Giovanni Botero
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INDICE
Delle eccellenze degli antichi capitani Della agilit delle forze del principe Discorso della neutralit Discorso intorno alla fortificatione Della riputatione del prencipe - Libro I - Libro II
Delle eccellenze degli antichi capitani [Libro I] [Introduzione] LIBRO PRIMO DI GIOVANNI BOTERO BENESE, all'Illustrissimo et Eccellentissimo Signor il Signor DON ANTONIO DI CORDOVA, e Cardona, duca di Sessa etc.
Non provincia alcuna d'Europa, ove l'arte militare sia pi lungo tempo fiorita, et vi abbia avuto maggior numero di cavalieri e di capitani d'alto valore, che la Spagna: ma la prodezza e la fama loro, per la perpetua guerra di settecento e pi anni contra i Mori, si infra i Pirenei e l'oceano contenuta. Due casate illustrissime, non contente della gloria acquistata con l'armi in mano nella patria, hanno allargato il nome loro e l'imperio della natione nell'Italia: l'una la casa di Cardona, l'altra quella di Cordova. Con ci sia cosa che Don Consalvo Fernando di Cordova fece l'acquisto preclaro dell'amplissimo regno di Napoli, e Don Raimondo di Cardona gitt i fondamenti degli acquisti, fatti poi dagli altri, nella Lombardia. Queste due chiarissime famiglie sono oggi unite in Vostra Eccellenza che co' ricchissimi Stati e facolt, ha con un certo e meraviglioso temperamento, ereditato la piacevole alterezza della casa di Cordova, e l'efficace destrezza dei signori di Cardona; e si fa ugualmente amare e riverire in questa corte, che teatro del mondo. E s come con le sudette qualit maneggia felicemente altissimi affari di pace e di Stato, cos maneggiarebbe anche, se ne
avesse occasione, l'arme e l'imprese di guerra. Vostra Eccellenza dunque, che da chiarissimi guerrieri discende, e'l valor loro in s raccolto ravviva, resti servita di gradir questa operetta degli antichi capitani, divisa in due parti, nell'una delle quali io pongo gli elogii dei pi famosi personaggi nell'arme, nell'altra paragono tra s alcuni di loro, per scoprirne meglio la eccellenza. Dell'uffitio e fine del capitano. Delle arti essercitate dall'uomo, alcune sono talmente padrone della materia, attorno alla quale esse si maneggiano, che nelle loro operationi sempre l'intento et il fine conseguiscono. Tale l'architettura, la pittura, la scoltura, e tutte quelle, che si affaticano attorno legno, ferro, lana, seta, e s fatte cose. Alcune altre, perch non hanno dominio pieno sopra la materia, ma vi trovano contrasto e resistenza, non sempre arrivano al lor fine. Tale l'agricoltura, la navigatoria, la medicina, la politica e sopra tutto l'arte militare, il cui fine il vincere. Ma perch questo non dipende assolutamente dal capitano, ma da' soldati ancora, dall'occasioni, dal tempo, dal sito, e dall'altre circostanze, si deve egli contentare di adoprarsi in modo, che il non vincere non succeda per sua colpa, e che si possa sempre dire, che egli nella battaglia, cos perduta, come vinta, abbia fatto l'uffitio del buon guerriero: il quale ordinare et indrizzare giuditiosamente le cose alla vittoria. Onde di Annibale scritto, che nel fatto d'arme, nel quale rimase vinto da Scipione, egli si mostr non minor capitano, s nell'ordinar la battaglia, come nel sostentarla mentre si puote, che nelle giornate, nelle quali egli rest vincitore. Or le guerre si vincono con grandezza d'ingegno o d'animo o d'esserciti o d'apparati o di spesa. Ma di queste cinque maniere, le tre ultime dipendono pi dalla potenza di un prencipe, che dal valor di un capitano. Onde con la molta spesa hanno pi volte sostenuto guerre grossissime i Venetiani et in ci si visto pi la ricchezza della repubblica, che la bravura de' suoi condottieri. Della grandezza poi degli apparati, e dell'infinito numero degli uomini, si sono per lo pi valuti i prencipi barbari, quali furono li re d'Egitto, e di Assiria, gli Arabi et i Tartari et i Turchi. Onde noi volendo qui dimostrare l'eminenza degli antichi capitani, lasciando tutto ci, che appartiene alla potenza, come cosa, che fuor dell'uffitio di un guerriero, non toccaremo se non quello, che nella persona e nel poter di chi maneggia l'arme consiste. Il che tutto si riduce all'eccellenza dell'ingegno, et alla grandezza dell'animo. Non per intention nostra di commemorar qui l'eccellenze di tutti gli antichi capitani, neanche della maggior parte di loro: ma di quelli solamente, de' quali si trovano elogii presso gli antichi scrittori, che sono pochissimi. Onde avverr, che si tralascino, senza farne menzione alcuna, guerrieri eccellentissimi, e si faccia mentione di alcun di molto minor lega. Perch invero di quelli, che hanno scritto i fatti de' gran personaggi, alcuni attendono a narrar semplicemente i successi delle cose, altri danno anche giuditio delle qualit delle persone e de' fatti loro. Del primo genere Giulio Cesare, che perci diede alle sue istorie nome di Commentarii; del secondo Polibio, il quale passa anche il segno, s per la lunghezza de' suoi discorsi, come per la debolezza de' concetti. Pi lode meritano Sallustio, Livio, Tacito, Tucidide, i quali, con pi temperamento, hanno framesso il lor giuditio s delle persone, come delle cose, la cui memoria ci hanno lasciata. Or s come essi non hanno dato giudicio di tutti i grandi guerrieri, da lor mentovati. Cos non lo possiamo dar noi, che non abbiamo altra impresa per le mani, che di raccogliere i lor giuditii. Degli eccellenti nella scelta de' soldati. La scienza imperatoria consta di tre parti, l'una si sciegliere il soldato, l'altra il farlo buono (il che appartiene alla disciplina), la terza il valersene giuditiosamente, il che spetta all'arte militare.
Usarono gran diligenza nella scelta de' soldati Pirro e Mario, che in particolare ricercavano in loro grandezza di statura: perch quello soleva dire a chi aveva cura de far gente: Fa tu scelta d'uomini grandi, ch'io li far forti. E questo li voleva alti pi di sei piedi. Ma Vegetio (che in ci scrive esser stato singolarmente commendato Sertorio) li vuol forti, anzich grandi: e di mezana statura, e sopra tutto, vi si ricerca vivacit d'animo e grandezza di cuore. Ma in niuno essercito si vide pi manifestamente questa parte, che in quello, col qual Alessandro Magno assalt l'Asia; che non fu di pi, che di trentaquattromila fanti e di cinquemila cavalli, tutti soldati veterani, e di grandissima esperienza nell'arme. N vi fu capitano, o ufficiale, che non passasse sessanta anni. Tra' moderni merit in ci molta lode Alberico da Barbiano, perch egli con quattromila uomini d'arme e quattromila cavai leggieri e non pi, fece ogni impresa. E Giorgio Castriotto non oppose mai a nimici maggior numero di gente, che seimila cavalli e tremila fanti scelti. Et invero tutto sta qui, che la gente sia pi tosto eletta, che molta. N cosa pi necessaria, che il tener gli esserciti netti di gente, che non sia per combattere. E la ragion si , perch s come nel soldato pi desiderabile la dispostezza, che la forza, cos anche nell'essercito di pi importanza, ch'egli sia agile, che grosso: perch la celerit, parte di tanta consequenza nella militia, non pu essere in un campo pieno d'ogni sorte d'uomini, e chi per far terrore, empie il campo di qual si voglia gente, impaccio a s, e gloria maggiore all'aversario, o almeno minor biasimo procaccia. La troppa moltitudine troppo tarda nel far viaggio, facile in tanta distanza dalla testa alla coda ad essere assalita nelle strettezze de' paesi e ne' passi de' fiumi: difficile ad essere provista di vettovaglie, e in un essercito tale, l'ordinanza malagevole, il disordine facile. Degli eccellenti nella disciplina e toleranza. La bont di un soldato (che parte della disciplina) una disposizione d'animo, e di corpo, che lo rende atto al patire et all'operare nella guerra e si opera ora travagliando ora combattendo. Nella disciplina militare, si segnalarono tra i Romani T. Manlio, Paolo Emilio, Scipione Numantino, Metello Numidico, Mario, Domitio Corbulone. Avidio Cassio fu nella disciplina militare crudele anzich severo, e che ambiva di esser stimato un altro Mario. Si sforz di rimetterla su Alessandro Severo, di cui sono quelle parole: disciplina maiorum rem publicam tenet: quae si dilabatur et nomen Romanum et imperium amittemus; cio, la disciplina de' maggiori mantiene la republica e s'essa mancher, noi perderemo e il nome romano, e l'imperio. Paolo Emilio rivocava tutto l'uffitio soldatesco a tre cose: cio che il soldato avesse il corpo agile e gagliardo e l'arme spedite, e l'animo pronto a ogni cenno del capitano. Brasida a tre altre, cio a volont, a vergogna et a obedienza. Honestas (dice Vegetio) idoneum militem reddit: verecundia dum prohibet fuga, facit esse victorem. Isicrate ateniese, non tam, dice Probo, magnitudine rerum gestarum, quam disciplina militari nobilitatus est: cio egli s'acquist fama non tanto con la grandezza de' gesti, quanto con la disciplina. Nel popolo romano fiorirono tre virt, che lo resero vincitore d'ogni guerra e d'ogni impresa: valore, patienza, disciplina. Onde i Volsgi, vulgo fremere, aut in perpetuum arma, bellumque oblivioni danda, iugumque accipiedum: aut iis, quibus cum de imperio certetur, nec virtute, nec patientia, nec disciplina rei militaris cedendum; cio, esser necessario o di gittar via l'arme in perpetuo e di sottoporre il collo al giogo o di non cedere pur un punto a quelli, co' quali si combatte dell'imperio, in valore, in patienza, et in disciplina militare. Camillo chiama arti romane, virtutem, opus, arma, e in un altro luogo, (dice Livio) superior est Romanus miles et virtute et scientia et armorum genere.
Appiano, nell'istorie delle cose partiche, dice che l'imperio romano non mont alla grandezza, nella quale si vide, con la felicit, ma con la fortezza, e con la patienza nelle cose aspere. Il medesimo scrive, che maravigliandosi i fratelli d'Eumene, re d'Asia, ch'egli non si curasse d'apparentarsi con Antioco, re di tanta potenza e grandezza, rispose, che nol faceva, perch a quel soprastava una grossa guerra co' Romani, della quale essi restarebbono alla fine vincitori; non per grandezza di tesori, ma per generosit d'animo e per toleranza di fatiche, e di Cesare, che fu quasi fenice tra guerrieri, scrive Svetonio, ch'egli fu, laboris ultra fidem patiens; patiente sopra ogni stima della fatica e del travaglio. Degli eccellenti nell'arte militare. L'arte di un capitano in sei cose si pu impiegare, che sono il marciare, l'alloggiare, il combattere, l'oppugnare, l'assediare et il difendere una piazza, nelle quali tutte cose fu rarissimo Giulio Cesare, perch il valor suo in difender un luogo (del qual dubiter forse alcuno) si vide nella difesa cos memorabile, ch'egli fece prima del suo campo, sotto Alessia, e poi di quella parte della citt di Alessandria, ove egli era alloggiato, contra le forze, e gli sforzi degli Egittii. Lode propria di Cesare, fu la sua eccellenza in ogni parte della militia et in tutto il mestier dell'arme. In particolare, Filopemene (come dice Livio), erat praecipuae in ducendo agmine, locisque capiendis solertiae, atque usus, cio egli era di singolar solertia, e pratica nel marciare e nell'alloggiare. Marciando Filopemene per alcuni passi disaventagiosi in un subito vi sopragiunse Nabide: la qual cosa mise tanto spavento agli Achei, che per ritrovarsi eglino in luoghi malagevoli, e posti nelle forze de' nimici, s'erano disperati di potersi salvare. Fermatosi dunque esso alquanto, e considerato il sito del luogo, mostr che l'arte e la scienza d'ordinar le schiere nelle cose di guerra, fanno il tutto. Perch movendo a poco a poco la falange, e accomodandola al sito del luogo, si lev senza tumulto di pericolo; e poi assaltando i nimici, li mise in rotta. Annibale d a Pirro tre lodi, castrametari primum docuisse, neminem elegantius loca caepisse, praesidia disposuisse: cio ch'egli fu il primo, che insegnasse l'arte della castramentatione, e che nissuno con pi destrezza prese i siti vantaggiosi et vi dispose i presidii. Plutarco aggiunge, che egli fu stimato similissimo ad Alessandro Magno nella veemenza del volto, e nella prestezza delle mani, ma ci non appartiene a questo luogo. Di T. Manlio Torquato laude propria fu, che in quella giornata, nella quale egli debell i Latini, e gli animi et i nemici stimassino, che la vittoria non potesse mancare a quella parte, di cui egli fosse stato capo. Cos accortamente ordin egli le squadre, dispose i sussidii, govern il fatto d'arme, e tutta l'impresa. Non minor elogio di Papirio Cursore fu quello, che scrive Livio, che se i soldati, che non volsero vincere, avessino secondato la sua prudenza, averebbono senza dubbio debellato i Sanniti: in luogo cos vantaggioso ordin egli la battaglia, e con tali sussidii e con tante arte militare la stabil, e afforz. Ove cosa degna di considerazione, quanto conto facessero i Romani dei sussidii nelle battaglie, perch in molti luoghi di Livio si veggono lodare, e biasimare diversi capitani, per aver o non aver stabilito la battaglia co' sussidii. Onde G. Giulio tribuno, volendo far palese la trascuratezza di G. Sempronio, console, stato rotto da' nimici, tempanium equitem vocari iussit, coramque eis, Sexte Tempani, inquit, quaero abs te, arbitreris ne C. Sempronium Consulem, aut in tempore pugnam inisse, aut firmasse subsidiis aciem? Cio, Sesto Tempanio, io ti dimando se tu stimi, che Sempronio abbia combattutto con buona occasione o afforzato co' debiti sussidii la battaglia; e Livio dice, che egli combatt incaute, inconsulteque, perch? Non subsidiis firmata acie, non equite apte locato, con ci sia cosa che non parte alcuna pi necessaria a un general d'essercito che l'antivedere gl'inconvenienti, e i disordini, che in un fatto d'arme possono avvenire, e porvi rimedio e riparo. Il che si fa co' sussidii, e co' soccorsi opportunamente disposti, come si vide nella giornata di Farfaglia, ove i sussidii diedero la vittoria a Cesare. Vegetio scrive, che gli Spartani furono inventori di ci: e che i Cartaginesi e i Romani gli imitarono poi. Ma ritornando a proposito, di Amilcare Cartaginese scrive Polibio, ch'egli era non meno accorto in conoscere il tempo d'assaltar l'inimico, e di vincere, che di ritirarsi e cedere.
Degli eccellenti in farsi obedire. Plutarco vuole, che l'uffitio principale di un capitano sia l'acquistar l'affettione, con l'obedienza dei soldati, il che famosi personaggi hanno fatto diversamente. Mario consegu con ci l'essempio, con ci sia ch'egli non faceva nelle fatiche e ne' travagi differenza tra s et un fantaccino privato, con che si rendeva i soldati ugualmente amorevoli et obedienti, perch il superiore, che si pareggia ne' disagi agli inferiori, pare che renda ogni travaglio e pericolo volontario, e che tolga via la forza e la necessit, e pi sodisfattione ricevono i soldati da un generale, che partecipa con esso loro delle fatiche e de' travagli, che da colui, che comparte loro gli onori e i premii. Facta mea (diceva Valerio Corvino) non dicta, vos milites sequi volo: nec disciplinam modo, sed etiam exemplum a me petere, cio: Io voglio, soldati, che poniate mente non alle parole ma all'opere mie, e che pigliate da me non solo la disciplina, ma l'essempio ancora. Di Annibale si meravigliano tutti, come egli reggesse un essercito, composto di tante e tanto varie nationi cos quietamente, e con somma obedienza, non pur nelle prosperit, ma nell'aversit ancora. Il che per procedeva dalla molta riputazione, alla quale era, con la grandezza delle opere preclare, salito. Viriato mantenne per parecchi anni un grosso essercito, composto di diverse nationi, senza seditione o rumore alcuno, anzi con somma obedienza e pace, solo col distribuir ugualmente la preda. Et al medesimo modo, Giorgio Castriotto, prencipe chiarissimo d'Albania, si rese le sue genti di guerra meravigliosamente affetionate, e fedeli. Di Sertorio, scrive A. Gellio, che se bene egli aveva un campo composto di varie nationi, e se bene egli fu pi di una volta vinto in battaglia, nissuno per l'abbandon mai, o mut fede. Plutarco scrive che Catone Uticense, sendo tribuno di soldati, si acquist gloria apo l'essercito con benivolenza, perch egli era il primo, che metteva la mano a far ci, che comandava; e nel vestire, mangiare, caminare, non faceva differenza tra s e un minimo soldato. Cesare si fece amare da suoi con la molta cura, ch'egli si prendeva della salute e dell'interesse loro. Doppo la stragge di Sabino, si lasci crescere la barba, et i capegli sin a tanto, che l'ebbe vendicata. In Spagna, scongiurato da' soldati a contentarsi, ch'essi passassino il Sicore, fiume rapidissimo, a guazzo, egli prima di consentir ci, scelse i deboli d'animo e di forze e li lasci a guardia degli alloggiamenti e bench potesse combattere con sicurezza della vittoria, nol volse fare per non parer prodigo della vita, e del sangue de' soldati, n si mise mai ad impresa alcuna, senza far prima una buona provisione di formenti, come s'egli avesse avuto da pascer la sua famiglia. Donava tanto largamente a' benemeriti, che non pareva fosse padrone delle sue ricchezze, ma dispensatore. Fu anche notabile la benevolenza de' soldati verso M. Antonio, massime nell'impresa contra Parti: ove preferivano universalmente la gloria di lui all'interesse, anzi alla vita propria. Le cagioni di ci erano (come riferisce Appiano) molte: la nobilt, l'eloquenza, la beneficenza, e l'affabilit, che egli usava scherzando e praticando con tutti. Ma con nissuna cosa legava pi strettamente gli animi, che con la compassione verso i malati, e i feriti, ch'egli visitava a uno a uno e consolava. All'incontro Lucullo, capitano per altro eccellente, perd l'obedienza dell'essercito, perch non solamente non era molto affabile co' soldati, ma non mostrava di far conto degli uffitiali, che erano del resto suoi pari. Giulio Agricola, caritatem (come dice Tacito) paraverat loco auctoritatis, cio, si aveva acquistato la benivolenza dei soldati invece dell'auttorit.
Adriano si rese affettionatissimi (dice Sartiano) i soldati in due modi: cio, con l'aver cura grandissima della salute e del ben loro, e con una larghissima beneficenza. Fu anche sommamente amato dai soldati Probo imperatore; rende di ci la ragione Vaspico, neque enim unquam ille passus est peccare militem, e poco appresso, milites otiosos nunquam est passus. Altri non si curando di esser amati, si procacciarono l'obedienza non con l'amorevolezza, ma con la severit, con ci sia che fa di mestieri (diceva Clearco) che il soldato abbia pi temenza del suo capitano, che del nemico. Onde Camillo andato all'impresa di Veio, prima d'ogni cosa, pun severamente quelli che avevano in quel terrore voltato le spalle a' nemici, effecitque ne hostis maxime timendus militi esset. Scipione Numantino soleva spesse volte dire, che i capitani facili, et indulgenti erano utili ai nemici, e se bene pare che siano cari ai soldati, riescono alla fine disprezzabili. Al contrario, i duri e severi gli hanno pi presti e pi pronti ai bisogni et veramente cos perch la famigliarit partorisce disprezzo e la severit rispetto. E s come sono pi salubri le medicine amare che le dolci, cos pi utile il governo severo, che il piacevole e ci vero non meno nelle cose politiche, che nelle militari, e la ragione si perch le maniere di farsi amare non sono cos sicure, come quelle di farsi temere, e non cos facil cosa, che uno si faccia amare come temere da tutto un popolo o da tutto un essercito, perch l'amore in potest di chi ama, ma il timore in mano di chi si fa temere. In questa parte fu eccellente T. Manlio Torquato, dalla cui severit ebbero nome gli imperii manliani; e non meno Papirio Cursore. Vis erat in eo viro imperii ingens pariter in socios, civesque. Et il medesimo Livio chiama Postumio Tiberio, severissimi imperii virum. Corbulone fu cos severo, e terribile, che avendo fatto andar bando, che i soldati facessero tutti gli uffitii militari, diurni e notturni con l'arme in dosso, ferunt militem, quia vallum non accinctus, atque alium quia pugione tantum accinctus, foderet, morte punitos, cio, dicono, che fu punito di morte uno perch lavorava alle trincee senza arme, e un altro perch non aveva altro che il pugnale, e soggiunse Tacito, che questo terrore accrebbe il valore ai Romani e scem la ferocia a barbari. Flavio Vopisco scrive d'Aureliano, che fu cos temuto da' soldati, ut sub eo postea quam semel cum ingenti severitate castrensia peccata correxit, nemo peccarit. Vale assaissimo per farsi prontamente ubidire, l'eloquenza militare: nella quale Cesare (come scrive Svetonio) o pareggi o avanz tutti quelli che furono inanzi a lui. Fu anche eloquente Scipione: onde Cicerone attesta, che se bene era cos bel dicitore, come Lelio, nondimeno, perch l'uomo difficilmente comporta, che uno sia eccellente in pi cose, concedendo a lui la lode militare, attribuivano a Lelio quest'altra dell'eloquenza. Valse tra' moderni capitani molto nell'eloquenza Giorgio Scanderebecco, di cui si legge, che quando usciva fuora armato, con allegrezza meravigliosi d'occhi e con animoso parlare, infiammava di tal sorte, in ogni difficil impresa i soldati, che li rendeva non pur arditi, e coraggiosi, ma feroci e spezzatori d'ogni pericolo e della morte stessa. Ma il principal fondamento dell'obedienza si l'auttorit e la riputatione, la quale non sempre procede dalla vittoria, ma per lo pi dalla grandezza dell'animo, e del valore, e dalle altre qualit di un capitano. Onde veggiamo alcuni esser riusciti maggiori nelle cose avverse, che alcuni altri nelle prospere. Di Annibale dice T. Livio, nescio an admirabilior in adversis, quam in secundis rebus fuent, tale che Mitridate re di Ponto, di cui dice Iustino, che e gli, bench vinto da Silla, da Lucullo e da Pompeo, si port in maniera, ut maior, clariorque resurgeret in restaurando praelio, damnisque, suis terribilior redderetur. Ristorava la guerra con pi forze, e pi gloria e risorgeva doppo le rotte e disdette pi terribili.
Cecinna (come dice Tacito) si aveva conciliato l'affettione e gli studii dei soldati col fiore e gratia dell'et ancor giovinile e fresca, con l'altezza della persona, con la grandezza immoderata dell'animo, con un parlar presto, e concitato e con un caminare altiero e pettoruto. Appiano chiama M. Antonio uomo intrepido ne' pericoli. Tra i moderni, par che tale sia stato Alfonso, re d'Aragona, con ci sia, bench egli restasse nell'impresa del regno di Napoli talora vinto; non per si perd mai di animo, o discapit mai di riputatione: anzi e maggiore e pi chiaro di se stesso riuscito, vinse finalmente ogni contrasto, e si fece padrone di quel nobilissimo regno. Tra' capitani minori non fu alcuno a cui le cose avverse togliessino meno di fama, e di riputatione, che Nicol Picinino, onde le vittorie gli erano ascritte a virt, e le disdette a mala fortuna. Bartolameo di Alviano, dove fu principale, rimase forse sempre perdente, n gli manc per mai il seguito, e l'affettione dei soldati, che l'onorarono straordinariamente, anche doppo morte. Ma non stato alcuno, che non vincendo mai giornata, anzi perdendole tutte, meglio di Pietro Strozzo si sostentasse, e mantenesse in credito et in grado. Il che procedeva dalla grandezza dell'animo e della bravura militare, grata ai soldati, anche nelle cose avverse. Degli eccellenti nella sodezza. Di Q. Fabio Massimo fu propria una certa fermezza di animo e di senno et un governarsi per ragione e giuditio. Non stimava egli, ove n'andava l'interesse pubblico, e la salute della patria, le parole altrui; n si curava, che la cautela fosse chiamata timidit, o la consideratione tardanza, o la disciplina dapocaggine: et voleva esser anzi temuto dal savio nemico, che lodato da' pazzi cittadini. Ma non si pu meglio esprimere il giuditio, e la ragione, ch'egli usava nella guerra, che con le parole da lui dette a L. Paolo: tuae potestatis semper tu, tuaque omnia sint, armatus, intentusque sis: neque occasioni tuae desis, neque suam occasionem hosti des. Omnia non properanti, clara, certaque erunt, festinatio improvida est et caeca. Cio, sii sempre padrone di te, e delle cose tue; sii armato e desto, non mancare l'occasion tua e non porgere la sua all'aversario. Se non ti affretterai, ogni cosa ti sar chiara e certa. La fretta improvida e cieca. E Paolo Emilio, neque enim omnes tam firmi, et constantis animi contra adversum rumorem possunt esse, quam Fabius fuit, qui suum imperium minui, per vanitatem populi maluit, quam fecunda fama, male rem gerere. Cio non tutti sono d'animo cos saldo contra i rumori e le voci del popolazzo, come fu Q. Fabio, il quale volle pi tosto lasciarsi indegnamente scemar l'autorit e l'imperio, che governarsi male per sodisfar al volgo. Credo che Fabio imitasse Pericle, capitano ateniese, molto sodo e fermo, e che col temporeggiare difese saviamente la sua patria dai Lacedemonii. Di Svetonio Paolino scrisse Tacito, cunctator natura, ut cui cauta potius consilia cum ratione, quam prospera ex casu placerent, cio, era per natura contatore, come quello che voleva governarsi pi tosto cautamente con ragione, che prosperamente a caso. Molto simili a Fabio furono ai tempi nostri Prospero Colonna e Francesco Maria, duca d'Urbino, e Ferdinando di Toledo, duca d'Alba; con ci sia cosa, che cosa comune a questi tre eccellenti personaggi fu il non pescar con rete d'oro, il non commettersi al caso, il non arrischiar il certo per l'incerto, il non fidarsi di soldati nuovi contra veterani e di militia tumultuaria contra esserciti ordinati. Ma di Prospero Colonna fu proprio il non voler stravincere; di Francesco Maria, il non voler vincere inanzi al tempo; del duca d'Alba, il voler vincere pi con l'occasione che con l'arme, e con l'arte, che con l'ardire. Non deve per alcuno stimare, che ci nascesse da timidit: perch (oltre che un tal sospetto non cade in personaggi di tanta eminenza) chi fu mai pi generoso di Prospero Colonna, quando volse che la retroguardia, che egli guidava, fosse l'avanguardia? E di Francesco Maria, quando egli si mise alla ricuperatione del suo Stato et vi fece prodezze d'inestimabile ardimento? E del duca d'Alba, quando in Portogallo si f portar in sedia alla battaglia? Questa
fermezza di animo e di consiglio della quale parliamo manc a Pompeio. Con ci sia, che conoscendo egli, che non aveva forze uguali a Cesare, perch l'essercito suo era di soldati nuovi e collettitii, quel di Cesare di gente invecchiata nelle vittorie et travagliosa et abbondando dall'altra parte egli di vettovaglie e patendone sommamente Cesare, con tutto ci, si lasci, per importunit o per vane ragioni degli amici, condurre a far giornata. Onde il duca d'Alba, avendo ci letto in Lucano, mise di sua mano nella margine di quel poeta, che Pompeo era stato vinto due volte: l'una dai suoi, l'altra dagli avversari. Alcuni altri, non si fidando, per l'incertezza de' successi dell'arme, hanno maneggiato le loro imprese pi col negotio, che col ferro. Tal fu Cimone ateniese (come scrive Plutarco) non con forza, o con arme, ma con arte e con negotio acquist alla sua patria il prencipato della Grecia: tal fu Asdrubale Cartaginese. Mirae artis in solicitandis gentibus, imperioque iungendis suo. Plura consilio, quam vi gerens, auspiciis regulorum, magis conciliandis per amicitiam Principum novis gentibus, quam bello, aut armis rem Cartaginensem auxit. Cio usava arte meravigliosa in sollicitar i popoli e in aggiungerli al suo imperio, faceva pi cose col consiglio, che con l'arme, e valendosi dell'opera dei prencipi di Spagna, pi per via d'amicitie, che di guerra, accrebbe lo Stato dei Cartaginesi. Non fu privo di questa arte neanche Pirro, di cui disse Annibale, artem etiam conciliandi sibi homines eam habuisse, ut Italiae gentes Regis externi, quam P. R. tandiu Principis in ea terra, imperium mallent: cio, che egli fu tanto destro in conciliarsi gli animi de' popoli, che gli Italiani volsero pi tosto star sotto un re forastiero, che sotto il popolo di Roma, che gi tanto tempo ne era principe. Tali furono Augusto, e Tiberio Cesare, e Ludovico undecimo re di Francia. Augusto Cesare, nihil minus in imperfecto duce, quam festinationem, temeritatemque convenire arbitrabatur, e stimava, che non si dovesse n imprender guerra, n far battaglia, ove la speranza dell'utile non fosse molto maggiore, che la tema del danno, e diceva che quelli, che cercano una picciola utilit con gran pericolo, erano simili a chi pescasse con un amo d'oro, la cui perdita non pu aver ricompensa. Di Tiberio scrive Svetonio, che minimum fortunae, casibusque permittebat, e che non imprendeva guerra se non spinto da necessit, e con molta maturezza, e che teneva li re sospetti, e mal affetti in obedienza et in pace, pi con arte, che con forza, il perch egli si vantava Senovies a Divo Augusto in Germaniam missum, plura consilio, quam vi perfecisse, e in un altro luogo, stava pi allegro, dice Tacito, quia pacem sapientia firmasset, quam si bellum per acies confecisset. Ludovico non aveva l'occhio pi aperto a cosa alcuna, che a non rimettersi alla discrettione della fortuna; si valeva dell'astutia, pi che della forza, e della simulatione pi, che di qualunque altra cosa. Et a questa maniera egli si mantenne in grandissime turbolenze, e travagli, ferma la corona di Francia in testa et invero di molto maggior importanza l'operare con ingegno e con arte secreta, che con impeto e con forza manifesta. I fiumi pi grossi, e pi profondi sono anche pi quieti, e di minor romore e la natura conduce le quercie e le abeti, i pini e i cedri a somma altezza, e gli elefanti, e l'altre cose tutte alla loro perfettione, insensibilmente. S che tu vedi le piante alte, e grandi a meraviglia, e gli animali belli, e compiti affatto, senza che tu abbi mai potuto vedere il modo e Dio istesso muove e governa il mondo con un silentio ammirando e con una secretezza imperscrutabile. Degli eccellenti nella diligenza e nell'industria. Polibio vuole, che la principal virt di Scipione Africano fosse l'industria e la destrezza, la quale fu veramente in lui meravigliosa, perch con questa egli si fece stimare figliuolo di Giove e ne rese i suoi soldati arditissimi nell'imprese, con la medesima si concili gli animi degli Spagnuoli, di Massinissa, e di Siface, ottenne dal senato l'impresa d'Africa, men seco in Sicilia settemila
venturieri, mise in ordine quella valorosa banda di trecento cavalli a spese della nobilt siciliana, fabric e forn di tutto punto senza spesa della republica una grossa armata. Con la medesima non solamente si purg delle calonnie de' suoi emoli, ma f stupire, con la mostra dell'apparato terrestre e navale, quelli, che erano stati mandati da Roma per vedere, se le querele, date contra lui fossero vere o false, valendosi in sua difesa, non delle parole (cosa ordinaria, e commune) ma de' fatti. Con la medesima ottenne la provincia d'Asia a suo fratello, con la medesima fece che il popolo romano, abbandonando i tribuni, e gli accusatori suoi, n'andasse seco a render gratie alli dei, della vittoria avuta da lui contra Annibale. Iustino chiama Filopomene, insignis industriae virum. Sallustio attribuisce anche a L. Silla una meravigliosa industria. Atque illi (dice) felicissimo omnium ante civilem victoriam, nunquam super industriam fortuna fuit: multique dubitavere, fortior, an felicior esset. Cio, la fortuna non fu mai maggiore in lui, che l'industria, e molti dubitarono, qual fosse in lui pi grande, il valore o la felicit, e gli aggiunge una incredibile profondit d'ingegno, e d'animo in simolare et in cuoprire i suoi dissegni. Ad simulanda consilia altitudo animi incredibilis. Non industria, ma diligenza singolare fu (come vuol Probo) in Conone. Et prudens rei militaris et diligens erat imperii. E non minore (come vuol Plutarco) in Paolo Emilio; con ci sia che egli nell'imprese non lasciava cosa alcuna intentata, la qual lode ha meritato tra' moderni, Ferdinando marchese di Pescara, imper che egli, con una diligenza indefessa, condusse a fine diverse imprese, e in particolare quella, nella quale rest prigione Francesco re di Francia. Et invero, in bello nihil tam leve est, quod non magnae interdum rei momentum faciat. Ma qual differenza tra l'industria, e la diligenza? Che in quella ha pi parte l'ingegno, e'l giuditio, in questa pi la fatica, e l'opra, quella si occupa in cose grandi e d'importanza, questa discende a ogni circostanza. Temper l'industria e la diligenza insieme M. Catone, del qual scrive Livio, che fu d'animo e d'ingegno cos vigoroso, ch'egli non pur pensava et ordinava quel, che faceva di mestiero, ma di molte cose egli medesimo era essecutore. Al che aveva egli animo e corpo proportionato, in parsimonia, in patientia laboris, periculisque forrei prope corporis, animique. Degli eccellenti nella bravura. L'invitta bravura di M. Marcello non si pu meglio esprimere, che con le parole di Annibale, perch essendo stato Marcello vinto in un fatto d'arme da lui, egli con tutto ci, il d seguente, fu il primo a uscir in campagna et a presentarli la battaglia. Allora Annibale, cum eo nimirum nobis hoste res est, qui nec bonam, nec malam ferre fortunam potest, seu vicit, ferociter instat victis, seu victus est, instaurat cum victoribus certamen, cio, noi abbiamo a fare per quel, ch'io veggo, con un uomo, che non si contenta della buona, n sa cedere alla contraria fortuna, se egli vince incalza ferocemente i vinti, se vinto, rinuova la pugna co' vincitori. I Lacedemonii non solevano mai domandare del numero de' nimici: ma dove fossino accampati. Gli Ateniesi (dice Tucidide) confidati pi nel buon consiglio, che nella fortuna, e combattendo con pi ardire, che forze, sconfissero esserciti grossissimi di barbari. Gran bravura de' Romani fu quella che avendo saputo in mezo dei travagli della guerra punica, che Filippo re di Macedonia si era con Annibale a lor danni collegato, tanto manc, che si perdessino d'animo, ut exemplo agitaretur, quemadmodum ultro inferendo bello, averterent ad Italiam hostem. Degli eccellenti nell'efficacia.
Nella guerra, come in ogni altro negotio d'importanza, tre cose si ricercano, consultatione, determinatione, efficacia, nella quale efficacia fu eccellente M. Agrippa e Settimio Severo. Di questo imperatore scrive Erodiano, che fu pronto nel ritrovare et veemente nell'essequire le cose deliberate, e del medesimo dice Aurelio Vittore, che fu d'ingegno acre, e perseverante sin alla fine, nelle cose una volta intraprese. Di Agrippa dice Patercolo, per omnia extra dilationes positus, consultisque facta coniungens: cio, egli era in ogni cosa risoluto, e congiungeva i fatti co' consulti. Appio Claudio essortando il popolo romano alla continuatione dell'assedio di Veio, hic sit terror (dice) nominis nostri, ut exercitum Romanum non taedium longinque oppugnationis, non vis hyemis ab Urbe, circumsessa semel, amovere possit: nec finem ullum alium belli, quam victoram noverit: nec impetu potius bella, quam perseverantia gerat. Cio, questo sia il terrore del nostro nome, che n tedio di lunga oppognatione, n rigor d'inverno abbia forza di rimuovere l'essercito romano dalle mura d'una citt, a cui si sia messo una volta intorno; e che non conosca altro fine della guerra che la vittoria; n si governi nell'imprese pi tosto con impeto, che con costanza. Degli eccellenti nella celerit. Non cosa, che sia nella militia di pi importanza, che la celerit: perch questa toglie a' nimici il tempo di conoscer il pericolo, e di ripararvi, confonde loro il giuditio, e lega le mani, e fa che i colpi vengano lor addosso all'improviso. Furono, in questa parte, eccellentissimi Alessandro e Cesare. Il che si pu comprendere da questo, che l'uno e l'altro vinse il mondo in tredici anni. Ma in particolare di Alessandro dice Q. Curtio, nullam virtutem Regis istius magis quam celeritatem laudaverim, cio, non virt di questo re, degna di pi lode, che la celerit. Di Cesare scrive Svetonio, che egli us tanta prestezza nell'imprese, ut per saepe nuncios de se praevenerit; et Appiano afferma, ch'egli si valeva pi nelle guerre, della celerit e dell'ardire, che de' grandi apparecchi, e provedimenti. Le cagioni della prestezza di Cesare erano molte. L'una fu la vivacit dell'animo, e la prontezza dell'ingegno, che in lui fu mirabile; con questa egli prevedeva, e provedeva a tutto ci, che faceva di mestieri per l'impresa, che egli maneggiava. L'altra cagione era la prontezza de' soldati in ubidirlo, et in servirlo, la qual prontezza nasceva da' buoni trattamenti, ch'egli lor faceva nel pagarli e premiarli e nel tenerli sodisfatti e contenti, dall'essempio che egli dava loro nelle fatiche, e ne' pericoli, dalla meraviglia del suo valore, e dell'amore infinito, che perci li portavano. Onde nella circonvallatione prima di Avarico, e poi di Pompeo, patirono spontaneamente per amor di lui travagli, penuria, fame incredibile, e nella disdetta di Durazzo, essi medesimi domandarono di esser castigati e puniti. Ora, avendo egli l'essercito cos affetionato e pronto, il maneggiava e'l conduceva senza difficolt, ovunque bisognava. La terza cagione della sua celerit, era la provisione di tutto ci, che faceva di mestieri all'impresa, le vettovaglie, le machine, gli instromenti per far ogni opra, i fabri, gl'ingegneri, e gli altri apparecchi; per mancamento de' quali i capitani sono oggid forzati a fermarsi a mezo il corso della guerra o a tralasciar l'impresa o a metterla in pericolo. La quarta era l'intelligenza dell'arte, e del mestier dell'arme. Con ci sia che egli non perdeva tempo in cose impertinenti, o di poco rilievo, ma s'impiegava in quello, in che consisteva l'importanza, e la somma delle cose. Se il nimico era in campagna, cercava, se si conosceva vantaggio, di venir al fatto d'arme, se non poteva ci conseguire, l'assaltava negli alloggiamenti (come assalt Ariovisto) o lo circonvallava (come Vergingetorige, e Pompeo). Ma nell'impresa contra Pompeo, non si pu dire quanta arte egli usasse per dar presto fine alla guerra. Prima li tolse la riputatione e'l credito, col cacciarlo d'Italia, e poi gli tolse le forze principali, con privarlo degli esserciti di Spagna. Ma restava Pompeo ancor superiore a lui d'armate e di forze maritime: che fa Cesare? Induce Pompeo a combatter seco con le forze terrestri, nelle quali egli (perch l'essercito suo era veterano, e quel di Pompeo nuovo e di poca sperienza) aveva vantaggio, et ad avventurare, con la minor parte del suo potere, tutta la sua fortuna.
Usava poi la celerit prima nel marciare: s che il pi delle volte giungeva adosso a' nemici prima ch'essi avessero avuto pur sentore della sua venuta. In otto giorni giunse da Roma al Rodano, in ventisette da Roma a Ovilcone, terra vicina a Cordova. Non lo ritardava n durezza di stagione, n altezza di neve, n rapidit di fiumi. Pass la Sonna in un giorno, che gli Elvetii non avevano passata in venti d. Pass d'inverno le Alpi, d'inverno condusse nella Gallia tre legioni, d'inverno navig da Brindesi a Durazzo, e da Sicilia in Africa. L'usava nelle fabriche dell'armate et in ogni opera militare. In un inverno fece una armata di seicento legni, per l'impresa della Bertagna, in trenta giorni fabric e forn di tutto punto dodeci galee contra Marsigliesi. Fece in un giorno un ponte sopra la Sonna, in dieci giorni fece un altro ponte sopra il Reno, in venticinque condusse a perfettione nell'assedio di Avarico, in bastione largo trecento, alto ottanta piedi. L'usava nelle battaglie, perch non rompeva mai il nemico, che non lo spogliasse anco degli alloggiamenti, e non l'abbandonava sin a tanto, che non l'aveva totalmente disfatto, parte di celerit, che manc ad Alessandro Magno. Con ci sia ch'egli, avendo vinto Dario nella Cilitia, non li tenne dietro, ma s'intertenne nell'assedio di Tiro, e nel viaggio di Africa. Et intanto Dario mise insieme forze maggiori di prima. Manc anche ad Annibale, che avendo in tre battaglie vinto i Romani, lasciando Roma in pace, and perdendo il tempo per l'Abruzzo, e per l'altre parti d'Italia. Potrei molti essempi della celerit di Cesare allegare, ma in luogo di tutti baster addurne uno. Con ci sia che, in un giorno medesimo egli ruppe Pompeo in battaglia campale, prese gli alloggiamenti, assedi le relliquie de' nemici (nel quale assedio devi un fiume) e li sforz a far deditione, cosa inestimabile ai tempi nostri. S che non meraviglia, ch'egli in s pochi anni facesse tante cose, perch il primo anno della guerra gallica, debell gli Elvetii, e'l re Ariovisto, nel secondo dissip i Belgi, estirp i Nervii e gli Avvatici, nel terzo fece un'armata, e con essa vinse i Veneti, e diede il guasto al paese de' Menapii, nel quarto debell i Germani, entrati nella Gallia, pass in Germania, e poi in Bertagna, nel quinto ritorn all'impresa di Bertagna, con forze maggiori, e la rese tributaria ai Romani, disfece l'essercito degli Eburoni, e liber Cicerone di assedio, nel sesto prevenne i dissegni che i Nervii et i Senoni facevano di ribellarsi, dom i Menapii, pass la seconda volta il Reno, e si rese formidabile ai Svevi, rovin gli Eburoni, e gli amici loro, nel settimo espugn molte piazze forti, tent Gergovia, prese Avarico, sforz Vergingetorige, vinto in campagna, a rinchiudersi entro Alessia, ove egli l'assedi, e con esso lui dom tutta la Gallia, nell'ottavo prevenne et tenne cheti et in fedelt i Biturigi et i Carnuti, dom i Bellovati e prese Usselloduno. Segu la guerra civile, ch'egli maneggi con celerit incredibile. Perch in sessanta giorni ridusse tutta Italia al suo volere, e ne cacci Pompeo. In quaranta giorni vinse i luogotenenti, e gli esserciti di Pompeo in Spagna e rec a sua divotione tutta quella amplissima provincia. Nel secondo anno della guerra assedi con opere maravigliose e sconfisse in un fatto d'arme Pompeo, in quattro mesi. Quindi passato in Egitto, guerreggi nove mesi per mare e per terra con gli Alessandrini, vinse in un battaglia et amazz il re loro, e ridusse il regno al suo volere, e poi quasi folgore mand in rotta et in rovina il re Farnace, il quinto giorno doppo il suo arrivo, e in quattro ore di battaglia. In quattro mesi fece guerra con Scipione, e col re Iuba, li distrusse ambedue, e rassett a sua voglia l'Africa; ricuper poi in pochi mesi la Spagna, con strage grandissima de' Pompeani. E non ho detto nulla dell'imprese fatte nel medesimo tempo da' suoi capitani, in pi luoghi. Fu molto simile a Cesare nella celerit Settimio Severo imperatore: e non meno Aureliano. E tra' moderni Selim re de' Turchi, e Ferrante Cortese, che fu perci chiamato da' Messicani figliuolo del sole, e Gaston de Fois, che in quindeci giorni liber Bologna d'assedio, ruppe le genti venetiane a Villafranca e ricuper Brescia. Ma per un fatto particolare molto celebre fu per la celerit quel di Claudio Nerone, col qual egli ingann Annibale, e disfece Asdrubale. Di gran fama fu anche la prestezza con la quale Totila oppresse Vitaliano. Stava Totila all'assedio di Perugia, ove, avendo inteso che Giovanni Vitaliano aveva liberato i senatori di Roma dalle mani de'
Gotti, senza punto pensarvi, tosto con le pi spedite genti, che aveva, traversando la Marca, e l'Abruzzo, e la Puglia, si ritrov improvisamente in Calavria sopra Vitaliano, che non aveva avuto ancor nuova che il nemico fosse partito da Perugia, e l'oppresse. Questo fatto, cos tacito e presto, acquist a Totila fama d'eccellente capitano. Ma non alcun condottiere, che si debba in questa parte preferire a Semiramide, con ci sia che avendo ella avuto aviso della ribellione di Babilonia, perch si ritrovava co' capegli in mano e non ne aveva intrecciata se non una parte, con una treccia rinvolta, e l'altra sparsa, si mosse a quella volta, n si volse mai il resto della chioma intrecciare, finch non riebbe quella citt. Onde ne le fu in quell'abito una statua bellissima drizzata. Degli eccellenti nella sagacit. La sagacit militare ha quattro parti: l'una si prevedere i pericoli, e gl'inganni de' nimici, e provedervi. E (come diceva Timoteo del buon capitano) aver occhi non solo nella faccia, ma anco nelle spalle, e come diceva Sertorio, guardarsi non meno di dietro che dinanzi. Nel che fu eccellente Alcibiade, di cui dice Probo, erat ea sagacitate, ut decipi non posset, praesertim cum attendisset ad cavendum. Di Annibale dice Iustino, ch'egli era uomo eccellente in prevedere, e in schivare i pericoli, e che nelle cose prospere non pensava meno alle averse, che nelle averse alle prospere. In questa parte fu anche rarissimo Viriato. Onde Iustino afferma, che gli Spagnuoli se lo elessero per capo, ut cavendi scientem, declinandique peritum, cio per l'accortezza sua in schivar i pericoli et in uccellare il nemico; rinnov questa virt di guerra poco inanzi l'et nostra, Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, perch questi con accorgimento singolare et antivedeva l'arti et i dissegni de' nemici et i pericoli imminenti, e gli schivava; e si trov egli in necessit, et in frangenti tali, onde non si sarebbe altramente che con sagacit meravigliosa sviluppato. L'altra parte della sagacit il sapere valersi dell'occasioni d'ingannar il nemico e di tirarlo nella trappola. E questa fu a giuditio universale propria d'Annibale, che non attacc quasi mai battaglia, senza uno o pi inganni militari. Ma in nissun fatto d'arme si mostr egli maggior maestro, che in quel di Canne. Con ci sia cosa che qui, sendo egli di gran lunga inferiore di forze a' Romani, s'aiut in tal modo con la vivacit dell'ingegno, che ne riport una vittoria incomparabile. Primieramente, egli indusse forse cinquecento Numidi, che fingendo d'abbandonar lui, passassero nel campo de' Romani, da' quali furono come amici accettati e posti dietro alle squadre loro. Appresso valendosi della qualit del sito, dispose l'essercito suo in modo, ch'egli aveva il sole e'l vento alle spalle e i Romani in faccia, e di pi la polvere, della quale erano piene quelle campagne, sollevata dal vento, li feriva talmente negli occhi, e loro empiva la bocca e le nari, che n'erano spesse volte sforzati a volgersi adietro. Intanto i cinquecento Numidi assaltando all'improviso i Romani alle spalle, ne facevano strage grandissima. S che non lasci Annibale cosa alcuna, della quale egli, in una occasione di tanta importanza, non si valesse, e non adoperasse in suo servitio: vento, sole, polvere, inganno. Molto gratiosa fu l'arte, con la quale Carlo Emanuele, duca chiarissimo di Savoia, tir alla trappola i Francesi nella Moriena, perch avendo egli con poca, ma ben disposta batteria, avuto la Carboniera, ebbe insieme avviso, che le genti del Delfinato, e d'altre parti, s'erano per soccorrerla mosse. Allora egli ordin, che si continuasse lo sparare dell'artiglieria, acci che i nimici, credendo che il presidio ancor si tenesse, non desistessino dall'impresa. Vennero a quel zimbello i Francesi, e vi restarono tutti i morti o prigioni. La terza parte di sagacit si trovar partito ne' casi improvisi, e via d'uscir di pericolo, cosa che manc a Sp. Postumio alle forche Caudine o a Ustilio Mancino a Numantia. Ma ben seppe in questa parte ancora Annibale maneggiarsi: con ci sia che, sendo egli stato condotto da una guida per errore ne' campi stellati, fu da Q. Fabio tra'l fiume e'l monte co' presidii da lui posti in modo rinchiuso, che non bisognava minor astutia della sua per uscirne. Egli aveva in campo, fra l'altra preda fatta per quelle campagne, da duemila buoi. A questi fece egli attaccare alle corna fascitelli di sermenti e d'altre legne secche, e, spingendoli nell'imbrunir dell'aere verso il monte, onde passar
voleva, fece a quelle aride fascine appicciar il fuoco e dirizzar i buoi verso il passo guardato da' nemici, con molta fretta. I buoi spaventati dalla fiamma e mal condotti dall'ardore che li penetrava al vivo, cominciarono con muggiti orrendi a imperversare et a correre, come furie, su e gi per le coste di quel monte. Pareva che ogni cosa ardesse e fiammeggiasse e rimbombavano alle strida delle bestie e le valli e tutte quelle contrade. I soldati, che guardavano il passo, restando attoniti e credendo che i nimici avessino preso il sito a lor superiore ove non i nimici, mai buoi arrivati erano et dubitando d'agguati si misero con grandissimo spavento in fuga. Cos rest ad Annibale libero il passo. Non credo che si legga stratagemma pi astuto e pi impensato e da questo e da altri molti essempio, si vede quanto si ingannino quelli i quali credunt militaribus ingeniis subtilitatem deesse. La quarta parte della sagacit e che ricerca maggior ingegno di tutte non solo liberar s di pericolo, ma di voltar ancora il male in bene. Nel che Plutarco scrive, che Sertorio avanz tutti i capitani de' suoi tempi. Ma Probo preferisce la prontezza, in ci, di Datami a quante ne furono mai. Perch essendo egli andato sopra i Pissidi, che li avevano amazzato il figliuolo, Metrobarzane, suo suocero, dubitando delle cose del genero, se ne fugg con la cavalleria, che egli aveva in governo alla volta de' nemici. Chi non si sarebbe in un caso cos improviso sgomentato? Ma Datami ne trasse in un subito bene grandissimo. Fece dar voce, che il suocero si fosse di suo ordine mosso et anim i suoi a doverlo tosto seguire. Onde Metrobarzane fu sforzato a combattere contra i Pissidi, che lo tenevano per nimico et a morire in servitio di colui, che egli voleva tradire. Quo (dice Probo) neque acutius alicuius Imperatori cogitatum, neque celerius factum. Et invero egli avanz quel di Tullio Ostilio, perch Metio non combatt contra i Fedenati, n aiut la vittoria dei Romani, come Metrobarzane quella di suo genero. Non fu privo di questa lode Cesare Germanico di cui dice Tacito, consilia, locos, prompta, occulta noverat: actusque hostium in perniciem ipsis vertebat. Appartiene a questo capo l'accortezza di Temistocle, di cui si legge presso Tucidide, che et die instantibus atque improvisis vere, et de futuris callidissime coniciebat. Onde egli e previdde che la Grecia non poteva defendersi dalle forze dei barbari, se non per mare et indusse Serse, loro re, a combattere nelle angustie di Salamina e poi a ritirarsi. S che, se bene in questa impresa il valore fu commune a tutti i Greci, nondimeno la prudenza fu propria di Temistocle, e come dice Probo, Xerxes victus est magis consilio Temistoclis, quam armis Graeciae. Trattava egli gravemente le cose, che intraprendeva. Non riposava in cose oscure e dubie, finch non se n'era certificato. Aveva giuditio eccellente nell'elettione de' mezi e di quel che conveniva fare. Degli eccellenti nella grandezza delle vittorie. Le pi gloriose vittorie, che i Greci abbino mai riportato dei barbari, furono quelle che Miltiade ebbe a Maratona, Temistocle a Salamina, Pausania a Platea. Della prima dice Probo cos, qua pugna nihil adhuc est nobilius. Nulla enim unquam tam parva manus, tantas opes prostravit. Della seconda dice Plutarco, che n i Greci, n i barbari fecero mai per mare cosa pi illustre che la battaglia nella quale Serse, per virt commune dei Greci, ma per accortezza particolare di Temistocle, rimase sconfitto. Erodoto poi chiama la vittoria di Platea bellissima sopra tutte le altre. Ma tra i fatti dei Greci, Plutarco stima che la vittoria, che i Tebani, condotti da Epaminonda, acquistarono a Leutra de' Lacedemonii fu la pi gloriosa che mai acquistasse Greco guerreggiando con Greco. Tra le battaglie de' Romani, molto gloriosa fu quella nella quale Lucullo vinse Tigrane re di Armenia. Con ci sia che Antioco Filosofo disse, che il sole non aveva ancor visto cosa tale, e Livio scrive, che i Romani non furono mai in nessuna giornata pi a' nimici loro inferiori. Ma io non istimo, che i Romani ottenessino mai vittorie, ove maggior virt mostrassino, che quelle che T. Manlio ebbe de' Latini e P. Scipione di Annibale. Tra le battaglie moderne sommamente celebrata, e da molti anche antiposta alle antiche quella, nella quale gli Svizzeri con ardimento meraviglioso i Francesi a Novara disfecero.
Degli eccellenti nella gratia. Timoleone, nelle sue imprese gloriose, ebbe per compagna una certa agevolezza e gratia. Con ci sia che (come insegna Plutarco) le cose fatte da Epaminonda, da Agesilao, da Trasibulo, da Pelopida, e da altri, hanno certo splendore misto con difficolt, e con travaglio. Et in alcuni casi non sono stati senza riprensione e pentimento. Aureliano imperatore diceva, nullam sibi datam a Diis immortalibus sine difficultate et labore victoriam. Ma nei gesti di Timoleone non vi cosa, che non sia cospersa d'una certa leggiadria et vaghezza di felice e ben avventurata virt. Cosa che in pochi capitani si vede e tra i Greci niuno ne participa pi che Alcibiade e Cimone e tra i Romani Fabio Rullo e li due Africani. Il fine del primo libro. [Libro II] [Introduzione] DELLE ECCELLENZE DEGLI ANTICHI CAPITANI. LIBRO SECONDO DI GIOVANNI BOTERO BENESE.
L'eccellenza di una cosa in due maniere s'esprime, assolutamente et in paragone di un'altra. Vergilio dimostra la grandezza di Roma nel primo modo, con quelle parole: Illa inclyta Roma imperium terris, animos aequabit Olympo. Nel secondo con quelle Tantum alias inter caput extulit urbes. Quantum lenta solent inter viburna cupressi. Or avendo noi dichiarato l'eccellenza assoluta degli antichi capitani nel libro antecedente, resta che dichiariamo la comparata. Il che faremo con tre paralleli, l'uno sar di Alessandro Magno e di Cesare, l'altro di Annibale e di Scipione e'l terzo di Scipione e'l Gran Capitano. Comparatione tra Alessandro Magno e Cesare. La comparatione tra Alessandro Magno e Cesare sarebbe impresa degna di un personaggio eccellente nel mestier dell'arme et in tutta l'arte della guerra. Con ci sia cosa che sendo che questi due famosissimi prencipi sono stimati, con molta ragione, lumi della militia, non pu dar giuditio perfetto del valore e delle loro attioni chi non consumato in tal professione. Non disdice per anche a chi non ha pratica di guerra il dirne il suo parere, perch l'istoria, madre della prudenza, fa che chi non si trovato con la persona nei pericoli delle battaglie, ci si trovi con l'animo e vegga quietamente l'ira et il furore, le ferite e le morti degli uomini armati e s come avviene alle volte, che chi vede giuocare altri alli scacchi, se ben non ha prattica nel giuoco, quanta quelli che giuocano, conosce per alle volte meglio di quelli che pezzo si debba menare o che imboscata drizzare: cos non giudica talvolta men bene della guerra un letterato che un soldato. Onde non so con quanto fondamento Annibale biasimasse Formione perch egli avesse discorso in sua presenza dell'arte militare, perch non disconveniva a un uomo di eccellente dottrina discorrere d'una materia posta nella prudenza e giuditio commune. Et inanzi a un capitano, qual era Annibale, non si poteva trattare di soggetto che fosse pi a proposito.
Or per venire all'intento nostro, diciamo, che in un capitano si ricercano due cose delle quali l'una si grandezza d'animo, l'altra ragion di guerra. Grandezza d'animo si ricerca perch le maggiori cose, che si trattino nel mondo, sono le oppugnationi delle citt e le giornate campali, gli acquisti dei regni e le vittorie et i trionfi alle quali cose non possibile, che si accinga chi non ha spirito eccelso e generoso. Onde veggiamo, che i capitani grandi sogliono degenerar da se stessi nella loro vecchiezza perch con gli spiriti e col sangue manca anche in loro la bravura e la veemenza, di che ci fanno fede Lucullo, Pompeo, ma sopra tutto C. Mario, il qual, essendo stato valorosissimo nel vigore della sua et divenne, col progresso degli anni, lento e di poca efficacia. E ci si vidde nella guerra sociale. Di pi, essendo che la guerra divisa in offesa e difesa (delle quali quella importa molto pi che questa, perch nell'offesa si comprende anche la difesa) come assalterai tu uno, che sia pari o anche superiore di forze a te (il che spesse volte necessario) se tu non sei superiore a lui d'animo, e di cuore? O come possibile, che soldati condotti da un cervo, facciano opere di leone? E che un timido e vile comandi cose ardite et animose? Deve il capitano aver tanta bravura, che ora con l'eloquenza, ora con l'allegria dell'aspetto, ora con la forza, ora con l'arte, ne renda partecipe tutto l'essercito. Or questa grandezza d'animo fu in Alessandro et in Cesare meravigliosa ma con questa differenza, che la bravura d'Alessandro convenne pi a un soldato che a un capitano, quella di Cesare pi a un capitano che a un soldato. Perch Alessandro si cacci pi di una volta in manifesti pericoli della vita senza bisogno o necessit per pura vaghezza d'insanguinar la spada e di menar le mani. Si mise tra i primi nelle battaglie, salt solo su le mura delle citt nemiche, fu finalmente parecchie volte ferito. Il che tanto manca che convenga a un re e capitano d'esserciti che gli Spartani giuditiosamente si astenevano dagli assalti delle citt ove un uomo fortissimo pu essere da un fanciullo e da una femina amazzato come avenne a Pirro e a Lisandro e a Paride. Molto notabili sono le parole di Timoteo chiarissimo capitano d'Ateniesi, perch vantandosi un altro capitano dei pericoli corsi, e mostrando le ferite ricevute al popolo, egli disse: E io mi vergogno, che sendo vostro condottiere mi cadde alli di passati appresso un dardo.. Ma Cesare, se ben non li mancava cuore, non si mise mai in pericolo se non chiamato dalla necessit et in casi urgenti, nei quali egli rimise le battaglie, infranc i soldati e lev a nemici la vittoria di mano, come si vide nelle giornate contra Nervi e contra i figliuoli di Pompeo e nella disdetta, che egli ricev a Durazzo, torceva il collo ai soldati che fuggivano e lor mostrava l'inimico con tanta saldezza d'animo, che gli alfieri, ch'esso si sforzava di fermare, gli lasciavano le insegne nelle mani. Al qual proposito T. Livio, descrivendo l'uffitio di un generale ne' frangenti della battaglia, dice cos d'Asdrubale. Ille pugnantes hortando, pariterque obuendo pericula, sustinuit; ille fessos, abnuentesque taedio et labore nunc precando, nunc castigando accendit: ille fugientes revocavit, omissamque pugnam aliquid locis restituit. E Tacito cos dice di Primo Antonio nullum in illa trepidatione, Antonius constantis ducis, vel fortissimi militis officium omisit. Occurrere paventibus, retinere cedentes, ubi plurimus labor, unde aliqua spes, consilio, manu, voce insignis hosti, conspicuus suis, eo postremo ardoris provectus est, ut vexillarium fugientem hasta transverberaret: mox raptum vexillum in hostem vertit. Perch invero, s come non uffitio d'architetto o d'ingegniere il murare con le sue mani ma comandare a' muratori, cos non uffitio di capitano il combattere, ma il soprastare a' combattenti, n adoperar il braccio, ma il senno, n il mirar a uccidere un soldato privato di sua mano, ma tutto l'essercito nemico con la sua providenza. E quelli condottieri d'esserciti, ch'entrano ne' pericoli senza bisogno, cercano lode di soldati privati con perdita di lode conveniente a un capitano. E pur, come dice Teofrasto, il capitano deve morir da capitano, non da fantaccino. Giulio Capitolino ci a barbara temerit ascrive, perch parlando di Massimino imperatore, habuit (scrive) hoc barbaricae temeritatis, ut putaret Imperatorem manu etiam sua semper uti debere. Cio pernsava barbaramente, che all'imperator appartenesse il menar anche sempre le mani. Nella quale parte se
nissun merit mai lode, questi fu Aureliano imperatore, che ai suoi d amazz novecento e cinquanta persone e nella guerra Sarmatica sola quarantotto. Divisa (dice Primo Antonio) inter exercitum ducesque munia. Militibus cupidinem pugnandi convenire; duces providendo, consultando, cunctatione saepius, quam temeritate prodesse. E il medesimo chiama la ragione e'l consiglio, arti proprie del capitano. E tanto basti aver detto dell'ardimento di questi due lumi di guerra. Quanto poi spetta all'arte della guerra, si potr intendere qual sia maggior o minor guerriero, dai capi seguenti. Primieramente, Alessandro ebbe la sua grandezza per eredit un regno amplissimo, un essercito pieno d'ottimi soldati e di capitani eccellenti, che gi aveva domata la Grecia e la Tracia, e messo spavento e terrore all'Asia; ma Cesare arriv al prencipato di Roma, e del mondo da fortuna privata; e col suo valore s'acquist seguito, forze e potenza: n riceve da altri l'essercito veterano, ma il fece egli medesimo. Alessandro vinse genti, state gi vinte e dome da suo padre, come furono i Greci, o da altri capitani, come furono i popoli d'Asia, da Milciade, Pausania, Cimone, Agesilao; o genti, che non ebbero mai fama di valor militare, come gl'Indiani, e gli Arabi. Onde Alessandro re d'Epiro, suo parente, facendo prova del valor italiano, ebbe a dire, che Alessandro Magno si era incontrato con femine, et egli con uomini. Ma Cesare guerreggi con popoli, stimati sopra tutti i barbari, in fierezza d'animo, et in valor di guerra: et alcuni non mai tentati da Romani et vinse i medesimi Romani, vincitori del mondo. Di pi, Eudemo Ateniese si rideva dell'armi con le quali i Persiani volevano affrontarsi, e s'affrontarono poi con Alessandro, le quali erano frombe et aste abbrustite. Onde egli consigliava a Dario a far provisione di soldati, che usassino armi migliori. E invero, che gente era quella della quale Alessandro, con perdita di trentadue fanti, e di centocinquanta cavalli soli, ne tagli a pezzi centomila fanti, e diecimila cavalli? Ma Cesare ebbe a guerreggiare con popoli ferocissimi, e benissimo armati. Quello ebbe incontro esserciti maggiori, e pi superiori a lui di numero, che Cesare; ma questo gli ebbe pi bellicosi e pi fieri; e nulla di meno Cesare non ebbe mai esserciti cos grossi come Alessandro che all'impresa dell'India condusse centoventimila fanti, e quindecimila cavalli. Alessandro ebbe questo di singolare, che non tent impresa, che non gli riuscisse. Di Cesare fu propria lode il non aver fatto errore in guerra; e li conviene propriamente quella lode, che Probo ascrive a Isicrate, nusquam culpa male rem gessit; semper consilio vicit. Nel che Alessandro non pu esser scusato, n difeso. Con ci sia che, sendo tre parti principali della militia, il marciare, l'alloggiare, e'l combattere; egli commise gravissimi errori in tutte tre. Perch nella Cilicia egli marciando egli entr nelle fauci di quei monti, con tanto poco avviso, che non seppe a che ascrivere la sua salvezza, se non alla sua felicit. Imper che non potendo caminare per col, pi di quattro soldati per fila, egli confessava, che i nemici averebbono potuto disfarlo a colpi di sassi. E nel passar del fiume Lico deleri potuit exercitus, (dice C. Curtio) si quis ausus esset vincere. Entr in Persia per passi tanto stretti, e pericolosi, che correndoli a dosso i barbari regem non dolor modo, sed etiam pudor temere in illas angustias coniecti exercitus angebat. Nel paese dei Suscitani, siti exercitum poene perdidit: s che essendo poi arrivati i miseri soldati a un fiume, vi lasciarono moltissimi per l'ingordigia del bevere, la vita. Multoque maior horum numerus fuit, quam ullo unquam amiserat praelio. E come qui si era quasi perduto per la sete; cos nell'India non manc quasi nulla, che non si perdesse per la fame, e pur come (dice Senofonte) non appartien meno al buon capo d'essercito, il provedere i suoi soldati di vettovaglie, che il metterli ben in ordine nelle battaglie. Rex dolore simul, ac pudore anxius, quia causa tantae cladis ipsae esset. Scrive Plutarco, che di centoventimila fanti, e quindecimila cavalli, menati da lui a quella impresa, non ne rimen indietro la quarta parte: tanti ne morirono per lo pi di fame. Non se n'intendevano
molto pi di lui i suoi capitani, tra i quali Lisimaco guerreggiando nella Scitia, seppe cos bene governarsi, che per non perir di sete, diede s, e'l suo essercito in potere di Dromichete, re de' Traci. E avendo poi bevuto un poco d'acqua: Per quanto poca cosa disse ho io perduto tanta felicit. Ma quanto Alessandro valesse nell'alloggiare, e nel campeggiare, non si puote conoscere, perch non ebbe a far con gente, che di ci molto s'intendesse. Ma essendo cose cos congiunte il marciare, e'l campeggiare, avendo egli fatto tanti errori in quella parte, non incredibile, che ne facesse anco molti in questa. Quanto poi al combattere, egli era cos desideroso di menar le mani, che poco si ricordava e del grado di re, e dell'uffitio di capitano. Onde egli fu gravissimamente ferito in diverse occasioni; e rest due volte debitore della vita a Clito. Al fiume Granico, egli attacc la battaglia con tanto disavantaggio di sito (perch egli entr nel fiume che era grosso e rapido; et i nemici tenevano la riva contraria, che era straripevole e scoscesa) con tanto poco giuditio, che Plutarco dice, che pareva, che egli governasse la guerra pi tosto con pazzo furore, che con ragion alcuna di militia. Consigliato da Parmenione a valersi contra l'infinito essercito di Dario del vantaggio della notte, egli non si accorgendo, la prima lode di un capitano esser il valersi pi del consiglio che del ferro, rispose giovenilmente, che non voleva rubar la vittoria. Nell'India egli fu il primo, ch'entrasse nella terra di Ossidracano; ove riconosciuto da' nemici, sarebbe restato morto se i capitani che l'intesero, et i soldati, cacciati tra' nemici, non l'avessino soccorso. Che avviso di capitano era, lasciar l'essercito senza governo fuor della terra? Scipione nella pugnatione di Cartagena si portava ben altrimente. Quod plurimum ad accendendos militum animos intererat, testis spectatorque virtutis, atque ignaviae cuiusque adest. Non doveva Alessandro sapere, che il comandare, e'l soprastare a' combattenti uffitio molto nobile, e pi importante, che non il saltar un fosso, o'l maneggiar una spada, o'l fare qualche altra cosa tale. Di pi uffitio di buon capitano pi nel non s'esporre senza necessit, a pericoli e nel render con l'arte vani i disegni, e gli sforzi de' nemici, che nel combatter ferocemente, nell'attendere con occhi d'Argo a tutto ci che succede, e pu succedere, nel prevedere e provedere agli accidenti, et ai casi varii che d'ora in ora possono occorrere: nel non lasciar cosa alcuna trascurata presso di s, n presso gli avversarii sicura, nel supplire con la vigilanza, e col senno suo alla trascuratezza de' suoi, occupati in menar le mani, et in riparare a pericoli presenti et a casi proprii. Come pu far una minima parte de' tante, e tante cose colui, che per vaghezza d'onor di un soldato particolare si mette in manifesti pericoli della vita? Ma quoties, dice Curtio, illum fortuna a morte revocativit? Quoties temere in pericula vectum, perpetua felicitate protexit? E altrove cum praesto esset ubique fortuna, temeritas in gloriam cesserat. E in un altro luogo fatendum est tamen, cum plurimum virtuti debuerit, plus debuisse fortunae, quam solus omnium mortalium in potestate habuit. Sarebbe senza dubio, andato a male pi d'una volta, se l'amor de' soldati, de' quali egli era non solo capitano, ma re, e'l valor de' capitani non l'avesse salvato col rimediar a' suoi disordini, e col sostentar i suoi errori. E se fu degno di biasimo Annibale, perch intertenne i soldati nelle delitie, e nelle morbidezze di Capua, che li snervarono, e corruppero, che si deve dire di Alessandro, che lasci ingrassare i suoi nelle delicatezze, e nel lusso di Babilonia? Diutius in hac urbe, quam usquam constitit Rex; nec ullus locus disciplinae militari magis nocuit. All'incontro Cesare con avedimento, et vigilanza incredibile nel marciare, alloggiare, combattere, si governava. E quanto al marciare, egli era in ci tanto considerato, che non passava fiumi reali, se non per ponti meravigliosi: avendo in ci la mira non solo alla sicurezza dell'essercito, ma alla riputatione della republica romana. Cos pass la Sonna, cos il Reno; il che imit Cesar Germanico, nisi pontibus, praesidiisque impositis dare in discrimen legiones haud Imperatorium ratus. Non men mai l'essercito in luoghi pericolosi, e prima di traghettarlo nella Bertagna, volle egli spiare i siti, et i porti, e la navigatione. Onde di lui dice Svetonio quelle mirabili parole, in obeundis expeditionibus dubium cautior, an audentior. Con quanta arte egli campeggiasse non si pu
comprendere meglio, che dalla guerra fatta da lui in Ispagna, contra Petreo, et Afranio, capitani vecchi, e di somma sperienza nell'arme. Con ci sia che egli, con un'arte ammirabile di marciare, e di campeggiare, gli ridusse, in paese loro amico, a tanta necessit, che, se bene avevano un grosso fiume vicino, si morivano per non potersi muovere, di sete. Onde finalmente gli si arresero con le conditioni che a lui piacquero. Marciava con tanto ordine, che col nemico alla coda, o a' fianchi, non ricev mai danno. Ne' viaggi alloggiava in siti cos opportuni, che col vantaggio del luogo ruppe spesse volte i nemici, a' quali era di gran lunga inferiore e di numero e di forze. Ma nell'occasioni, e ne' cimenti delle battaglie, non fu mai uomo, che pi acutamente antivedesse tutto ci, che poteva succedere. Onde, quando anche rest perdente, ci avenne senza colpa sua, perch a Gergovia il disordine nacque per il troppo ardire dei soldati; per il che egli li riprese gravemente, quod plus se, quam Imperatorem de victoria, atque exitu rerum sentire extimarint. Et a Durazzo, egli dimostr all'essercito, quod esset acceptum detrimentum cuiusuis potius, quam suae culpae debere tribui. Imper che, s come non uffitio di oratore il persuadere: ma il favellare acconciamente per persuadere, e del medico non uffitio il sanare, ma l'ordinar medicamenti appropriati alla sanit, cos non uffitio di buon capitano il vincere, ma il governarsi con giuditio, e con ragione, atta a vincere. E chi altramente vince, deve saperne grado non al suo sapere, ma al disordine et al poco giudicio de' nemici, o all'ordine et alla pratica et al valor de' suoi soldati. Onde, quando Alessandro condusse l'essercito nel fiume Granico e con tanto disavantaggio combatt co' Persiani, se bene egli vinse i nemici, non fece per uffitio di buon guerriero, perch il modo, che egli tenne, non era proportionato alla vittoria, ma alla perdita. Per il che, l'aver vinto non si pu attribuir a lui, ma alla bont e disciplina de' soldati, e dei capitani, che sostennero, e corresero l'error di lui; o al poco animo, e sapere de' nemici. Il medesimo dico della sua passata per la strettezze di Cilicia, et per il fiume Lico e di tante altre cose, che Q. Curtio, e gli altri scrittori attribuiscono a temerit. Ma Cesare non solo fece uffitio di buon capitano quando vinse, ma quando perd, perch indirizz saviamente le cose alla vittoria; e si govern con giudicio, e con accortezza. Onde a Gergovia, mentre che i soldati osservarono i suoi ordini, essi vinsero; ma furono rotti doppo che passarono l'ordine da lui prescritto. Et a Durazzo gli fu interrotta la vittoria dall'errore, e dal disordine de' soldati. Il perch Cesare fu Gran Capitano anche nelle disdette, Alessandro nol fu, alle volte, n anco nelle vittorie. Nihil Marcellus (dice Livio) ita gerebat, ut aut fortunae, aut temere hosti commissum, dici posset. E (come dice Plutarco) fortuna id unum hominibus non ausert, quod benefuerit consultum. Perch la buona risolutione deve esser misurata dalle ragioni, che ti hanno mosso a farla; non dal successo, che ne segue: del quale, perch pu avvenire fuor di ogni pensiero umano, e d'ogni ragione, niuno obligato a render conto. La providenza d'un accorto capitano, ha due parti: l'una mira alla conservatione delle forze, e dell'essercito proprio, l'altra alla destruttione de' nemici. Alessandro manc nella prima, perch condusse le sue genti in luoghi, ove furono per restar morte, ora di fame, ora di sete, ora di sassate, attacc la battaglia in luoghi disavantaggiosissimi, men finalmente dal suo canto i suoi soldati alla beccaria, e pur in tanta onoranza quel detto del grande Africano, che egli averebbe anzi voluto salvare un cittadino, che amazzare mille nemici. Manc nella seconda, perch, valendo per la distruttione de' nemici due cose, la forza, e l'ingegno, egli non si valse ordinariamente, che della prima; il che di Cesare non si pu dire. Con ci sia ch'egli ebbe cura delle sue genti come un padre della sua famiglia. Non si mise mai a impresa senza far provisione di vettovaglie; e se mancava fuormento, s'aiutava con le carni: potendo vincere col ferro, volse pi tosto valersi dell'arte: et in ogni occasione s'ingegn d'aiutare la forza con l'industria. Ma il combattere non d'una sorte: si combatte in campagna aperta, si combatte assediando, o difendendo una piazza, si combatte per mare e per terra. Alessandro Magno non combatt mai per mare, se non vuoi forse chiamare guerra maritima l'assedio di Tiro. Cesare guerreggi per mare, in Francia, in Egitto, in Africa, nell'Oceano, nel mar nostro; assedi, oppugn, espugn, ridusse a necessit d'arrendersi ottocento citt; soggiog trecento nationi. Ma tra tutte l'opere di guerra, fatte
da Cesare, non ve n' alcuna, che si possa paragonar con l'assedio di Alessia. Con ci sia ch'egli sforz Vercingetorige, capo de' Galli, a rinchiudersi con ottantamila combattenti, ch'erano il fiore, et il nervo della Gallia, entro quella citt, e lo stecc, e circonvall e poi risoluto di affamarlo, si fortific contra pi di ducentoquarantamila altri Galli, che si apparecchiavano al soccorso, con fosse e con opere ammirande, e messosi in mezo tra Vercingetorige e questi, che lo venivano a soccorrere, divenne assediante, et assediato, e come assediato, non solamente ributt i nemici, ma li ruppe, e sconfisse affatto, e come assediante, necessit Vercingetorige, e gli altri a mettersi umilmente nelle sue mani, et in un punto atterr le forze, e gli animi di tutta la Gallia. La qual fattione mi sempre parsa la pi ammirabile, che si sia fatta doppo che si maneggiano l'arme. E non si ricercava altro animo, n altro giudicio, n altra providenza, e risolutione, che quella di Cesare, che in un tempo medesimo assedi, fu assediato, si difese, e vinse in campagna i nimici, e del mio parere fu anche Velleo Paterculo. Circa (dice) Alexiam tantae res gestae, quantas audere vix hominis, perficere pene nullius, nisi Dei fuerit. Castruccio Castracani si acquist nome di rinovatore della disciplina militare in Italia, principalmente per l'assedio tenuto intorno Pistoia ad essempio di Cesare. Con ci sia cosa, ch'egli ancora, con una doppia trincea, tenne da una parte a freno i Pistoiesi, e dall'altra Filippo Sanguinetti con soccorso di trentamila fanti, e di tremila uomini d'arme: e ridusse finalmente quella citt a tal termine, che si mise nelle sue mani. Cesare adunque fu pi universale di Alessandro. Per non dir poi nulla della sobriet e della clemenza, Cesare vinse Alessandro di grandezza d'animo. Con ci sia che non essendo cosa pi contraria alla magnanimit, che l'invidia, Alessandro fu s soggetto a s fatta passione, che uccise di sua mano Clito, perch celebrava l'imprese del re Filippo, padre di lui; e non puot dissimulare il dispiacere sentito per la nuova, che Antipatro avesse vinto i Lacedemonii, suae demptum gloriae existimans quidquid cessisset alienae. All'incontro Cesare ne' i suoi Commentarii, essalta le cose fatte da T. Labieno, da P. Crasso, e da altri suoi capitani anche pi, che le sue. Di pi, Cesare illustr le sue vittorie, non solo con onorar gli amici, et i compagni, ma con ricevere anco in gratia i nemici: Alessandro vituper le sue con la crudelt verso gli amici, e con la morte di Clito, e di Parmenione, ai quali era debitore della vita, nonch d'altro. E di Parmenione scrive Q. Curtio, multa sine Rege prospere: rex sine illo nihil magnae rei gesserat. Il che non si pu dire di nissuno ministro di Cesare. Comparatione tra Annibale e Scipione. Non cosa, che meglio scuopra, e dichiari la prodezza, e le qualit di un personaggio, che la comparatione di lui, con un altro pari, o poco inferiore a lui. E non credo che si trovi un altro paio di personaggi, che siano pi comparabili tra di loro, in ogni parte di militia, che Annibale e Scipione. Or cosa commune ad Annibale et a Scipione fu l'aver cominciato a trovarsi in guerre grandissime nella loro fanciullezza, avuto governo d'esserciti grossi, e d'imprese importanti nel fior della loro et, guerreggiato in provincie bellicose, in Spagna, Italia, Africa, combattuto con popoli, e con capitani famosi. L'aver tenuto la medesima ragion di guerra: perch l'uno, e l'altro port la guerra a casa de' suoi nemici, Annibale in Italia, Scipione in Africa. L'uno e l'altro si valse con molto giudicio degli stratagemi, e degl'inganni militari; e poche volte fecero fatto d'arme, senza aiutar le forze con l'astutia. E tra l'astutie di Scipione molto memorabili furono quelle, con le quali egli sconfisse Asdrubale in Spagna, e Siface in Africa, che per non essere cosa cos nota la sua accortezza nell'astutie belliche, non mi sar di travaglio il raccontare in questo luogo. In Ispagna, la cosa pass cos. Gli esserciti de' Romani, e de' Cartaginesi erano stati schierati l'uno a fronte dell'altro, per alcuni giorni, in questo modo che nella battaglia s'erano fermati di qua i Romani e di l i Cartaginesi, et avevano posto gli aiuti delle genti amiche (ch'erano la pi debil parte delle forze loro) nelle corna, et era opinione di tutti, che si dovesse venire a giornata con l'ordine tenuto in quei giorni. Or Scipione ingann doppiamente i nemici. Perch, fatto desinare a buona ora i suoi, e
mutando l'ordine, osservato fin'allora, mise le legioni romane nelle corna e le genti straniere in mezo, e poi, per far che i nemici non desinassino, e non s'avvedessino di questa mutatione, mand a buona ora la cavalleria a travagliarli fin sugli alloggiamenti. Asdrubale colto all'improviso, cav frettolosamente i suoi soldati digiuni in campagna, e gl'ordin come aveva fatto alli d passati. Scipione, spinte innanzi le corna dell'essercito, ove aveva il nervo delle sue forze, ruppe facilmente quelle de' nemici, prima che i Cartaginesi, ne' quali consisteva il meglio delle forze, potessero venire col nemico alle mani, o soccorrere, se non volevano disordinare la battaglia, l'altre genti loro. Era gi il mezo d, e la fame, e la sete, con un sole ardente, affliggevano sommamente e maltrattavano i Cartaginesi. Allora Scipione spingendo innanzi la battaglia, e dando loro addosso dai fianchi, e da ogni parte, n'ebbe una compiuta vittoria. Ma non minor sagacit mostr egli in Africa contra il medesimo Asdrubale e Siface, re de' Numidi. Aveva fatto Asdrubale, trentamila fanti e tremila cavalli: e Siface cinquantamila fanti e diecimila cavalli; co' quali sendosi accostati a Scipione, Siface attacc ragionamento di pace. Or mentre vanno, et vengono gli ambasciatori sopra questo negotio dall'un campo all'altro, fu da' suoi Scipione avvertito, che gli alloggiamenti de' nemici, erano quasi tutti di legno, e gran parte di canne, o d'altra materia, atta all'incendio, senza ordine alcuno. Al che, aprendo esso gli orecchi, bench poca voglia avesse di trattar pi d'accordo con Siface, continu non di meno a dimandar i suoi oratori e con esso loro molti de' pi accorti e scaltriti soldati, che avesse, in abito di servitori. Acci spiassero minutamente tutto ci, che potesse aiutare il suo disegno. Quando poi li parve d'esser gi in ordine, tronc ogni pratica d'accordo. E scovert a' tribuni il suo pensiero, cav con le prime tenebre fuora l'essercito e su la mezanotte al campo nemico giunse. Qui commettendo a Lelio et a Massinissa, che con parte delle genti assaltassino il campo di Siface, et vi attaccassino fuoco, egli and per fare il medesimo in quello di Cartaginesi. I Numidi, veggendosi il fuoco, attaccato da Lelio, d'ogni intorno, e credendo ci esser a caso avvenuto, correvano disarmati chi di qua, chi di l, a estinguerlo; ma battuti fieramente da' Romani, restavano e dalle fiamme e dal ferro consumati. Le guardie del campo d'Asdrubale et anche gli altri, poi, che al romore si destarono, corsero ancor essi disarmati a smorzare il fuoco ma incontratisi nei Romani, che gli aspettavano al varco et appicciavano nelle prime tende, e di man in mano nelle altre, il fuoco, furono trattati in modo, che di tanta gente non ne scamparono pi di ventimila fanti e cinquecento cavalli, mezo nudi. Questo fatto di Scipione preferito da Polibio a tutte l'altre sue prodezze. Ma ritornando alla comparatione: Annibale mostr nelle sue fattioni pi astutia, Scipione pi destrezza; quello si valse pi della fraude, e dell'inganno, questo dell'industria e dell'arte. Appresso, Annibale eredit la sua grandezza parte dal padre, parte dal cognato, che lo lasciarono padrone d'un essercito grossissimo di soldati veterani et incalliti nell'arme, e ne' travagli ma Scipione divenne grande col proprio valore. Pass all'impresa di Spagna all'et di ventiquattro anni in tempo, che per la morte di suo padre e di suo zio, non si trovava in Roma chi volesse sottoporre le spalle a quel carico, e poi pass all'impresa d'Africa con pochissimo favore del Senato, che non si content pur, ch'egli si valesse di altra sorte di soldati, che di volontarii e mise insieme una buona armata, senza che la republica concorresse a parte alcuna della spesa. Di pi, Scipione maneggi la guerra molto pi alla grande, che Annibale, perch non si mise a impresa, che non fosse importante e di conseguenza. La prima cosa, che egli tent in Spagna, fu l'espugnatione di Cartagine nuova, ch'era la maggior cosa, che i Cartaginesi avessino in quella provincia. Gnarus ut initia belli provenissent, famam in caetera fore. E la condusse a fine in un giorno. Cosa che, per esser la prima, ch'egli intraprendesse, e per la sua grandezza e per la prestezza, con la quale ella fu essequita, li rec meravigliosa riputatione. Andava egli all'imprese, ove si trovavano i capi, e le forze unite de' nemici, alle cose minori mandava Martio, Sillano, Lelio, e suo fratello. Nel che oltra ch'egli non s'impiegava se non in cose grandi, mostrava la generosit dell'animo, che non temeva, che il valor
altrui facesse velo al suo. Il che nota Livio con quelle parole, Martium secum habebat cum tanto honore, ut facile appareret, nihil minus eum vereri, quam ne quis obstaret gloriae suae, cio egli trattava Martio con tanta onorevolezza, che ogniuno si poteva facilmente accorgere, che non era cosa, ch'egli meno adombrasse, che il valor altrui. Ritornato in Spagna, non si degn di andare dietro ad Annibale per le campagne di Puglia, o per li monti di Calabria, ma passando in Africa, fece che Annibale and dietro a lui a combattere per la somma delle cose. Nel che Annibale confessa, appresso T. Livio, d'esser stato vinto da Scipione, con ci sia cosa che egli doppo aver rotto i Romani a Trebbia, a Trasimeno, a Canne, aveva perduto il tempo attorno Casilino, Cirignuola, Cuma, Nola e doppo l'aver tagliato a pezzi centomila Romani, era sforzato di andare, abbandonando l'Italia, a difendere la patria sua contra Scipione, qui hostem Poenum, in Italia non vidisset et invero Annibale (oltra l'aver snervato l'essercito, come si tiene, nelle delitie di Capua) fece quattro notabili errori nell'arte della guerra. L'uno fu, che sendo egli venuto in Italia per combatter Roma, non si accost per mai a Roma, se non per liberar Capua d'assedio: ma si and consumando per la Puglia, Calabria, Abruzzo, e per l'altre parti d'Italia. L'altro fu, che non seppe valersi della vittoria, assaltando i Romani, sgomentati per le rotte ricevute, in Roma istessa, o oppugnandola, o assediandola. Onde Varrone scrisse al Senato, Annibalem sedere ad Cannas in captivorum preciis, predaque alia aestimanda: victoriam nec victoris animo, nec magni ducis more metientem. E (come Floro) cum victoria posset uti, frui maluit. Il terzo fu, che a un capitano di tanta fama, e di tanto valore, troppo bassa impresa fu l'oppugnatione, e poi l'assedio di Casilino, castelluccio di terra di lavoro et alcune cose cos fatte, non s'accorgendo, che multa bella impetu valida, per taedia ac moras evanuere. Certo egli, con la lunghezza della guerra, rese i Romani arditi et valorosi e superiori a se stesso di animo e di bravura. Onde alle volte mi pare, che Annibale fosse migliore combattitore, che guerriero, cio pi atto a vincere un fatto d'arme, che a maneggiar una impresa. Di pi, non essendo cosa pi indegna di un savio capitano che l'esser sforzato a combattere con disavantaggio, Annibale cadde in questo inconveniente due volte, una quando fu tirato a far giornata, contra sua voglia, da M. Marcello, l'altra quando fu raggiunto e poi necessitato al medesimo da Claudio Nerone. N fu poco scorno di tanto personaggio, che egli fosse tenuto a bada dal medesimo Claudio in Puglia, mentre esso combatteva contra Asdrubale, su le rive de Metro. Ma Scipione non si sa che facesse errore nella militia. Aggiungi, che Scipione non si mise mai a impresa alcuna, che egli non vincesse. Il che procedeva da un vero esame delle forze sue e de' nemici. Ille, dice Vegetio, difficile vincitur, qui vere scit de suis et adversarii copiis iudicare. All'incontro, Annibale tent indarno, e Piacenza e Spoleti e Cuma e Nola e Napoli et il soccorso di Capua. Scipione finalmente non fu mai vinto, Annibale fu vinto pi volte, da Marcello, da T. Sempronio, da Claudio, e da l'istesso Scipione, in quell'ultimo fatto d'arme nel qual egli confess, non proelio modo se, sed bello victum, nec spem salutis alibi, quam in pace impetranda esse. E invero, per una vittoria di un fatto d'arme, quella fu forse delle pi memorabili, e gloriose che siano state mai. Comparatione tra P. Scipione e'l Gran Capitano. La openione di Pitagora e d'altri filosofi intorno alla trasmigratione delle anime, detta da loro metempsicosi, io credo avesse origine dal vedere, alle volte, persone di costumi e d'ogni qualit cos di animo come di corpo, simili agli antipassati, come si scrive di Teodosio imperatore e di Traiano, di M. Antonio e di Ercole, di Pompeo e di Alessandro Magno. Gordiano il vecchio fu similissimo di aspetto, di movimenti, e di costumi a Cesare Augusto: il figliuolo a Pompeo, il nipote a Scipione Asiatico.
Ma, se fu mai personaggio simile, doppo grandissimo intervallo di tempo a un altro, questo fu Consalvo Ferrando a P. Scipione. Ebbero ambidue statura grande e presenza eccellente, animo generoso, ingegno elevato; ambidue fiorirono di un eloquenza meravigliosa, d'una liberalit regia, e si possono stimar pari n beni naturali dell'animo e del corpo. Avvennero a l'un et a l'altro molte cose simili. Quello si trov nella rotta di Canne, con grado di tribuno militare, questo nella rotta di Seminara, con carico delle genti mandate dal re Cattolico in soccorso delli re di Napoli. Quello si mise nella discrettione di Siface per tirarlo nell'amicitia de' Romani, questo si pose nelle mani di Baudele, re de' Mori, per condurlo alla divotione delli re cattolici. L'uno e l'altro pat seditioni di soldati, quello per la malattia, questo per il mancamento delle paghe. Quello venne a grandissimi onori giovine, questo cadette. Questo fu gridato re dagli Spagnuoli, a questo non manc per esser re di Napoli altro, che l'animo. Quello ebbe ventura di poter dare un regno, questo di dar infiniti Stati a suoi amici. Quello ebbe l'onore d'aver messo l'ultima mano alla seconda guerra punica, questo di aver condotto a fine la impresa di Granata. A l'uno et a l'altro fu domandato conto de' denari maneggiati: ambidue se ne sbrigarono generosamente. Scipione con stracciare (come scrivono alcuni) il libro, Consalvo con mostrar partite impensate e spaventose al re, l'una delle quali fu di ducentomilasettecentotrentasei ducati d'oro e nove reali, distribuiti a poveri, a sacerdoti, a frati et a vergini sacre, affinch pregassino Dio per la vittoria, l'altra di seicentomilaquattrocentonovantaquattro scudi, dati secretamente alle spie. Ambidue furono destinati a imprese pericolose e gravi, nelle quali per non si trovarono, perch Scipione fu mandato con suo fratello contro Antioco, con cui militava Annibale, ma per la malattia non si trov nella giornata. Consalvo fu, doppo la rotta di Ravenna, eletto capitano contra Francesi, ma mancato, per l'alteratione delle cose, il bisogno dell'opera sua, non si part di Spagna. Quello s'acquist il favor del popolo con una certa simulatione di piet, e di nascimento divino. Questo con l'ossequio e la servit fatta in grandi e molte occasioni alla reina. Quello fu portato innanzi pi dal popolo, che dal Senato, questo pi dalla reina, che dal re Cattolico. Ambidue furono travagliati dall'invidia e mal pagati dei lor servitii, quello dal popolo di Roma, questo dal re Ferdinando. Onde ambidue si ritirarono, quello dalla patria a Linterno, questo dalla corte a Lossa ove morirono. Ambidue furono molto magnanimi in lodare et in commendare il valore altrui. Perch Scipione fece sempre conto di L. Martio, e di Lelio e d'altri e Consalvo di Prospero e di Fabritio Colonna, e di diversi capitani. Quello avendo l'animo volto all'impresa di Cartagine, tir nella divotion sua e dei Romani Siface e Massinissa. Questo vedendo la guerra, imminente da' Francesi, trasse a servitii delli re cattolici i Colonnesi e gli Ursini. Quello si acquist il sopranome di Africano, questo di Gran Capitano. A l'uno et a l'altro conveniva quel, che Cirone conte di Orugnia disse di Consalvo, ci che gli pareva molto simile a una gran nave da carico, la qual per solcar il mare, ha bisogno d'un altissimo fondo, altramente conviene che si fermi e stia otiosa. E di Scipione dice Livio, vir memorabilis: bellicis tamen, quam pacis artibus memorabilior prima pars vitae, quam postrema fuit: quia in iuventute bella assidue gesta: cum senecta res quoque defloruere, nec proebita est materia ingegno. Ambidue ebbero alcuni giorni gloriosissimi: Scipione, quando di Spagna ritorn vittorioso a Roma, quando trionf d'Annibale, quando si men dietro il popolo romano per li tempii a render gratie alli dei della vittoria avuta in Africa. Consalvo, quando doppo la presa di Ostia, entr vittorioso in Roma e poi in Napoli, quando ritorn in Spagna la prima e la seconda volta, quando vinti i Francesi alla Cerignuola, entr trionfando in Napoli, quando a Savona stette a tavola colli re di Francia e di Spagna. Ebbero ambidue scrittori di gran fama, e particolarmente affettionati a loro, Scipione, Tito Livio, Consalvo, Francesco Guicciardini. Ma venendo alle cose della guerra, che in una comparatione di due cos famosi capitani, si hanno principalmente da considerare, furono ambidue eccellenti nella industria e nel maneggio dell'imprese. Industria di Scipione fu il conciliarsi, sotto spetie di religione, il popolo, il tirare alla divotione de' Romani, Massinissa e Siface e'l guadagnarsi l'affettione dei popoli, con l'aiuto de' quali fabric una armata, e mise insieme un fiorito essercito. Non minor industria fu quella di
Consalvo, in guadagnarsi, con l'ossequio, l'animo della reina Isabella, in tirar i Colonnesi al servitio del suo re, e levar gli Ursini dal servitio di Francia et indurli alla divotione di Spagna et tener quiete, e contente quelle due casate di fattioni tra s contrarie, e piene d'emulatione e di diffidenza. Ma nel maneggiar della guerra Scipione ebbe due vantaggi, l'uno si fu l'autorit suprema, et independente nell'imprese commesseli, l'altra la provisione del denaro, e d'ogni altra cosa necessaria alla guerra. All'incontro Consalvo, per non aver total libert di operare (perch dipendeva dalle commessioni del re) e per mancamento di denari, fu sforzato et a romper la fede al duca di Calabria et a metter mano alle volte alla robba altrui, come fece a Taranto. Et invero i capitani romani non mi sogliono parere tanto degni di lode, e di commendatione per aver vinto guerre grossissime, soggiogato provincie amplissime, menato prigioni a Roma prencipi grandissimi, quanto di biasmo, e di vituperio, se si fossino altramente portati. Con ci sia che avevano dalla republica tutto ci, che si poteva desiderare per l'amministratione dell'imprese, apparato per la persona loro, denari per l'essercito, gente a piedi, et a cavallo disciplinata, et in tanto numero, quanto ricercava l'importanza della guerra: et a ci si aggiungeva una suprema autorit di far tutto ci, che lor paresse conveniente per il servitio della republica. Erano finalmente liberi di ogni pensiero, fuor che di quello, che si appartiene a chi maneggia una impresa. Ma a' tempi nostri, i generali degl'esserciti guerreggiano, per l'ordinario, con commissioni limitate, et a mezo il corso, mancano loro le provisioni, e le paghe. Onde sono sforzati o a tralasciar l'impresa, o a commetter indignit. Nel che gli Ottomani si governano molto meglio, che noi, con ci sia che non si legge, che negli esserciti loro sia mai nato disordine, perch al generale mancasse l'autorit o il denaro, o le provisioni, che si ricercavano per l'impresa impostali. S che in questa parte Scipione ebbe vantaggio sopra Consalvo, onde egli fu anche nelle guerre pi sciolto, e spedito, pronto e libero. E di qua nacque, che Consalvo nelle maggiori imprese seguit una ragione e forma di guerra contraria nonch differente da quella di Scipione. Perch due maniere sono di guerreggiare, e di vincere l'aversario, l'una con l'indugiare, che Livio dice, ora trahere, ora sustinere bellum. Et trahi bellum salubriter, et mature perfici potest, et altrove, Valerius adversus coniunctos iam in Algido, Volscorum, Aequorumque exercitus, sustinuit consilio bellum et Apo Tacito, Tiridates simul fama atque ipso Artabano perculsus, distrahi consiliis, iret contra, an bellum cunctatione tractaret. L'altra con l'operare et assaltare. Perch s come un colpo di spada o di picca o si riceve senza danno in materia arrendevole, e molle, o si ribatte col farsi incontro, cos l'impeto d'un essercito armato e d'una guerra, o si rende vano col tirar la guerra in lungo, e col valersi del beneficio del tempo, o si conduce a fine col cimento d'una giornata. Dell'una e dell'altra maniera si valsero egregiamente i Romani perch, et facere, et pati fortia Romanum est. A' tempi nostri veggiamo queste due parti della militia esser divise in due nationi, cio nella francese e nella spagnuola. Perch lo Spagnuolo guerreggia pi tolerando, che assaltando, et il Francese pi assaltando, che tolerando. Or Scipione, per le ragioni sudette, fu pi pronto e pi spedito nelle sue attioni, Consalvo pi tolerante, e pi patiente, onde quello ruppe i Cartaginesi col venir prontamente alle mani e a' cimenti delle battaglie, questo consum i Francesi prima a Barletta con la toleranza di un lungo assedio, e poi al Garigliano, ove sopportando il disagio di uno asprissimo inverno, e la perpetuit d'una dirottissima pioggia, stando in mezo all'acqua et al fango e necessitando i Francesi, meno atti d'animo, e di corpo a patire le medesime scommodit e travagli, vinse con la sua, la loro patienza. E cos, avendoli afflitti, e ridotti a mal termine, gli assalt finalmente e li mise in fuga, e sforz a cederli Gaeta, e'l libero possesso di un nobilissimo regno. Nelle quali imprese egli mostr una saldissima risolutione d'animo, e di giuditio militare: di giuditio, nella elettione della forma di guereggiare co' Francesi, che fu il mortificare la loro vivacit e romper il lor impeto con la lentezza, e con la toleranza d'animo, col non lasciarsi smuovere dalla risolutione, una volta saviamente presa, n da travaglio n da parole altrui. Al qual proposito non conviene tralasciare quelle memorabili
parole, celebrate dal Guicciardino, e pretermesse dal Giovio, con le quali egli fece risolver tutti a star saldi nell'alloggiamento di Cintura. Perch essendo egli consigliato a voler ritirarsi alquanto indietro, rispose desiderare d'aver pi tosto al presente la sua sepoltura un palmo di terreno pi avanti, che, col ritirarsi indietro poche braccia, allungar la vita cento anni. E invero essendo due gli offitii di un condottiere d'esserciti, e di guerra, il cedere e'l avanzarsi a tempo et a luogo, non fu mai capitano, che in ci mettesse il piede innanzi a Consalvo. Scipione, se ben fu eccellentissimo in ogni parte della militia, non ebbe per per la grandezza della republica e per la prontezza delle forze con le quali entrava nell'imprese, occasione di mostrar quel, ch'egli valesse con la longanimit e con la contatione. Ma l'un a l'altro si port eccellentemente in quell'altre due parti di un capo di guerra, che sono il saper vincere et il saper raccorre frutto della vittoria, se non che, questa seconda parte comparisce non so come meglio nell'imprese di Consalvo, che di Scipione. Con ci sia che Consalvo, con una vittoria, tolse il regno a' Francesi, e con un'altra la speranza di ricoverarlo e tutto ci fece egli in meno di due anni. Ma l'imprese di Scipione andarono pi a lungo, onde non ebbero una certa gratia, che suol recar seco la prestezza, se bene ebbero quella gloria, che porta seco l'importanza della guerra e la grandezza della vittoria. Le vittorie di Consalvo parvero anche pi illustri, e pi gratiose, perch egli le riport d'un nemico stato fin a quell'ora invitto, cio di Francesi, che pochi anni inanzi avevano scorsa senza contrasto tutta Italia, messo il freno alla Toscana, dato leggi al Papa, cacciato gi due volte gli Aragonesi fuor del regno. Ma i Cartaginesi erano stati sconfitti pi volte dalli due Scipioni et ultimamente stati storditi da L. Martio, che lor aveva tolta la vittoria e la provincia di mano. Annibale aveva ricevute molte rotte da Marcello, da Claudio Nerone, e da altri e non era pi quello, che con tanto valore aveva rotto i Romani a Trebbia, a Trasimeno, a Canne. E Livio preferisce la vittoria di M. Marcello a Nola a tutte l'altre vittorie de' Romani in quella guerra. Ingens eo die res, ac nescio, an maxima illo bello gesta sit. Non vinci enim ab Annibale, vincere solito, difficilius fuit, quam postea vincere. Di pi, Scipione combatt per l'ordinario con forze maggiori o pari al nemico, Consalvo, sendo sempre inferiore di forze, rest con l'arte e col valore superiore. Si valse egli per eccellenza dell'arte di campeggiare. Perch alla Cirignuola vinse i nemici con una trincera, a S. Germano si prevalse della strettezza de' passi, al Garigliano dell'asprezza dell'inverno. Mostr veramente Consalvo il modo di difender nobilmente il regno di Napoli. Il re Manfredi, non avendo potuto difender il passo di monte Cassino contra Carlo di Angi, venne con esso lui, contra ogni ragion di guerra, a battaglia nelle contrade di Benevento, e perd col regno, anche la vita. A' tempi nostri il marchese del Vasto, e gli altri capitani di Carlo V, abbandonata la difesa del resto, ridussero ogni ragion di guerra e di difesa nella citt di Napoli, nel cui assedio si consum l'essercito e le forze di una potentissima lega. Il duca d'Alba, nella venuta del duca di Ghisa, pensava di ritirar anch'egli le forze entro le citt, e le piazze forti, e cos lasciar consumare i nemici con la lunghezza degli assedii o co' danni delle espugnationi. Ma mut poi parere per il consiglio di Don Ferrante Gonzaga. Ferdinando d'Aragona non puot far testa a Carlo VIII, n al passo di S. Germano n a Capova, onde mancatali la riputatione e l'autorit, perd in un momento ogni cosa. Carlo d'Angi solo, sentendosi gagliardo di forze, e diffidando degli animi de regnicoli, venne ad affrontare Coradino vicino a Tagliacozzo, e col consiglio del vecchio Alardo, ne rest vincitore. Ma Consalvo, conoscendosi di gran lunga inferiore al nemico di fantaria, e di cavalleria, schif saviamente il risico di una battaglia, ma valendosi ora della strettezza del passo di S. Germano, ora del fiume, e del verno, e del fango e della pioggia, imped a nemici l'entrare nelle viscere del regno, et avendoli tra le pioggie e'l fango consumati e restato lor superiore di animo e di valore, mise, con la rovina di un formidabile essercito, l'ultima mano alla guerra. Nel che egli mostr animo col campeggiare e giudicio col valersi del vantaggio, ora del sito, ora del tempo. Si valeva per egli ancora egregiamente della prestezza nell'occasioni, con ci sia che con questa prese egli vivo Mamphot, mentre egli cercava di
fortificarsi nella terra di Niebla. Con la medesima oppresse i baroni Angioini a Laino, con la medesima ruppe i Francesi sotto Aversa, il medesimo giorno che vi arriv, e lor tolse la commodit de' mulini. E che diremo della espugnatione di Rubi, ch'egli in un giorno cinse di assedio, battette con l'artigliaria, e prese di assalto, et vi fece prigioni un gran numero d'uomini d'arme francesi? Diciamo anche, che sendo due instromenti di un capo di guerra, la eloquenza e la forza, ambidue questi capitani de' quali parliamo, si valsero dell'uno e dell'altro per eccellenza. Ma Consalvo oper con l'eloquenza pi cose, che Scipione. Con ci sia, che con questa, egli ottenne le forti piazze di Mondeiar, Aledino e Mahala, e persuase al re Baudele ad accettar le conditioni offerte dal re Ferdinando et a cederli Granata e'l regno. Con la medesima acquet poi il medesimo regno tumultuante, con la medesima mantenne i soldati in una dura necessit di ogni cosa, mentre ch'egli era da ogni parte assediato de' Francesi in Barletta, e dentro combattuto dalla fame e povert e bisogno di ogni cosa. Ma avendo, sino al presente, discorso della maniera tenuta da loro nel battagliare, e nell'operare, resta che noi compariamo le cose da lor fatte. Primieramente Scipione ebbe questo vantaggio, che milit poco sotto l'imperio altri, perch non veggiamo, che egli si ritrovasse in altre fattioni, che nella scaramuccia, nella quale si dice, ch'egli salv la vita a suo padre, e nella giornata di Canne, doppo la quale egli minacci di morte quelli giovani romani, che trattavano di abbandonar l'Italia. Ma Consalvo guerreggi molto tempo sotto gli auspicii delli re cattolici, e si port di tal maniera, che per le gran prodezze fattevi, fu poi stimato degno di ogni grande impresa. Appresso, Scipione vinse pi battaglie, che Consalvo, perch in Ispagna sconfisse i due Asdrubali, e Mandonio et Indibili, prencipi di Spagna, et in Africa ruppe Annone, Asdrubale, Siface, Annibale, ma Consalvo prese pi citt, e piazze di guerra, che Scipione, parte in Spagna, parte in Italia, parte per assedio, come Taranto, parte per forza, come la Cefalonia, ove egli mostr non minor valore, che gi mostrasse M. Fulvio, che spese quattro mesi nell'espugnatione della medesima citt. E ne fu perci stimato degno del trionfo. Et invero Scipione non prese piazza, che, per fortezza di sito e di mano, si possa paragonar a Gaeta, n citt per grandezza o per magnificenza comparabile con Napoli. E s'egli prese Cartagena in un giorno, in un giorno anche Consalvo prese Rubi. Mi domander qui alcuno, qual sia opera maggiore di guerra, il prender una piazza forte, o il rompere un essercito? Par che sia maggior cosa l'espugnar una piazza: prima, perch l'inimico meglio armato, onde procede la lunghezza degli assedii, e la durezza delle oppugnationi. Di pi, nelle oppugnationi si combatte il pi delle volte non solo con gli uomini, e con le forze umane, come nelle giornate campali, ma con la asprezza de' siti, e con la natura istessa. Vi si guerreggia sopra, e sotto terra, contra quelli di dentro et i soccorsi, che lor vengono di fuora. Di pi, tra tutte le fattioni di guerra, la pi terribile e pi orribile si il dar un assalto, perch ivi si combatte contra nemici armati non pur di artigliaria, e di schioppi, di picche e di spade, ma di fuochi lavorati, e di calcine vive, e di trementine, e d'oglio ardente, e di ogni altra sorte di offesa, e l'artigliaria, che in campagna s'adopera poco, e rare volte vi fa danno d'importanza, vi si maneggia con terribilit tale, che una fortezza in quel caso, pare un Mongibello, anzi un inferno. Onde molti capitani prontissimi a menar le mani in una campagna, o si sono astenuti o non sono riusciti nelle oppugnationi. E gli Svizzeri nelle condotte loro, non vogliono obligo d'andare all'assalto. Ma quel, che importa assaissimo, noi sappiamo, che molte giornate si sono date per soccorrere qualche piazza assediata, o per impedir il soccorso, come ne fan fede le giornate di Pavia, e di Cerisole. Ne' quali luoghi gli imperiali, et i Francesi vennero a giornata, gli uni per soccorrere l Pavia, e qua Carignano, e gl'altri per continuar l'assedio, e per impadronirsene. Ma diciamo pure, che maggior opera di un capitano il vincer una giornata, che l'espugnar una piazza. Prima perch le vere forze della guerra consistono nelle braccia de' soldati, non nelle fosse e mura delle citt. Appresso, nell'oppugnationi la cosa passa tra forze dispari, perch chiara cosa che chi oppugna va con vantaggio all'impresa e quelli di dentro hanno per fine la difesa, e quei di fuora l'offesa, ma nelle giornate campali,
Agmina concurrunt animisque et viribus aequis. E l'una e l'altra parte sta su l'offesa. Nell'oppugnationi, il capitano ha pi tempo di consultar le cose, e di essequirle, vi ha pi luogo la ragione e l'arte. Ma nelle giornate ogni cosa improvisa, e soggetta a mille accidenti, et a mille casi impensati. Onde vi bisogna e senno et animo maggiore. Ivi ha pi luogo la fatica, qua la virt, l la zappa, qua la spada, l le braccia, qua le mani, l il beneficio del tempo, qua il vigor dell'animo. Quella opera pi dura, e travagliosa, questa pi difficile e pi pericolosa. Onde i Romani dicevano debellare, cio finir guerra, il vincere una giornata reale, e noi communemente chiamamo le giornate con nomi universale di battaglie e di fatti d'arme; e se alle volte si cimenta una giornata per soccorrere una piazza, o per impedir cos fatto soccorso, ci non perch si stimi pi una piazza, che un fatto d'arme vinto, ma perch si fa pi conto d'una piazza, e d'una vittoria campale insieme, che d'una piazza sola. Imper che chi si mette a combattere, confida, e di vincere l'inimico in campagna, e di salvare o d'espugnare la piazza. Non nego per, che alle volte non sia di molto maggior consequenza l'espugnatione d'una fortezza, che la vittoria d'una giornata. Ma noi discorriamo delle giornate reali, e delle espugnationi delle citt in generale, e data la parit delle cose, perch non ogni vittoria campale si deve preferire all'espugnatione di ogni fortezza. Con ci sia cosa che, n a Scipione fu di maggior gloria il vincer Mandonio, che l'espugnar Cartagena, n Cesare mostr maggior valore in vincer i Galli in campagna, che in prender d'assalto la terra di Avarico. Et a' tempi nostri, non si fatta cosa, spettante alla guerra, che si debba preferire alla presa d'Anversa. Anzi, perch in questa et la guerra si ridotta dalla campagna alle mura, e dalla spada alla zappa, e l'arte di fortificare un luogo arrivata a quel grado, che si possa maggiore e perch i prencipi, per fortificare, e per proveder di monitioni e di presidii ogni luoghetto, restando deboli in campagna, o non vengono a giornata, o vi vengono debilmente; quinci avviene, che oggi l'espugnar una piazza stimata cosa di pi importanza, che mai. Ma ci nasce non perch l'espugnar una fortezza sia cosa maggiore, che il vincer un fatto di arme, ma perch i prencipi collocano pi studio e pi potere in munir una fortezza, che in far una giornata. Il che per procede perch non avendo forze, con le quali sperino di vincer l'inimico in campagna, l'hanno per tali, che si fidano di poterlo consumare sotto le mura d'una citt, ben munita e ben presidiata. Restano ora da considerare gli effetti dell'uno e dell'altro, che son questi. Scipione cacci fuori della Spagna Ulteriore i Cartaginesi, vinse i medesimi Cartaginesi, et il re Siface, e quel che importa pi di ogni altra cosa, Annibale. Onde segu la liberatione dell'Italia. Consalvo ebbe l'onore dell'acquisto di Granata, cacci i Turchi della Cefalonia, et i Francesi del regno di Napoli. Ne' quali fatti, par che Consalvo abbia due vantaggi sopra Scipione, l'uno si , che Scipione combatt (come abbiamo tocco di sopra) coi Cartaginesi gi stracchi, e quasi rotti da altri capitani. Perch in Spagna erano stati mal condotti dal padre e dal zio di esso Scipione, e poi storditi, e mal menati da L. Martio (la cui prodezza in rimetter su le cose et vincere con le relliquie de' vinti, i vincitori et in un giorno romperli due volte, con l'espugnatione degli alloggiamenti, mi par meritevole di esser antiposta alle prodezze de' pi illustri capitani) et Annibale era gi stato rotto da Marcello, da Claudio Nerone, e da Sempronio. Ma Consalvo vinse i Francesi fin allora invitti. Di pi, gli acquisti di Scipione non si possono paragonar con quelli di Consalvo, n per grandezza, perch Scipione non acquist cosa comparabile col regno di Napoli, n per diuturnit (perch gli Spagnuoli si rivoltarono subito dopo la partenza di Scipione contra Romani) ma il regno di Napoli fu talmente soggiogato da Consalvo, che il possesso ne restato quietissimo alli re cattolici fin ai tempi nostri. N si pu dire che Scipione liberasse l'Italia da Annibale, se non vogliamo dar il nome d'Italia ad alcuni pochi castelli di Calabria, che li restavano. Concludiamo dunque, che Scipione su assolutamente maggior capitano di Consalvo, perch vinse pi giornate campali, combatt con nemici pi potenti, con esserciti pi numerosi, con capitani pi illustri, e pi famosi, e sopra tutto perch sconfisse Annibale e pose fine a una lunghissima e
pericolosissima guerra. Ma Consalvo avanza Scipione, perch con forze sempre inferiori, rest superiore a' nimici, e prima acquist e poi conserv un regno amplissimo alli re cattolici, e l'ordin, e dispose talmente, che la corona di Spagna non ha cosa di pi quieto e pi pacifico possesso. Quanto poi alla forma del guerreggiare, se noi vogliamo discorrere fondatamente, par maggior Consalvo, che Scipione, perch s'opponendo, che la prudenza sia uguale in colui, che guerreggia assaltando (che fu la forma di Scipione) che in colui, che si vale della contatione (come fece Consalvo) par che la costanza di chi temporeggia e sostiene un nemico superiore di forze, sia maggior virt, che l'animosit di chi assalta un inferiore, o anche ugual di forze. E senza dubio che con questa maniera di guerreggiare, Q. Fabio Massimo riusc maggior capitano di quanti n'avesse la republica romana nella guerra punica. Onde Sempronio Tuditano l'elesse prencipe del Senato, quem tum principem Romanae civitatis esse, vel Annibale iudice victurus esset et in un altro luogo, non vinci enim, (dice Livio) ad Annibale vincere solito, difficilius fuit, quam postea vincere. Et Aristotile insegna che il sostenere pi nobil atto della fortezza, che l'assaltare, e Salomone ne' proverbii, melior est patiens viro forti. Il fine delle eccellenze degli antichi capitani.
[Della agilit delle forze del principe] [Libro I] [Introduzione] DELLA AGILIT DELLE FORZE DEL PRENCIPE. LIBRI DUE DI GIOVANNI BOTERO SENESE all'Illustrissino signor DON DIEGO FERNANDEZ di Cabrera e Bodabiglia, conte di Cincione, Signore de' Sesmi, di Valdemoro, e di Caffaruuii. etc.
Egli cosa chiara, che gli Stati sogliono con l'ampiezza de' confini, divenir se non fiacchi, e deboli, certo tardi e lenti nelle imprese e ne' moti loro. E la ragione si , perch la forza, dianzi raccolta, et unita, per l'ordinario si dissipa, et a guisa di un fiume in pi ruscelli corrivato, si disperde. Onde ne segue lentezza di moto. Si aggiunge a ci, che gli animi de' prencipi con la dilatatione del dominio o divengono neghittosi e molli, per le delitie, o deboli e fiacchi per la gravezza e peso, che suol portar seco il reggimento e la cura delli Stati. Onde Livio in un luogo dice, che la republica romana penava sotto il carico della propria grandezza, et in un altro, adeo in quae laboramus, sola crevimus, divitias luxuriamque. Onde non cosa alcuna, nella quale un prencipe debba porre cura, e studio maggiore che in mantenere le sue forze agili e destre, spedite, e pronte per li bisogni. Il che avendo io, alli d passati, trattato nella presente operetta, l'ho voluta onorare con nome di Vostra Signoria Illustrissima, come di quella, che in cotesto eccelso Consiglio di Stato di sua Maest, mostra in ogni affare e di pace e di guerra non minor intelligenza e capacit che prontezza et efficacia d'ingegno e d'animo risoluto. Sia Vostra Signoria Illustrissima servita d'accettare questo picciol segno della molta divotion mia verso lei in quel grado, che l'umanit sua singolare mi promette. Dell'importanza dell'agilit delle forze. Nelle forze di un prencipe, si ricercano quattro conditioni: cio, che siano proprie, numerose, valorose, et agili, delle quali noi abbiamo altrove dichiarate le tre prime: ora siamo per esporre la necessit, e le cagioni della quarta, cio dell'agilit, senza il cui concorso, l'altre non possono recar molto giovamento all'imprese. Perch, s come in un soldato di maggiore importanza l'agilit, che la robustezza, cos anche in un essercito (che non altro, che moltitudine di soldati uniti insieme) pi desiderabile, ch'egli sia spedito, che grosso. Il famoso Epaminonda, volendosi nella sua adolescenza render abile alla guerra, non procurava tanto di acquistar gagliardezza, quanto velocit: perch stimava che quella convenisse pi ai lottatori, che a' soldati. Et Omero attribuisce per tutto al suo Achille prestrezza di piedi, e Papirio, che fu il primo soldato de' suoi tempi, fu anche il pi agile e'l pi disposto. E perci ebbe il sopra nome di cursore, e la ragione si , perch la velocit necessaria in pi cose, che la gagliardezza, e chi agile anche gagliardo, ma non a rincontro. E noi veggiamo, che tra gli animali i pi guerrieri e bravi non sono i pi robusti, e forti, come il cammello, il bue, l'elefante, il gufo, la balena, mai pi snelli e pi disposti, come il pardo, la tigre, il leone, l'aquila, il delfino, e tra gli elementi va del pari la leggierezza con l'efficacia. Onde il fuoco, ch' di natura potentissimo, anche leggierissimo. Motezuma, re della Nuova Spagna, institu alcuni ordini di cavaglieri, e per mostrar, di che qualit voleva egli che fossino, li distinse co' nomi di leoni e d'aquile, e di pardi, animali tutti agili, e destri. Or questa medesima agilit non di minor importanza in tutto un essercito, che in un soldato particolare, perch la celerit che nell'imprese di tanta importanza, che rese grande Alessandro, che diede tante vittorie a Cesare, dipende dall'agilit delle sue forze.
Or questa si considera parte innanzi al moto, parte nel moto, e nell'impresa innanzi al moto si ricerca prima agilit nel prencipe. Dell'agilit del prencipe e capo dell'impresa. Si ricercano per l'agilit del prencipe tre conditioni, cio unit, independenza, risolutione; la unit, perch molti capi non possono dar moto a una impresa, se non concorrendo in un parere, perci ove si trova unit, senza che vi sia bisogno di un concorso tale, si avanzato viaggio e tempo. Onde, Dio ha fabricato un primo mobile, da cui procede ogni moto, un sole, onde deriva ogni lume, un oceano dalla cui ampiezza nascono tutti i fonti, et i fiumi, et i laghi, et Omero volendo dimostrare che la pluralit de' prencipi d'impedimento all'operare, concluse con dir esser bene, che vi sia un solo re. I Longobardi, che con un corso maraviglioso di vittorie avevano soggiogato, sotto li re loro, la pi parte dell'Italia, detestando poi, per la crudelt di Clesi, il nome di re, compartirono gli acquisti fatti a trenta duchi della natione. Questa moltitudine di capi cagion, ch'essi non occupassino tutta Italia, non prendessino mai Roma, n Ravenna, e non passassino mai oltra alle citt di Benevento, di Napoli, e di Manfredonia. Perch la virt, che, prima unita sotto un capo, era efficacissima, dispersa poi in tanti capi, riusc debolissima, a punto come avverrebbe a un fiume, che mentre corre intiero e con tutta l'acqua racconta in un letto, fa con grandissimo impeto il suo corso, e spaventa le citt, bench benissimo murate, ma se si divide in pi parti, (come il re Ciro divise gi l'Eufrate) perde la forza, et passato arditamente a guazzo da ogniuno. Ma non basta questo, se il capo non independente, perch noi vediamo molta lentezza nell'imperatore e nel re di Polonia, et in altri prencipi, conditionati, perch la loro auttorit e possanza dipende in Germania dalle diete, et in Polonia dai comitii, la qual dipendenza ritarda in pi maniere l'imprese, perch, prima, se ben il bisogno urgente, e l'occasione in pronto, essi non si possono muovere, se prima non si convoca la dieta, nel che va una parte dell'anno. Appresso, doppo che la dieta gi ragunata, bisogna spenderne una altra parte in renderla capace del bisogno, et in ridurla a dar l'aiuto, che si desidera o a concorrere all'impresa, che si disegna, e per ordinario, concedono meno di quel, che si vuole e l'esequiscono come cosa, che lor poco appartenga. Onde veggiamo, che gli aiuti promessi a Ferdinando, a Massimigliano et a Rodolfo imperatori, sono per lo pi stati piccioli e deboli e sempre lenti, e di poca efficacia. Ma non basta, che il prencipe sia uno et independente: egli oltra di ci necessario, che sia risoluto, perch sono alcuni, i quali, o per desiderio di schivare nelle loro deliberationi tutte le difficolt, che si presentano all'intelletto (cosa impossibile, perch s come non si trova rosa senza spine, cos non si pu imaginar negotio senza travaglio e Pindaro dice, che a un bene sono due mali aggiunti) o perch manca loro l'animo e l'ardire di farsi incontro e di superare i contrasti, e le oppositioni, non si risolvono mai, n mai finiscono di ragunar consiglieri e di consultare. Bisogna che chi si consiglia, presupponga di non poter schivar tutti gli inconvenienti, e che avendo i tre quinti di quel, che si ricerca a una impresa, a suo favore, entri arditamente in quella e tenga per fermo, che il moltiplicar le consulte non altro, che un gittar via il tempo et un lasciarsi uscir fuor delle mani l'occasione. Tucidide loda Pericle, perch con una brevissima consulta ogni grave affare espediva. Augusto Cesare, volendo commendar singolarmente Tiberio Cesare, ch'egli designava di lasciar suo successore nell'imperio, disse, ch'egli era uomo, che non aveva mai messo due volte in consulta una cosa. Et i Cartaginesi non punivano i lor capitani, perch avessino perduta la giornata, ma ben perch si fossero messi con malfondata ragione a far giornata, e per l'ordinario avviene, che chi irresoluto nella consultatione, entra debilmente nell'impresa e per ogni difficolt, ch'egli incorra, o si turba o si arresta o si ritira. Sono molto notabili le parole, con le quali Tacito dimostra la
irresolutione di Fabio Valente et il mal che ne segu, ipse inutili cunctatione agendi tempora consultando consumpsit, mox utrumque consilium aspernatus, quod inter ancipitia deterrimum est, dum media sequitur, nec ausus est satis, nec providit. Onde, perch nelle consulte si ricerca non manco vigor d'animo, che lume d'intelletto, s come non mi piacciono i consiglieri molto giovani, cos n anco mi sodisfanno i molto vecchi; perch in quelli manca l'antivedimento et in questi l'ardimento. S che da quelli procederanno consigli troppo animosi et veementi e da questi troppo timidi o irresoluti. Come fu quel che il conte Pietro Ernesto, uomo ottogenario diede all'arciduca Alberto, in materia di soccorrere Amiens, surdae ad sortia consilia Vitellio aures et altrove pavidis consilia in incerto sunt. Ottimi consiglieri saranno quelli, a' quali la lunga et aver affinato la prudenza, et il giudicio, senza scemar loro l'animo e'l valore. Dell'agilit della gente. La gente, acci che sia agile, convien che sia unita, e l'unione d'obligo, o di luogo; unione di obligo in quella gente, che tu mantieni pronta ai tuoi comandamenti con un intertenimento perpetuo. Ma l'intertenimento , o di possessioni, con li cui frutti i soldati vivono, e si tengono provisti di arme, e di tutto ci, che lor bisogna per la guerra, o di provisione corrente in denari o in altra cosa tale. I Turchi mantengono la cavallaria co' timarri, che sono tenute di terreni, occupati con l'arme, che il prencipe assegna a questo et a quello con l'obligo di tener uno o pi cavalli per li bisogni della guerra, e nel medesimo modo il re di Persia mantiene un grosso numero di cavalleria, et in parte anche il Seriffo. Li re di Narsinga e di Giappone e di Siam sono ancor essi padroni de' fondi, e de' terreni degli Stati loro, ma non assegnano timarri ai soldati particolari, ma ai prencipi, e a' capitani grandi, con obligo di mantener chi pi, e chi meno gente. S che in Turchia i soldati particolari dipendono immediatamente dal prencipe, ma nei paesi sudetti, mediatamente, perch sono intertenuti da questo o da quel signore, che ha avuto il timarro dal prencipe et in Turchia non si trova alcuno, che abbia timarro tanto grande, che co' frutti possa mantenere moltitudine notabile di cavalli, ma negli altri paesi si danno le provincie intiere a usofrutto, s che in Siam vi tal capitano, che tirer sin a un million d'oro all'anno, col quale egli intertiene per servitio del re migliaia di cavalli e di fanti. Or perch i provisionati e dipendono immediatamente dal Gran Turco e non hanno tenute di terreni molto grandi, quindi nasce, che sono pi obedienti e pi soggetti a lor prencipe e pi pronti e presti ne' bisogni. Ne' regni della cristianit hanno somiglianza co' timarri le commende dei Cavaglieri di Malta e di altri ordini militari; l'hanno anche i feudi, se non che questi sono perpetui e con ragione ereditaria et i timarri a vita, o a beneplacito del prencipe; di pi i feudatarii non sono ordinariamente obligati a militare a spese loro, se non per difesa dello Stato e per un certo tempo, ma i timariotti hanno obligo di comparire, e di marciare cos per l'offesa, come per la difesa onde avviene, che per l'essercitio continuo, siano pi pratichi della guerra e pi bellicosi. L'altra sorte d'intertenimento, si la provisione corrente; e questa o in denari, o in vettovaglie, o parte in quelli, parte in queste, come sotto il Seriffo e sotto il re di Svetia; e di queste due sorti d'intertenimento, quella de' timarri di manco travaglio al prencipe, perch egli non d cosa, che li esca della borsa, ma quella del denaro pi spedita, e pi agile, per la guerra e per ogni altra occasione. Ma, che numero di gente si ha da tenere? Per decider questo punto, diciamo, che l'arme possono avere due fini, l'un giusto, e legitimo, che la difesa e la conservatione del suo, e la pace de' sudditi; l'altro ambitioso, e barbaro, che la grandezza dell'imperio e la possanza. Per il primo fine, non ci bisognano forze infinite, ma ben per il secondo, perci che uno per difesa del suo, val dieci, e per occupar l'altrui, dieci appena vagliono uno. Ma per parlar un poco pi distintamente, diciamo, che de' prencipi altri sono armati pi a offesa, che a difesa, e pi per acquisto dell'altrui, che per guardia del suo, e questi non solo tengono buoni presidii nelle fortezze, ma ancora grossi esserciti nella campagna. Tale il Turco, che tiene pi di centomila cavalli provisionati per lo Stato, e pi di
dodici o quatordecimila fanti presso alla persona sua, con le quali forze egli pi armato in tempo di pace che molti altri prencipi, che confinano con lui, in tempo di guerra. Si pu disputare, qual sia meglio intertenere, la cavalleria o la fanteria? Per agilit meglio intertenere la cavalleria, perch non si pu mettere cos facilmente un uomo a cavallo, come un fante. Imper che questo non ha da condurre alla guerra altro, che se stesso armato, ma quello, oltra alla persona sua, ha da trovar uno o pi cavalli (uno, s'egli ha da servir per cavalleggiero, pi, se per uomo d'arme) e ci sar anche pi difficile nei paesi, che non hanno razza di cavalli bellicosi e grossi. Altri prencipi sono armati pi per difesa, che per offesa, e questi tengono i loro forti convenientemente provisti et presidiati con una militia di lor sudditi descritta e capitanata, con la quale sperano di poter, in un bisogno, e rinforzare i presidii e metter gente in campagna. Altri sono armati e per difesa e per offesa; ma mediocremente, questi tengono e presidii nelle fortezze e militia descritta nelli Stati loro, come i secondi et oltra a ci essi mantengono non gi esserciti formati come i primi, ma alcune migliaia di soldati in campagna, parte a piedi, parte a cavallo, che servono loro nelle occorrenze, come di nervo e di fondamento di militia. A tutte queste tre sorti di prencipi armati cosa commune l'avere oltra ai lor sudditi, prencipi o popoli stranieri obligati al lor servitio nella guerra per obligo o di confederatione, come il re di Francia dagli Svizzeri, o di dipendenza, come il Turco i Tartari o di vassallaggio, come il medesimo i Valacchi, et i Moldavi. I prencipi, e le republiche, che non tengono militia pagata di nissuna sorte, n ordinanza stabilita, egli necessario, gi che non possono n offendere altri, n difender se stessi, che vivano nella divotione e sotto l'ombra altrui, onde mancando loro l'independenza, non possono aver l'agilit. Or quel prencipe sar, quanto alla gente, pi presto e pronto, che n'aver a maggior numero, cos a cavallo come a piedi, provisionato: perch la gente pagata sar sempre pi agile e pi spedita dell'altra; prima, perch per il soldo, che le corre, ella obligata a marciare, appresso, perch, per il medesimo soldo, ella in ordine di arme e di tutto ci che le bisogna; finalmente, perch questa, al paragone di quella, che si far di nuovo, sar quasi veterana, e perci meglio disposta d'animo, e di corpo. L'altra unione, che si ricerca per l'agilit, quella del luogo. Perch quanto una cosa pi unita, tanto col rinforzo della sua virt, pi partecipa dell'agilit. Or non basta che la tua militia sia unita con l'obligo, che ella ha di servire alla guerra, per gli emolumenti, che a questo fine tira in pace: bisogna che oltra a ci sia anche unita di luogo, perch, s'ella sar sparsa per il paese, e parte in una provincia, parte in un'altra, malamente si potr nelle occasioni muovere, e concorrere ove il bisogno richieder. Ma qui entriamo in una quasi inestricabile difficolt, perch, mentre vogliamo aiutare l'agilit, con ragunare i soldati in un luogo, mettiamo in pericolo l'obedienza, che il fondamento dell'agilit. Con ci sia che non possibile alla prudenza umana il tener in un luogo moltitudine di soldati lungamente, senza tumulto. Fanno fede di ci i soldati pretoriani in Roma, i quali, mentre alloggiarono sparsamente sotto Augusto, non si sa che facessino mai romore, ma doppo che Seiano, vim praefecturae modicam antea, intendit, dispersas per urbem cohortes una in castra conducendo, ut simul imperia acciperent, numeroque et robore, et visu inter se fiducia ipsis, in caeteros metus crederetur, divennero tanto insolenti, che ne atterrarono l'auttorit del Senato, e misero all'incanto l'imperio, si arrogarono l'elettione del prencipe, e la somma delle cose. Confermano il medesimo le seditioni cos spesse degli esserciti sotto Tiberio, e di mano in mano sotto gli altri imperatori. Ma non cosa, onde si possa meglio comprendere quel, che noi diciamo, che la militia turchesca. Perch la cavalleria, per esser sparsa qua e l per quell'imperio, non ha mai (che si sappia) tumultuato: longis spatiis (dice Tacito) discreti exercitus, quod saluberrimum est ad continendam militarem fidem, nec vitiis, nec viribus miscebantur. Ma la fanteria de' giannizzeri, perch sta
insieme in Constantinopoli, fa tutto il d romore, mette la citt in confusione, e'l prencipe in travaglio, e non si muove senza grossi donativi. Le cagioni di ci sono diverse: prima la natura del soldato licentiosa, inquieta, pronta all'ira, et al male. Appresso l'otio fomentatore di ogni male, il vedersi poi insieme accresce lor l'animo, e la confidanza. Onde fu cosa meravigliosissima la militia romana, perch Roma era seminario inesausto di uomini guerrieri, et insieme una scuola di pace, e non fu mai citt, ove fossero soldati in maggior numero, e di altro tanto valore, n pi quieti, e modesti. Et fortissimus in ipso discrimine est vir, qui ante discrimen quietissimus. Il che procedeva da pi cagioni. L'una si era l'occupationi domestiche, e l'altra le publiche, perch fra gli interessi, e gli affari privati, e civili non aveva luogo l'otio, corruttore de' buoni costumi. Importava anche assai l'abito, perch alla guerra portavano il saio, et a casa la toga. Onde, s come col saio in dosso, diventavano tutti altieri, et arditi, cos ripigliando la toga, si vestivano di umanit, di piacevolezza e di modestia, et si verificava in loro quel, che dice Aristotile dell'uomo forte, che egli sia efficace nell'opera, et piacevole fuor dell'opera. Erano nella guerra buoni soldati, et a casa buoni cittadini, cose che rare volte si accoppiano, onde non fu mai prencipe, che avesse forze maggiori in un luogo, e con pi quiete, che i Romani. Con ci sia che l'anno di Roma quattrocentesimosesto, per non allegar altri essempi, decem legiones scriptae dicuntur quaternum millium et ducentorum peditum, equitum trecentorum. Quem nunc novum exercitum, (soggiunge Livio) si qua externa vis ingruat, hae vires populi Romani quas vix terrarum capit orbis contractae in unum, haud facile efficient. Per seicento anni non misero, nelle dissensioni loro, mai mano all'arme; n si sparse sangue civile, sin a tanto, che la grandezza dell'imperio corruppe la modestia de' costumi. Che si ha dunque da fare? L'unione de' soldati in un luogo giova all'agilit, ma partorisce abbottinamenti, e scandoli; la dispersione utile per la pace, e quiete loro, ma poco giovevole all'agilit, che noi cerchiamo. Non mi piace, che si tenghino affatto uniti, perch cos fatta unione non pu lungo tempo stare con la pace, e con l'obedienza; e mi par migliore il modo, col qual il Turco governa la sua cavalleria, che quello, col quale tiene la fanteria. Si terranno dunque divisi, o ciascuno a casa sua (nel qual modo reggono la lor militia i prencipi d'Italia) o distribuiti per le terre, e per li villaggi, (come il re Cattolico tiene li suoi terzi di fanteria, e gli uomini d'arme per il regno di Napoli) o in altra simile maniera, per la quale stando compartiti in pi luoghi, non sia lor facile il sollevarsi, et il far congiurie universali. Nel che per bisogna governarsi in modo, che ne' paesi di acquisto una parte della militia stia nelle piazze forti: acci che n si gravino immoderatamente i popoli, n si dia loro occasione di far vespri siciliani. Sarebbe cosa desiderabile, che il paese, ove si ha da mantenere cos fatta militia, fosse di figura o tonda, o vicina al tondo, acci che si potessero pi facilmente ridurre ove bisognasse, e se fosse anche piano, e con fiumi navigabili, sarebbe tanto pi a proposito per la commodit, che egli recarebbe alla condotta degli uomini, et delle vettovaglie, come la maggior parte della Francia e de' Paesi Bassi, e dell'Alemagna e dell'Ongheria, e come la Lombardia nell'Italia. I paesi piani, poi, essendo universalmente anche abbondanti, e fertili, possono pi agevolmente pascer grosso numero d'uomini, e di cavalli, e provederli di tutto ci, che lor fa di mestieri. Delle munitioni Munitioni chiamo tutto ci che pu servir alla guerra: arme da offesa, e da difesa, polvere, palle, corde, ponti, scale, barche, catene, botti, ruote, e simili altre cose, delle quali bisogna aver copia in pronto; perch l'aspettar a farne provisione quando tempo di operarle, non ci riuscir, et i bisogni della guerra sono tanti, che con tutta la diligenza, che si user in farne massa, e monitione, sempre ne mancher qualche cosa. A questo effetto alcuni prencipi tengono arsenali, ove riducono ogni sorte di materia, che pu esser di servitio nella guerra, cos maritima, come terrestre, e ne fanno continuamente fabricar ogni sorte
d'instrumenti militari, o ripulire i gi fatti, o racconciar i guasti. Onde avviene, che nelle occasioni, avendo ogni cosa necessaria per l'impresa in un luogo, mettono, in pochi giorni, grossissime armate in acqua, e proveggono gli esserciti terrestri di ogni cosa necessaria per marciare, per passar fiumi, per batter citt, e per tutto ci, che pu avvenire a chi guerreggia. Tal era l'arsenal degli Ateniesi a porto Leone, tal quel delli re di Egitto in Alessandria, dei Dionigi in Siracosa, i quali prencipi, col beneficio di s fatti luoghi, mettevano in mare armate di ducento e pi vele in manco mesi, che non far un re di Europa in anni. Gli Atteniesi misero alle volte in acqua armate di ducento galere, come nella guerra di Xerse, e di ducentocinquanta legni, come nella peloponnesiaca. Tolomeo Filadelfo ebbe nel suo arsenale due vasselli di trenta ordini di remi, uno di venti, quattro di tredici, due di dodeci, quattordici di undeci, altri di nove, di sette, di sei, di cinque, senza i men capaci. Et Antonio cav dall'istesso arsenale quelle ducento navi, che, per la loro altezza, parevano castelli, con le quali egli s'affront con Ottavio Cesare. Dionigio ebbe nel tempo, che gli si mosse contra Dione, cinquecento legni da remo. Sono oggi nella cristianit due arsenali memorabili, uno quel di Venetia, e l'altro quel del duca di Sassonia in Dresdra. Il primo avanza ogni altro nell'apparato cos navale, come terrestre; ma il secondo non gli cede di molto, n in numero d'artegliarie e di palle, n in niuna altra cosa buona per la guerra terrestre. A imitatione di quel di Venetia, Maumetto secondo re de' Turchi, ne fece uno in Constantinopoli, col cui aiuto egli, et i successori suoi non hanno stimato, n stimano pi l'armate cristiane. Et invero, non essendo cosa nissuna pi necessaria, o per far la guerra, o per assicurar la pace, che lo star armato, deve ogni prencipe aver un luogo, ove come in un magazino da guerra, faccia massa, e munitione di tutto ci, che si ricerca alla militia. Acci che nel bisogno l'abbia a mano, et in pronto. Ma chi non ha commodit di fondar e di metter in ordine arsenale, deve almeno procurare che il suo Stato, o la sua citt regia abbondi d'ogni materia, e d'ogni maestranza per tal effetto: affinch quel, che manca al publico, sia, nelle occorrenze, supplito dai particolari. Tali sono in Italia le citt di Milano, e di Napoli, ove tanta quantit di materia, tanta moltitudine d'artefici d'ogni sorte, che vi si pu, in pochi giorni, metter in ordine ogni grossissimo essercito. Io ho visto molti uomini di giudicio e di valore meravigliarsi della prestezza, con la qual i Romani misero insieme nella prima guerra punica quelle loro cos grosse armate. Perch essi in due mesi, doppo che fu tagliato il legname, finirono di fabricare e misero in acqua cento, et alcuni anni doppo fecero et armarono in pochissimo tempo ducento quinqueremi. E Publio Scipione, in quarantacinque d, mise in punto venti quinqueremi, e dieci quadriremi, s che, se par cosa mirabile che, nell'arsenal di Venetia, ove si trova ogni cosa apparecchiata et provista, si vegga formare una galera in un giorno, quanto deve parer pi mirabile il far due galere al d, anzi due quinqueremi senza precedente apparecchio? Ma non ci dobbiamo meravigliare tanto dell'effetto, quanto dell'animo de' Romani, n tanto, che facessero cos grosse armate, in s poco tempo, quanto che si risolvessino di farle, perch alla risoluttione corrispondeva poi il potere. Con ci sia cosa che abbondando essi di legname infinito et impiegando in lavorarlo tutti gli artefici et maestri dello Stato, potevano fabricar in breve tempo ogni grande armata. Imper che, se con cento artefici, tu fai dieci galere in un mese, ne farai cento con mille, e ducento con duemila. Con ci sia che alla moltiplicatione dell'opere corrisponder sempre la prestezza dell'operare. I Cartaginesi, essendo nella terza guerra punica stata loro arsa da Romani l'armata, e poi chiusa anche la bocca del porto, fecero in un tratto (ponendovi tutto il popolo in opera) un nuovo porto, et una armata di cinquanta legni grossi, (oltra ai piccoli) de' legni vecchi, e guasti, che erano per la citt, et mancando loro il canape, et il lino, si valsero de' capelli delle donne. Giulio Cesare fabric in dieci giorni un ponte sul Reno, et in tre inverni mise in punto tre armate, una contra i Veneti, e due contra i Britanni et l'ultima fu di seicento navi, oltra a ventiotto altri legni da remo. E mi meraviglio di quel, che Polibio dice, che i Romani al suo tempo non averebbono potuto mettere in mare armate cos grosse, come avevano messo nella prima guerra contra Cartaginesi, perch, come si pu credere, che da potenza maggiore non si potessino aspettar effetti almeno uguali a quelli, che essa produceva mentre era
minore? E pur Pompeo nella impresa contra Corsali, pose con molta celerit cinquecento legni grossi in ordine, con cento ventimila fanti e cinquemila cavalli sopra; e Cesare in tre inverni forn di tutto (come abbiamo detto) tre grossissime armate. Ma che? Fanno fede di ci, anzi evidenza, i Genovesi, i quali (se ben non avevano dominio se non mediocre) misero in mare nella ultima guerra pisana, che non dur pi di sette anni, seicento navigli parte da remo, parte da carico; oltra alle galee dei particolari, che a pi di settanta ogni anno arrivavano. Cos scrive Iacopo Doria scrittor di quei tempi. I medesimi Genovesi, l'anno millesimoducentesimononagesimoquinto, da mezo luglio sin a mezo agosto, posero in ordine ducento galee, ridotte poi a centosettantacinque, con pi di quarantamila uomini da fatti. Cos scrive Giacopo di Voragine autor di vista. Nel medesimo tempo i Venetiani e i Pisani mantenevano ancor essi armate grossissime. S che in quei tempi e i Genovesi a proportione, e l'Italia assolutamente armava tanto grosse armate, se non maggiori, che i Romani nella prima guerra punica. Io non mi meraviglio delle opere de' Romani: ma ben ammiro l'altezza de' lor concetti e la grandezza degli animi, con ci sia cosa, che molte cose grandissime si potrebbono anche a' tempi nostri fare se i prencipi vi voltassino i pensieri, e le forze loro, perch gl'ingegni degli uomini sono ora gl'istessi, e le forze le medesime, che erano in quei tempi. Et cos noi nasciamo adesso con due mani e due piedi per uno, come nascevano allora, ma la bassezza de' pensieri, che passa ora per gli animi, fa stimare impossibili molte cose facili. Ma egli cosa verissima, multa experiendo fieri, quae segnibus ardua videantur. Ha l'et nostra superato di gran lunga i tempi antichi, nella grandezza inestimabile delle navigationi, e de viaggi; nella terribilit degli ordegni da guerra, et in molte altre inventioni importantissime; perch dunque non li potr pareggiare in far ponti, e fabriche et armate, et in ogni altra impresa? Non furono mai fatte opere maggiori, che sotto Alessandro Magno, et sotto i Romani. Questo proced dalla magnanimit incomparabile di Alessandro e dei Romani. Con la qual essi, spendendo largamente, destarono le arti, e gl'ingegni degli artefici, e facilitarono ogni difficolt e correspondevano in tal maniera i concetti degl'ingegnieri alla potenza de' prencipi, che Stasicrate volse trasformare l'Alto, monte altissimo, in una statua d'Alessandro Magno, et M. Varrone, cittadino romano, sendo capitano di galere sotto Pompeo nella guerra contra a' corsali, (il medesimo aveva prima di lui avuto in animo Pirro, re degli Epiroti) ebbe pensiero di fare un ponte, che si stendesse da Otranto sino alla Velona, et con questo farsi quasi beffe della furia del mare. verissimo, eo (come dice Livio) impendi laborem, ac periculum, unde emolumentum, atque honos speretur. Nihil non aggressuros homines si magna conatis, magna praemia proponantur, magnos animos, magnis honoribus fieri. Delle vettovaglie Un'altra sorte di munitioni necessarissima alla guerra sono le vettovaglie, perch l'altre provisioni sono utili per poter vincere, ma il pane necessario per vivere. Et in questa parte Cesare avanz quanti capitani furono mai al mondo. Con ci sia che egli non procurava cosa alcuna pi, quam rem frumentariam, e dove non aveva commodit di formenti, procurava di sostentar l'essercito con la carne e co' bestiami. Con un giudicio poi inestimabile misurava la quantit delle vettovaglie sue e de' nemici et conoscendo d'aver vantaggio, si metteva all'impresa. Con questa arte dom egli tutta la Gallia, perch essendosi rinchiuso nella terra di Alessia Vercingetorige con ottantamila Galli, egli avendo calculato quanto tempo le vettovaglie potessero bastar a lui e quanto a s, et conosciuto d'averne il meglio, circonvall Alessia. Et bench venissero in soccorso di Vervingetorige pi di ducentoquarantamila altri Galli, per il medesimo rispetto non ne fece conto. Ma essendosi fortificato con fosse, e con trinciere inaudite contra quelli, e contra questi, vinse egli gli uni con la fame, et gli altri col ferro. Ma che giova l'abbondar d'uomini et d'arme, et d'ogni apparato militare, se ti manca il vitto? Sar necessario, che o tu abbandoni la impresa a mezo il corso, o che sii vinto senza ferro. Deve adunque esser parte principale della providenza imperatoria, il procurar che
l'essercito abbia da vivere. Nel che Emanuel Filiberto, duca di Savoia, prencipe e capitano di eccellente valore, confessava che nelle guerre di Piccardia egli ritrovava difficolt grandissima. A questo effetto i Romani, come insegna Giulio Capitolino, tenevano in luoghi opportuni quantit grandissima di aceto, formento, lardo, (questo era il vitto de soldati) orzo et paglia (questa era la provisione de' cavalli). Antiqui (dice Valerio Massimo) erant adeo continentiae attenti, ut frequentior apud eos pultis usus, quam panis esset. Li re del Per, bench stimati da noi barbari, riponevano in amplissimi magazini quantit meravigliosa di vettovaglie per uso e per servitio della guerra. Ma chi non vuol questa briga di tener magazini, deve almeno muoversi alla guerra con tal ragione, ch'egli abbia o un fiume navigabile a lato, o una provincia copiosa alle spalle, che lo provegga continuamente di tutto ci, che li sia di bisogno e se egli passer ad impresa oltra marina, sar necessario o che conduca seco copia di vettovaglie o che assicuri i mari ai mercatanti e s come nelle altre cose appartenenti alla guerra, cos in questa, deve egli abbondare in cautela, et in provisione perch la guerra una bestia che non sa far altro, che divorare, guastare, rovinare e s come il fuoco non si contenta di cosa alcuna, cos n anco essa. Questi giorni passati discorrendo meco un gentiluomo francese di molta prattica nell'arme mi diceva, che la Linguadocca, parte nobilissima della Francia, non pu pascer lungamente in un luogo pi di diecimila fanti e duemila cavalli, o una cosa tale, et si meravigliava forte di ci, perch se (diceva egli) la sudetta provincia mantiene, per essempio, centomila uomini, atti alle arme per le sue citt e terre, perch non li potr mantenere in campagna? Molte ragioni si possono addurre di ci (se la suppositione vera) cavate dalla qualit di quei siti e quando altra ragione non ci fosse, doverebbe bastar questa, che s come il popolo di molte citt non si potrebbe in una sola citt mantenere, cos n anco un essercito cos grosso, come dicevamo, in un alloggiamento. Ma la ragione, che fa al proposito nostro, si che i cittadini vivono con regola et i soldati senza regola, quelli pongono studio in conservare, questi non si dilettano d'altro, che di dissipare, s che non meraviglia, che quel, di che si contentano quarantamila persone in una o pi citt, non basti a diecimila soldati in campagna. Del denaro Il denaro chiamato e nervo et ventre della guerra: nervo perch con esso si muovono gli esserciti, e si mantengono in moto, et in opera. Onde scrive Tucidide che pochi Greci rispetto alla grandezza della provincia andarono all'impresa di Troia per mancamento di facolt, e non vi si mantennero lungo tempo uniti. Et il medesimo dice, che i popoli della Morea facevano guerre brevi, perch non avevano il modo di mantenervisi lungamente. Ne' tempi nostri, poi, si visto, che gli Svizzeri, gente potente, e bellicosa, non si son messi a imprese d'importanza, n fatto acquisti di consideratione, per non si esser potuti mantener lungo tempo fuor di casa. anche il denaro chiamato ventre della guerra, perch s come il ventre somministra alimento all'animale, cos il denaro agli esserciti. la guerra una voragine, che non ha fondo, che smaltisce, che distrugge, che consuma cose infinite, le quali bisogna provedere e far venire or di qua or di l con spesa, e con dispendio inestimabile; e mi fanno ridere alcuni, i quali ne' discorsi loro, mostrano di volere, che la spesa della guerra si risolva tutta in pagar i soldati, non si accorgendo, che la spesa delle spie, dei messi, de' ponti, e delle barche per passar fiumi, delle scale, delle corde, de' guastatori, comissarii di vettovaglie, sergenti maggiori, ingegnieri, forieri, prevosti, algozini, barigelli di campagna, tesorieri, contatori, scrivani, rivenditori, auditori generali del campo, maresciali, motai, giudici, guide et sopra tutto dell'artigliaria, al cui servitio si ricercano generali, bombardieri, aiutanti, guastatori, legnagnuoli, fabbri, cavalli o bovi e gente, che li curi e li governi,
ruote, tavole, palle, polvere, aceto e tante altre cose, che essa sola vuole una spesa reale. Gianiacomo Triulzi, personaggio di gran pratica nell'arme, soleva dire, che per far guerra, si ricercavano tre cose: delle quali, la prima era il denaro, la seconda il denaro, e la terza il denaro. Et quell'altro valente uomo rispose, che vi si ricercava denaro senza fine. Il Gran Capitano, essendo imputato di aver ricevuto nell'impresa del regno somma maggiore di denari, che non appariva nelle partite della spesa, cav fuori un libro, nel quale erano due partite tra le altre, una di ducentomilasettecentotrenta e sei scudi spesi in limosine, date a preti, frati, monache, che pregassino Dio per la vittoria, una altra di seicentomilaquattrocentononanta e tre scudi, dati a spie. Con che di ordine del re, che temeva di restar debitore di qualche somma eccessiva di scudi a quel magnanimo eroe fu posto silentio alle calonnie. Che diremo de' furti de' capitani, e degli uffitiali, ai quali non si pu por rimedio? Il signor di Lotrecco, per mancamento di trecentomila scudi perd lo stato di Milano. Il re Cattolico avendo condotto la ricuperatione dei Paesi Bassi quasi a fine, con la presa di Sirisea, li perd quasi affatto perch i suoi ministri non ebbero in pronto una somma cos fatta per pagare i soldati vincitori, che perci abbottinati, diedero ai naturali occasione di armarsi, onde sono nati poi i tanti disordini, che noi abbiamo visto. Or, per cominciar guerra, bisogna esser provisto di una grossa somma di contanti, e d'una buona entrata corrente per continuarla, e s'ingannano quelli, che si mettono a imprese grandi, e lunghe confidati in tesori lasciati dai parenti, o ammassati da lor medesimi, perch si consumeranno molto prima di quel che si pensano. Ogni tesoro limitato: ma le spese della guerra sono senza misura e le necessit senza fine. Pericle entr nella guerra peloponnesiaca, confidato nella ricchezza dell'erario ateniese, la qual consisteva in seimila talenti, che sono tre millioni, e sei centomila scudi; ma le occorrenze della guerra divorarono in breve, e quella somma e l'oro, e l'argento dei luoghi sacri insieme. Non convien gi mettersi a impresa alcuna, senza aver alla mano un buon numero di contanti, co' quali si facciano le provisioni necessarie, e si ponga la gente in campagna; ma, per grande che si sia il tesoro, ti mancher tosto tra le mani, se l'entrate annuali non correranno o non ti sostenteranno le facolt de' popoli et i modi straordinarii di far denari. Il che provarono i Romani nella prima e nella seconda guerra punica, le quali essi sostennero, e condussero a buon fine non tanto con l'erario, che si vuot in tre o quattro anni, quanto con la ricchezza della citt e de' privati. E suole avvenire, che i prencipi si innamorino talmente de' lor tesori, che non si possono indurre a toccarli, anche nelle necessit o a credere, che le necessit siano tali, che non si possa far di manco. Cos avenne a Perseo, re di Macedonia, et al Calife di Baldacco, preso da Alone Tartaro, et a Stefano prencipe di Bosna, fatto prigione coi suoi tesori (de' quali non si era voluto prevalere) da Maumetto, re de' Turchi. Ma perch nelle guerre difensive malamente si pu valer del suo, perch l'inimico entrato ne' confini distrugge il paese e consuma i popoli, rovina, e disordina lo Stato, deve ogni prencipe procurar di star su l'offesa e di tener il timor dell'arme lungi da casa sua, perch oltra, che terr il suo paese pacifico et in quiete, goder le sue entrate et il frutto dell'obedienza de' popoli, del qual noi parliamo, che la prontezza e l'agilit. Conserver anche pi la riputatione e la maest, perch invero il difendersi non guerreggiare, ma patire, et sostener il mal della guerra; guerreggiar si l'assaltare, et il combattere, et l'offendere. Non enim ignavia magni imperii contineri virorum, armorumque faciendum certamen: id in summa fortuna aequius, quod validius, et sua retinere privatae domus; de aliena certare regiam laudem esse. Il Turco speditissimo nelle imprese, perch egli fa la gente e l'altre provisioni che si ricercano col denaro, ch'egli cava dal tesoro. Si rif di questo denaro con gravezze, ch'egli mette d'uno scudo per testa, o cosa tale; e la continua con l'entrate ordinarie et affinch quelle durino, e facciano il corso loro, non aspetta il nemico, ma lo va a trovare a casa di lui e sta perpetuamente su l'offesa. Il fine del primo libro dell'agilit delle forze del prencipe. [Libro II]
[Introduzione] DELLA AGILIT DELLE FORZE DEL PRENCIPE LIBRO SECONDO DI GIOVANNI BOTERO BENESE.
Pu essere, che un prencipe abbia le forze pronte al moto, perch son gran proprie, e pagate et ha le vettovaglie, le monitioni et le altre cose necessarie alla impresa apparecchiate, ma, che nel maneggio della guerra consumi il tempo e gli apparecchi inutilmente e non faccia progresso. Onde ci resta di discorrere attorno quelle cose, onde dipende l'agilit nel moto. Del generale dell'impresa La prima cagione dell'agilit dell'impresa si il generale, nel qual si ricercano, per l'effetto, del qual parliamo, tre conditioni: cio che egli sia uno, che abbia le commessioni libere, che sia efficace. Si ricerca l'unit, perch una impresa governata da pi capi, come una anfisibena, serpe, che per aver due capi, tu non sai da che parte si volga, camina lentamente e con travaglio. Onde il poeta la chiam grave. Et gravis in geminum vergens caput Amphisiboena. Et che farebbe, s'ella avesse pi di due teste? L'esperienza insegna manifestamente questa verit: perch le arme romane non furono mai da manco, e pi deboli, n i capi pi irresoluti, e lenti, che al tempo dei tribuni militari; allora essi impararono, complurium imperium bello inutile esse, aemulatio (dice Tacito) inter pares: et ex eo impedimentum. E in uno altro luogo arduum est eodem loci potentiam, et concordiam esse. Gli Ateniesi restarono nell'impresa di Sicilia distrutti, per il disparere di pi capi; il re Cattolico ha ci provato nell'impresa d'Alzerbe et di Inghilterra, gli Spartani, se ben avevano due re, non ne mandavano per se non uno alla guerra. E non solamente si ricerca che sia uno, ma che sia anche l'istesso, cio che non si muti facilmente, ma che si lasci continuar nell'impresa. Perch il mutare spesse volte capitano quasi l'istesso, che il servirsi di pi d'uno. Con ci sia che i disordini, che apporta la pluralit dei capi in un tempo, gli apporta l'istessa in una impresa: interrompe il corso, sospende le risoluttioni, ritarda l'essecutioni. Onde i Romani fecero pi facende sotto li re, a proportione del tempo, che sotto i consoli, perch quelli continuavano l'impresa et questi si mutavano di anno in anno. Onde accortisi eglino alle volte, per le mutationi cos spesse, interrumpi tenorem rerum, in quibus peragendis continuatio ipsa efficacissima esset inter traditionem imperii, novitatemque successoris, quae noscendis, priusquam agendis rebus imbuenda sit, saepe bene gerendae rei occasionem intercidere, confermarono per pi anni, i Scipioni nell'impresa di Spagna, e d'Africa, e T. Flaminio nella macedonica, e C. Mario nella cimbrica e C. Cesare nella gallica, e si deve lasciar un capitano tanto in una impresa, quanto si vede che egli sia accompagnato dalla felicit, che non altro, che l'assistenza di Dio. Perch cambiandosi al ministro i venti prosperi in venti contrarii, deve il prencipe, con la mutation di lui, veder di migliorar lo stato delle cose sue. I Romani lasciarono guerreggiar Lucullo sin a tanto, ch'egli maneggi felicemente l'arme: ma quando si avvidero, che era mancato a lui a mezzo il corso la prosperit, mandarono Pompeo in sua vece. I Cartaginesi, sendo restati vinti sotto la condotta de' capitani proprii, con l'elettione di un forestiero che fu Santippo Lacedemonio, mutarono anche fortuna. Al medesimo modo i Siracusani, essendo stati vinti co' capitani naturali loro, riuscirono vittoriosi con Gilippo Spartano, e cos altri, con un simil cambiamento hanno migliorato la loro conditione. I poeti dicono che la fortuna una cosa incostans, fragilis, perfida, lubrica,
per dimostrare che le umane prosperit durano poco et che, per l'ordinario, mancano nel lor colmo. Onde opera di gran prudenza di un prencipe il conoscere quanto debba valersi della opera di un ministro. L'altra conditione del generale si , che non gli siano legate le mani, et i piedi dell'impresa, alla quale egli mandato, con la strettezza delle commessioni. Deve il prencipe usar maturezza nell'elettione del ministro: ma doppo che lo ha eletto, convien che li dia amplissima auttorit di far l'uffitio suo. Altramente avilupper il ministro e storpier il negotio, e sar gran ventura, che la cosa passi bene. Aristotele vuole che il magistrato abbia potere grandissimo per far l'ufficio suo, e per essequire quel che gli conviene. Licurgo prudentissimo legislatore, avendo raffrenato grandemente l'auttorit delli re mentre stavano a casa, la lasci libera, assoluta, independente nella guerra. I Romani ancor essi, se bene avevano il Senato pieno d'uomini eccellenti in ogni parte della militia, e di valor provato in mille cimenti, nondimeno non usarono mai di mandar fuora capitano con altra commessione se non che procurasse, che la republica non ricevesse danno e ne' maggiori frangenti e pericoli creavano il dittatore, con auttorit in casa, e fuora pi che regia. Tiberio mand Druso suo figliuolo in Pannonia, nullis certis mandatis ex re consulturum, e in un altro luogo, heludius Priscus cum legione mittitur, rebus turbis pro tempore ut consuleret. E ci con molta ragione. Inper che la guerra poche volte si tratta in quel modo, che si disegna. Ti bisogna spesso combattere non perch tu vogli, ma perch il nemico ti sforza, o la necessit, nella quale tu ti trovi, ti costringe. Molte cose (come insegna Tucidide) partorisce la guerra per se stessa; molte n'insegna il nemico, molte il caso; e (come dice Q. Fabio Massimo) consilia magis res dant hominibus, quam homines rebus. Onde egli detestava la temerit di Varrone, che prima d'aver visto l'inimico, disegnava gi quel che avesse a fare. E noi abbiamo visto una armata delle pi grandi, che abbino solcato l'oceano, essersi risoluta in fumo, perch il capitano si volse governare con consigli portati da casa, contrari a quelli, che li porgeva l'occasione; ad altri vengono i consigli doppo, che l'occasione passata, e (come dice Tacito) ex distantibus terrarum spatiis consilia post res afferebantur. La terza qualit di un capitano, appartenente all'agilit, si l'efficacia, et a questa concorrono quattro conditioni: inclinatione all'impresa, prattica, solecitudine, ardimento. L'inclinatione fa, ch'egli entri nell'impresa prontamente, e con ardor di affetto, e che questo ardor duri sin al fine. Il moto naturale differisce dal violento in questo: che il naturale persevera nella sua veemenza, anzi cresce continuamente, il violento all'incontro, non dura molto, et va mancando, et si risolve in niente. Or il moto di un, che si metta a un'opera con inclinatione, e con amore, quasi naturale, ma quello, che ci s'impiega senza inclinatione, come agente violento, che andar sempre deteriorando, e perdendo. Et difficil cosa, che un capitano, che va a una impresa contra il suo senso, e parere, faccia cosa che vaglia. Come mostr l'essempio di Nicia nella guerra di Siracosa. Ferdinando, re di molta prudenza, non solo procurava, che alle cose d'importanza, che egli intraprendeva, inclinassino i ministri, ma tutto il popolo, s che prima, che egli publicasse di sua bocca i concetti dell'animo, e le deliberationi fatte, gi la moltitudine le aveva desiderate, come savie, e giuste. La prattica poi conduce l'impresa per via piana, e reale. Perch un uomo, che sia nuovo in un negotio, non pu esser spedito, n pronto; entrer in luoghi incogniti, pericolosi, intricati, uscir fuor di strada, far delle cose, che li bisogner poscia disfare: e ci vero in ogni materia, ma sopra ogni altra, nella guerra, perch sono infiniti i casi e gli accidenti, che d'ora in ora vi si presentano, al cui improviso incontro non possibile lo stare o col giudicio o con l'animo saldo, se la esperienza non l'ha confermato. La diligenza poi raccoglie tutto ci, che pu recare giovamento al negotio, e si vale non solo de' vantaggi proprii, ma de' disordini de' nemici ancora. Unisce i mezi, e le forze, e le rende perci pi atte, e pi gagliarde nell'operare. Ma niuna delle sudette cose produrr effetto d'importanza, se non accompagnata da un vigor d'animo risoluto. Perch, s come non basta, che la nave sia ben corredata, e fornita di tutto ci che fa mestieri alla navigatione, se il vento non le gonfia le vele, e la spinge innanzi; cos n l'inclinatione, n la prattica, n la diligenza molto vale, se l'ardire d'un animo determinato non la porta innanzi. Et inutile ogni deliberatione, che non si
essequisce efficacemente. Onde di Arato Sicionio si legge, che egli, che per altro, era un gran guerriero, per mancamento d'animo nell'occasioni delle battaglie, non faceva cosa buona. E noi abbiamo visto una potentissima lega cristiana, ai tempi di Paolo terzo, aver perci perduto il tempo e chi la conduceva l'auttorit. All'incontro l'antiche, e le moderne istorie insegnano, che l'imprese importanti sono per lo pi state fatte dai capitani arditi, e risoluti. Qual fu Alessandro, Pirro, Cesare, Annibale. Aiutano l'efficatia tutte le maniere di farsi ubidire, amorevolezza, severit, riputatione, delle quali si detto nell'eccellenze degli antichi capitani. De' soldati L'agilit dei soldati dipende parte dalla qualit loro, parte dall'arme, nel soldato per non scriver qui ambitiosamente l'et, la statura, la dispositione e le altre parti, che Pirro, o Mario ricercavano, importa assai di che paese egli sia. Con ci sia che (concedendo agli Svizzeri et ai Tedeschi il marciar stabile, e fermo, e l'ordinanza alta e statuaria) sei nationi de' cristianesimo hanno lode di agilit, la britanna, la francese, l'onghera, la vallona, la spagnuola, e l'italiana. E tra' Britanni maggior riuscita par che abbino fatto nelle guerre di Fiandra gli Scozzesi: e tra' Francesi meglio i Guasconi e tra gli Ongheri i superiori. Quel ch'io dico degl'uomini, si deve anche intendere de' cavalli. Perch l'alemanno non solamente lento, ma anche vile, merita per di esser messo tra i buoni il Dano et il Fiamengo, agilissimo il Barbaro, il Turco, il Gianetto. Il Napolitano, se ben non cos veloce, come lo Spagnuolo, ha per tanta agilit, che con l'altre parti, delle quali dotato, merita di esser messo per il pi agile, che sia per un uomo d'arme. Ma non voglio qui lasciar di dire, che l'agilit, della qual parliamo, non consiste solamente nella prestezza della gamba, ma di pi, nell'abilit alle fattioni et a' bisogni della guerra. Perch, che mi giova, che un cavallo corra, anzi voli per due o tre miglia e dall'altro canto ch'egli abbia bisogno di tanta cura et di tanto riguardo, che non si possa adoperarne d'ogni ora, n per lungo tempo, n in fatiche grandi e che debba esser per lo pi menato a mano, con una coverta indosso? Strigliato, e fregato, quando conviene ricevere o dare una carica? Cos fatto cavallo pi atto a mostrar la sua agilit in una piazza o in un teatro, che in una campagna et in un fatto d'arme. Per la qual cagione, non mi finiscono di piacere i Gianetti per la molto loro delicatezza. Ma tra tutti i cavalli grossi, attissimi si debbono stimare i cortaldi di buona razza, perch questi sono sempre disposti alla fatica, e la durano lungo tempo et non hanno bisogno di esser delicatamente curati et trattati, imper che le guerre non tanto si vincono combattendo, quanto sofferendo e l'attitudine a patire, et a sopportar fame, e sete, caldo e freddo, appartiene all'agilit cos di un cavallo, come di un soldato, non meno, che la velocit de' piedi. Nella giornata di Singa, nella quale Campson Gauro, soldano d'Egitto, fu da Selim primo re di Turchi sconfitto e morto, moltissimi cavalli, usi alla stalla e all'esser morbidamente trattati, creparono di caldo e di fatica. Et di maggior agilit la cavalleria leggiera, che gli uomini d'arme, et l'uso delle arme corte, che della lancia, che non si pu negare esser di grande impaccio e di maneggio pi difficile d'ogni altra arma, per la qual cagione i Francesi, per consiglio di non so chi, l'hanno lasciata, e preso in sua vece un coltellaccio e l'archibugio. Perch guerreggiando essi tra s, non con battaglie giuste, e reali, ma con scorrerie et cavalcate, non fa al proposito loro il peso della lancia, ma si pentiranno forse di averla dismessa ogni volta, che lor converr guerreggiar non tra s, ma con nemici stranieri, perch non si pu negare, che la miglior arma di un cavaliero sia la lancia, et di un fante la picca. L'archibugio commune a quello et a questo et con queste tre sorti d'arme si finiscono le battaglie. Con ci sia che con gli archibugi si atterrano, con la lancia e con la picca si disordinano e si rompono le squadre. La spada, che la pi sicura di ogni altra arma, di rado viene in uso. L'arme difensive tanto saranno migliori per l'agilit, quanto pi leggiere, e pi spedite di che abbiamo parlato altrove.
Della desciplina Ma tutto l'essercito si rende agile con la disciplina, che si risolve in tre parti, per quel che appartiene al proposito nostro. L'una si il divieto delle cose, che rendono i soldati morbidi e da poco o che lor sono d'impaccio, l'altra l'essercitio nelle cose militari e la terza l'ordine. Quanto alla prima parte, rendono i soldati inutili nonch lenti, le delitie e le soverchie commodit di mangiare e di dormire e di cose peggiori. Il perch fu ripreso Alessandro Magno, perch intertenne i suoi soldati in Babilonia, citt delitiosissima. Onde quell'essercito (come scrive Q. Curtio) che aveva doma l'Asia, usc ingrassato in modo, che non sarebbe stato saldo a un gagliardo incontro. Nec ullus locus disciplinae militari magis nocuit. E nel medesimo errore cadde Annibale, per aver tenuto le sue genti in Capua. Scipione Africano, avendo inteso, che Annone, capitano cartaginese teneva di state, nella citt di Salara, quattromila cavalli nelle stalle, si assicur della vittoria. Scipione Emiliano nell'impresa di Numantia, prima di ogni altra cosa vuot il campo di ragazzi e di cavalli da soma, in quella di Cartagine, cacci via tutti quelli, che, non essendo soldati facevano altro essercitio, che di vender vettovaglie; Metello, nella guerra iugurtina, fece andar bando, che soldato alcuno particolare non potesse aver servo o cavallo per condur cosa che avesse, e che non fosse lecito vender nel campo pane o altra cosa cotta da mangiare. Perch invero, non cosa che renda l'essercito pi poltrone, che la commodit del servitio e la delicatezza del mangiare; come n anco cosa che pi l'ingombri, e lo impacci. Onde i soldati romani portavano essi medesimi indosso tutto il lor necessario, e le provisioni del vivere si contenevano in tre cose: in formento (che essi mangiavano pi spesso bollito, che impastato) e lardo et aceto; e l'aceto serviva loro e di companatico e di vino mescolandolo con l'acqua. Onde si legge, che Scipione Emiliano, nella sua censura, tolse il cavallo a un giovine, perch avesse, mentre si assediava et combatteva Cartagine, fatto un bel convitto, nel qual aveva, tra le altre cose, dato a sacco una torta, fatta a somiglianza di Cartagine. S che ricercato da quel giovine, perch gli avesse tolto il cavallo: Perch rispose tu desti prima di me Cartagine a sacco. Or, non essendo nel campo de Romani n bocche disutili, n cibi delitiosi, era forza che egli fosse agilissimo, e speditissimo. A questa agilit si accostano assai i Turchi, con ci sia che essi ripongono la somma delle loro vivande in un sacchetto di carne secca e trita et i pasti de' lor capi si risolvono in carne di castrato et in riso. S che non meraviglia ch'essi mantenghino esserciti grossissimi in campagna, senza che vi nasca mancamento di vettovaglie o disordine per tal rispetto; come avviene per l'ordinario agli esserciti cristiani, ne' quali la provisione del vino importa pi, che quante vettovaglie si menano dietro i Turchi. E pur n i Cartaginesi, n i Romani usavano nella guerra vino et non l'usano oggi n in guerra n in pace i Turchi. Gli Spartani erano prestissimi nell'imprese di guerra, perch avevano sgombrato dalla citt loro, nonch dal campo, ogni cosa superflua. L'altra parte della disciplina l'essercitio, col quale i soldati si avvezzano, quasi per passatempo, alle vere prove della battaglia; e l'essercitio di due sorti, l'uno del maneggio dell'arme, e dell'operationi militari, l'altro della fatica, con la quale s'indurra il soldato, e s'incallisce per li bisogni della guerra, e si rende svelto, e disposto della vita: delle quali cose tutte noi abbiamo parlato altrove. Appartiene anche alla agilit la forma dell'ordinanza dell'essercito, la qual deve esser distinta in pi parti, facile a partire et a unire, subordinata, regolata. Et in questa parte dell'agilit la legione romana avanzava la falange macedonica. Dell'agilit maritima Non l'agilit di minor importanza nell'imprese maritime che nelle terrestri. Onde Floro scrive, che nella battaglia navale tra Augusto Cesare e M. Antonio, la leggierezza dei vascelli diede la vittoria a Cesare; e che non fu cosa di pi pregiuditio a M. Antonio, che la grandezza de' suoi legni, che erano
di sei in nove ordini di remi, come quelli di Augusto di tre in sei. Ipsa moles navium Antonio exitio fuit. A' tempi nostri abbiamo visto che i legni destri et leggieri degl'Inglesi insultarono et in mille maniere travagliarono la grandezza delle navi dell'armata spagnuola. Or chiara cosa , che nel mar nostro i vascelli proprii per combattere sono quelli, che vanno a remi: perch questi, come se fossino animati, si muovono innanzi et indietro e da lato et in giro, navigano con vento e senza vento, e fanno anche qualche progresso contra vento. Nel che le navi sono affatto inutili, perch non possono navigare n senza vento n contra vento, n girarsi, n muoversi facilmente, ove bisogna. Onde l'armate cristiane, perch hanno sempre collocato buona parte della loro speranza nelle navi, sono per lo pi state mal concie dalle turchesche. Come si vidde alla Prevesa et a' Gerbi e l'anno secondo della Lega, fatta da Pio quinto, perderono perci il tempo perch i Turchi non volsero mai accostarsi alle navi et i nostri non osarono combattere senza esse. Et l'anno antecedente le navi, su le quali erano tre o quattromila fanti, destituite dai venti, non si poterono ritrovare alla battaglia, e non furono perci d'utile alcuno. Confesso bene, che se le navi sono favorite dai venti, fanno effetti grandissimi, e di maggior consequenza, che le galere: perch, oltra al gran numero di artigliaria, ch'elle portano, et al vantaggio, ch'elle hanno per l'altezza, una nave offonder una galera con l'impeto solo; ma perch nelle guerre non conviene rimettersi al caso, et caso, che tu abbia venti a tuo comando, fa di mestieri far pi conto delle galere, che delle navi. Gli antichi, desiderosi d'unir la grandezza con l'agilit, fabbricavano legni di quattro, e di sei e di dieci e di pi ordini di remi. Demetrio, re di Macedonia, fece una galea di sedeci ordini di remi, che fu la maggiore, che fosse stata mai sin allora vista. Ma poi Tolomeo Filopatore ne fece una di quaranta ordini di remi, su la quale andavano quattromila vogatori, poco meno di tremila soldati e quattrocento ufficiali. Ma, per lentezza e tardit, che la grossezza porta necessariamente seco, non solamente si tralasciato l'uso di s fatte machine, ma a pena resta a noi notitia della forma loro. Le galere grosse rappresentano non so che dell'antica grandezza: ma con poca agilit, onde anche nella giornata di Lepanto, ove si conobbe, quel che esse vagliano in una battaglia navale, ebbero bisogno d'esser rimorchiate. S che la lode dell'agilit militare nel mar nostro resta tutta alle galere et alle galeotte e nell'oceano alle caravelle, et a simili vascelli mediocri, che si possono e con poco vento e con poco fondo muovere. Il fine dell'agilit delle forze del prencipe.
[Discorso della neutralit] [Introduzione] DISCORSO DELLA NEUTRALIT DI GIOVANNI BOTERO BENESE All'Illustrissimo et Eccellentissimo Signor il Signor DON ANTONIO di Cordova e Cardona duca di Sessa, e Soma etc.
Le materie di Stato sono quasi tutte cos incerte e dubbiose, che nella pi parte di esse non meno probabile l'affirmatione che la negatione, ma sopra tutte dubbiosa e disputabile mi par che sia quella della neutralit. Con ci sia cosa che, ne l'altre, qualche parte vi ha la ragione, ma in questa ogni cosa dipende dall'evento. Io ho con tutto ci avuto ardire di trattar brevemente questa materia nel presente discorso, pi per mostrar la sua difficolt, che per speranza che io m'abbia avuto di dir cosa risoluta. Il che avendo io, alli d passati, accennato a vostr'Eccellenza, ella ne mostr tanto gusto, che mi accrebbe grandemente l'animo nell'impresa. Ho poi preso ardire di onorarlo dell'Illustrissimo nome di vostr'Eccellenza, come ella vede: perch mi parso cosa conveniente, che chi le ha dato spirito, e lena, le dia anche gratia e splendore. Et cosa d'animo candido, e nobile, cui multum debeas, eidem plurimum velle debere. Della neutralit Il trattare della neutralit una delle pi difficili imprese che siano in tutta la materia di Stato, perch il risolversi di star neutrale tra due prencipi che guerreggiano tra s o il dichiararsi compagno di un di essi cosa che dipende tanto immediatamente dalle qualit particolari de' prencipi e delli Stati loro, che malagevolmente se ne pu discorrere in generale, per la qual cagione io non mi ricordo d'averne mai letto cosa alcuna appresso gli antichi politici. Nondimeno volendo, per non lasciar affatto intatta questa materia, dirne qualche cosa, cominciamo cos. I prencipi (come insegna Polibio) sono di natura cos fatta, che non hanno nissuno per amico n per nemico assolutamente, ma nelle amicitie et inimicitie si governano secondo che lor torna commodo, s che, s come alcuni cibi di lor natura insipidi ricevono sapore dalla concia che d loro il cuoco, cos essi, essendo da s senza affettione, inclinano a questa o a quella parte secondo che l'interesse acconcia l'animo e l'affetto loro; Filippo, re di Macedonia, amicitias (dice Iustino) utilitate, non fide colebat; de' Parti dice il medesimo Iustino: fides dictis promissisque nulla, nisi quatenus expedit. Perch, in conclusione, ragion di Stato poco altro che ragion d'interesse. De' Lacedemonii, che tra tutti i Greci si mantennero lunghissimamente in stato et in grandezza, scrive Tucidide che sopra tutti seguivano il commodo loro e senza dissimulatione alcuna tenevano per giusto e per onesto tutto ci che lor porgeva qualche emolumento o satisfattione; et Agesilao, re chiarissimo de' Lacedemonii, soleva dire ch'egli teneva per giusto tutto ci che poteva recare qualche utilit alla patria. Agesilao era andato in Egitto per servitio del re Taco; ma, essendo poi solecitato da Nettanebo, che si era ribellato dal re Taco suo zio, mand a Sparta per saper il parere e l'aviso sopra di ci della citt, lodando per Nettanebo e dolendosi di Taco, i quali anche mandarono ambidue pur a Sparta per il medesimo. I Lacedemonii, avendo inteso le domande dell'una e dell'altra parte, risposero in publico che Agesilao aveva in quel negotio ogni auttorit e scrissero secretamente a lui, che facesse ci che gli paresse pi spediente per la republica spartana. Cos Agesilao, senza altro pretesto che del ben della republica, abbandonando Taco, pass ai servitii di Nettanebo, cuoprendo con la maschera della republica una manifesta tradigione. Ma i Lacedemonii, mettendo la somma, come dice Plutarco, nell'emolumento e nell'utilit, non conoscono altra giustitia che quel che pu servire all'accrescimento delle cose loro. Maometto secondo re di Turchi diceva, che il mantener la parola era cosa da mercatante, non da prencipe, perch il mercatante vive del credito e della fede, il prencipe si vale della forza e dell'arme. Di maniera che non cosa pi propria di un prencipe che
l'indifferenza e la neutralit tra due vicini guerreggianti, con ci sia che ella quasi naturale a' prencipi, e la dichiaratione accidentale. Ma per vedere pure quando debba il prencipe star sul suo naturale, quando partirsene, metteremo da banda i beni della neutralit e dall'altra i mali, e cos i beni e i mali della dichiaratione. Primieramente il neutrale onorato e rispettato da ambedue le parti per la paura che ciascuna tiene che egli non s'accosti alla contraria. Resta quasi arbitro delle differenze altrui e padrone di se stesso, si gode del presente (nel qual modo hanno fatto bene i fatti loro i Francesi) e si vale del tempo: e chi ha tempo, ch' apportatore d'ottimi consigli e sapientissimo tra tutte le cose, ha (come si suol dire) vita, con la quale arte i Venetiani hanno ampliato nonch mantenuto il lor dominio. Di pi il neutrale vive senza nemico scoverto et non offende manifestamente alcuno, e (come dice Polibio) non cosa che vaglia pi in ogni affare che la moderatione et il non far cosa intollerabile a chi si sia. I mali sono questi: il neutrale d mala satisfattione ad ambedue le parti e se le rende secretamente nimiche, neque amicos parat, neque inimicos tollit, cio: n s'acquista amici, ne si libera di nimici, come avenne a Servilio, il quale medium (come scrive Livio) se gerendo, nec plebis vivavit odium, nec apud patres gratiam iniit, cio: n schiv l'odio della plebe, n consegu gratia alcuna tra i Padri. Aristeno, pretore degli Achei, esortando la sua gente a dichiararsi per li Romani o per Filippo, re di Macedonia: quid aliud (dice) quam nusquam gratia stabili, veluti qui eventum expectaverimus, ut fortunae applicaremus nostra consilia, praeda victoris erimus? Non, quemadmodum hodie vobis utrumque licet, sic semper liciturum est; nec saepe, nec diu eadem occasio fuerit, cio: che altro saremo noi che preda del vincitore, come quelli che senza gratia stabile per acconciarsi con la fortuna abbiamo aspettato l'esito delle cose? Non sar sempre, come oggi , in mano nostra il poter pigliar l'uno de' due partiti. E Q. Flaminio: Perch dice quel che dicono alcuni esser cosa ottima, che voi non vi traponiate in questa guerra non vi pu se non recare sommo pregiuditio, con ci sia cosa che, perduta ogni gratia et ogni dignit, sarete preda o premio del vincitore. Il che provarono i cittadini di Rodo e non meno Eumene, re d'Asia, per la loro neutralit nella guerra tra i Romani et il re Perseo, perch questo fu strappazzato e quelli privi di una parte del loro dominio da' Romani, oltre alla tema che questo e quelli ebbero della rovina loro. Finalmente: inter impotentes et validos (come dice Tacito) false quiescas: ubi manu agitur, modestia et probitas nomina superioris sunt. Veggiamo ora i beni della dichiaratione: primieramente meglio correre la fortuna di un amico che restar in odio di due. Appresso meglio cadere con un compagno che solo; meglio mettersi in avventura di vincere dichiarandosi, che a certezza di restar oppresso da chiunque vincer l'impresa non si dichiarando. Il male questo: chi si dichiara, prima, si fa un nemico scoperto; appresso perch, s come ci dispiace et attrista pi una cosa amara, che non ci giova e diletta una dolce, cos ci muovono con pi veemenza l'ingiurie e l'offese, che i servitii et i piaceri; onde colui contra il quale tu ti dichiari sar sempre pi pronto e pi ardente a offenderti et a travagliarti, che colui al quale tu ti accosti a difenderti et a soccorrerti nei tuoi travagli. Il che prov con sua rovina il Soldano d'Egitto, che, sendosi dichiarato contra Selim re de' Turchi a favore di Ismael re di Persia, egli si concit addosso Selim in modo che perd la vita et i Mamaluchi l'imperio, e Ismaelle non si mosse mai per soccorrer lui o il suo successore. Risolviamo ora questa materia con tre massime, e la prima sia che un prencipe potente non ha in questa materia gran bisogno di consiglio, perch la potenza lo rende sicuro dagli assalti di chi lo volesse soverchiare e, se si collega con altri, reca seco forze con le quali facilitar la vittoria e
goder de' suoi frutti: e se sta neutrale, schiva i sinistri della guerra e la spesa e, mentre i vicini si consumano l'uno l'altro, egli tira le sue entrate quietamente et accresce di denari e di forze. L'altra massima s che a un prencipe debole niun partito buono: non quel della neutralit, perch non ha forze da sostenersi e da reggersi in piedi e sar sempre preda di chi guerreggia e gioco di chi vince. Ma di niuno pi dura la conditione che di colui il quale, oltra alla debolezza, ha lo Stato in mezo di due prencipi pi potenti di lui che guerreggiano insieme. Ma che cosa conviene pi a un prencipe piccolo: la neutralit o la dichiaratione? Hoc opus, hic labor. Non cosa pi difficile a risolvere, e credo che in ci vaglia pi la buona sorte che la ragione. Intendeva molto bene questo punto Siface re de' Numidi quando, veggendo la guerra accesa tra Romani e Cartaginesi e s vicino a quello incendio, si sforzava di persuadere a' Romani che guerreggiassino fuora dell'Africa, affinch egli non fosse necessitato a unirsi con l'una o con l'altra parte. E nella rottura della guerra tra' Romani e'l re Perseo, scrive Livio che, dichiarandosi i prencipi delle citt libere per l'una o per l'altra parte, i pi savi averebbono voluto che, prima che fosse un di quelli due potentati andato in rovina, si fossero pacificati, perch cos sarebbono sempre essi stati dall'una delle parti difesi e mantenuti in pace. Nondimeno io stimarei che meglio sia generalmente che un prencipe debole si mantenga neutrale che, che si dichiari, ogni volta per che i vicini che tra s guerreggiano siano prencipi non affatto inumani e barbari e nemici della buona fama e dell'onore. E la ragione s perch la neutralit, se bene dispiace ad ambedue le parti, non le offende per effettualmente n le danneggia, onde non d materia d'altro risentimento e d'altra vendetta, che di cosa tale quale lo stare in un tuo bisogno a vedere; e li sar sempre molto pi facile il riconciliarselo non l'avendo offeso attualmente, che se l'avesse offeso; ma se tu ti dichiari, fai ingiuria e ti scuopri necessariamente con l'arme in mano contra una delle due parti, nel qual caso: manet alta mente repostum iudicium Paridis spretaeque iniuria formae. Ma chi sta neutrale non disprezza, anzi teme l'un e l'altro, non li fa servitio, ma n anco ingiuria. Aggiungi a ci che, sendo dubbioso l'esito della dichiaratione, perch non cosa pi incerta che l'evvento delle guerre (nusquam minus, dice Annibale, quam in bello eventus rerum respondent), non ci ragione per la quale il prencipe di cui ragioniamo debba assicurarsi pi della dichiaratione che della neutralit, e non si deve prender partito nuovo ove non si migliori il vecchio, come vediamo che la natura non lascia perire il fiore se non per il frutto, n ammette la corrottione se non per la generatione. Favoriscono questa opinione gli essempi, perch Filippo re di Macedonia, per essersi dichiarato a favor de' Cartaginesi contra Romani, perd buona parte de' suoi Stati, e Siface perd il regno e la libert per la medesima cagione, e gli Epiroti e Gentio re degl'Illirii, favorevoli al re di Macedonia contra Romani, n'andarono tutti in rovina. Ma per non commemorare cose antiche, Campson Gauro, per essersi mostro partiale d'Ismael re di Persia contra Selim primo re de' Turchi, perd la vita e lo Stato. Nelle guerre de' tempi nostri i duchi di Lorena si sono onoratamente mantenuti fuor di pericolo e di danno col beneficio della neutralit. All'incontro Arrigo re di Navarra, dichiaratosi partigiano di Ludovico re di Francia contra papa Giulio, perd la miglior parte del suo regno; Carlo duca di Savoia fu cacciato della pi parte delli Stati suoi per essersi fatto partiale di Carlo V imperatore contra Francesco primo re di Francia; Guglielmo duca di Cleves fu per rovinare subito che si colleg col re Francesco contra Carlo V imperatore. Finalmente, per uno che si possa addurre a cui sia stata nuocevole la neutralit, se ne trovano trenta a cui stata dannosa la dichiaratione; Archidamo re di Sparta, assaltando l'Arcadia e avendo inteso che gli Elei andavano in soccorso di lei, scrisse loro: Oh, bella cosa lo star in pace!. Ho detto che ci vale tra prencipi di qualche umanit e religione, perch de' barbari non si bisogna fidare, con ci sia cosa che, non avendo essi altro fine nell'imprese loro che la grandezza e la possanza,
opprimeranno sempre senza rispetto alcuno tutti quelli a' quali si conosceranno superiori, e non solo i neutrali, ma i partiali anche loro. Onde io non posso a bastanza commendare la savia risolutione del signor Sigismondo Battori, prencipe di Transilvania, perch avendo egli uno Stato assai piccolo in mezo dell'imperio della Casa d'Austria e del Turco, per non diventar preda di questo, si generosamente accostato a quelli, massime che, oltre alla prudenza umana con la quale egli si governato in un affare di tanta importanza, si aggiunto un zelo meraviglioso della fede cattolica e del servitio di Dio, del qual zelo egli ha gi raccolto frutti grandissimi di un nome immortale. Ma dovendosi dichiarare per un di due prencipi che guerreggiano insieme, a chi conviene accostarsi? Senza dubbio che al pi possente. Ma la possanza di due sorti, cio assoluta e conditionata. Pi gagliardo assolutamente quello che ha Stato maggiore, che l'ha meglio armato e fornito d'uomini e di capitani, di vettovaglie e di munitioni e d'ogni apparecchio militare cos da terra come da mare, ch' pi ricco di denari contanti e chi ha modo maggiore di cavarne da' suoi popoli, perch il denaro il nervo della guerra, e con esso l'arme utili divengono, e senza copia di denari non si pu lungamente guerreggiare. Et un prencipe si deve stimar ricco e pecunioso non tanto per l'entrate ordinarie, quanto per il modo ch'egli ha di far denari per vie straordinarie. Possanza maggiore, ma conditionatamente, quella la qual, se ben minore dell'assoluta, per pi atta a offenderti o a giovarti: nel che importa oltra modo la vicinanza, perch un prencipe vicino di forze mediocri ti pu pi facilmente e pi tosto e nuocere e soccorrere, che un prencipe grande ma lontano; perch, chi dubita che Ludovico XII re di Francia non fosse pi poderoso che Ferdinando d'Aragona? E Carlo V pi che Francesco primo? Nondimeno Arrigo re di Navarra, partigiano di Ludovico, e Carlo di Savoia, seguace dell'imperatore, restarono in pochi giorni oppressi, quello da Ferdinando e questo da Francesco, non per altro che perch Navarra per la vicinanza troppo esposta alle forze di Aragona, e Savoia a quelle di Francia. Conobbe ci molto bene Gerone, re prudentissimo di Siracosa, perch nella guerra che si accese tra Romani e Cartaginesi per le cose di Sicilia, egli da principio si un con Cartaginesi, perch questi erano gi padroni di una parte dell'isola vicina al suo regno, ma, doppo che i Romani ingrossarono di forze e di seguito, conoscendo che per la vicinanza d'Italia essi erano pi atti a favorirlo et a danneggiarlo, lasci la parte cartaginese e si un con esso loro. La lontananza soggetta a tante difficolt et a tanti accidenti, che a quelli che aspettano aiuto e soccorso da prencipi, che monti o mari o notabile intervallo di luoghi disgiunge dalli Stati loro, avverr ordinariamente quel che avvenne a' Sagontini, che furono prima rovinati da Annibale che soccorsi da' Romani, et pur eglino si difesero ostinatamente pi di sette mesi. Ma l'essempio fresco di Portogallo, stato occupato in pochi mesi dal re Cattolico, e de' Paesi Bassi, che il medesimo non ha potuto in trenta anni ricuperare, fanno in ci fede indubitata, con ci sia che tutto procede dalla vicinanza di quello e dalla lontananza di questi, perch per la distanza che tra Spagna e Fiandra muore tanta gente per il viaggio, e per gl'interessi grossissimi, che recano seco le rimesse et i partiti che si fanno co' mercatanti, si consumano tanti danari per la strada, che non cosa credibile. E se la gente che si manda in quelle bande si parte d'inverno, o muore o arriva mal conditionata per li freddi e disagi patiti e poco atta ai travagli della guerra, se si manda di buon tempo, arriva l nel fine dell'estate e del tempo da far faccende. Finalmente, non essendo cosa pi importante nell'imprese militari che l'occasione, non si pu valer di questa colui che da lungi guerreggia, perch l'occasione fugge in un punto e la lontananza partorisce necessariamente tardit: si in occasionis momento (dice L. Martio) cuius praetervolat opportunitas, cunctatus paulum fueris, nequicquam mox omissam quaeraris. Ma perch la guerra si fa e si sostiene pi con le forze dell'animo che con quelle del corpo, nel dichiararsi bisogna diligentemente considerare la natura et i costumi de' prencipi, e far capitale pi
della costanza che dell'ardire, e della toleranza che della bravura. Gli Ateniesi erano pi animosi che i Lacedemoni, ma perch questi erano pi considerati e toleranti di quelli, ne restarono finalmente superiori; et i Romani condussero a buon fine la prima e la seconda guerra punica pi con la fermezza dell'animo che con la grandezza delle forze. Nobis sors est (dice Scipione) ut magnis omnibus bellis victi vicerimus; omitto Porsenam, Gallos, Samnites; quot classes, quot duces, quot exercitus priore bello amissi sunt? I Venetiani, stati nella guerra di Lombardia sconfitti in quasi tutte le giornate fatte co' nemici loro, sono rimasti con la costanza vincitori dell'imprese. Gli Spagnuoli ancora hanno vinto la pi parte delle guerre ch'essi hanno intraprese pi con la patienza e toleranza di tutto ci che un corpo umano pu sopportare, che con l'impeto o col valor del braccio, perch le cose violente et veementi sono di poca durata e perci l'impeto dell'arme, quasi fiamma di sarmenti o piena d'acque di primavera, non molto dura: perci la patienza e la toleranza ne resta facilmente vincitrice. Il fine del discorso della neutralit.
[Discorso intorno alla fortificatione] [Dedica] DISCORSO INTORNO ALLA FORTIFICATIONE DI GIOVANNI BOTERO BENESE All'illustre Signor FRANCESCO REGITANO Gentil'uomo Messinese
Ecco il discorso promesso a Vostra Signoria qui in Roma intorno alla fortificatione. Egli (confesso) poca cosa, ma bastante s'io non m'inganno et a disobligar me dalla promessa, et a far fede a lei dell'affettione, ch'io le porto, e della stima, ch'io faccio della candidezza dell'animo, della bellezza dell'ingegno, e di tanti altri lumi d'onorate qualit, che in lei risplendono. E Vostra Signoria sa, ch'io non so fare cose lunghe. Dichiaro qui brevemente quel, che appartiene in generale all'essenza della fortificatione. L'esporre in particolare quel, che tocca a ciascuna parte, cosa, che ricerca molto tempo e non si esporrebbe senza tedio. E ne hanno scritto copiosamente diversi valent'uomini della professione. Ma Vostra Signoria sia sicura, che questa un'arte, nella quale la prattica di molto maggior importanza, che la teorica, e che l'offesa la vera maestra della difesa. Del fine della fortificatione. La fortificatione de' luoghi, se si guarda la materia, che ella maneggia, parte dell'architettura, se il fine, della militare. Imper che il fortificare un fabricare proportionato alle necessit et all'occorrenze della guerra. Non per il suo fine, che una piazza sia inespugnabile, ma il ridurla a buona e ragionevole difesa. Con ci sia che la natura pu ben far un sito o per altezza o per asprezza inaccessibile alla forza et all'industria dell'uomo, perch natura potentior arte, come quello di Orvieto, di San Leo, di Noto in Sicilia, di Bonifacio in Corsica, et altri: ma l'arte, la mano non pu far cosa, che non si possa parimente con arte e forza disfare. Onde Giove istesso, nelle favole, confessa di non poter una cosa tale. Mortali ne manu factae immortale carinae fas habeant? Certusque incerta pericula lustret Aeneas? Cui tanta Deo concessa potestas? Or le piazze riconoscono la lor fortezza o dalla natura affatto come Orvieto o dall'arte affatto, come il castello di Milano, o parte dall'una, parte dall'altra, come Ferrara, e Mantua, che hanno dall'arte le fabriche, dalla natura i fiumi et l'altre acque. Ma con ci sia che da tre cose convenga difendere una fortezza: dall'inganno, dall'assedio, e dalla forza; se bene la fortificatione si estende anche all'inganno, perch li chiudi i passi, et all'assedio, perch facilita il ricevere i soccorsi, nondimeno ella propriamente volta contra la forza. La qual forza procede o dal cannone, o dal ferro o dal fuoco, e si adopera o sopra terra, come nelle batterie, o sotto terra, come nelle mine. Della variet de' siti. Or il sito o piano, o montoso; entro, o un riva al mare o a fiume o a lago o a cosa tale.
Il piano ha questi vantaggi: ti da commodit di dar quella forma, che pi ti piace alla fortificatione, difficolta a' nemici l'accostarsi e l'accamparsi et , per la copia ordinaria dell'acque sorgenti, poco soggetto alle mine. I disavantaggi sono questi: la fortezza posta in pianura, sar assediata e campeggiata con manco gente, battuta con pi facilit in pi luoghi et il nemico aver maggior commodit di alloggiamenti e d'ogni altra cosa, sar soggetta a' cavalieri, et a montoni di terra, bisognosa di molti belluardi, fosse, munitioni, spesa, con le quali cose converr supplire a quello, in che manca la natura. Il sito montoso ha questi vantaggi: vi si campeggia difficilmente sotto, e ne' tempi piovosi vi si patisce assai per la caduta dell'acque. Vi si accomoda malagevolmente la batteria, ricerca pi gente per mettervi attorno il campo, difficolt il levar l'offese, e'l dar degli assalti. La fortificatione, per l'aiuto che ti porge la natura, di manco spesa, e fatica, e rare volte vi bisogna piazza grande, rarissime volte cavalieri. All'incontro ha molti disavantaggi: non ti permette il far elettione della forma migliore, e quella, che li darai, sar pi larga o stretta del bisogno, e con molto ricinto rinchiuderai poca piazza. Le pioggie le faranno nocumento e patir bisogno d'acqua da bere, l'artiglieria nemica ti batter con pi forza all'ins, e la tua aver, andando all'ingi, manco impeto e batter di ficco. Egli vero, che le batterie che si fanno da basso in alto hanno questo particolare, che le palle non feriscono i difensori, se non rovinano la parte, ove esse giongono. La fortezza posta in costa, partecipa dei vantaggi e de' disavantaggi sudetti: e di pi, scuoprir i nemici e sar a rincontro scuoperta a loro. Ottimamente situate si devono stimar quelle fortezze, che saranno poste in acqua, pur che siano lontane da terra ottanta canne almeno, acci che non si possino battere. Con ci sia che queste hanno bisogno di poca gente e di poche municioni, l'inimico non pu accostarvisi e le mine non vi hanno luogo, e pi forti paiono quelle, che son poste in lagune, o acque tali, che le poste in alto mare, perch hanno tutti i vantaggi di queste et di pi, non possono essere combattute con armate reali. Le fortezze, poste in riva di mare, o di fiume o di laghi grandi, participano assai delle qualit delle piazze poste in mezo dell'acqua et hanno questo avantaggio di pi, che il nimico sar sforzato a far doppia spesa, una per terra, e l'altra per acqua; vero che se saranno sopra acqua dolce, soggiaceranno ai pericoli dei ghiacci. Della figura della fortezza. S come la bont di un soldato e di un essercito consiste in due cose, cio nella gagliardezza e nell'agilit, delle quali questa di pi importanza che quella, cos in una piazza di guerra due cose simili si ricercano: cio la sodezza e l'efficatia. Voglio dire, ch'egli necessario, che ella sia non solamente massiccia, e soda, ma destra ancora et abile a percuotere et a danneggiare l'inimico. Deve essere come un Briareo con cento mani o come una idra, a cui non manchi mai testa, e veleno. Perch la fortezza un istromento immobile del soldato. Or quanto ella si pu meno muovere per sua difesa, tanto conviene che dia maggior commodit di maneggiarsi e di difendersi alla gente, che l'ha in guardia. Per questa cagione la figura semplice, quale la circolare, non a proposito: perch quasi senza mani, e senza braccia, anzi che senza occhi e senza orecchie. Vi si ricerca figura composta di parti dissimili, e differenti et atte a far diversi effetti, a scuoprire il paese, a fermar l'impeto, a ritardar il corso, a impedir l'assalto de' nemici, a danneggiarli da lontano, e da presso; ora con artegliaria, ora con fuoco, ora con sortite, ora con altre sorti d'offese, alle quali cose tutte inetta la figura tonda, perch essendo ella uniforme, non pu partorire effetti differenti. Supposta la
compositione, la pi imperfetta forma nelle fortezze la triangolare, prima perch ella tra tutte le figure incapacissima, come quella, che si dilunga pi d'ogni altra dalla circolare; e pur nelle fortezze si ricerca larghezza di piazza per schivare quella confusione, e quel disordine, che cagiona la strettezza nello schierare i soldati e nello spingerli, ove conviene. Appresso perch i belluardi, che si hanno a formare ne' cantoni del triangolo, riescono con le punte troppo acute e facili a rintuzzare et a rompere. Il che facilita all'inimico l'accostarsi, e'l maneggiar il piccone, senza che possa esser offeso da' fianchi. Con ci sia cosa che nelle fortificationi bisogna aver la mira a due cose, l'una si , che tu possi facilmente difenderti, e l'altra, che l'avversario non ti possa offendere senza difficolt. La figura triangolare ha la prima qualit, perch l'artigliaria scuoper le facciate de' belluardi senza lasciarvi pure una mosca, ma tanto debole, che pu con ogni minima cosa esser offesa, e spontata. Manco imperfetta la figura quadrangolare, ma ella ha quasi la medesima imperfettione degli angoli. Onde le fortezze reali debbono esser almeno pentagone, cio di cinque angoli; ma quanto pi angoli averanno, tanto saranno migliori, perch il recinto sar pi capace, e gli angoli pi ottusi, e per consequenza pi sodi. Sulle parti d'una fortezza. La difesa di una piazza ha tre termini principali: l'uno si il difficoltar a' nemici l'accostarsi e l'accamparsi, l'altro l'impedir loro il piantar dell'artigliaria e'l battere; l'ultimo l'impedir l'assalto e l'entrata nella fortezza. Il marchese di Saluzzo difese Gaeta dal Gran Capitano nel primo termine. Francesco di Ghisa Mets contra Carlo V nel secondo. Filippo di Baviera, Vienna contra Solimano, nel terzo. I cavalieri di Malta et i difensori di Famagosta si portarono onoratamente in tutti tre i punti: e se Famagosta fosse stata soccorsa, non fu mai pi gloriosa difesa di quella, perch i propugnatori tennero un gran pezzo discosti i nemici, e con una contra batteria imboccarono molti pezzi, e con l'istessa e con varie sortite ammazzarono un gran numero di Turchi, e perduto, doppo mirabile difesa, il fosso, si mantennero invitti sui ripari. Alla Goletta il maggior errore, che si facesse (come anche a Nicosia) fu il perder subito il primo termine della difesa, con lasciar, quasi senza contrasto, approcciar i nemici fin su l'orlo della fossa. A tutti questi tre effetti vale generalmente, e pi di ogni altra cosa, il belluardo, di cui sono supplimenti i rivellini, le piattaforme, i cavalieri. Ma in particolare per il primo vale la spianata, per il secondo la strada coverta, e le commodit delle sortite, e per il terzo il fosso, la cortina, e'l terrapieno, e per ultima necessit, il maschio. Della scarpa e contra scarpa. La scarpa, e contra scarpa non sono parti della fortezza, ma forme d'alcune parti; con ci sia che la scarpa si d alle muraglie et a' terrapieni, per sostenerli, e per conservarli facilmente in piedi contra il peso della loro materia. Et insegna ci la natura, che fa i monti et i colli e tutte le cose eminenti e rilevate a scarpa. Con ci sia cosa che il perpendicolo e la drittura non potendosi lungamente reggere, e sostenere, rovina facilmente e cede, per mancamento d'appoggio al proprio peso. La scarpa sostenta la materia di natura sua rovinosa e caduca e si deve dare grande, o picciola, secondo che la materia tenace, o pesante. Perch quanto il terreno pi denso et unito, tanto ammontandolo insieme far manco scarpa. La sabbia nei liti del mare et il formento et il miglio nelle aie, la fanno grandissima, per la disunione. Et universalmente parlando, ogni materia regge meglio il peso con assai scarpa, che con poca. L'ordinario di dar un piede di scarpa e ritirata per ogni cinque piedi di altezza: si che venticinque piedi di altezza ne importino cinque di scarpa e ci sino al cordone. Oltra al cordone, chi non d scarpa, chi la d indistintamente: ma alle opere di terra, perch non si reggono cos bene, come il muro, si dar a ogni sei piedi d'altezza uno di scarpa. Alcuni vogliono, che li si dia meno per rispetto della pioggia, che suole logorar la scarpa, ma a sifatto inconveniente, si rimediar con assodar il terrapieno con fascine, e scope e con altri modi.
Contra scarpa si chiama la scarpa del contra fosso, che non deve servir per altro, che per sostentar il terreno. Onde egli necessario farla sottilissima, altramente servir ai nemici per riparo, e per contra muro; anzi facendovi dei buchi, danneggiarano con gli archibugi, co' moschetti, e con l'artegliaria i difensori, e le mura della fortezza, come fece il marchese del Vasto a Monopoli, e i Turchi a Famagosta. E tanto basti aver detto cos in generale della fortezza. Il fine del discorso intorno alla fortificatione.
[Della riputatione del prencipe] [Libro I] [Introduzione] DELLA RIPUTATIONE DEL PRENCIPE LIBRO PRIMO DI GIOVANNI BOTERO BENESE, ALL'ILLUSTRISSIMO SIGNOR DON DIEGO FERNANDEZ di Cabrera e Bodabiglia, conte di Cincione, Signore de' Sesmi, di Valdemoro e di Caffaruuii, etc.
Uno de' principali fondamenti di Stato e di governo a giuditio de' pi intendenti, si un certo concetto alto e fermo, che si ha della saviezza, e del potere di un prencipe, il qual concetto viene ordinariamente chiamato riputatione. Con ci sia cosa che, s come a un mercatante non meno necessario il credito, che i contanti, cos a un potentato non importa meno l'esser stimato possente, che la possanza istessa. Perch questa soggetta a molti pericoli et incontri, da' quali la tien lontana e le fa quasi riparo e scudo la fama, e l'opinione, che si ha della stabilit e grandezza. Quinci avvenuto, che alcuni personaggi di molta qualit, s come si son dilettati particolarmente di quel capo della mia ragion di Stato, nel qual io discorro della riputatione, come di cosa nuova, e non trattata ordinatamente da altri, cos hanno desiderato che io alquanto pi diffusamente ne trattassi. Il che se ben non cosa molto conforme alla natura mia, amicissima della brevit, massime ove si tratta di cose gravi o spettanti a' prencipi, che per l'ordinario, non hanno tempo o patienza di legger cose lunghe, nondimeno essendomi questi giorni passati avanzato un poco d'otio, ho ripreso in mano la materia e parte con aggiungervi alcuni capi, parte con arricchir d'essempi alcuni concetti, l'ho ridotta alla forma, nella quale io la mando a Vostra Signoria Illustrissima, come a quella, in cui eccellentemente risplende, cos la riputatione, come ogni altra parte della prudenza di Stato, e che avendola avuta, quasi per ragion ereditaria dai suoi maggiori, l'ha con proprio valore, sommamente accresciuta. Sarebbe cosa lunga e soverchia, s'io volessi qui commemorare le gloriose attioni delle illustrissime case di Cabrera, e di Bovadiglia, che congiunte insieme per il matrimonio di Don Andrea di Cabrera e di Donna Beatrice Fernandez di Bovadiglia, marchesi di Moya, salirono in tanta riputatione, che i sudetti marchesi furono degni di avere per testimoni e per predicatori delle lodi e de' meriti loro Don Fernando e Donna Isabelle di gloriosa memoria, i quali confessavano d'esser re, per la fedelt e per l'opera loro. Non meno ardente, si mostr in servitio della corona e di Don Carlo imperatore l'avo di Vostra Signoria Illustrissima Don Fernando, a cui i communieri di Castiglia, rovinarono le fortezze, state poi ristorate et annobilite con spesa e magnificenza singolare da lei. Ma il Signor Don Pietro, padre di Vostra Signoria Illustrissima, non contento della gloria lasciatali da' suoi maggiori in Ispagna, venne a dilatarla in questo teatro universale della corte romana. Ove essendo egli ambasciatore di sua Maest, tra gli altri negotii importantissimi, che con destrezza meravigliosa condusse a fine, l'uno fu la riduttione del regno d'Inghilterra alla fede cristiana, ne prest l'obedienza, a nome di sua Maest, e di quell'isola al vicario di Cristo, Nostro Signore. Ma la grandezza dell'amplissimo casato arrivata a un altissimo segno nella persona di Vostra Signoria Illustrissima, la qual senza muoversi punto di Spagna, sparge per ogni verso i chiarissimi raggi della saviezza et valor suo. Con ci sia cosa che, stando perpetuamente, quasi novello Nestore, appresso a cotesto glorioso Agamennone, impiega il suo consiglio e senno in servitio di sua Maest, e di tutto il cristianesmo. Onde ella non pur amata singolarmente, e stimata da sua Maest, ma celebrata et inalzata da tutti al cielo. Ma farei torto alla candidezza di Vostra Signoria Illustrissima et alla modestia, che si fa in ogni sua attione conoscere, se io mi volessi diffondere nella commemoratione delle lodi e de' meriti suoi. Resti dunque Vostra Signoria Illustrissima servita di accettar questo
picciol segno della molta divotion mie e di gradir questa operetta della riputatione, come dissegno da me abbozzato con la penna e da lei colorito co' fatti. Che cosa sia riputatione Io mi ricordo che, discorrendo alcuni anni sono con Torquato Tasso, poeta famoso, della riputatione, tra l'altre cose appartenenti a questa materia ch'egli dottamente tocc, e' mi disse che s come il vignaruolo per far che la vite produca molta e buona uva la pota spesso e ne tronca i ramoscelli inutili e superflui, cos chi vuole acquistarsi riputatione deve dalla vita e dall'attioni sue tutte l'impertinenze e le cose indegne di un personaggio di alto affare bandire. La qual derivatione mi pare, salva l'autorit di un tanto uomo, pi sottile che vera, imper che, prima, la riputatione non nel riputato ma nel riputante, appresso, ella non nasce dal non aver difetto o mancamento, ma dall'aver eccellenza e grandezza di valore. Onde io stimo che riputare non sia altro che un ripensare o un considerare profondamente una cosa, e che uomo di riputatione sia quello la cui virt, per non si potere facilmente penetrare e comprendere in un tratto, sia degna d'esser pi e pi volte considerata e stimata, e che ci sia riputare. Molte cose hanno non so che di simile con la riputatione, come il credito, l'autorit, la stima, la meraviglia, la fama, ma ne sono assai differenti. Non la riputatione il medesimo che credito, bench ci si confaccia assai, perch il credito delle persone private, la riputatione delle pubbliche. Differisce anche dall'autorit, perch questa nel capitano, per essempio, rispetto de' soldati: quella, a rincontro, ne' soldati rispetto del capitano, onde diciamo avere autorit et essere in riputatione. L'auttorit verso gl'inferiori e i vicini, la riputatione s'estende anche agli alieni e a' lontani; vi per alle volte poca differenza, come quando Tacito, parlando di Corbulone, dice: multa auctoritate, quae viro militari pro facundia erat, e quando Sesto Vittore dice di Antonino Pio: orbem terrae nullo bello per quatuor et viginti annos sola auctoritate rexit. Ella forse l'istesso che la stima, ma con l'aggiunta di grande, onde i Latini non hanno modo con qual possino meglio significare un uomo di riputatione, che con dire: virum magnae existimationis; nondimeno la stima del superiore rispetto dell'inferiore, perch non si dice che il servitore faccia stima del padrone, ben all'incontro, che il padrone faccia stima del servitore, ma la riputatione nell'inferiore rispetto del superiore. Ha qualche somiglianza con la riputatione la meraviglia, ma non l'istesso, perch la meraviglia si stende pi alle cose speculative e naturali che alle umane e pratiche, ma la riputatione non si allarga fuor delle cose pratiche. Quella nasce perch non s'intende la ragione dell'effetto, onde l'ecclisse della luna e del sole, la cometa e le altre cose cos fatte paiono meravigliose a chi non ne sa il perch; ma la riputatione procede non perch non si sappia la ragione dell'effetto, ma perch non si comprende facilmente la sua grandezza. Pare che la fama assai con la riputatione si confaccia, come quando Tiberio toccava con mano publicum sibi odium, magisque fama quam vi stare res suas; ma non il medesimo, perch la fama s'estende a cose anche cattive, contrarie alla riputatione. Onde proceda la riputatione Essendo che noi non riputiamo se non quelli che per qualche eccellenza e grandezza loro stimiamo aver trapassato i termini ordinarii del valor umano e aver in s non so che di celeste e divino, la riputatione deve esser stimata parto e frutto d'una virt eccellente e di tutta perfettione. Con ci sia cosa che un picciol bene e che non esce fuora de' confini della mediocrit, ben atto a partorir amore, ma non riputatione, imper che, essendo egli facilmente compreso dall'intelletto, muove subito la volont o l'appetito, che si compiace in esso e l'abbraccia e l'ama, ma una virt eccelsa intertiene l'intelletto e l'occupa tanto nella sua consideratione, che poca parte vi pu avere la volont e l'amore. E perci Aristotile insegna che si amano i pari o i minori, si osservano e si riveriscono i
maggiori, et si onorano e si beatificano gli eroi et i personaggi che per altezza di virt e di perfettione hanno quasi varcato i termini ordinarii dell'umana natura. S che quelle virt aggiungono riputatione, che hanno dell'eccelso, e dell'ammirabile e che inalzano il prencipe sopra terra e lo cavano fuor del numero degli uomini comunali. .Tentanda via est, qua me quoque possim tollere humo, victorque virum volitare per ora. Or l'uomo non ha con che sublimarsi se non con la sottigliezza dell'intelletto e col vigor dell'animo, e perch la riputatione di un prencipe posta nell'opinione e nel concetto che il popolo ha di lui, la materia, nella quale egli si deve, per far acquisto di un tanto bene, occupare, deve esser tale che il popolo vi abbia interesse. E tali sono la pace e la guerra, perch con l'arti della pace s'intertengono quietamente i sudditi, e con quelle della guerra si tengono lontani i nemici. Cos le maniere civili acquistarono fama di divinit presso gli antichi a Orfeo et ad Anfione, a Radamanto e a Minoe. Non meno s'inalzano gli uomini con le vittorie e co' trionfi: Res gerere et captos ostendere civibus hostes attingit solium Iovis et coelestia tentat. Et volendo il medesimo Oratio lodare compitamente Augusto Cesare il fa eccellente nell'una e nell'altra parte: Cum tot sustineas et tanta negotia solus, res Italas armis tuteris, moribus ornes, legibus emendes. E Vergilio, concedendo ai Greci il saper orare cause e fabricar con meravigliosa delicatura statue di marmo e di metallo et il notare e il descrivere i movimenti del cielo e delle stelle, non volle che alla grandezza romana altro convenisse che la prudenza civile e militare: Tu regere imperio populos, Romane, memento; (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem, parcere subjectis et debellare superbos. Tra i Giudei sono stati due re d'incomparabile riputatione, uno per arte di guerra, che fu David, e l'altro per arte di pace, che fu Solomone. Et in Roma due personaggi s'acquistarono cognomi eminenti: l'uno col valor dell'arme, che fu Pompeo, detto Magno, e l'altro con prudenza civile, che fu Q. Fabio Rullo, detto Massimo. N si meravigli alcuno, che i Romani onorassino con maggior titolo questo che quello, perch cosa molto pi difficile e pi importante il conservare (come abbiamo detto altrove) che l'ampliar l'imperio. Con ci sia cosa che (come diceva ai Romani Eraclide, ambasciatore di Antioco): parari singula acquirendo facilius potuerunt, quam universa teneri. Pirro, re d'Epiro eccellente nella peritia della guerra e nel mestier dell'arme, per non saper conservar l'acquistato fu tenuto in conto di un giuocatore che tragga bene i dadi, ma non sappia valersi della vencita. E nella guerra istessa di pi lode il vincer col consiglio che col ferro, perch in quel modo di guerreggiare si doma il nemico con l'intera salvezza dell'essercito proprio, ma in questo: .la vittoria sanguinosa Spesso suol far il capitan men degno;
s che meritamente Augusto Cesare, avendo inteso che Alessandro Magno, doppo l'aver fatto acquisto di un tanto Stato, diceva di non saper quel che si dovesse fare, si meravigliava ch'egli non stimasse molto maggior opera il governare l'acquistato, che l'aver fatto acquisto. Ora gli Stati, s come rovinano o per sciocchezza o per crudelt o per libidine o per dapocaggine del prencipe, cos si conservano e si augumentano con la saviezza e giustitia, temperanza e fortezza dell'istesso; e queste virt tanto producono effetti di maggior riputatione e meraviglia presso alla moltitudine, quanto sono in grado pi alto e pi eminente. La prudenza commune alla pace et alla guerra, la giustitia (sotto la quale io abbraccio la religione) e la temperanza sono pi proprie della pace che della guerra, la fortezza pi della guerra che della pace. Di che importanza sia la riputatione. Egli necessario che ogni prencipato si appoggi sopra uno di tre fondamenti: cio sopra l'amore o il timore o la riputatione, de' quali i due primi sono semplici et il terzo composto dell'uno e dell'altro. Di questi l'amore di natura sua senza dubio pi gagliardo e pi atto a tenere i popoli devoti e soggetti, perch egli tra tutti gli affetti nostri potentissimo e di suprema forza, anzi egli il primo e il principale e quello che d vigore e moto a tutti: perci Plutarco il paragona al dittatore, alla cui presenza cessa ogni altro magistrato; onde non si potrebbe migliorare quella signoria, che fosse tutta fondata nell'amorevolezza dei sudditi. Ma dall'altro canto non forma di governo pi incerta e fallace, non per difetto d'esso amore, ma per imperfettione dei soggetti, con ci sia ch'egli cosa troppo difficile che un prencipe si porti con tanta misura e circospettione co' sudditi, che egli dia lungamente loro piena soddisfattione e contento. Gli animi nostri sono di natura insatiabili e di difficile contentatura: . Or mi diletta e piace quel che pi mi dispiacque; onde veggiamo prencipi stati eletti con grandissimo applauso e con festa meravigliosa esser stati poscia in breve abbandonati o morti, di che tutta l'istoria degli imperatori romani piena; perch, s come la materia prima non lungamente contenta di una forma, cos gli animi nostri cercano di ora in ora qualche novit in ogni cosa, ma principalmente nella maniera di governo. E la moltitudine di natura sua mormoratrice e che difficilmente resta sodisfatta, et il reggimento presente suol parere sempre duro e grave, eppure: ferenda (dice Tacito) regum ingenia, neque usui crebras mutationes. Egli poi impossibile che tante migliaia d'uomini si accordino et concorrano nell'amor di uno, e non meno impossibile che uno operi sempre in modo che piaccia a tutti. Una buona cera, un favore, una gratia che si faccia a uno pi che a un altro atta a render amaro ogni piacere gi fatto, a scancellare la memoria di ogni beneficio passato, a metter odio ove prima albergava amore. Per queste et per altre ragioni molti prencipi, non si fidando degli umori de' sudditi, hanno lasciato la via dell'amore e fondato il lor imperio sul timore come in cosa pi ferma e pi sicura; perch l'amore in potest del suddito, ma il timore dipende da chi si fa temere, e le maniere di rendersi amabile non sono cos sicure et universali come quelle di farsi formidabile. E se ci vero ne' sudditi, molto pi vero fia negli stranieri, che non hanno teco altro legame che quel della vicinanza e del timor delle tue forze. Ma bisogna che questi si portino in modo che il timore sia maggior che l'odio, onde, dimandando Catone Uticense dal suo maestro onde fosse che L. Sylla, di cui tante crudelt si vedevano, tanto durasse: Perch rispose quegli esso pi temuto che odiato. D'amore e di timore si compone la riputatione, che migliore dell'uno e dell'altro, perch contiene quel ch' di buono e di utile in ambedue, con ci sia che ella prende dall'amore l'unione de' sudditi col prencipe e dal timore la soggettione, perch quello unisce e questo sottomette.
Ma mi domandar alcuno quale ha pi parte nella riputatione: l'amore o'l timore. Il timore senza dubio, perch, s come il rispetto e la riverenza, cos anche la riputatione sono per la eminenza della virt, onde procedono spetie di timore anzich d'amore. Il che si pu facilmente comprendere da questo: che l'amore passione conciliatrice e'l timore ritiratrice degl'animi, quello unisce, questo distrae; quello pareggia, questo disuguaglia. Or chiara cosa che nella riputatione compariscono molto pi le propriet e gli effetti del timore che dell'amore, perch'ella ha pi forza di ritirare e di separare e di dispareggiare, che di conciliare o di unire o di uguagliare. Il medesimo si pu facilmente intendere da questo: che non cosa pi contraria alla riputatione che il disprezzo, onde scrive Dione Cassio che Nerva imperatore, accorgendosi che per la vecchiaia era diventato disprezzabile e gli era perci mancata ogni riputatione, adott Traiano e sel sostitu nell'imperio. Di questo parere fu anche Ovidio l dove, avendo vagamente detto che doppo l'antico caos le cose restarono un gran tempo confuse, senza distintione di maggioranza o di minoranza, s che li di di bassa lega si ponevano spesse volte a sedere presso a Saturno et a Giove, soggiunge che finalmente l'onore e la riverenza diedero a ciascuno il grado et il seggio conveniente, onde nacque la Maest, presso a cui si assisero il rispetto e la paura: Hinc sata Maiestas, quae mundum temperat omnem, quaque die partu est edita, magna fuit... Consedere simul Pudor et Metus. Omne videres numen ad hanc cultus composuisse suos. Anzi, di tanta importanza alla riputatione l'esser temuto, che la mantiene anco senza amore: onde scrive Livio che, se bene Camillo aveva consegnata la preda della citt di Veio a' tesorieri con grande sdegno de' soldati, severitate imperii victi, eandem virtutem oderant et mirabant. Or, di quanta importanza sia la riputatione si pu conoscere da questo: che anco uomini morti hanno con l'ombra di lei fatto cose da uomini vivi, con ci sia che si legge di Roderico Zid, personaggio d'altissimo valore nell'arme, che avendolo doppo morte i suoi acconcio sopra un cavallo, con la sola presenza di lui vinsero un grosso essercito di Mori venuti sopra la citt di Valenza; Baldrino Panicaglia fu di tanta riputatione presso a' soldati, che anco doppo morte si reggevano quasi per lui, imper che portavano il suo corpo imbalsamato attorno, e gli piantavano il padiglione come quando era vivo, e con certe sorti esploravano il suo parere, e con esse si governavano. I Turchi ancora si misero in fuga alla vista delle genti di Giorgio Scanderebecco gi morto, credendo ch'egli fosse ancor vivo e le guidasse, e poi col portar le relliquie di lui indosso credevano d'acquistar forze e di partecipare del suo valore. Gradi e spetie di riputatione. La riputatione da alcuni in tre gradi compartita, imper che ella (dicono) o meno o tanto o pi della cosa riputata. Sopra di che diciamo primieramente che, se la riputatione un effetto (come si dimostrato di sopra) d'eccellente virt, l'esser un prencipe meno riputato di quel che gli conviene non grado, ma difetto, non tanto di riputatione, quanto di virt onde quella deriva. Quanto al resto poi la riputatione di tre sorti, delle quali l'una noi naturale, l'altra artificiale e la terza avventitia chiamaremo. Naturale quella che, s come il lume dalla luce, cos essa dall'eminenza della virt procede, e a questa come all'ombra meridiana basta esser uguale alla sua cagione; artifitiale quella che per industria o per artifitio del prencipe i termini della cosa riputata trapassa, qual fu la fama delle ricchezze di Alfonso secondo duca di Ferrara; avventitia quella che, senza che il prencipe ci si adoperi, dalla falsa openione altrui gli vien recata. Or la vera riputatione quella che noi abbiamo chiamata naturale, la qual si contenta di esser uguale alla cosa riputata, cio alla virt eccellente da cui essa quasi riverbero risulta. L'altre sorti sono quasi alchimie che, non constando di princpii sodi, poco durano al paragone, pochissimo alla copella, e sogliono spesse volte riso e disprezzo,
spesse volte pericolo e danno partorire. Il che (per non allegare essempi antichissimi) provarono alquanto inanzi l'et nostra il Carmagnola e Paolo Vitelli, imper che, essendo questi capitani stimati valere pi di quel che valevano, caderono in openione di non aver per fellonia voluto quel che non avevano per difficolt dell'impresa potuto effettuare: cos il Carmagnola fu da' Venetiani decapitato per non aver preso Cremona, e il Vitelli da' Fiorentini per non aver espugnato Pisa. E prima di loro Alcibiade per la perdita d'una parte dell'armata, attribuita dagli Ateniesi non a disaventura, ma a sua malvagit, fu da loro bandito. All'incontro quell'altro fu (come dice Tacito) maximis provinciis per quattuor et viginti annos impositus, nullam ob eximiam artem, sed quod par negotiis neque supra erat. Non nego per che, s come a un banchiere giova alle volte l'aver credito maggiore del capitale, cos ad un prencipe non sia d'utile e di servitio l'esser in maggior concetto di quello che la sua qualit comporta. Ma questa si deve openione anzi che riputatione chiamare. Alla riputatione due cose, quanto spetta a quel di che ragioniamo, convengono: l'una il cuoprir le sue debolezze, l'altra il far palese senza ostentatione la sua grandezza; e se pure non disconviene ch'ella i termini della verit trapassi, fa di mestieri almeno che infra quelli della verisimilitudine si contenga. Ma se la riputatione dalla virt deriva, che si ha da dire delle forze e dei tesori e di simili altre cose? Non recano anche queste riputatione? Dico che la riputatione propriamente dalla saviezza e dal valor del prencipe dipende, onde l'altre cose, non per se stesse, ma per rispetto della virt e dell'altezza dell'ingegno e dell'animo di cui debbono essere instrumenti, l'effetto del quale ragioniamo partoriscono. Che riputatione rec mai a Caligula il tesoro lasciatogli da Tiberio, se egli era tenuto una bestia? La grandezza dell'imperio romano a Claudio, se egli era stimato un mentecatto? S come n per ricchezza un avaro, n per forze un poltrone, cos n per tesori n per esserciti un prencipe, a cui manchi prudenza e valore, sar mai riputato. Il fine del primo libro della riputatione del prencipe. [Libro II] DELLA RIPUTATIONE DEL PRENCIPE LIBRO SECONDO DI GIOVANNI BOTERO BENESE.
Or che noi abbiamo dimostrato la natura della riputatione e le cagioni in generale onde procede, resta che mettiamo qui alcuni capi particolari e maniere con le quali ella si possa acquistare e conservare. Il primo si il cuoprire accortamente le sue debolezze, perch molti, bench deboli prencipi, si mantengono in credito et in riputatione di poderosi col celare la loro impotenza anzich col fortificarsi. Aggiunge riputatione il far, senza ostentatione, mostra delle sue forze. Ipse Romulus (dice Livio) cum factis vir magnificus, tum factorum ostentator haud modicus, spolia ducis hostium caesi suspensa fabricato ad id apte ferculo gestans in Capitolium ascendit; e di quell'altro dice Tacito: omnium quae diceret quaeque ageret arte quadam ostentator. E se Ezechia fu di ci ripreso, avvenne perch in luogo di dar ad intendere agl'infedeli ch'egli non si fidava se non in Dio, mostr di far fondamento ne' suoi tesori. Ma nissuna natione, nissun prencipe dimostr pi alla grande il suo potere che i Romani. Mentre Pirro guerreggiava in Italia, i Cartaginesi mandarono Magone con centoventi legni in lor aiuto; il Senato ringrazi i Cartaginesi del buon animo, ma non accett l'aiuto, dicendo che non solevano i Romani imprender guerre che non potessino con le forze proprie
sostenere. Ne' travagli della seconda guerra punica, la citt di Napoli mand ambasciatori a Roma con quaranta tazze d'oro, perch i Romani, che per tante spese fatte dovevano aver l'erario esausto, se ne servissero; furono i Napolitani di un cos buon animo assai ringratiati, ma non si accett per se non una tazza in segno d'amorevolezza. Perseo, re di Macedonia, avendo vinto in una grossa fattione P. Licinio consolo, fu dai migliori suoi ministri consigliato, che di quella occasione in ottener da' Romani una onesta pace si valesse, a che piegandosi egli facilmente, mand tosto a chieder la pace al consolo con le medesime conditioni con le quali l'aveva gi Filippo suo padre ottenuta, rispose il consolo, che, se Perseo la pace desiderava, dovesse del tutto s e'l regno in mano del Senato e del popolo di Roma riporre; di che egli, che vedeva questa sicurt et alterezza di Romani da una grandissima confidanza di forze procedere, come attonito rimase e tent varie vie per ottener l'intento, ma il consolo non si pieg mai a dare altra risposta. Scema infinitamente la riputatione il mostrarsi dipendente dal conseglio o dall'opera di chi si sia, perch questo un constituirsi un superiore o un compagno nell'amministratione delle cose et uno scuoprire la sua incapacit e debolezza, come avvenne a Claudio e a Commodo imperatori et ad Arrigo III di Francia et ad altri a' tempi nostri. Essendo che non impresa nissuna pi difficile e pi ardua che il reggere e'l governare popoli, n cosa pi nobile e pi eccelsa che la grandezza e la maest di un prencipe, non deve egli far professione d'altro, che di ci che all'uffitio suo appartiene. Onde disconviene ad un prencipe l'occuparsi in studiar favole e sottigliezze grammaticali, come Tiberio Cesare, o in suonare, come Nerone, o in far lucerne, come Eropo re di Macedonia, o imagini di cera, come Valentiniano imperatore, o in dipingere, come Renato conte di Provenza, o in far versi, come Chilpercio re di Francia e Teobaldo re di Navarra, o in cacciar tutto il d, come Carlo IX re di Francia, o l'attendere con tanto studio all'astrologia, come Alfonso X re di Spagna. Di Ercole scrive Euripide, che fu inetto nelle cose vane, acconcio alle cose d'importanza. Essendosi Alessandro Magno affaticato molto in combattere e in ammazzare un gran leone, l'ambasciatore dei Lacedemonii, beffando una cos vana ambitione: Tu hai, dice sire, combattuto molto valentemente con quella bestia a chi di due dovesse re rimanere. Filippo, padre d'Alessandro, essendosi messo a ragionare con un musico eccellente di musica et volendo doppo qualche contrasto che insomma il musico li cedesse: O Filippo disse il musico Dio ti guardi di tal male, che tu possi concorrer meco a parlar di musica. Con che volse inferire che in un prencipe mancamento di giuditio l'impiegarsi affatto in simili studii e'l procacciarsene onore. Onde il medesimo Filippo, avendo poi inteso che Alessandro suo figliuolo aveva dolcissimamente cantato in un certo luogo, gentilmente lo riprese col dirli: Come? Non ti vergogni tu di saper cos bene cantare? Imper che a un re basta aver otio di udir cantare altrui e fa assai cortesia alle muse se, quando altri canta, si contenta di sentirlo per suo diporto. All'incontro si legge che sendo stato Favorino filosofo ripreso da Adriano imperatore sopra una parola latina fuor di ragione, perch i suoi compagni si meravigliavano ch'egli s facilmente cedesse, piacevolmente sorridendo rispose, che egli volentieri cedeva e credeva anche che fosse pi di s, povero filosofo, dotto colui che a trenta legioni comandava. Ma pi liberamente si rise di lui Apollodoro, perch, discorrendo una volta con costui Traiano di alcuni edifitii ch'egli intendeva di fare, e volendo Adriano, che vi sopragiunse, darne anche il suo parere, gli disse Apollodoro che andasse a dipinger zucche, perch d'una cos fatta pittura era gi stato commendato.
Ma non potendo Adriano vincere quel valente uomo col sapere, il volse vincere col potere e di concorrente ne divenne assassino: perci che, facendo egli, doppo che fu fatto imperatore, edificar un gran tempio a Venere et volendo ostentare quanto s'intendesse d'architettura, ne mand il modello ad Apollodoro con ricercarlo del suo parere, e perch egli ne diede apertamente il suo giuditio con correggerlo in molte parti e migliorarlo, Adriano il fece alla fine mal capitare. Con molta gentilezza fu beffeggiata da Cleopatra la sciocca ambitione di M. Antonio, con ci sia che passando ambidue il tempo col pescare e non potendo Antonio pigliar cosa alcuna, fece secretamente andar sotto acqua certi uomini ad attaccar all'amo alcuni pesci presi prima. Cleopatra, di ci accortasi, il d seguente, mentre che Antonio aspetta che la caccia venghi all'esca, fece da uno, che occultamente vi nuot, attacarli all'amo un pesce secco al fumo; s che, alzando Antonio la preda, diede da ridere a tutti, che del gioco s'avvidero. E Cleopatra con molta destrezza: Lasciate disse a noi Egittii le reti e gli ami, perci che gli essercitii vostri sono il prendere a forza le citt, soggiogare i popoli et vincere combattendo il nimico. Gallieno imperatore (come scrive Trebellio Pollione) era annoverato tra' primi oratori e poeti del suo tempo: sed aliud in imperatore quaeritur, aliud in oratore vel pota flagitatur. Amoratte III re de' Turchi fu per l'immoderato studio di filosofia, (come anche Baiazette secondo) detto Bongi; Adriano era per le sue soverchie sottigliezze chiamato grecuccio, Antonino, filosofo. A Numeriano imperatore fu dal senato dirizzata una statua, sottovi questo elogio: numeriano Caesari oratori temporibus suis potentissimo: cosa da ridere. Pirro, stimando l'arte militare propria del re, in quella tutto intendeva, dell'altre non faceva conto alcuno; onde, essendo in un convito domandato qual gli paresse miglior musico, Fitone o Cafisia, rispose che Poliperconte ottimo capitano gli pareva, volendo inferire che a un prencipe disconviene l'intendersi d'altro che del suo mestiere. Temistocle si vantava di non saper suonare n cantare (cose che erano molto onorate tra gli Ateniesi), ma ben di fare una republica grande e ricca. Un certo Muffar s'alz contra Iezid, calife di Baldacco, senza altro pretesto che con dire che Iezid era pi atto a far versi (faceva egli di ci professione) che a maneggiar scettro. Non disconverr per a un prencipe l'impiegarsi in far qualche ordigno eccellente da guerra, nel qual genere acquist somma lode Demetrio, re di Macedonia; fece egli tra gli altri due vascelli meravigliosi, l'un di quindeci e l'altro di sedici ordini di remi, e molte machine da guerra. Erano queste opere di tanta grandezza e con tanto artifitio fabricate, che, avendone visto alcune Lisimaco, suo nemico, ne rest quasi attonito e le giudic fatte con ingegno anzi divino che umano, e un altro disse che le opere di Demetrio con la grandezza porgevano meraviglia agli amici e davano con la bellezza diletto anche ai nimici. La pi famosa machina fu la espugnatrice delle citt, la cui grandezza si pu da questo comprendere, che in un mese pi di un miglio non faceva. Non scem n anco l'auttorit ad Alfonso primo, duca di Ferrara, il gittar di sua mano pezzi di artegliaria grossa di tutta perfettione, perch queste cose hanno non so che di riputabile anche in un prencipe per la loro grandezza e perch appartengono alla militia, che Pirro, come abbiamo detto di sopra, stimava esser arte propriissima del re. di grande importanza la secretezza, perch (oltre ch'ella rende il prencipe simile a Dio, qui posuit tenebras latibulum suum) fa che gl'uomini, ignorando i pensieri del prencipe, stiano sospesi et in aspettatione grande de' suoi disegni. spetie di secretezza l'aver pi fatti che parole, e sono pi stimati quelli che queste, e per consequenza gli uomini che fanno professione di fare, qual fu Arrigo secondo re di Francia, che quelli che si dilettano molto di discorrere, qual fu Arrigo III; e perci si stimano gli uomini alquanto taciturni e maninconici, anzich gli allegri et i loquaci; de' Parti dice Iustino: ad faciendum quam ad
dicendum promptiores; proinde secunda adversaque silentio tegunt. Insomma, ove il prencipe si pu dei fatti valere, non deve le parole adoperare. Avendo i Rodiani parlato al senato di Roma altieramente e dimostro che, se non faceva pace col re Perseo, la loro republica pensarebbe a ci che pi convenisse, il senato, non volendo render parole per parole, fece tosto un decreto per lo quale mise in libert la Caria e la Licia, provincie ch'egli aveva gi dato per li servitii passati a' Rodiani, et ordin che ne fosse lor subito mandata col decreto la nuova. Achille, ricercato da Calcante che lo volesse e co' fatti e co' detti contra Agamennone aiutare, rispose che l'aiutarebbe co' fatti, ma che l'aiuto delle parole poco a un par suo conveniva. S'avvicina alla virt della quale ragioniamo la brevit del parlare, perch d segno di buon giuditio e di animo verace. Di Filopemene scrive Polibio, che per la sua veracit e breviloquenza era in gran credito e riputatione presso tutti. Focione fu sommamente riputato per la sua brevit nel parlare, onde Polieuto diceva ch'esso tutti gli altri oratori sorpassava, perch con pochissime parole molti e gran concetti abbracciava; egli medesimo ad uno che gli diceva: mi pare, o Focione, di vederti molto pensoso, Tu non t'inganni rispose punto, perch io vo' considerando se io potessi, del ragionamento che io son per fare agli Ateniesi, qualche cosa troncare. Gli Ateniesi la brevit di Catone ammiravano, imper che quel che egli in poche parole spediva l'interprete a pena con lungo circuito esprimeva, onde ebbero a dire che il parlar de' Greci dalla bocca, quel de' Romani dal cuor uscisse. Cornelio Tacito, parlando di Galba: imperatoria, disse, brevitate a se Pisonem adoptari pronuntiat, ove egli chiama la brevit imperatoria, perch ella agl'imperatori conviene. Le parole sono come le monete, onde s come quelle monete sono da pi dell'altre che in minor materia contengono pi prezzo et valore, cos quelle parole hanno pi del grande e del magnifico, che pi cose acconciamente abbracciano e che s'assomigliano non a' quattrini o anche a' soldi et a' giulii, ma alli scudi et alle doble d'oro finissimo, o anche alle perle et a' diamanti orientali. Ma nel parlare reca riputatione la gravit e la sodezza, e'l prometter meno di s di quello che pu, e'l non lasciarsi uscir di bocca parole di vanto e di bravura; nel che manc grandemente e Francesco primo re di Francia, quando disse di non aversi a partire dall'assedio di Pavia, se non padrone di quella citt; e Lotrecco, suo luogotenente, quando scrisse a lui per cosa certa, prima, che l'essercito della Lega non passarebbe l'Adda, e poi che Napoli non gli uscirebbe dalle mani; e Prospero Colonna, quando scrisse al Papa che stesse sicuro, che i Francesi non passarebbero le Alpi: cose che ebbero tutte successi contrarii a' vanti che quei personaggi si diedero. Fu in questa parte rarissimo Scipione Africano, di cui scrive Livio che, rispondendo agli ambasciatori delle citt di Spagna: loquebatur ita elato ab ingenti virtutum suarum fiducia animo, ut nullum ferox verbum excideret, ingensque omnibus quae ageret cum maiestas inesset, tum fides; e di Timoleone dice Probo: nihil unquam insolens et gloriosum ex ore eius exiit, cio non li usc mai di bocca parola insolente o vana. E non meno meraviglioso fu Vespasiano, il quale, quando fu assonto all'imperio, in ipso nihil tumidum, arrogans, aut in rebus novis novum fuit. Schivi nel ragionare le amplificationi e le maniere di dire iperboliche, perch tolgono credito a quello che si dice et arguiscono poca sperienza delle cose, onde le usano naturalmente le donne et i fanciulli.
Molto notabili sono le parole di Sallustio parlando di Giugurta, re de' Numidi: plurimum facere et minimum ipse de se loqui, cio egli operava cose assai et parlava di s parcamente. Di Epaminonda scrive Plutarco, che egli aveva notitia di molte cose, ma di poche ragionava. Reca riputatione l'uniformit della vita et delle attioni et una certa invariabilit di maniere e di governo (nel che manc Galba imperatore, come nota Tacito) perch ha non so che di celeste e di divino. Non conversi n s'addomestichi con ogni sorte di persone, non con uomini loquaci e ciarlatori, perch, divolgando quel che si dee tener secreto, il discreditaranno presso al popolo; e tenga per cosa sicura ch'egli sar stimato tale quali sono quelli co' quali conversa e de' quali egli si serve et vale. Arrigo IIII d'Inghilterra, assonto che fu alla corona, si ritir dalla conversatione di tutti quelli co' quali aveva passato la sua giovinezza et invece loro ammise alla sua famigliarit persone gravi e di valore, col cui ministerio et avviso egli potesse reggere il peso del regno e la somma de' negotii cos di pace come di guerra, con che egli riusc prencipe chiarissimo e glorioso. Non faccia copia di s quotidianamente, non in ogni luogo, ma di raro e con occasione: continuus aspectus minus verendos magnos homines ipsa satietate facit. Pericle, da che applic l'animo alla republica, lasci tutte le pratiche di prima e in tanti anni che egli govern la patria non mangi mai in casa d'altri, se non una volta, imper che la conversatione di tanta forza, che abbassa ogni maest, e se tu vuoi nella compagnia stare sul grave, sarai necessariamente di noia e di gravezza a quelli co' quali tratterai. Il medesimo non andava sempre in consiglio, n favellava d'ogni cosa, ma, riservando la persona sua per li casi e per gli affari d'importanza, l'altre cose faceva egli per mezo d'amici e per opera di ministri trattare; trattava per spesso con Anassagora, filosofo eccellente, l'altezza della cui dottrina inalzava l'animo di lui a opere eroiche e che di gran lunga i concetti comunali avanzavano. Tenga in piede l'obedienza e la soggetione de' vassalli e la dipendenza da lui nelle cose importanti. Non comunichi con chi si sia quello che appartiene alla grandezza, alla maggioranza, alla maest, quali sono l'autorit di far leggi e privilegi, di romper guerra o di far pace, d'instituir magistrati e offitiali e di pace e di guerra, il far gratia della vita, dell'onore e de' beni a chi ne sia stato giuridicamente privato. Non di minor momento il mantener la parola, perch procede da costanza d'animo e di giuditio. Giova anco pi la severit, che (come dice Menandro) salutifera alle citt, che la piacevolezza, come cosa pi salubre l'amarezza che la dolcezza. Non chiamo per severit il far morire tutto'l d un gran numero di gente, perch s come non onor d'un medico che li muoiano continuamente ammalati tra le mani, cos non di riputatione a un prencipe il valersi molto dell'opera del boia. Prudentemente severo fia colui che con poche essecutioni e asprezze terr il popolo in uffitio e si far tener terribile, imitando in ci Dio, il quale con tuonare spesse volte cagiona negli animi degli uomini paura e terrore senza danno; ma acci che i tuoni non perdano il credito per non far mai colpo, tra mille tuoni saetta qualche volta, e per lo pi qualche cima d'albero o giogo di monte:
Ipse Pater media nimborum in nocte corrusca fulmina molitur dextra: quo maxima motu terra tremit; fugere ferae et mortalia corda per gentes humilis stravit pavor: ille flagranti aut Atho, aut Rhodopen, aut alta Ceraunia telo deiicit. Perch invero, non essendo oggi maggior carestia di cosa alcuna che di uomini per la guerra, per le galere e per altri affari, conviene risparmiar le lor vite il pi che si possa. Importa assaissimo la costanza nelle cose avverse, perch significa grandezza di cuore e di forze, e la moderatione nelle prospere, perch arguisce animo superiore alla fortuna. Nell'una e nell'altra parte furono meravigliosi i Romani nella seconda guerra punica, nella quale, bench avessino perduto il fiore e'l nervo delle genti loro e fossino all'estremo spirito ridotti, non per mai di un punto s'avvilirono; et nell'impresa d'Asia al re Antioco quelle istesse conditioni proposero innanzi alla vittoria, che se avessino gi vinto, e doppo la vittoria, che se non avessero vinto: ita tum mos erat in adversis vultum secundae fortunae gerere, moderari animos in secundis, cio: cos costumavano allora, si portavano altieramente nelle avversit e moderatamente nelle cose prospere. Guardisi di non tentar impresa che sia sopra le sue forze e di non entrare in negotio, non in affare che non sia probabilmente sicuro di avere a riuscirne onoratamente, nel che sono senza dubio avveduti gli Spagnoli e tanto, che non vogliono quasi mai vincere se non di pedina. Non si deve, per, mettere ad imprese picciole e basse, perch quel che non ha del grande e dell'arduo non pu partorire riputatione, onde Pericle, volendo far una magnifica statua di Giove Olimpio e dubitando se la doveva far riguardevole per la grandezza o per lo prezzo, si risolse di volerla anzi di grandezza che di prezzo notabile, perch non pu esser opera magnifica, per pretiosa che sia, se non grande. E l'imprese debbono esser grandi, massime nel principio dell'imperio e del governo, perch da quelle si fa giuditio del restante e nel principio consiste la met del tutto. Tal fu l'impresa di Cartagena, fatta da Scipione nell'ingresso suo nel governo di Spagna: non ignorabat instandum famae; ac prout prima cessissent fore universa, cio: non ignorava che fa mestieri procacciarsi nome e riputatione e che i prencpii delle imprese danno moto al restante. All'incontro i Francesi nell'imprese del regno si perderono prima sotto Roccasecca e poi sotto Civitella, luoghi di poca stima. Ma una attione viene stimata grande o per se stessa, come l'espugnatione d'una Cartagine, e le vittorie con gran mortalit de' nemici, come quella di T. Manlio al Vesuvio, di Annibale a Canne, di don Giovanni d'Austria agli Scurzolari, o perch apporta salute a' popoli, come la rotta data da Camillo a' Galli, da Mario a' Cimbri, onde fu chiamato dal popolo romano terzo edificatore di Roma, o perch reca felicit e ben essere, come le leggi date a' popoli, l'edificatione delle citt preclare, di che si pregia Didone: Urbem praeclara statui, mea moenia vidi, e le chiese magnificamente fabricate e dotate, nel qual modo illustr il suo nome Salomone per lo tempio meraviglioso da lui fatto, et Alfonso III re di Spagna per la chiesa di S. Giacomo da lui arricchita. Hanno del grande anco quelle attioni che dilatano notabilmente la tua nominanza, come l'imprese lontane, quali furono quelle di Bacco e di Semiramide, d'Alessandro, de' Latini nella Soria, degli Spagnoli nell'America, di Gotifredo duca di Boglione nella Terra Santa et in tutto Oriente: Raro o nessun che in alta fama saglia viddi doppo costui (s'io non m'inganno)
o per arte di pace o di battaglia. Altre vengono stimate grandi per l'eccellenza del consiglio col qual sono governate: tale fu l'avviso col quale Temistocle salv la Grecia dalla forze di Serse, Santippo Cartagine da' Romani, Q. Fabio Massimo Roma da Annibale; tal fu il consiglio dato dal vecchio Alardo a Carlo di Angi contra Corradino, da Giovanni da Procida a' Siciliani contra Francesi. Aggiunge anche grandezza l'ardire, e ci in pi maniere: se con deboli princpii entri in un'impresa importante e ne riporti onore, come Trasibulo che con quattrocento, e Dione che con cinquecento, e Pelopida che con dodeci compagni liberarono le lor patrie dalla tirannia; Plutarco dice che quella impresa di Pelopida, nella quale egli ritornando a casa cacci i tiranni di Tebe, tiene il vanto di tutte le imprese che furono fatte al buio e con inganno. S'acquista anche riputatione, se con disavantaggio grande vinci aversari potenti, al qual modo s'acquistarono fama eterna Milciade, Temistocle, Pausania, Leonida, Alessandro Magno, E quel ch'armato, sol, difese il monte onde poi fu sospinto; e quel che sol contra tutta Toscana tenne il ponte. S'acquista riputatione se in breve tempo operi molto, come Scipione, che prese Cartagine Nuova in un giorno, e Cesare, che venne, vide et vinse, e Carlo V imperatore, che riform questo elogio e li diede grandezza maggiore con la modestia dicendo: veni, vidi et Dominus Deus vicit. Accresce anco riputatione se tu sei il primo che riporti onore dell'impresa, come C. Duilio, che in mar prima vincitor apparse contra Cartaginesi, e M. Marcello contra Annibale. Non minor chiarezza conseguisce colui che mette l'ultima mano all'impresa come i Scipioni alle puniche, Pompeo alla mitridatica. Egli verissimo quel che disse Claudio Nerone a' suoi soldati: semper quod postremo adiectum sit, id rem totam videri traxisse. Come le cose seguenti tirano a s le precedenti et l'aumento ricuopre la parte aumentata, cos la perfettione dell'opera tutto l'onore ne riporta, con la qual ragione Mottino mosse gli Svizzeri a Novara a non aspettar Altosasso. Aggiunge riputatione il disprezzar alle volte l'onore: cos, avendo M. Fabio sprezzato il trionfo, ne consegu gloria maggiore: adeo (dice Livio) spreta in tempore gloria, interdum cumulatior redit; e di Giulio Agricola scrive Tacito che, non avendo scritto nulla a Roma delle cose da lui valorosamente operate: ipsa dissimulatione famae famam auxit. di grand'onore il condurre a buon fine impresa mal maneggiata da altri, come Paolo Emilio la macedonica, e non meno il rimettere in piedi una qualche buona cosa che sia mancata, come Agide la equalit dei Lacedemonii. Non si curi d'operar molto, ma ben di non impegnarsi se non in quel che aver del grande e dell'eroico. Arrigo III imperatore combattette a bandiere spiegate pi volte (furono sessanta volte) che Marcello, che combattette a quel modo trenta e nove volte, e che Cesare, che cinquanta volte, e nondimeno non fu n sar mai per questo stimato pi dell'uno o dell'altro. Di Scipione Africano, che fu maestro della riputatione, scrive Polibio ch'egli, lasciando agli altri le cose ordinarie et volgari, si mise all'imprese ardue o ch'erano stimate impossibili. Di Temistocle scrive Plutarco che amb in tutte le sue operationi non so che di singolare e di raro. Alessandro Magno leggiamo noi che dava in ogni sua attione saggio d'animo elevato, perch non ambiva d'acquistarsi nome per ogni via (come suo padre) ma con fatti illustri e gloriosi. Adriano imperatore, ridendosi dell'ambitione di Traiano, che voleva che il suo nome fosse scolpito sotto ogni cosetta che di suo ordine si faceva, il chiamava erba murana. Ma, ritornando ad Alessandro Magno, egli collocava tanta parte della riputatione nella grandezza delle cose, che, per lasciar fama straordinaria di s nell'ultimo Oriente, fece
ampliare il circuito degli alloggiamenti e vi lasci letti maggiori di quello che alla proportione de' corpi umani si richiede; vi fece anco lasciar arme maggiori di quelle che solevano i suoi usare e maggiori e pi grevi freni di cavalli. Non sia in cosa alcuna troppo minuto e sottile: di che fu notabilmente notato Carlo re di Napoli, da Beltramo del Balzo. Con ci sia che Carlo, veggendosi innanzi su tapeti il tesoro del re Manfredi, stato vinto e morto da lui in un fatto d'arme, ordin a Beltramo che si facesse venir le bilancie (perch era quasi tutto in oro) e'l dividesse. A che queste bilancie? Disse allora Beltramo, e fattone co' piedi tre parti, l'una soggiunse vostra, l'altra della Reina, la terza de' vostri cavalieri. E'l re approvando questa magnanimit, commend grandemente quel, che fatto Beltramo avea e gli diede incontinente la contea di Avellino. Dione Cassio, tra gli altri vitii d'Adriano mette ch'egli era troppo minutamente curioso delle cose. Essendosi messo ad una impresa onorata, non la deve facilmente abbandonare, per non mostrare di aver avuto poco giuditio nell'entrarvi e poco animo nell'uscirne. Multa magis ducibus (diceva Marcello a Q. Fabio nell'assedio di Caselino) sicut non aggredienda, ita semel aggressis, non dimittenda esse: quia magna famae momentas in utranque partem fiunt. Ma s'egli conoscer l'impresa affatto irriuscibile, ricordisi di quel, che T. Livio dice di Lucretio, id prudenter, ut in temere susceptare, Romanus fecit, quod circumspectis difficultatibus, ne frustra tempus tereret, celeriter abstitit incaepta. Cio, avendo visto le difficolt, mostr tutta quella prudenza, che una impresa temerariamente cominciata, comportava nell'abbandonarla tostamente. Ricordisi di quel detto di Tiberio Cesare, caeteris mortalibus in eo stare consilia, quod sibi conducere putent; principum diversam esse sortem, quibus praecipua rerum ad famam dirigenda. Procuri, che tutto ci, che da lui procede sia grande e compito et in particolare quel, che spetta alla religione et all'onor di Dio. Caesar, che trionfando entrar parea, agli Italici Dei trecento immensi tempi, voto immortal, sacrato avea. Procuri, che tutto ci, che spetta in qualche modo a lui, abbia grandezza e decoro. Alessandro edicto vetuit, ne quis se, praeter Apellem pingeret, aut alius Lysippo excudere aere. Augusto Cesare era tanto geloso della riputazione che diede ordine a' prefetti delle provincie che non comportassino che il suo nome andasse per le bocche o per le penne di uomini di poco ingenio e giuditio, e col pregiare Vergilio et Oratio, personaggi eccellenti nella poesia, s'immortal non meno, che con l'ampiezza dell'imperio. Tra' moderni us grand'arte in farsi grande per mezo delle penne degli scrittori Alfonso re di Napoli, e non meno Mattia Corvino, re d'Ungheria e Francesco primo re di Francia. Non tratti i negotii per mezo di soggetti bassi o deboli, come Antioco, re di Soria, che si serviva d'Apollofane, suo medico, per capo del Consiglio di Stato, e Luigi XI re di Francia del suo medico per cancelliere e del suo barbiere per ambasciatore. La bassezza de' mezi avilisce i negotii e la debolezza gli storpia. Vaglisi di ministri onorati et di valor e di prudenza congiunta con dignit. Avendo Antioco Epifane mosso l'arme contra Tolomeo re d'Egitto, amico de' Romani, il senato, a instanza di esso Tolomeo, mand tre oratori a quella volta per metter quegli re in pace. Era capo
dell'imbasciata C. Popilio, il quale, perch Antioco rispose che ne consultarebbe co' suoi e gli darebbe poi risposta, egli, fattogli con la bacchetta che aveva in mano un cerchio intorno nella polvere. Prima che di qui usciate soggiunse bisogna che voi rispondiate e vi risolviate se la guerra o la pace volete. E con la fronte e con la lingua al suo voler lo strinse, perch, restando attonito il re et vinto dalla bravura di un ambasciatore, si rimise nelle mani e nel voler del senato; onde Livio soggiunge che questa legatione fu di molta gloria a' Romani, che con tanta facilit cavarono Antioco di Egitto, che se n'era gi quasi insignorito. Dilettisi di abito pi tosto grave che vago, e di moderato che pomposo. Tacito imperatore non ebbe mai nel principato altri abigliamenti in dosso, che quelli che soleva in vita privata portare. Non ist la grandezza nella porpora o nell'oro, ma nel cuore e nel senno; Temistocle volle ci accennare quando, veggendo sulla riva del mare i corpi de' barbari stati ammazzati nella battaglia, e collane, e maniglie d'oro, e vesti di seta, e varie altre ricchezze, disse a un amico suo: Raccogli su e abbiti tu queste cose, perch tu non sei Temistocle. Di Alessandro Severo sono quelle bellissime parole: imperium in virtute esse, non in decore, cio: l'imperio e la maggioranza consiste nella virt, non nella splendidezza dell'abito. La pompa pi atta a togliere che a recar riputatione, come avvenne alla statua d'Alessandro Magno fatta con artifitio meraviglioso da Lisippo; era questa bellissima opera in Roma ammirata da tutti e con somme lodi celebrata, venne voglia a Nerone d'indorarla, con che ella discapit di credito e di stima, ne fu tolto l'oro e ritorn nel suo prezzo primiero. Schivi gli estremi, non sia precipitoso, non lento, ma maturo e moderato, e pi tosto lento che precipitoso, perch la lentezza si conf meno con la temerit, della quale nissuna cosa pi contraria alla riputatione. Tenga finalmente per risoluto che la riputatione a lungo andare dipende dall'essere, non dal parere nihil rerum mortalium tam instabile et fluxum, quam fama potentiae non sua vi nixae, cio: non cosa meno stabile e ferma, che fama di potenza mal fondata. Et verissimo quel che dice Tito Livio: parum tutam maiestatem sine viribus esse, cio che la maest senza forze poco sicura. Onde scrive Tacito, che Artabano disprezzava la vecchiaia di Tiberio come imbelle et inetta all'arme, et il medesimo Tiberio non ebbe ardire di risentirsi contra le minaccie di Getulico, perch considerava publicum sibi odium, extremam aetatem, magisque fama quam vi stare res suae; ed altrove: Ipsa aetas Galbae et irrisui et fastidio erat; e in altro luogo: Flaccum spernebat, senecta et debilitate pedum invalidum. FINE