molto discusso
ma senza risultati ampliamente condivisi (particolarmente interessante è

8
il valore /æ:/ [< IE */e:/] attribuitogli da ANTONSEN [2002: 103-5]), non
compare in nessuna iscrizione di senso compiuto, stando al corpus di
iscrizioni runiche a disposizione. Perché mai dunque gli inventori delle
rune avrebbero concepito segni di cui ci si è poi dovuto sbarazzare
dopo secoli di disuso? Perché mai creare il segno p, che – come
suggerirebbe il suo nome ricostruito, *perþ(u) - veniva presumibilmente
usato solamente per i pochi prestiti di origine celtica, gli unici
abbastanza antichi da contenere /p/, dato che i più recenti prestiti latini
sono stati subito interessati dalla rotazione consonantica germanica? E
perché mai inventare un’apposita runa, 5, per il nesso – quale che fosse
- /ȃg/ o /ȃk/ (o /ȃ/?) , che c’è ragione di presumere non fosse un
fonema, se la corrispondenza grafofonematica era un principio così
importante come pare nel fuþark germanico, e se le nasali venivano di
norma omesse davanti alle occlusive?
Sembra ormai assodato che le rune siano state in qualche modo
derivate dall’alfabeto latino; ipotesi che suggeriscono altri alfabeti –
perlopiù greco e nord-etrusco14 – come fonte della derivazione sono
difese ormai da pochi studiosi. Tuttavia, tra coloro che propugnano
l’origine latina delle rune, rimangono ancora tutt’altro che chiare le
circostanze di tale derivazione, in particolare in relazione al fatto che,
sicuramente prima che venisse standardizzato in epoca augustea e
presumibilmente anche dopo, l’alfabeto latino circolava in una vasta
pluralità di forme in quanto veniva impiegato per documentare lingue
dall’inventario fonemico spesso notevolmente dissimile da quello del
latino. A questo proposito, l’alfabeto di origine latina usato in epigrafi
nella Gallia Narbonense15 a partire dalla conquista romana della regione
nel 121 a.n.e. rappresenta a mio avviso un esempio particolarmente
interessante di varietà non standard circolante in un terriorio limitrofo
all’area germanica continentale in un periodo compatibile alla supposta
derivazione. Tale alfabeto, basato appunto su quello latino, conserva
alcuni segni di chiara origine greca (l’alfabeto greco era in uso prima
della conquista romana nella zona di influenza greca attorno alla
colonia di Massal…a [Marsiglia] e anche altrove tra élites religiose, come
testimonia Cesare: “[...] publicis privatisque rationibus graecis litteris

14 vedi nota 15.


15 Per un’esaustiva raccolta illustrata del materiale epigrafico gallico negli alfabeti latino, greco
ed etrusco, si veda LEJEUNE [1985] e [1988]. Per quanto riguarda le testimonianze epigrafiche del
leponzio e del venetico nell’alfabeto nord-etrusco/nord-italico/subalpino, si veda anche LEJEUNE
[1971] e [1974].

9
utantur” [De bello gallico, VI 14]16), quali forse l’uso di X per indicare la
fricativa gutturale */gʫ/ che in PGmc è allofono di */g/, la sua versione
geminata XX che spiegherebbe l’origine della runa % (di cui 5 sarebbe la
versione semplificata, e quindi recenziore) in virtù dell’uso greco di
rendere il nesso /ȃg/ come <gg>, anzi ΓΓ [MARSTRANDER 1928:182] e
infine l’uso di o/Ω per /ō/. p potrebbe poi esser stato derivato per altre
vie da Π [ANTONSEN 2002:102], o da segni simili presenti in altri alfabeti
celto-latini [MARSTRANDER 1928:103], se <p> era già stato prescelto per
un fonema, /w/, ben più usato dai Germani di /p/. Ma ciò che risulta
particolarmente interessante è la presenza di ⋈, il tau gallicum,
probabilmente un’affricata o fricativa dentale ([ʤʤȅʤȅʤ]/[ȅʤ] < */ts/? [ESKA
1998:125]), espresso con Θ in epigrafi greche, che è a mio avviso il
candidato ideale per l’origine di d/D (sempre ipotizzando che per gli
inventori del fuþark gli allofoni fricativi delle plosive fossero in qualche
modo – almeno in questa fase - più rilevanti dei corrispettivi
caratterizzati dal tratto [-sonoro], eccezion fatta – ahimé - per /b/).
Queste osservazioni e proposte risultano utili alla mia analisi
sulla riforma dell’Era Vichinga in quanto l’inutilizzo e/o le viste
peculiarità di molti dei grafemi sopra discussi potrebbero aver giocato
un ruolo determinante al momento dell’abbandono (giacché tutti quelli
sopra menzionati vengono eliminati alla fine del processo di riforma),
soprattutto nel caso di 5, la runa che mette in discussione il “så godt
som gjennomført én-til-én-forhold mellom lyd og tegn” del fuþark
germanico [SPURKLAND 2001:90]; tale runa, come sicuramente p e per
certi versi d, potrebbe essere il segno di una tradizione grafica allogena
la cui memoria si è forse deteriorata col tempo, e che pertanto, come la
già nominata 4, aspettava da tempo di essere rimossa dalla serie runica,
e inaugurare così la riforma del fuþark, la cui esigenza poteva dunque
essere in primo luogo espressa dalla sola presenza di questi tre segni
problematici.

§4. Teorie ‘magiche’

Numerosi indizi concernenti l’origine delle rune, il loro uso


documentato e la riforma dell’Era Vichinga corroborano la posizione –
oggi maggioritaria - di quei runologi (fra i quali BÆKSTED [1952], MOLTKE

16 Cfr. CARENA [1991] e EWAN [2002].

10
[1985], MAKAEV [1996], MUSSET [1965], PAGE [1999]) che si sono espressi
contro una qualsivoglia valenza magico-religiosa della scrittura runica
in generale. I concetti del ‘magico’ e del ‘religioso’, tuttavia, sebbene si
riferiscano entrambi alla sfera del soprannaturale e vengano per questo
spesso confusi, sono e vanno tenuti distinti17. A questi due concetti si
aggiunge poi l’elemento mitologico, ovvero la presenza delle rune nella
letteratura eroico-mitologica, elemento che spesso viene fatto
interferire con gli àmbiti del religioso (o sacro) e del magico.
Il controverso passo denominato Rúnatal nel poema eddico
Hávamál (138-139)18 non dice che le rune erano sacre, almeno non più
di quanto la lira potesse essere considerata sacra dai greci in quanto
inventata dal dio olimpico Hermes. Ma se non è nemmeno chiaro se con
rúnar (138) si intenda la scrittura in senso stretto oppure la conoscenza
[SPURKLAND 2001:24]19, è invece evidente che le due accezioni del
termine debbano essere in qualche modo relazionate. Se il bacino
d’origine delle rune è un insediamento di Galli parzialmente grecizzati e
romanizzati, allora da qui la radice celtica *run- può essere giunta ai
Germani insieme all’alfabeto celto-latino e all’accezione ‘segreto,
informazione sussurrata’ (cf. airl. rún, agall. rhin ‘segreto’, DÜWEL
[2001:2]: “Möglicherweise wurde das germ. Wort dem Keltischen
entlehnt”, e il gr. must»rion reso da Wulfila col got. runa). Ciò ben si
accorda con quanto afferma SPURKLAND [2001:22]: “de som ikke skjønte
hva dette dreide seg om, kunne hefte mystiske forestillinger ved dem
som skrev, eller ved produktet av denne aktiviteten”: infatti, sia Celti
che Germani illetterati avrebbero potuto condividere questo tipo di
approccio, e se in Gallia Narbonense era viva quella tradizione
secondaria che voleva Hermes inventore dell’alfabeto, l’interpretatio
greco-romana lo avrebbe poi sostituito con il Lug celtico e poi con
l’Odino germanico [BREMMER 1991:415-419].
Riferimenti letterari come quelli sopra citati con il mondo mitico-
religioso dei Germani hanno indotto in passato numerosi runologi a

17 Cfr. “Man kan [...] gjerne argumentere for at runene hadde en magisk funksjon uten å kople
inn religionen, på samme måte som man kan tildele runene en kultisk funskjon uten dermed
også å implisere at de var magiske” [SPURKLAND 2001:23].
18 Cfr. NECKEL & KUHN [1983: 40-44].
19 “Som vi så innledningsvis, kan norrønt rúnar ha ulike betydninger; det trenger derfor ikke
være skrifttegn det dreier seg om i denne linjen [...]. Når Odin således sier at han nam upp
rúnar, kan det i denne sammenheng bety at han ervervet seg ’hemmelig kunnskap’, det vil si
visdom”.

11
ritenere non solo che la scrittura runica fosse intesa primariamente per
scopi religiosi, o piuttosto magico-esoterici, più che come mezzo
commemorativo e/o di comunicazione, ma che le ragioni della riforma
dell’Era Vichinga fossero da ricercare nello stesso àmbito. Curiosamente
però, sebbene ci sia prova che alle rune non sia mai stato associato
alcun valore numerico (a differenza degli alfabeti mediterranei – anche
se è interessante notare che l’alfabeto latino non ha avuto nulla a che
fare con i numeri se non da un’epoca relativamente tarda, mentre quello
celto-latino nominato sopra non fece forse in tempo poiché venne
presto abbandonato20), i sostenitori di teorie magico-esoteriche hanno
tentato di spiegare la riforma del fuþark scandinavo quasi unicamente
per mezzo di numerologia e gematria. L’idea di fondo è che nell’antica
serie runica i numeri 8 (divisore ora di 24, il numero delle rune nel
primo fuþark, e poi di 16 in quello scandinavo) e 3 (il numero degli ættir
o ‘famiglie’ in entrambe le serie runiche) avessero una qualche non ben
specificata proprietà magico-esoterica, che si è dovuto mantenere
intatta anche dopo la riforma:

Forandringen blev den radikale at den nye alfabet basertes på antallet av


runer i to av den eldre rekkes tre ætter. [...] Reformen var, utvortes
betraktet, radikal, men der blev ikke rørt ved det som var livsnerven i den
gamle runeskrift: futharkens anvendelighet i magisk øiemed led intet
avbrekk, idet også i sin nye skikkelse [...] kom til å inneholde et multiplum
av 8 [OLSEN, SHETELIG 1933:85-6].

Lo stesso tipo di argomentazioni è stato ripreso da SKAUTRUP [1944:122]


a una decina d’anni di distanza da OLSEN e SHETELIG:

[...] futharken, ganske som den ældre, væsentlig har været beregnet for
magien [...]. Ændringen kan i al fald ikke være et spil af tilfældigheter. Otte
tegn går ud af brug, men det røres kun i ringe grad ved rækkefølgen og
opstillingen i ætter.

Se dunque è in primo luogo il mutamento linguistico a creare l’esigenza


della riforma del fuþark, per i sostenitori di tale teoria sarebbero state
considerazioni di ordine magico-numerologico a dettarne le modalità.

20 Per una trattazione storica dei sistemi di notazione numerica, cfr. MENNINGER [1979].

12
§5. Teorie storiografiche

Teorie come quelle ‘magiche’ sopra considerate, sebbene


fermamente criticate dalla maggior parte del mondo accademico
contemporaneo (cfr. §4), si distinguono per anteporre le viste
motivazioni ad altre – molto più condivise - di natura linguistica, che
pure costituiscono parte integrante del ragionamento. La teoria di Otto
VON FRIESEN [1918-19:20], invece, si colloca in una posizione del tutto
singolare, in quanto è l’unica che si basa esclusivamente su motivazioni
di natura storica, ignorando tutto quel che riguarda il cambiamento
linguistico e quanto ne consegue: “Dies kann nicht der Grund sein, daß
gewisse Zeichen, deren Laute sich immer noch in der Sprache
unverändert fanden [enfasi mia, D.F.), ganz verschwanden wie die e-, o-
und w-Runen”. Questa iniziale affermazione non corrisponde affatto ai
dati linguistici a disposizione, poiché non solo, per esempio, il fonema
/w/ o cade davanti a vocali posteriori o si consonantizza in /v/ in tutti
gli altri contesti (e quindi scompare dall’inventario fonemico), ma, in
molteplici contesti e per varie ragioni, l’altezza dellle vocali posteriori e
anteriori oscilla, sicché /e/, /i/ e /o/, /u/ vengono sovente confuse
(soprattutto in sillaba atona, dove sono spesso parte di morfemi,
mentre in sillaba tonica possono venire affette da metafonia [cfr. HREINN
BENEDIKTSSON 1965:29-30 e BARNES 1987:36]. Partendo da questa – errata
- considerazione, VON FRIESEN ritiene quindi che le ragioni della riforma
siano da ricercare in dati extralinguistici, ovvero in un supposto
isolamento culturale – in particolare dal mondo romano-cristiano - in
cui la Scandinavia sarebbe relegata dopo l’ascesa del regno franco:
“Während die Völkerwanderungszeit durch enge Beziehungen mit den
[sic!] übrigen germanischen und durch diese auch mit dem [sic!]
außergermanischen Welt gekennzeichnet wird, steht der Norden in den
letzten, der Wikingerzeit vorausgehenden Jahrhunderten kulturell
isoliert” [VON FRIESEN [1918-19:20].
Le motivazioni di tale convincimento, che comunque rimane
storicamente infondato [BARNES 1987:31; SPURKLAND 2006:33], appaiono
chiare una volta che questo supposto isolamento culturale dell’area
germanica settentrionale viene messo in relazione con quanto avviene
parallelamente nel mondo anglosassone: “Während in England die
einheimische Literatur sich auf die allgemein europäische geistige
Kultur stützen konnte, führte die Schriftkunst im Norden, einsam wie sie

13
stand, ein dahinsiechendes Leben” [ibid.]. In area anglosassone, infatti,
la totalità del materiale runico è virtualmente successiva alla
cristianizzazione [FELL 1994:119], e, come suggerisce PARSONS
[1999:92], “It appears to be possible that the reform [del fuþark
anglosassone] belongs to the roman-literate Christian society
represented by the monasteries themselves”, e dunque che “the
dissemination of the runic standard could be closely paralleled to the
dissemination of roman-script literacy”. SPURKLAND [2006a:33] applica
queste medesime considerazioni all’area scandinava, concludendo che
“If the Anglo-Saxon reform was a result of close connections with
Roman script culture, then the development of the Scandinavian
younger fuþark should theoretically be due to distance or isolation from
the same literate Roman script culture”.
La posizione di VON FRIESEN non è però unicamente dettata dai
suddetti fattori storici, ma poggia fortemente su un giudizio personale,
ovvero che la riduzione scandinava non sia stata altro che una “reine
Entartung” [1918-19:20], unito al fatto che tale supposto isolamento
non abbia potuto che riflettersi in un periodo di declino culturale, e in
particolare di declino dell’arte scrittoria. Come ricorda BARNES [1987:37],
“the period in question is, after all, the dawn of the Viking Age”, ovvero
un’epoca che discutibilmente può essere considerata decadente. Del
resto sembra che VON FRIESEN stesso abbia successivamente cambiato
opinione: dieci anni dopo scriveva già che “Orsakerna till dessa radikala
förandringar äro säkert flera, viktigast har säkerligen [...] de språkliga
varit” [1928:22], e che “grunden till denna är i huvudsak de starka
förändringar som det urn.[ordiska] ljudbeståndet genomgått under
folkvandringstiden” [1933:145].
Per SPURKLAND [2006a:37] i dati storico-sociali devono
giustamente essere rianalizzati dopo VON FRIESEN; ciò produce
un’immagine non necessariamente negativa: “if the old elite should be
replaced by social newcomers, the cultural continuity might be broken;
the situation would lie open for cultural manifestations unconstrained
by tradition”.

14
§6. Teorie grafologiche

Come si è visto nella sezione precedente, la mancanza di un filo


diretto con la cultura letteraria del Continente è un importante dato
storico che contribuisce ad arricchire il contesto in cui la riforma
avviene, forse fino a divenire uno dei fattori chiave che ha fatto sì che
questa prendesse la direzione dell’economia piuttosto che quella
anglosassone dell’arricchimento grafetico. Sia l’antico inglese che il
norreno sono il risultato di processi linguistici che hanno portato
all’introduzione di nuovi fonemi, che in area anglosassone si è scelto di
rappresentare grafeticamente in virtù della conoscenza dell’alfabeto
latino, ma che in Scandinavia si è scelto più economicamente di non
rappresentare, contestualmente alla mancanza di detta conoscenza.
Una tale considerazione, tuttavia, non può essere in alcun modo
definitiva, specialmente alla luce di altri dati rilevanti. Tra questi merita
particolare attenzione il fatto che il fuþark scandinavo non è solo una
forma di scrittura più economica dal punto di vista della corrispondenza
grafo-fonematica, ma anche da quello della complessità grafica. Già il
fuþark germanico era stato evidentemente concepito per rispondere a
specifici requisiti grafici, dettati in primo luogo dal supporto materiale
al quale la scrittura – o meglio, l’incisione – era inzialmente destinata,
cioè pietra, metallo, osso [cfr. DÜWEL 2001:4] (supporti lignei sono in
questo caso altamente problematici a causa della loro deperibilità, e
fino all’Era Vichinga inoltrata è impossibile presumere un loro uso
diffuso). Le unità grafiche basiche – asta, braccio e occhiello - che
caratterizzano dal punto di vista formale il fuþark germanico e lo
distinguono in maniera così peculiare da altri sistemi grafetici
rimangono non solo inalterate con la riforma, ma anzi si riconfermano
assi cardine del sistema. Il fuþark scandinavo esige però una
combinazione più economica dei detti elementi [§1], esigenza che si
sviluppa ulteriormente nelle varianti a braccio corto – in cui il numero
e/o la lunghezza dei bracci e degli occhielli viene ridotto – e senz’asta.
A ciò devono essere aggiunte due altri importanti peculiarità
dell’economia grafica della scrittura runica mantenutasi invariata con la
riforma, cioè la pratica delle legature [cfr. MACLEOD 2002] e
dell’omissione di diversi fonemi tra i quali le nasali davanti alle ostruenti
[cfr. WILLIAMS 1994].

15
Dovrebbe essere dunque legittimo sostenere che - soprattutto
alla luce dell’assenza di contatti con un tipo di scrittura talvolta
antieconomica come quella latina in uso nel mondo anglosassone – un
sistema grafetico come quello runico tende all’economia e alla
semplificazione (grafica e non). ANDERSEN è lo studioso che più di tutti
ha cercato unicamente in detta possibilità le ragioni della riforma
scandinava, attribuendola esclusivamente al desiderio di semplificare il
sistema, o meglio “at lave en Datidens Stenografi” [1947:220]. Per
suffragare questa proposta, che rifiuta ogni qualsivoglia riferimento ai
cambiamenti fonologici che hanno interessato il passaggio dal nordico
primitivo all’antico nordico, ANDERSEN si appella appunto alle rune
senz’asta (chiamate da lui “Hälsinge-runer”), che massimamente
esprimerebbero detta esigenza. Applicando letteralmente le sue
considerazioni, tuttavia, si otterebbe una serie di 14 segni, in cui f e
altri segni complessi come Q e R non sono stati affatto semplificati,
mentre per le coppie /r/:/R/ e /a/:/ã/ dovrebbe esserci un unico
grafema, così come come è accaduto per /t/:/d/, /i/:/e/, ecc. ANDERSEN
stesso sembra stupito di fronte alle sue stesse conclusioni, e si trova
quasi costretto a concedere a teorie ‘magiche’ come quella di Olsen la
possibilità che i nomi di ą, *ansuR > áss, e di t, *tiwaR > týr, abbiano
potuto influire sulla scelta delle rune da mantenere e che inoltre si sia
dovuto estendere l’ipotetica serie di quattordici rune per raggiungere il
‘magico’ numero 16.
Un altro problema della posizione di Andersen è il fatto che la
‘praticità’ del sistema runico è ridotta esclusivamente all’aspetto
grafico, mentre dal punto di vista della corrispondenza grafofonematica
il sistema viene definito ‘difettoso’:

Ulemperne ved det nye System er store og lette at faa Øje paa; det blev
heller ikke brugt i saa lang Tid. Derimod er det meget vansekigt, for ikke at
sige umuligt, at finde dets Fordele” [218]; løsningen skal ikke søges paa en
lydelig, fonologisk Linie, men paa en skriveteknisk, praktisk – der for os er
upraktisk, som den ogsaa har været det for Samtiden, der relativt hurtigt
bødede paa det mangefulde System [223].

16
§7. Funzione

Una teoria grafologica che aspiri ad essere completa non può


non contestualizzare l’uso pratico della scrittura runica né non
considerare il tipo di supporto su cui essa si realizza. In altre parole:
qual è il fine delle iscrizioni runiche più antiche? Rimane invariato con la
riforma o evolve anch’esso? Che tipo di target presuppongono dette
iscrizioni, se ne è previsto uno, e che tipo di supporto materiale esige
un tale tipo di comunicazione?
La critica più recente [LIESTØL 1971:75-76, SPURKLAND 2006a:41-
42] ha più volte sottolineato il fatto che se il fuþark scandinavo serviva
ai suoi utenti come mezzo pratico di comunicazione, doveva ipso facto
essere un buon sistema, altrimenti non ci sarebbe potuta essere
nessuna ragione valida per la sua adozione. La bontà di un sistema
grafetico, tuttavia, non è un concetto assoluto dipendente unicamente
dall’accuratezza della correlazione grafofonematica, come vorrebbero i
runologi ‘linguisti’, ma è in primo luogo direttamente dipendente
dall’uso che ne si fa.
La prima ben documentata funzione del fuþark germanico è
secondo alcuni mnemonica e commemorativa [FORSTER 1988] - forse
legata a particolari forme di religiosità -, non comunicativa. Essa si
realizza attraverso una sintassi inzialmente esclusivamente nominale,
secondo una successione cronologica del tipo: 1) antroponimo, p.es.
wagnijo (Illerup [DR: North Jutland 150]); 2) introduzione di pronomi
personali di prima persona (che forse presuppongono un verbo), p.es.
ek unwodR (Gårdlösa [KJ: Skåne 12]). Antropologicamente, queste due
prime manifestazioni di letterarietà runica puntano probabilmente ad
attivare la presenza atemporale dell’antroponimo [FISCHER 2005:61].
Successivamente 3) gli antroponimi cominciano ad apparire con verbi, in
particolare *taujan e *talgian (‘fare’), p.es. bidawarijaR talgidai21
(Nøvling [KJ: Nordjütland 13]), hagidaraR tawide22 (Garbølle [KJ: Seeland
30]). Queste prime tre fasi riguardano esclusivamente oggetti personali,
mentre nei secc. IV e V, insieme alle pietre runiche e ai bratteati,
vengono introdotti a) una sintassi più complessa, del tipo SOV; b) in
Svezia e Norvegia il vocabolario runico si rilessifica, perdendo *taujan e
gradualmente anche *wurkian, e introducendo nuovi termini analoghi

21 trad. ’Bidawarijar (Bidvar) fece (le rune)’.


22 trad. ‘Hagidarar (Hagråd) fece (le rune)’.

17
come *faihian e *writan; c) la struttura ‘ek+nome’ diventa più frequente,
e viene spesso accompagnata da apposizioni del tipo erilaR (‘incisore di
rune’); d) nomi personali femminili vengono introdotti, p.e. ek wagigaR
irilaR argilamundon23 (Rosseland [KJ: Hordaland 69]); e) il linguaggio
runico si fa più sofisticato: compaiono figure retoriche come
ek hlewagastiR holtijaR horna tawido24, Gallehus [DR:
l’allitterazione (ek
South Jutland 12 †]) e la metafora [FISCHER 2005:61].
La funzione originaria del fuþark, quindi, così come di altri
antichi sistemi grafetici, è quella di registrare la presenza di una
persona o un avvenimento, frequentemente un dono (‘X era qui’, ‘X fece
Y per Z’, ‘X eresse la pietra/incise le rune in memoria di Y’). Subito dopo
il periodo iniziale hanno luogo gli sconvolgimenti interni descritti nel
§1, con la conseguente drastica diminuzione di materiale runologico –
almeno per quanto riguarda i supporti ad alta durabilità come la pietra.
L’eccezione più significativa in questo periodo di relativo silenzio è la
pietra di Eggja [KJ: Sogn og Fjordane 101], che è un esempio – per
quanto emblematico dal punto di vista interpretativo e della datazione -
di iscrizione commemorativa, ma che per la prima volta presenta un
livello stilistico eccezionalmente alto.
L’unico indizio che potrebbe giustificare la posizione di chi
ritiene che, dall’invenzione del fuþark, non solo si è sempre scritto su
legno, la cui conservazione è legata a condizioni particolari, ma che ciò
implicasse un uso primariamente comunicativo delle rune, è forse la
forma delle rune stesse e dei loro costituenti fondamentali, che
sarebbero stati originariamente concepiti in tal modo per l’intaglio [PAGE
1988:6-8]. Così come questa posizione è, in mancanza di reperti
decisivi, impossibile da dimostrare, è altrettanto impossibile provare il
contrario: chi conosce un sistema di scrittura ha anche la facoltà di
usarlo su qualunque tipo di supporto (che si presti a detta pratica). È
tuttavia solo all’inizio del sec. VIII che si trovano in alcune aree le prime
testimonianze certe di rune su legno (Hedeby, Staraja Ladoga e forse
dalla biografia del missionario Ansgar [cfr. SPURKLAND 2006a:39-40]),
che testimonierebbero un uso generalizzato – almeno in queste aree -
della scrittura runica su tavolette di legno per scopi commerciali e di
comunicazione quotidiana. Se LIESTØL [1971:75-6] ha ragione ad
identificare un tale uso come primario nell’Era vichinga e se c’è ragione,

23 trad. ’Io, Wagigar, incisore di rune di Agilamunda’.


24 trad. ’Io, Hewagastir (Hlegestr, figlio) di Holt, feci il corno’.

18
come sembra, di ritenere che le prime testimonianze del fuþark
suggeriscano un uso molto diverso, allora la distanza tra i due fuþark
non è solo formale, ma anche profondamente funzionale.

§8. Una teoria ‘lessicologica’

Un’altra interessante teoria è quella di FISCHER [2005:63], alla


quale fin qui si è solo sporadicamente accennato, che definirei
‘lessicologica’: FISCHER ritiene che la pratica runografica sia nel periodo
di utilizzo del fuþark germanico monopolio di una ‘cleptocrazia’, ovvero
di una élite indigena che crea una forma di civiltà letteraria alternativa a
quella romana per reagire all’incombente avanzata di quest’ultima nella
Germania Libera25. Ciò viene fatto per mezzo della creazione di un
‘tecnoletto’ runico, che diventa sempre più complesso (cfr. §7) e che nel
corso del sec. V assume una forma statica, che in breve però non riesce
più a stare al passo dei rapidi e profondi cambiamenti fonologici della
lingua parlata. In pratica, se le mie deduzioni da FISCHER sono giuste, la
comparsa del fuþark scandinavo sarebbe paragonabile a quella dei
volgari scritti nell’area romanza medievale: in un contesto in cui la
scrittura è monopolio di un’élite conservativa che a causa del
mutamento linguistico diacronico diventa presto alloglotta, la lingua
parlata evolve indipendentemente nel corso di molto tempo, finché il
legame di intelligibilità con quella scritta si spezza definitivamente e
avviene una rivoluzione. Secondo FISCHER, quindi, non sarebbero tanto i
cambiamenti fonologici che generano la necessità di una svolta, quanto
piuttosto il fatto che questi, uniti alla caduta di molte sillabe atone
(sincope/apocope), generano lessemi totalmente nuovi, forse addirittura
irriconoscibili rispetto a fasi linguistiche precedenti, il cui legame con il
conservativo gergo o “tecnoletto” runico arriva in breve tempo a
dissolversi.

25 Con Germania Libera si intende quella porzione di territorio etnicamente e linguisticamente


germanico posto oltre il limes germanicus, ma per costumi e cultura fortemente romanizzata.

19
§9. Teorie fonologiche

Come si è visto nelle sezioni precedenti, i cambiamenti interni al


sistema fonetico che contraddistinguono il passaggio dal nordico
primitivo al norreno, fin qui solo accennati in più occasioni, figurano
come dato di fatto nella maggior parte delle posizioni qui presentate. In
questa sezione, tuttavia, verranno considerate le teorie che si basano
unicamente su dati linguistici.
Il primo a proporre una tesi puramente fonologica fu TRNKA
[1939], il quale, tuttavia, si occupò esclusivamente delle plosive. Lo
studioso praghese era convinto non solo della bontà del fuþark
scandinavo come sistema grafetico, ma anche del fatto che il contesto
storico della riforma è quello di una Scandinavia che, al contrario
dell’area anglosassone, è immune dal pesante influsso della civiltà
letteraria latina: “The new alphabet is [...] a rudimentary solution of
spelling difficulties, arrived at without the help from Latin scribal
tradition” [293]. La riforma in sé sarebbe stata dettata in primo luogo da
una “new valuation and unconscious classification of phonemic
oppositions”, deducibile da una “phonemic analysis of consonantal
correlations in North Germanic” [ibid.]. In realtà, non solo il vocalismo e
molti altri problemi fonologici sono esclusi da detta analisi, ma le
consonanti non sono neppure trattate esaustivamente, dato che, come
detto, il discorso è limitato alle plosive.
Il ragionamento ha inizio con una congettura al quale viene
attribuito il valore di verità, ovvero che il valore primario di B, d, e g
fosse inizialmente quello di fricative, che dopo le nasali assumevano il
valore allofonico di plosive. Quando poi il nesso /ng/ comincia a venire
scritto come <n+g> (Reistad [KJ: Vest-Agder 74]) invece che con
l’apposita runa 5, è possibile parlare di una nuova analisi fonemica,
sebbene le occlusive sonore non siano ancora state fonemizzate. Ciò
comporta che “the corresponding runes may have been [...] rather
associated with plosives than with spirants, because the transition of
initial voiced spirants into occlusives took place even in their names,
but [...] they continued to represent both variants of the phonemes /bʫ,
b/, /ð, d/, /gʫ, g/26 up to the latter part of the 8th century” [294].

26 Nel testo originale, TRNKA usa i simboli Š ñ ƚ , che io per esigenze di praticità e uniformità ho
volto in quelli tradizionalmente usati nel campo della linguistica germanica, che a loro volta
corrispondono ai segni IPA β ð dz.

20
Neppure la successiva neutralizzazione della sonorità in fine di parola
riuscirebbe a modificare il rapporto tra questi suoni (f e B, per esempio,
vengono usate intercambiabilmente anche in caso di neutralizzazione);
nel sec. VIII, invece, avviene il mutamento che scardinerà questo
sistema, ovvero la sonorizzazione di /f/ e /þ/ in contesto sonoro
(mentre /h/ - [x]? – cade, viene assimilato o dissimilato), che porta alla
defonologizzazione della sonorità delle spiranti a beneficio della
fonologizzazione delle occlusive sonore. Ciò comporta “a great deal of
uncertainty in the use of runic letters”, sicché viene trovata la semplice
ma ingegnosa soluzione di ignorare graficamente la sonorità delle
occlusive, nonostante detta sonorità avesse chiaro valore fonemico;
l’impulso soggiacente a questa operazione può essere in primo luogo
stato dato dalla perdita dovuta al disuso di p [295-6].
La prima conclusione che si può trarre da quanto esposto da
TRNKA è, dunque, che la riforma del fuþark sia primariamente dovuta a
fattori legati a sole sei rune, il cui numero viene ridotto a tre. Detti
fattori determinano inoltre anche l’abbandono di 5 – che non è quindi
dovuto al suo inutilizzo -, mentre delle restanti rune, eccezion fatta per
h/h, non viene fatta menzione, nonostante il chiaro intento di fornire
una comprensiva spiegazione fonologica per la comparsa del fuþark
scandinavo [293]. In secondo luogo, fondamentale è che i radicali
mutamenti fonologici del periodo della sincope abbiano creato una
situazione di generale incertezza riguardo alla scrittura di una lingua in
rapida e profonda evoluzione.
Secondo BARNES [1985:35] uno dei problemi più rilevanti delle
teorie fonologiche è rappresentato dal fatto che dette teorie
attribuirebbero agli utenti – o piuttosto ai riformatori, e agli inventori,
aggiungerei – della scrittura runica una tanto straordinaria quanto
improbabile capacità d’analisi fonemica. In pratica, il linguista che si
volesse avventurare in una conclusione del genere finirebbe
inevitabilmente per trasferire illegittimamente categorie e concetti
propri del pensiero linguistico moderno a persone alle quali
quest’ultimo non poteva che essere totalmente estraneo.
Un’affermazione di questo tipo, tuttavia, non è completamente
convincente, in quanto essa contiene implicazioni non irrilevanti; ne
conseguirebbe ad esempio che neppure gli inventori del fuþark
potessero dimostrare una simile capacità di analisi, nonostante la
maggior parte degli studiosi sia concorde nel considerare il fuþark

21
germanico un sistema pressoché perfetto nel rappresentare
graficamente la totalità dell’inventario fonemico.
Per contro, mi pare che ci siano argomenti a sufficienza per
poter affermare che il fuþark germanico, nonostante servisse
ottimamente al suo scopo, non era assolutamente caratterizzato da una
corrispondenza perfetta – o pressoché perfetta – tra fonema e grafema,
come è stato spesso sostenuto. Ciò si può dire parimenti del fuþark
scandinavo, sebbene anch’esso servisse perfettamente al suo scopo
(altrimenti non sarebbe stato concepito né utilizzato così largamente),
così come altri sistemi di scrittura antichi e moderni. Ad esempio,
pochissimi sistemi grafetici impiegati per lingue caratterizzate da
opposizioni quantitative vocaliche e consonantiche distinguono tra
vocali e consonanti brevi e lunghe (geminate); detta caratteristica sarà
più tardi propria della notazione in alfabeto latino dell’antico nordico,
mentre è stata - a parte poche casi di geminazione consonantica -
sempre estranea alla scrittura runica, nonostante la quantità sia vocalica
che consonantica avesse sempre avuto valore fonemico sia nel nordico
primitivo che nell’antico nordico. A differenza delle moderne lingue
scandinave, infatti, caratterizzate dalla distribuzione complementare di
lunghezza vocalica e consonantica – una sillaba può essere cioè o del
tipo /VC:/ o /V:C/ – le sillabe antico-nordiche potevano presentarsi in
ben 4 combinazioni diverse, ovvero /VC/, /V:C/, /VC:/, /V:C:/ [TORP,
VIKØR 2003:52-53]. Ne consegue che se dovessimo scrivere la parola
‘pelle’ – skin - per mezzo del fuþark germanico, si otterrebbe la
sequenza grafetica skin, skin nel fuþark scandinavo, la quale potrebbe
stare per 4 lessemi diversi, ovvero skin, skín, skinn, e skínn, ognuno di
essi di significato diverso (rispettivamente ‘splendore’, 1a pers. pres.
sing. del verbo skína, ‘splendere’, ‘pelle’, 2a/3a pers. pres. sing. del
verbo skína). Un’ambiguità simile a quella generata dalla presenza
esclusiva di una singola sequenza grafetica polisemica è però
difficilmente immaginabile nella realtà, poiché il contesto contribuisce
prontamente a chiarificare l’essenziale resa grafica; detto ragionamento
può però essere applicato senza problemi anche ai casi di ambiguità
offerti dal graficamente più ‘povero’ fuþark scandinavo.
Un altro aspetto importante in questo contesto è quello
dell’omissione delle nasali davanti alle occlusive [cfr. WILLIAMS 1994].
Neanche in questo caso è possibile stabilire se si tratti di mancata – o
errata – analisi fonemica, se cioè gli utenti della scrittura runica abbiano

22
analizzato le nasali non come fonemi ma come tratto [+nasale] non
distintivo delle vocali precedenti, oppure se più comunemente si tratti
di un caso di economia grafica. Io propendo per la prima soluzione; il
fatto sarebbe da solo sufficiente per poter affermare che gli inventori e
utenti del fuþark erano sì in grado di eseguire un’analisi fonemica della
propria lingua e di concepire soluzioni grafiche di conseguenza, ma che
detta analisi non poteva assolutamente essere paragonabile a quella in
uso nella linguistica contemporanea. Ciò confermerebbe inoltre
l’assenza di una (pressoché) perfetta corrispondenza grafo-fonematica
del fuþark.
Considerazioni del tutto simili si possono applicare al valore
distintivo dei due tonemi scandinavi, che però si manifestano piuttosto
tardi e solo in una piccola parte dell’area antico-nordica (odierne
Norvegia meridionale e Svezia, forse in origine anche in Danimarca,
dove al tonema 1 si sarebbe più tardi sostituito lo stød, ovvero [Ȥ]). A
differenza delle altre dette caratteristiche, però, i tonemi non verranno
mai rappresentati graficamente, pur avendo valore distintivo, neppure
con l’introduzione dell’alfabeto latino.
Un discorso a parte invece merita un elemento spesso trascurato
da coloro che hanno proposto tesi di tipo fonologico: la metafonia.
L’assenza di una qualsivoglia notazione delle nuove vocali sorte
dall’esito della metafonia costituirebbe secondo alcuni una delle più
gravi mancanze delle rune riformate. Più recentemente è stato poi fatto
notare [HREINN BENEDIKTSSON 1965:29-30, BARNES 1985:36] come neppure
nei più antichi manoscritti islandesi compaiano vocali metafonizzate dal
chiaro status fonemico, ovvero che la pronuncia dette vocali potesse più
o meno facilmente essere desunta dal contesto. Ancora più
recentemente, però, SPURKLAND [2006b:334-335] ha riformulato l’intera
problematica della metafonia antico-nordica, in particolare per quanto
riguarda la supposta relazione di causalità con la sincope. Questa
relazione viene riformulata in termini cronologici, poiché, se non è
possibile esser certi del fatto che la caduta di vocali atone abbia causato
il ‘recupero’ della vocale mutante all’interno della sillaba radicale, è
invece possibile affermare che “since the umlauting vowel was often
syncopated, it goes without saying that the assimilation must have
taken place before the assimilating vowel disappeared”. In tal caso,
sarebbe più corretto definire la metafonia antico-nordica un caso di
epentesi, piuttosto che di assimilazione regressiva, il che significa che

23
non ci sarebbe nessun bisogno di porre i fenomeni della metafonia e
sincope in relazione causale. A questo punto è possibile distinguere tra
due tipi diversi di metafonia, ovvero metafonia fonetica (in cui le vocali
metafonizzate hanno esclusivamente uno status allofonico: vedi i
dialetti norvegesi che in passato presentavano un’armonia vocalica
generalizzata) e metafonia fonemica, solo l’ultimo dei quali avrebbe
veramente a che fare con la sincope. Servendosi del saggio di SCHULTE
Grundfragen der Umlautphonemisierung [1998], SPURKLAND [2006b:339]
conclude poi che gli esiti della metafonia dovevano essere stati
fonemicizzati già all’epoca della pietra di Eggja:

If *hurna becomes horna as a result of regressive assimilation, and if the


root vowel [o] is a combinatory allophone of /u/ conditioned by the
unstressed –[a] in the following syllable, then this [o] should return /u/
with the syncope of [a]. Why is it not so? The answer must be that the
allophone had achieved a sort of independent status in relation to the
conditioning element – in our case the following unstressed vowel –
before it was syncopated.

Riuscire a stabilire lo status delle vocali metafonizzate in antico nordico


è dunque fondamentale per capire quanto la scrittura runica dell’Era
vichinga fosse realmente precisa. Stranamente, però, sembra che anche
alla luce di motivazioni e dimostrazioni così convincenti come quelle
appena viste si sia ancora lontani da una possibile soluzione del
problema: il fatto che il sistema linguistico avesse fonemizzato gli esiti
della metafonia non significa che i parlanti ne fossero consapevoli, né
che, ponendo che lo fossero, avessero necessità di esprimere detta
consapevolezza nello scritto, piuttosto che optare per soluzioni
graficamente più economiche.

§10
§10. Nomi delle rune

L’ipotesi che la riforma scandinava del fuþark sia stata causata in


primo luogo dalla rottura del legame acrofonico tra alcune rune e i loro
nomi è quella che finora ha avuto più successo tra i runologi [tra gli altri
LIESTØL 1981, BARNES 1985, SPURKLAND 2001]. La questione dei nomi delle
rune compare regolarmente nei saggi più recenti, anche laddove essa
non riveste una posizione centrale nell’argomentazione. Nello specifico,
però, essa si occupa dell’abbandono di poche rune soltanto, cioè di e, o
24
e W, mentre a e j acquisirebbero per lo stesso motivo - la seconda sotto
altra forma - un nuovo valore fonemico. A causa dei mutamenti fonetici
del periodo precedente all’Era vichinga – ovvero frattura vocalica,
metafonia e caduta delle semiconsonanti davanti a vocali posteriori - i
nomi delle dette rune subiscono cioè una trasformazione tale che,
sebbene i fonemi (o forse allofoni) corrispondenti non siano per nulla
stati eliminati, non riuscirebbero più a suggerire il valore fonemico delle
rune alle quali da secoli erano associati:

e *ehwaR > *jōR > jór


o *ōþila > *œðil
W *wunju > *yn
a *ansuR > *ąsR > *ąss > áss
j *jāra > *āra > ár

A causa della sua applicabilità limitata a vocali e semiconsonanti,


questo tipo di argomentazione viene spesso o esteso a tutte le rune che
scompaiono o compaiono sotto forma diversa nel fuþark scandinavo,
oppure usato come complemento all’argomentazione fonologica nella
forma in cui è stata formulata da TRNKA, circoscritta cioè alle ostruenti.
Ciò è dovuto al campo di applicazione relativamente ristretto delle due
teorie, che non si escludono necessariamente a vicenda. Ora, si
potrebbe dire che il discrimine tra questa argomentazione e quella
fonologica consista nello stabilire se detti mutamenti fonologici abbiano
potuto scatenare la riforma di per sé, oppure se ciò sia avvenuto
soltanto indirettamente, attraverso cioè la modificazione dei nomi delle
rune. Si tratta insomma di capire quanto detti nomi fossero importanti
per gli utenti della scrittura runica.
A causa di una forzata contaminazione con l’àmbito della magia
e dell’esoterismo, i nomi delle rune hanno ricoperto per lungo tempo un
ruolo non secondario in runologia. Le rune avrebbero cioè avuto,
secondo alcuni, una certa funzione magico-esoterica proprio in virtù del
del valore lessicale del nome, nonché del legame acrofonico tra nome e
runa. A questo proposito vengono spesso fatti paragoni con altri antichi
sistemi di scrittura. Alfabeti semitici come quello fenicio ed ebraico, che
si pongono all’origine degli alfabeti occidentali (greco, etrusco, latino e,
in ultima analisi, il fuþark), presentavano anch’essi nomi dotati di valore
lessicale, derivati probabilmente da nomi di costellazioni, le quali

25
venivano riprodotte stilizzate nei grafemi stessi (p. es. eb. aleph ‘toro’
rappresenterebbe appunto la testa di un toro stilizzata, ovvero la
costellazione del toro), così come l’ordine delle costellazioni nello
zodiaco si rispecchiava nella disposizione delle lettere nell’alfabeto27.
Personalmente, ritengo stupefacente che in Grecia si siano conservati
fino ai giorni nostri nomi semitici che non hanno ivi mai avuto nessun
valore lessicale indipendente in lingua locale; più tardi, la nascita
dell’alfabeto latino da modelli greci ed etruschi ha infatti decretato la
scomparsa dall’Europa occidentale di grafemi dotati di nomi, almeno
fino alla nascita delle scritture ogamica e runica, che però si presentano
in un modo totalmente nuovo rispetto alla fenomenologia degli alfabeti
europei più antichi: mentre i Latini, ai quali detti nomi semitici dovevano
sembrare estranei e privi di significato reale, mantengono però l’ordine
originale dei grafemi con poche variazioni, Germani e Irlandesi
inventano nuovi nomi e una nuova successione. Se il problema
dell’origine dell’ordine delle rune nel fuþark è probabilmente di
impossibile soluzione, è invece verosimile che ad una società che da
uno stadio di assoluta oralità voglia passare tramite l’introduzione dalla
scrittura ad uno stadio letterario siano indispensabili strumenti
mnemonici come il principio acrofonico supposto per i nomi delle rune.
DÜWEL [2001:197] rientra tra quei pochi runologi che si
preoccupano di redarguire adeguatamente il lettore sulle perplessità
che sussistono nel campo della ricostruzione dei nomi delle rune:

Obwohl man durchweg annimmt, daß diese [i nomi delle rune] bereits in
die Zeit der Runenschöpfung zurückreichen, werden sie doch erst in ags.
und kontinentalen Handschriften seit dem 8. Jh. für die ae. Namen bzw.
seit dem 9. Jh. für die skand. Namen bezeugt. Infolge dieser späten,
teilweise im Verlauf immer neuer Abschriften verderbten Überlieferung
auf der Grundlage jüngerer, weiterentwickelter Runenreihen kann der
(ur)germ. Runenname oft nicht zweifelfrei für jede der 24 Runen
rekonstruiert werden.

Ciò significa che i nomi delle rune non compaiono in nessun testo
pagano, e, aggiungerei, per quanto riguarda l’area antico-nordica e
continentale, in nessun testo che si possa dire immune da
condizionamenti provenienti dall’esterno, in particolar modo dal mondo

27 Un’esposizione della ‘funzione calendariale’ degli alfabeti semitici è discussa in BAUSANI


[1979].

26
anglosassone dei Runica Manuscripta. Non è detto, dunque, che detti
nomi – o meglio la totalità di essi - siano patrimonio comune
germanico, né che, come voleva POLOMÉ [1991:434], siano “imbedded in
the German concepts about the world of the gods, nature and man”.
Quest’idea è strettamente legata alla dubbia credenza che le notae
tacitiane consistessero di iscrizioni di singole rune usate
ideograficamente per la divinazione. Sull’uso divinatorio delle rune
sussistono per contro pochi dubbi, ma, come ricorda GRIFFITHS,
[2006:84]

in this respect there is no difference between runes and any other form of
notation. All Mediterranean alphabets also had on occasion divinatory and
magic application. As for Begriffsrunen the employment of runes to
represent concepts expressed by their names is clear from the
manuscript tradition, but evidence of such use outside manuscripts is
insubstantial and could be attributed to the incidental use of single runes
as abbreviations or even magical notae rather than a part of a recognised
system of ideographs.

Il saggio di GRIFFITHS è estremamente interessante perché, oltre a tentare


la difficile impresa di mettere le rune in relazione con l’alfabeto
ogamico, difende l’altrettanto difficile e rara tesi secondo cui ricostruire
un elenco di nomi germanico-comuni sarebbe un’operazione illegittima.
La trattazione è assai complicata, ma altrettanto ben argomentata e in
larga parte assai convincente. Egli tenta di dimostrare come
praticamente tutti i nomi delle rune possano essere spiegati in termini
di nomi di lettere trovati in glosse a manoscritti irlandesi come
l’Auraicept na nÉces (sec. VII), un testo didattico sugli alfabeti ebraico,
latino, greco e ogamico e in ultima analisi, che

neither rune-names nor ogam-names, as systematic sets of names,


predate the advent of a manuscript tradition brought by Christian
missionaries, first to Ireland and thence to Northumbria and the rest of
Anglo-Saxon England [...] and it is the Anglo-Saxon tradition that is then
reflected in the Abecedarium Nordmannicum (9th century) and the Old
Norse and Old Icelandic Rune Poems (13th and 15th? centuries,
respectively) [84].

Se GRIFFITHS ha ragione, tuttavia, allora inferenze del tipo a /a/ > /ą/
perché *ansuR > *ąss > áss e J (j) /j/ > /a:/ perché *jāra > *āra > ár ,
le quali sono difficilmente confutabili, non sarebbero completamente
27
legittime, ma questi sarebbero comunque gli unici due casi di
inapplicabilità di questa ipotesi. Per quanto riguarda le Begriffsrunen,
invece, una breve ma brillante appendice illustra come

any assumption of an early existence of rune-names rests on the inability


to understand a few sporadic single runes, which in fact need no
Begriffsrunen at all but could simply be abbreviations, or perhaps magic
endowed notae, or even runes cut at the idiosyncratic whim of a carver
[105].

Se le rune erano veramente dotate di nomi, quindi, dimostrare che


questi erano in origine unici e fissi non pare possibile, se non in due
soli casi. L’esistenza di nomi variabili, non pan-germanici non avrebbe
certo impedito ai neofiti di apprendere la scrittura: essi si potevano
avvalere del principio acrofonico utilizzando parimenti una moltitudine
di lessemi alternativi. Ma c’è un altro elemento che vorrei qui
sottolineare: il nuovo rapporto 2:1 tra fonemi e grafemi introdotto dalla
riforma neutralizza in quasi tutti i casi la possibilità di applicazione del
principio acrofonico in fase di alfabetizzazione runica. Se lo si vuole
mantenere come unico principio di cui le popolazioni scandinave si
potevano servire per ricordarsi i valori fonetici delle rune, allora è
necessario postulare almeno un rapporto 2:1 (n:1) tra nome e grafema.
Se k ha valore /k/ e /g/, non sarebbe stato possibile ricordarsi di
entrambi i valori servendosi soltanto del nome kaun. Il principio
acrofonico doveva quindi essersi rivelato inutile, oppure doveva esser
stato completamente ripensato in funzione delle nuove 16 rune.
Il crittogramma sulla pietra di Rök [SR Östergötland 136] è stato
indicato da LIESTØL [1981:109] come la prova dell’esistenza,
dell’importanza e, non ultimo, della continuità dei nomi runici fin
nell’Era vichinga:

What we have to concede is that after the 16-rune fuþark was well
established in Scandinavia, a runecarver in Östergötland knew the old
runes and their values. His only means of recognizing these values was
the rune names. In addition to the 16 names of his younger fuþark, he
must have known the names of at least five of the additional runes of the
older alphabet. This means that the Rök carver knew at least 21 out of
the original 24 rune names.

28
Questo tipo di ragionamento è privo nessi logici tra le sue componenti.
In primo luogo, non è assolutamente detto che i nomi delle rune fossero
l’unico mezzo in base al quale l’autore dell’iscrizione potesse essere a
conoscenza dei valori delle rune germaniche. La conoscenza delle
antiche rune avrebbe potuto esser stata tramandata nel tempo secondo
molte altre modalità, p. es. grazie alla lettura dei documenti runici
presenti sul territorio. Per chi conosceva già il fuþark scandinavo, non
doveva essere difficile dedurre i valori delle rune germaniche dalla
lettura di un’iscrizione operata da un’altra persona. In secondo luogo, i
supposti nomi germanici che l’autore ‘doveva’ conoscere appartenevano
ad una lingua ben distinta da quella a lui familiare. Postulare la
conoscenza di detti nomi significherebbe anche includere quella di uno
stadio precedente della lingua vecchio di almeno due secoli e già molto
distante da quello del nono secolo. Se l’autore, come ho proposto,
conosceva parzialmente a memoria il contenuto di iscrizioni nordico-
primitive nel fuþark germanico alla lettura, allora come conseguenza di
detta deduzione avrebbe potuto applicare il rapporto di 2:1 proprio del
fuþark scandinavo anche alle rune della serie germanica: d : /t/, /d/ =
t : /t/, /d/. Questo potrebbe significare che l’autore della pietra di Rök
non fosse in realtà a conoscenza del tratto [+sonoro] di d, ma soltanto
del tratto [+dentale], e cioè che la sua scelta di invertire i valori non
fosse completamente cosciente, bensì dovuta alla confusione generata
dalla presenza di due grafemi, invece che uno, corrispondenti al tratto
[+dentale].

§11
§11. Moltke: influenze da altri alfabeti

Stranamente, mentre la teoria dell’isolamento dell’area


scandinava in fase della riforma del fuþark ha ottenuto un discreto
seguito, MOLTKE [1986:33] ha avanzato la tesi opposta, ovvero che la
riforma sia stata ispirata da alcuni elementi propri dell’alfabeto latino:

Udviklingen i runenavnenes udtale er omtalt. Og efter forbillede fra det


latinske alfabet afskaffede man w-runen, w, skønt dens form ikke stred
mod de ovenfor omtalte krav, og lod dens lyd udtrykke ved u-runen. Når
latinen kunne nøjes med eet bogstav for disse to lyd, kunne runealfabetet
også. Men det er mere påvirkning fra det latinske alfabet: Som w og u nu
blev udtrykte alene af u-runen, således blev g og k udtrykt ved k-runene

29
alene, i og j ved i-runen, þ og d (ð) ved þ-runen, o og u ved u-runen (der
samtidig blev udtryk for w) – ng-runen var øverflødig, når man havde n +
g (desuden havde latinen intet bogstav for ng-runen) – og når man havde
en b-rune, der på samme måde kunne dække b- og p-lyd, var der
sandelig ingen grund til at kalde den forlængst af mode gåede p-rune til
live.

L’influsso dall’alfabeto latino sarebbe secondo MOLTKE “klokkeklar”;


francamente, semiconsonanti a parte, non vedo come ciò possa essere
possibile. La distribuzione delle vocali e consonanti in relazione ai
fonemi non può essere paragonata al rapporto (prossimo a) 1:1 del
latino classico. Interessante è invece la proposta della derivazione di h
dall’omografa runa anglosassone, che aveva nome ior; se da un lato un
reale contatto con l’area anglosassone avrebbe poi comportato un
arricchimento del fuþark scandinavo, è pur vero che il fatto che le due
serie runiche abbiano entrambe prodotto lo stesso segno partendo
dall’originario j è cosa insolita. /j/ era però reso nel fuþorc da L āēr,
mentre h indicava un dittongo; se si fosse veramente voluto prendere in
prestito una runa che, come abbiamo visto, era tra le poche ad avere
indubbiamente un nome, *jāra/ár, si sarebbe forse preferito L.
Quest’ultima è caratterizzata da una leggermente maggiore complessità
grafica (due tratti in più di h, anche se più corti), ma la si sarebbe potuta
facilmente semplificare mantenendo l’occhiello sulla sinistra (ô) per
differenziarla da Q, sul modello delle speculari l e t.

§12
§12. Conclusioni

Il senso e l’opportunità di un paragrafo conclusivo non hanno


nel contesto del presente saggio altro ragione di essere, se non quella
di individuare quelle tendenze, talvolta innovatrici, che negli ultimi anni
si sono manifestate nel campo della runologia, in particolare riguardo al
problema della creazione del fuþark scandinavo. Come si era già
anticipato, non si è cioè tentato di dare un vero e proprio contributo alla
soluzione di detto problema, poiché questo avrebbe comportato un
esame delle fonti primarie che esulava dagli scopi di questo scritto. A
questa scelta si deve anche quella generale mancanza di organicità -
propria di uno stile descrittivo, ‘da antologia’, piuttosto che
dimostrativo - che sarà stata senza dubbio percepita alla lettura; questa

30
sezione conclusiva è intesa proprio come tentativo di porvi rimedio,
laddove è possibile.
Da un esame contrastivo tra le varie teorie che hanno dominato
la scena runologica nel passato, ossia dalla nascita della disciplina fino
a non poco tempo fa, e quelle che sono apparse da una decina d’anni a
questa parte, emerge più o meno chiaramente che le varie tipologie di
argomentazione qui catalogate non si differenziano soltanto per
contenuto, ma anche per data di apparizione. C’è stato cioè un
avvicendamento di correnti di pensiero, che ha visto 1) la comparsa e il
dominio quasi esclusivo di teorie magico-esoterico-mitologiche; 2)
l’abbadono (talvolta parziale) delle stesse a vantaggio di considerazioni
d’ordine fonologico; 3) la comparsa di una corrente grafologico-
funzionale; 4) una quasi assoluta egemonia di teorie concernenti i nomi
delle rune, occasionalmente ‘ibridate’ da argomentazioni fonologiche;
5) la ripresa di vecchi spunti che, uniti a nuove ricerche sul contesto
storico, hanno contribuito alla creazione di teorie propriamente
storiografiche, che spesso però non possono costituire il nucleo
esclusivo dell’argomentazione; queste sono state poi 6) integrate da
una rinnovata attenzione per gli aspetti fonologici, affrontati però
questa volta diversamente che in passato. Nel frattempo sono poi
apparse altre novità difficilmente inquadrabili, come MOLTKE [1986].
In questa evoluzione critica ci sono elementi che sono stati
abbandonati, come la numerologia e la tesi di MOLTKE, caduta
praticamente nel vuoto, mentre altri sono stati in un primo momento
scartati – dal loro stesso autore, per giunta [cfr. §5]! – per poi essere più
tardi recuperati, rivisti e reintegrati nel dibattito. Il risultato è che gli
elementi dominanti al momento sono di ordine storiografico,
grafologico-funzionale e, seppur a mio vedere in misura leggermente
minore, fonologico; altri, come la questione dei nomi delle rune, pur
essendo ben presenti, vengono oggi messi in discussione con un’inedita
forza argomentativa, tale che la loro sopravvivenza nel futuro è cosa di
cui si può legittimamente dubitare. Il campo è aperto ed estremamente
ricettivo nei confronti di proposte completamente nuove.
Una svolta decisiva, forse epocale, si è avuta in seguito alla
pubblicazione di opere fondamentali incentrate sulle iscrizioni
transizionali, in particolare sulla pietra di Eggja [KJ: Sogn og Fjordane
101]. Quest’ultima è forse testimone di una cruciale verità: il fuþark
germanico, che nella versione usata nell’iscrizione di Eggja presenta

31
ancora pochissime variazioni (fuQaRKgW:hnihYS:tBemldo), poteva essere
egregiamente impiegato per scrivere l’antico nordico, giacché
l’evoluzione dal nordico primitivo è ivi ormai pressoché ultimata. Per
quanto, quindi, ci potesse essere una qualche generalizzata incertezza
riguardo alla scrittura di alcune vocali atone e poche altre consonanti, è
oggi più evidente che in passato che non ci si può basare su
argomentazioni di carattere esclusivamente fonologico, e che anzi
queste non possono che rivestire un ruolo circoscritto, cioè appunto alle
vocali atone e a poco altro. I contributi recentissimi di SPURKLAND [2006a]
e FISCHER [2006:63] vanno infatti in questa direzione, esplorano cioè la
possibilità che la riforma sia emersa da un periodo di profondo
rinnovamento socio-politico28, nel quale vengono altresì esplorati nuovi
àmbiti d’utilizzo della scrittura runica, come può essere quello del
commercio.
Se all’altrettanto recentissima tesi di GRIFFITHS [2006] sia
riservato un destino importante, è forse impossibile da prevedere; ciò
dipenderà da come la sua proposta [83] di riallacciare i contatti da
tempo recisi con il mondo della celtologia verrà accolta. L’ultimo – o il
primo, e quindi l’unico - grande runologo ad avere un’approfondita
competenza sia in runologia che in celtologia fu MARSTRANDER, che però
era anche un pioniere di una neonata disciplina, con tutti i limiti che ne
conseguono. Molte sue idee e proposte, infatti, sono state dopo di lui
giustamente criticate e abbandonate alla luce di nuovi risultati di una
ricerca in evoluzione; molte altre, invece, meritevoli di essere colte,
sono semplicemente cadute nel vuoto, nell’attesa che qualcuno di una
competenza e vastità di interessi paragonabile alla sua raccogliesse il
testimone. Forse GRIFFITHS ha fatto il primo passo in tale direzione, e ciò
lo ha dotato degli strumenti critici necessarî per poter attaccare
legittimamente un finora indiscusso assioma runologico. Un simile
contributo non avrebbe potuto provenire dall’interno (ovvero
dall’ambiente runologico ‘tradizionale’); poteva venire soltanto da un
innesto esogeno. Forse a questo ne seguiranno altri; tale è appunto
l’appello di GRIFFITHS [104].

28 In realtà FISCHER non avanza la stessa tesi di SPURKLAND [2006], ma è comunque convinto che la
scrittura runica fosse inizialmente monopolio di una piccola élite (“cleptocracy”), e che quindi la
sua sorte dipendesse dai rapporti di potere presenti all’interno della società.

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Diego Ferioli
CONSIDERAZIONI SUL FUÞARK SCANDINAVO
CANDINAVO
ABSTRACT

Di una disciplina indipendente dedicata allo studio dell’antica scrittura germanica


(fuþark), la runologia, si è sentita l’esigenza – all’incirca un’ottantina di anni fa – perché
diversi contesti disciplinari potessero convergere e contribuire più proficuamente alla
soluzione di alcuni problemi specifici. Su alcuni di questi, però, tante parole sono state
spese, senza che una particolare teoria o corrente si sia ancora imposta sulle altre. È
questo il caso delle dinamiche legate alla riforma scandinava dell’originario fuþark
germanico, avvenuta appunto in Scandinavia in un periodo che va dal VI all’VIII secolo,
evidentemente governata da un principio di economia antitetico al considerevole
ampliamento – ma anche stravolgimento - fonetico che caratterizza il passaggio dal
nordico primitivo al norreno. Quest’ultimo passaggio, che pure non coincide
esattamente con l’abbandono del fuþark germanico a vantaggio di quello scandinavo,
vede infatti l’avvicendarsi di mutamenti radicali in un periodo di tempo relativamente
ristretto. Analoghi mutamenti, risultanti cioè in un’estensione dell’inventario fonemico,
hanno invece avuto in area anglosassone l’effetto opposto, ovvero un considerevole
ampliamento della serie runica locale. Nel tentativo di risolvere questo problema, sono
stati pubblicati un notevole numero di contributi, presentati e commentati in questo
saggio con lo scopo di individuare le linee guida della ricerca presente e passata, con
una particolare attenzione nei riguardi degli sviluppi che le più recenti teorie lasciano
presagire per l’immediato futuro. Le prime generazioni di runologi si sono infatti
occupate del problema utilizzando un obsoleto impianto critico, basato su
considerazioni di tipo magico-numerologico in séguito totalmente rigettate; allo stesso
tempo, il problema è stato affrontato da esponenti di una fonologia in rapida ascesa, i
quali a differenza dei primi hanno però lasciato un segno importante nella critica
successiva. Il periodo appena conclusosi – dal presente risalendo per gli ultimi 20-30
anni – ha visto poi una netta dominanza di teorie incentrate sul ruolo dei nomi delle rune
e del principio acrofonico, ’dogma’ runologico che viene oggi messo inaspettatamente in
discussione da uno studioso che fa riferimento ad una nuova linea di ricerca volta ad una
maggiore interdisciplinarietà. Data la portata di questo e altri recentissimi contributi, si
può legittimamente presumere che il discorso sia tutt’altro che esaurito, e che possa
anzi riservare nel futuro prossimo ulteriori sorprese man mano che inesplorate aree
d’indagine cominciano a fornire nuovi dati interessanti.

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