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IL BUIO OLTRE GAZA

MEDIO ORIENTE
LE BARRIERE
INVISIBILI di Giovanni PARIGI
I confini statuali non servono a capire la costituzione geopolitica
dei paesi arabi e islamici. Panarabismo e panislamismo, così come
i vari nazionalismi, soccombono sempre ai poteri locali, ossia ai
clan. Una storia che comincia con la fine dell’impero ottomano.
Poi, i giorni dell’impero arabo ebbero fine. Le prime generazioni che avevano cementato il po-
tere arabo e fondato il dominio degli arabi, erano scomparse. Il potere venne preso da altri, da
non arabi come i turchi nell’Est, i berberi nell’Ovest e gli europei cristiani nel Nord. Con il loro
scomparire, intere nazioni cessarono di esistere, le istituzioni e i costumi cambiarono; la loro
gloria fu dimenticata e la loro potenza non preoccupò più nessuno 1.
Ibn Œaldûn

1. T UTTI RICORDANO IL DISCORSO DI BA-


rack Obama, il 24 luglio scorso, a Berlino, in cui il candidato presidenziale demo-
cratico invocava la «caduta dei Muri». È curioso notare che, proprio il giorno prima,
il senatore dell’Illinois fosse in visita a Gerusalemme e Råmallåh. Qui la Realpolitik
e i muri di cemento e ideologie hanno consigliato dichiarazioni di ben altro tenore.
A Sderot, «l’amico americano», dietro le carcasse dei razzi Qassåm piovuti da Gaza,
ha ripetuto che «Gerusalemme sarà la capitale di Israele». Abu Mazen si è invece
dovuto accontentare di un vago e non impegnativo «i palestinesi hanno diritto a
uno Stato in grado di vivere». La realtà è che in Medio Oriente parlare di muri è co-
me parlare di corda in casa dell’impiccato. I blocchi in pietra del Muro del Pianto o
i t-wall in cemento della West Bank Barrier israeliana o i reticolati di Gaza altro
non sono che monumenti viventi di un Medio Oriente diviso da frontiere territoria-
li incerte, invalicabili barriere religiose, accesi antagonismi geopolitici e aspri con-
fronti ideologici, oltre che naturalmente da una competizione economica mondia-
le incentrata sugli idrocarburi.
Paradossalmente, ad accomunare tutti i paesi arabi sono problemi come la di-
soccupazione, l’esponenziale crescita demografica, le paurose disparità sociali, la
dipendenza politico-economica dall’export petrolifero, il tutto condito da pervasi-

1. Dall’introduzione di al- Muqaddimah, «Introduzione alla Storia», di Ibn Œaldûn (1332-1406). 1


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va corruzione, incerte riforme e conflittualità sul ruolo dell’islam. Inoltre, non c’è
Stato mediorientale le cui strutture politiche non siano fragili e, indipendentemen-
te dalla struttura formale delle stesse, il cui potere non sia nelle mani di un’oligar-
chia autocratica o cleptocratica. L’alternanza politica è una chimera. Il ricambio del
potere avviene solo per linee dinastiche o attraverso traumi violenti.
Ad aumentare la complessità geopolitica mediorientale sono poi da aggiunge-
re linee di attrito e divisione internazionali quali, solo per citarne alcune, il conti-
nuo stato di conflitto israelo-palestinese, le tensioni egemoniche e nucleari irania-
ne nel Golfo Persico (e le contromosse saudite e americane), la questione siro-li-
banese con la sua appendice Õizbullåh, oltre che l’instabilità irachena con il corol-
lario curdo. Il tutto, intriso e aggravato dall’estremismo jihadista.
In definitiva, ne emerge il quadro di un’area composta da Stati fragili, litigiosi,
instabili.
Eppure ci fu un tempo storico – un tempo mitico – in cui tutti i pezzi del puz-
zle mediorientale sembravano combaciare.
Storicamente, pur peccando di estrema approssimazione e superficialità, si
può dire che l’unità politico-territoriale del mondo arabo musulmano, ossia di
quei paesi che oggi intendiamo parte del Medio Oriente, fu raggiunta, o quasi,
solo due volte. Nel VII secolo, dai primi quattro califfi 2 successori del Profeta.
Successivamente, durante l’apogeo dell’impero ottomano, tra il XVI e il XVII se-
colo. In realtà, la brevissima epoca dei califfi Råšidûn 3, seppur satura di estese
conquiste quanto di lotte intestine, ha un valore soprattutto ideale: a tutt’oggi
viene infatti considerata come il periodo d’oro dell’umma 4 musulmana, un ar-
chetipo da restaurare. In quell’epopea ora rimpianta, mitizzata e idealizzata, alla
pretesa unità della comunità dei credenti viene associata l’espansione territoriale,
grazie agli imperi sasanide e bizantino, associata all’affermarsi concreto dell’i-
slam nella sua forma più pura.
Ma una più duratura e solida unità dei territori e delle popolazioni mediorienta-
li si ebbe con la dominazione ottomana. Per secoli, combinando soft e hard power,
sottile diplomazia e sanguinario terrore, la Sublime Porta governò su pressocché
tutto il Medio Oriente, con l’esclusione della Persia. Ovviamente non mancarono
mai rivolte interne o bruschi arretramenti di frontiere, ma il sultano rimase sempre
un punto di riferimento e d’identità per la comunità islamica sunnita 5, e comunque
un sovrano per le comunità di altre fedi. L’impero ottomano fu come un prisma
multicolore di etnie e religioni, tenuto insieme con armi, azione di governo e reli-
gione. La Kalemiye 6 ottomana, nelle amministrazioni locali dei sanjiak o provinciali

2. Abû Bakr 623-624, ‘Umar bin al-Œa¿¿åb 634-644, ‘Uñmån ibn ‘Affan 644-656 e ‘Alø ibn ‘Abø ¡ålib 656-
661.
3. «I benguidati»: così sono noti i primi quattro califfi.
4. Per umma si intende la comunità ideale di tutti i credenti musulmani.
5. Il titolo di califfo, legato alla figura del Profeta, era utilizzato saltuariamente e senza pretese di auto-
rità universale; costituiva però il presupposto religioso dell’esercizio del potere. Inoltre, i sultani si fre-
giavano del titolo di difensore delle frontiere dell’islam nonché di «servo dei due santuari», ovvero dei
2 luoghi santi alla Mecca e a Medina.
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dei vilayet, si pose quale veicolo tra i poteri locali e il potere centrale del sultano. I
sudditi si relazionavano col potere centrale per via della propria comunità religiosa,
il millet 7, ma anche in base alla categoria di censo o alla corporazione di arti e me-
stieri cui appartenevano. Ciascun millet aveva forti poteri di autogoverno, con un’e-
stesa autonomia nella gestione dei propri affari sociali, legali e religiosi. Ogni comu-
nità confessionale aveva le proprie scuole, luoghi di culto, ospedali e tribunali, e si
autoamministrava tramite le sue leggi confessionali. Per lo Stato ottomano non esi-
stevano i concetti di «nazionalità» o «appartenenza etnica», in quanto era l’identità re-
ligiosa a individuare lo status dei sudditi 8. In ogni caso, almeno per le popolazioni
musulmane, non dev’essere mai dimenticata la forza coesiva rappresentata dall’i-
slam sunnita, su cui vegliava il sultano, a titolo di califfo dei credenti.
Questo pluralismo confessionale, sulla base del quale si fondavano le dinami-
che interne all’impero, impedì un’omogeneizzazione cultural-religiosa o un’unità
politico-nazionale della popolazione. Al contrario, ogni comunità mantenne le
proprie peculiarità economiche, sociali e religiose. In altri termini, da parte degli
ottomani, sino alla vigilia del primo conflitto mondiale non vi fu la tendenza a «tur-
chizzare» la popolazione; piuttosto si creò una classe di «ottomani locali», ovvero di
funzionari civili e militari che si insediarono definitivamente nelle diverse aree del-
l’impero, integrandosi con i notabili locali e dando vita alla classe degli effendi,
omogenea élite urbana locale, diffusa in quasi tutto l’impero.
È quindi da sottolineare come il potere fosse diffuso a livello locale, nelle mani
di feudatari, capi tribù, oligarchie urbane o comunità religiose, che costituivano così
le pedine base delle dinamiche politiche. Né le guarnigioni né i funzionari sparsi
per l’impero riuscivano a imbrigliare le province nelle mani del sultano 9. In gran
parte di esse l’azione di governo ottomana consisteva nel cooptare i gruppi di pote-
re locali, manipolandone gli equilibri interni 10. Sebbene modo di governare ed
estensione dell’autorità del sultanato variassero in funzione del luogo e del momen-
to storico, da Istanbul vi fu sempre l’obiettivo di allineare gli interessi del governo
centrale, dell’amministrazione ottomana provinciale e delle élite locali. Infatti, pre-
stigio dei capi locali, potere degli ‘ulamå’ 11 e ricchezza delle famiglie di commer-
cianti erano garantiti dal riconoscimento del sultano, dalla legittimazione del califfo
e dalla sicurezza fornita dall’esercito. Nel contempo, per il governo ottomano la fe-
deltà dei potentati locali significava introiti fiscali e leva militare.
6. Ceto dei burocrati ottomani, formato in apposite scuole.
7. Sino all’epoca delle riforme ottocentesche, i millet principali erano quelli delle comunità ebraica,
armena, greco-ortodossa, siro-ortodossa; allo scoppio della prima guerra mondiale i millet erano 17.
Da notare che i musulmani non sunniti, come sciiti, alauiti e yazidi, non ebbero propri millet ma furo-
no considerati come assimilati ai sunniti.
8. All’inizio del XX secolo si stima che la popolazione non musulmana nell’impero ottomano fosse
circa il 25% del totale.
9. Allo scoppio della prima guerra mondiale si stima che solo il 5% delle tasse fosse prelevato diretta-
mente dallo Stato; il restante era riscosso tramite notabili locali, in appalto.
10. Ad esempio, in Iraq gli ottomani assegnavano terre agricole agli sceicchi fedeli o realizzavano ca-
nalizzazioni idriche per i centri urbani dove il clero sciita era meno ostile; in altre province assegnava-
no il diritto di riscuotere le tasse alle famiglie dei notabili locali ritenute più vicine al governo.
11. Ceto dei religiosi. 3
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Dev’essere però evidenziato come l’effettivo potere del governo ottomano va-
riasse notevolmente da provincia a provincia. Al di là delle singole evoluzioni stori-
che, mentre in alcuni vilayet il sultanato riuscì a esercitare un diretto controllo, diffu-
so ed effettivo, in altri il potere venne esercitato indirettamente tramite dinastie loca-
li, o fu solamente nominale. Ad esempio, i vilayet siriani di Aleppo, Damasco e Tri-
poli, importanti per il commercio e il flusso dei pellegrini, o le coste della Palestina
furono amministrati direttamente e con continuità da Istanbul 12. Invece l’Egitto ebbe
sempre la tendenza a emanciparsi dal potere ottomano, in quanto troppo ricco e
avanzato per non essere di volta in volta preda di dinastie militari come i mameluc-
chi, governatori come Muõammad ‘Alø 13, o potenze straniere come gli inglesi 14.
Di fatto, nelle province più lontane come l’Iraq, meno ricche come lo Õiãåz, o
più riottose come il Maghreb, il sultanato attuò, per scelta o necessità, la politica
dell’indirect rule: a dinastie e potentati locali veniva riconosciuto l’esercizio di un
potere di fatto autonomo, chiedendo però in cambio l’accettazione formale dell’au-
torità centrale, il pagamento di tasse e, talvolta, la fornitura di truppe. Parimenti, uno
status particolare di autonomia venne spesso riconosciuta a sceicchi capi delle tribù
nomadi più importanti, magari chiedendo loro di garantire sicurezza di commerci e
movimenti sulle strade dell’impero. Così in Iraq, terra di confine col nemico persia-
no, lo Stato ottomano aveva il controllo solo dei principali centri urbani – Baghdad,
Mosul e Bassora. Nel resto del paese il potere era nelle mani di sceicchi tribali arabi
e curdi, nonché delle comunità religiose sciite di Naãaf e Karbalå’. Nello Õiãåz, gli
unici segni del potere ottomano erano un governatore nella città costiera di Gedda e
il pellegrinaggio annuale nei luoghi santi guidato da un funzionario turco. Peraltro,
La Mecca e Medina erano amministrate in maniera semiautonoma dagli sceicchi lo-
cali, discendenti dal Profeta. Lo Yemen, di fatto, rimase sempre autonomo.
In definitiva, l’equilibrio tra governo centrale e poteri locali fu sempre preca-
rio, e la tendenza a spinte centrifughe molto accentuata. In particolare, a partire
dalla fine del Cinquecento tutte le basi dell’organizzazione statale andarono pro-
gressivamente in crisi. I giannizzeri, da militari si trasformano in una casta rapace e
feudale, spesso riottosa al sultano. I poteri locali progressivamente si aggregarono
intorno a interessi politici ed economici, mirando all’emancipazione. In tal modo
nacquero Stati nello Stato, ed emirati di fatto indipendenti. Questa crisi sociale,
economica e politica si accentuò irrimediabilmente col confronto militare ed eco-
nomico con le altre potenze europee, nonostante gli sforzi di modernizzazione
delle tanzimat 15.
12. Naturalmente vi furono numerose ribellioni locali, come quella nello Šuf libanese di Faœr al-Døn
(morto nel 1635), che fu esule nel Granducato di Toscana. Inoltre, in Palestina e a Damasco vi furono
comunque famiglie che riuscirono a instaurarsi come dinastie di governatori locali.
13. Nella prima metà dell’Ottocento fu inizialmente governatore ottomano dell’Egitto, ma in seguito
cercò di emancipare il paese dal potere del sultano turco arrivando a invadere la Siria; il suo progetto
venne ridimensionato dall’intervento inglese.
14. L’Egitto divenne protettorato inglese nel 1882.
15. Insieme di leggi attuate intorno alla metà dell’Ottocento e dirette a riformare l’amministrazione
4 statale, i commerci, l’istruzione e gli affari religiosi.
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Nel XIX secolo l’impero ottomano diventa il «grande malato» d’Europa, ormai
territorialmente mutilato dalle insurrezioni autonomiste balcaniche e greca, dall’oc-
cupazione francese dell’Algeria e da quella britannica di Egitto, Cipro e Aden. Le
conseguenze di questa crisi si fanno sentire anche sul piano interno: il movimento
laico e nazionalista dei Giovani Turchi, nel 1908, prende il potere, con lo scopo di
riformare il paese. Ma nel 1913 un colpo di Stato instaura un triumvirato 16 di na-
zionalisti oltranzisti riuniti nel Comitato per l’unione e il progresso, che esautora
parlamento e sultano trasformando il paese in una dittatura militare. Intanto, con le
guerre balcaniche del 1912 e 1913, gli ottomani avevano definitivamente perso i
popolosi possedimenti europei, annessi da Bulgaria, Grecia, Serbia e Montenegro,
salvo una ridotta porzione costiera in Tracia.
Di fatto, alla vigilia della prima guerra mondiale, la Sublime Porta era ridotta a
protettorato europeo e a scacchiera del grande gioco delle potenze occidentali. Ma
fu solo alla fine del conflitto che l’agonia del «grande malato» terminò.

2. Dopo un interminabile balletto diplomatico, con ogni genere di sgambetti e


colpi bassi, tra le potenze dell’Intesa e quelle della Triplice Alleanza, nel 1914 la
Turchia entrò in guerra a fianco di Vienna e Berlino. A dire il vero, agli ottomani
non interessava una guerra contro Francia e Inghilterra, potenze che in passato l’a-
vevano difesa. Senonché il miraggio di riconquistare i Balcani e pareggiare i conti
con l’acerrima nemica Russia la spinse a unirsi ad Austria-Ungheria e Germania.
Così, il 29 ottobre 1914 navi turche e tedesche bombardavano i porti russi nel
Mar Nero. Meno di un mese dopo, la Mesopotamia Expeditionary Force inglese
sbarcava a Bassora. Gli obiettivi strategici inglesi erano proteggere il Canale di
Suez, cordone ombelicale con l’India, rafforzare la propria posizione in Persia e
mettere un’ipoteca su eventuali espansioni territoriali in Medio Oriente a discapito
degli ottomani.
Con lo sbarco a Bassora si apre così un terzo fronte, oltre a quelli occidentale
e orientale in Europa. Ma l’anno dopo, visti gli insuccessi nelle paludi mesopota-
miche, gli alleati cercano il colpo gobbo sbarcando sulla soglia di casa ottomana, a
Gallipoli, sui Dardanelli. Kemal Pasha, il futuro Atatürk, infligge loro un’umiliante
sconfitta e Churchill, fautore dell’iniziativa, ci rimette provvisoriamente la carriera.
Anche l’anno seguente, il 1916, gli inglesi subiscono una cocente sconfitta ad al-
Kût, vicino a Baghdad, dove perdono quasi 20 mila uomini. Dopo i disastri di Gal-
lipoli e al-Kût, solo sul Sinai egiziano la guerra resta in stallo. Non certo una bella
prospettiva per gli anglofrancesi, nel frattempo dissanguati e impantanati nelle
Fiandre.
Ma è proprio nel 1916 che, come in una commedia di Shakespeare, comincia
la vicenda di una guerra in cui un ambizioso re sogna un impero ma conquista un
regno per perderlo quasi subito; e dei suoi due figli, di cui uno prende un trono

16. Enver Påšå, ministro della Guerra, ¡ala‘at Påšå, ministro dell’Interno, e Ãamål Påšå, ministro della
Marina. 5
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per poi vederselo scambiare con quello promesso al fratello, mentre quest’ultimo
si accontenterà di un regno dimezzato ma sarà l’unico a tramandarlo ai figli; e poi
c’è anche un loro amico, che fa una promessa che poi non potrà mantenere; e due
diplomatici che spartiscono le spoglie dei vinti, tra due imperi, quando ormai l’età
degli imperi era finita.
I primi abboccamenti tra gli inglesi e lo sceriffo hashemita Õusayn 17 sono del
1914. Ma è solo nell’estate 1916 che viene dato il via libera alla Grande Rivolta Ara-
ba. Dopo un inizio ben poco promettente 18, fu con Lawrence D’Arabia, e molti sol-
di 19, che divenne militarmente tangibile. Õusayn non era l’unico dei capi tribù del-
l’area sul quale gli inglesi avrebbero potuto puntare, ma era quello che sembrava
avere maggiori chanche di successo. Infatti, quale discendente del Profeta, aveva
l’appeal islamico, mentre quale nobile arabo era una leva per il nazionalismo laico
arabo. Dal canto suo, Õusayn inizialmente era intenzionato solo ad avere maggiore
autonomia dagli ottomani. Ma nel favorevole evolversi della situazione cominciò
ben presto a mirare a un’indefinita «indipendenza araba». Colui che in pectore spe-
rava di diventare «il re di tutti gli arabi», pensava così a un immenso regno esteso
dalle coste dello Yemen alla Cilicia turca, dai confini del Sinai fino a quelli persiani.
In realtà, la causa araba aveva ben pochi sostenitori, cominciando proprio da-
gli arabi stessi 20. I movimenti nazionalisti arabi 21, concentrati a Damasco, si rivela-
rono inconsistenti. E così, Hussein, invece di diventare il campione di un inesisten-
te nazionalismo arabo, divenne un re a caccia di un regno. In fondo, più che a un
sogno nazionale arabo, lo sceriffo pensava a un suo personale sogno imperiale.
Con buona pace di Lawrence d’Arabia, la rivolta ebbe successo militarmente
per il solo fatto di essere inserita in un quadro strategico di riscossa alleata contro i
turchi, e geopoliticamente perché serviva agli inglesi per legittimare il proprio al-
leato arabo. Infatti gli inglesi, sconfitti i turchi in Palestina e Iraq, per ragioni geo-
politiche lasciarono che i primi a entrare a Damasco fossero gli arabi di Fayâal, fi-
glio di Õusayn, sebbene la città fosse stata conquistata dagli australiani. Ma se Õu-
sayn vedeva le terre arabe dell’impero ottomano come il suo futuro regno, le po-
tenze occidentali le consideravano colonie da spartirsi in modo bipartisan. Gli au-
tori di questo accordo furono il console francese a Beirut, François-Georges Picot,
fautore della politica coloniale, e il pragmatico colonnello britannico Sir Mark
Sykes.
Durante le trattative tra Parigi e Londra furono disegnati diversi scenari, com-
presa l’inclusione del vilayet di Mosul nella sfera d’influenza francese e l’inclusione

17. Õusayn Ibn ‘Alø, degli hashemiti, nel 1908 era stato nominato protettore dei luoghi santi proprio
dal sultano.
18. La città santa di Medina resistette agli anglo-hashemiti sino alla fine della guerra.
19. Oltre a un consistente appoggio militare diretto, gli inglesi spesero 11 milioni di sterline in favore
della rivolta hashemita.
20. Gli sceicchi filobritannici del Kuwait e quelli della penisola araba, tra cui Ibn Sa‘ûd, a un appoggio
formale non fecero seguire alcun appoggio concreto né mai intesero associarsi all’impresa di Õusayn.
21. Al-‘Ahd, al-Fatåt e al-Fårûqø erano le principali, anche se di fatto si trattava di società segrete com-
poste soprattutto da militari. In realtà, nelle province arabe più che l’indipendenza si voleva maggiore
6 autonomia.
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del Libano nel «regno arabo». Ma se la ferma pretesa di Picot su Libano e Siria ven-
ne accettata facilmente, le due potenze europee si scornarono circa il futuro della
Palestina. Alla fine, fu raggiunto l’accordo salomonico di dividerla in tre, ponendo
una parte della regione sotto amministrazione internazionale, mentre una parte sa-
rebbe stata assegnata ai francesi e una terza parte sarebbe stata inclusa nel «regno
arabo», o in una più vaga «confederazione di Stati arabi».
La nuova entità araba sarebbe stata indipendente solo formalmente. Infatti, al-
la suddivisione geografica dei confini dei nuovi Stati nascenti dallo smembramento
ottomano, si sovrapponeva una più effettiva ma invisibile lottizzazione geopolitica
concordata tra Londra e Parigi. Essa sanciva le rispettive zone d’influenza, diretta o
indiretta 22, sull’entità araba indipendente, Stato unico o confederazione che fosse.
Inoltre, tutti i restanti territori geograficamente non ricompresi nei confini dell’en-
tità araba indipendente sarebbero stati divisi in una Zona Blu di diretto controllo
francese, comprendente l’area compresa tra la Cilicia a nord-ovest, la frontiera per-
siana a est e la Palestina quasi sino ad Acri a sud, includendo la fascia costiera siro-
libanese e la Galilea del Nord. Agli inglesi sarebbe invece andata la Zona Rossa,
che comprendeva il vilayet di Baghdad e l’odierno Sud Iraq 23, oltre che il Kuwait e
i porti di Acri e Haifa in Palestina. In base all’accordo, anche lo zar russo avrebbe
avuto la sua parte di impero ottomano, tra il Mar Nero e il vilayet di Mosul, com-
prendendo Erzurum, Van e Trebisonda. La questione degli insediamenti ebraici in
Palestina venne però completamente ignorata.
Di fatto l’accordo Sykes-Picot rendeva l’indipendenza araba un problema vir-
tuale. Non a caso, lo sceriffo Õusayn venne a sapere dell’accordo solo 18 mesi do-
po la sua stipula definitiva, nell’aprile del 1916. E se gli anglo-russi-francesi legge-
vano la mappa appena tracciata sulle linee delle rispettive zone di influenza, Õu-
sayn, di fronte alla medesima mappa, seguiva invece il tratteggio dei confini nazio-
nali, scorgendovi l’abbozzo del suo regno. Ciò era conseguenza del fatto che Lon-
dra, vero deus ex machina dell’accordo, cercò di bilanciare le rigide pretese fran-
cesi e le proprie esigenze neocoloniali con i sogni di potenza hashemiti, lasciando
però forti ambiguità di fondo.
Certo, per quanto con sovranità menomata, era prevista la nascita di una gran-
de nazione araba formalmente indipendente 24, comprendente le città di Damasco
e Aleppo, strenuamente volute dai francesi, oltre che gran parte del sangiaccato di
Gerusalemme.
Ma il castello di carte Sykes-Picot fu subito sottoposto a vari scossoni geopoli-
tici. Nel novembre 1917, i bolscevichi russi, in nome della lotta all’ancien régime
colonialista, resero pubblici i termini dell’accordo. Inoltre, anche i figli di Õusayn
si misero di mezzo; Fayâal, effettivo leader militare della rivolta, e ‘Abdallåh, suo

22. Con tale termine si intendeva il diritto esclusivo di sviluppo commerciale e finanziario, nonché
quello di fornire consiglieri militari e di governo, se richiesto dallo Stato arabo.
23. Con il controllo di Bassora e del Kuwait erano così garantiti gli interessi inglesi in India.
24. In ogni caso, parte della penisola araba era comunque esclusa dal regno arabo, in quanto destina-
ta a Ibn Sa‘ûd, già alleato con gli inglesi. 7
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fratello maggiore, volevano un regno, ma uno a testa. In particolare, il primo mai


nascose le sue mire per la Siria. Poi, a scombussolare le carte intervenne anche,
sempre nel novembre 1917, la celebre Dichiarazione Balfour: il governo inglese,
dietro pressione del movimento sionista, si pronunciava per la costituzione in Pa-
lestina della «national home» del popolo ebraico. A guerra finita, con il trattato di
Sèvres nel 1920 e il successivo mandato britannico sulla Palestina, questo formale
impegno inglese si trasformò in uno spinoso obbligo 25, di cui Londra si sbarazzò
solo nel 1948 e senza aver levato le castagne dal fuoco che ormai divampava.
I termini del trattato di Sèvres confermavano la lottizzazione anglo-francese di
Siria, Libano, Iraq, Palestina e Giordania, prevedevano la nascita del regno arabo
dello Õiãåz, l’indipendenza dell’Armenia e la spartizione tra i vincitori di gran par-
te dei territori ottomani, Anatolia inclusa 26. In particolare, la Grecia avrebbe avuto
il riconoscimento della sua amministrazione sull’enclave di Smirne, di fatto già mi-
litarmente occupata. Inoltre, era previsto un referendum che decidesse il futuro
del Kurdistan, sebbene inteso solo come comprendente le aree curde dell’odierna
Turchia. Il trattato rimase sulla carta. Non venne mai ratificato né dagli ottomani né
dai greci, mentre gli americani rifiutarono il mandato sull’Armenia. Inoltre, la vio-
lentissima reazione turca, guidata ancora una volta da Kemal Atatürk, portò allo
scoppio della cosiddetta guerra d’indipendenza turca: il movimento nazionalista
turco esautorò il sultano 27 e si oppose con le armi agli alleati, confrontandosi coi
greci in Anatolia e minacciando gli inglesi a Mosul. Intanto, in Siria, Iraq, Egitto vi
furono sollevazioni popolari contro inglesi e francesi. Così, tre anni dopo, nel 1923
a Losanna, venne firmato un nuovo trattato di pace 28 che, in particolare, definì il
contenzioso tra Grecia e Turchia, tracciando i confini tra i due Stati e regolando l’e-
sodo delle rispettive minoranze 29. Quel trattato sancì poi, per la Turchia, la defini-
tiva perdita delle province arabe ottomane, così separando i destini geopolitici di
arabi e turchi.
Sicché gli accordi Sykes-Picot furono radicalmente modificati «in corso d’ope-
ra» da vari trattati, tra cui quello di Losanna, che rispondevano ai mutati rapporti di
forza sul terreno.

3. Tra il 1920 e il 1923, dunque, l’intero quadro geopolitico mediorientale ven-


ne ridefinito da un insieme concorrente di diversi eventi e accordi. Vi fu anche la
definizione della frontiera russa sul Medio Oriente. I confini territoriali furono deli-
neati nella costituzione dell’Urss (1922), mentre i confini di influenza politica si de-

25. L’articolo 95 del trattato chiedeva infatti agli inglesi di porre concretamente in atto il contenuto
della dichiarazione Balfour. Rimaneva comunque il problema della non chiara definizione dei confini
del nuovo Stato ebraico.
26. All’Italia veniva assegnata la zona costiera di Antalia e Konia.
27. Il califfato venne abolito nel 1924, con voto del parlamento turco.
28. La Turchia fu l’unico paese sconfitto nella prima guerra mondiale che ottenne la revisione del trat-
tato di pace.
29. La sorte del vilayet di Mosul fu invece demandata a una decisione della neonata Società delle Na-
8 zioni.
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finirono nei trattati bilaterali stretti dai sovietici con Turchia, Iran e Afghanistan.
Con la Russia sovietica fuori dalla mischia, per quanto riguarda le province arabe
ex ottomane, Inghilterra e Francia fecero così la parte del leone e del demiurgo in-
staurando e deponendo re, tracciando i confini dei rispettivi regni e naturalmente
imponendo il proprio controllo indiretto tramite protettorati o amministrando di-
rettamente i nuovi Stati. Il tutto, ufficializzato tramite mandati della Società delle
Nazioni e accordi bilaterali coi nuovi governi. Infatti, con le conferenze di Sanre-
mo e Londra furono poste le basi di diversi mandati internazionali, tramite i quali
la Francia si aggiudicò integralmente Siria e Libano 30, mentre Londra ottenne l’in-
tera Palestina, Transgiordania inclusa; nel 1922, stipulando un trattato bilaterale
con Baghdad, Londra ottenne anche il protettorato della Mesopotamia, compreso
il vilayet curdo di Mosul.
E il grande Stato arabo? Scomparve, insieme all’idea di uno Stato curdo. Il so-
gno di Õusayn fu ridotto allo Õiãåz, ben presto perso per mano di Ibn Sa‘ûd, che
conquistò e unificò gran parte della penisola arabica. Quest’ultimo, se non ci fos-
sero stati gli inglesi, si sarebbe preso anche Kuwait, Giordania e Oman. Ma Lon-
dra, sempre nel 1922, gli impose gli attuali confini dell’Arabia Saudita con Iraq e
Kuwait e nel 1927 lo riconobbe come regno indipendente. La scomparsa del pro-
gettato grande regno arabo fu quindi dovuta all’emergere della dinastia saudita, ai
precedenti accordi inglesi con lo sceicco al-Idrøsø del Kuwait, ma soprattutto al fat-
to che MacMahon 31 intese gli accordi con Õusayn come non inclusivi di Palestina
e Iraq, oltre che di parte della Siria 32 in quanto non «puramente araba». Il tutto era
ben lungi da quello che sembra sia stato il progetto o la promessa di Lawrence,
che intendeva invece instaurare Õusayn come re d’Arabia (l’odierna saudita), i figli
‘Abdallåh e Zayd rispettivamente re di Bassa e Alta Mesopotamia, mentre a Fayâal
sarebbe spettata la Siria.
Il nuovo assetto delineato dagli anglofrancesi fu sin dall’inizio privo di un du-
raturo ed effettivo equilibrio, presentando problemi insormontabili.
Innanzitutto era mutato radicalmente il quadro internazionale, con la nascita
dell’Urss e l’ascesa politica degli Stati Uniti. Le due future superpotenze volevano
cambiare le regole della politica internazionale: non si poteva più giocare con
quelle del colonialismo. E fu il presidente americano Wilson a dettare le nuove re-
gole, enunciandole nei 14 punti illustrati al Congresso nel gennaio del 1918. Tra
questi c’erano alcuni princìpi alquanto irrealistici, come la fine degli accordi diplo-
matici sottobanco, o altri che sancivano la fine del monopolio politico delle poten-

30. La Francia separò il Libano dalla Siria in modo da garantire uno Stato controllato dai cristiani ma-
roniti, loro tradizionali protégés dall’Ottocento.
31. Alto commissario britannico al Cairo che nel corso di una corrispondenza con Õusayn, diversa-
mente da quanto effettivamente o maliziosamente inteso tra questi e Lawrence d’Arabia, seppur con
reciproca poca chiarezza aveva prospettato allo sceriffo meccano uno Stato arabo dai confini più ri-
dotti.
32. Segnatamente i distretti di Mersin e Alessandretta, oltre che a Palestina e parti della Siria a est di
Damasco, Õamåh e Õimâ. È da sottolineare che il testo originale della lettera di MacMahon era estre-
memante ambiguo e passibile di contraddittorie interpretazioni. 9
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MEDIO ORIENTE, LE BARRIERE INVISIBILI

ze colonialiste 33. Ma, soprattutto, vi era un espresso richiamo alla situazione me-
diorentale 34. Qui i nuovi assetti avrebbero dovuto essere realizzati non più in forza
delle ambizioni imperialistiche anglofrancesi, ma in base al principio di autodeter-
minazione dei popoli. Era l’inizio della fine del colonialismo.
All’atto pratico, i princìpi wilsoniani sulla carta erano meno anticoloniali degli
accordi Sykes-Picot. Infatti, mentre questi ultimi avevano previsto la nascita di
un’entità araba indipendente, la politica americana vagheggiava un non meglio de-
finito «diritto allo sviluppo autonomo», che non significava univocamente indipen-
denza e autonomia politica. Ma mentre Wilson intendeva il sistema dei mandati
della Società delle Nazioni come un mezzo per sottrarre il Medio Oriente agli ap-
petiti coloniali europei, il primo ministro inglese Lloyd George li considerava il
mezzo per svincolarsi dagli accordi Sykes-Picot e per affermare l’influenza inglese
nell’area.
Il secondo ordine di problemi che rese ancor più traballante l’assetto medio-
rientale anglofrancese fu di natura interna. Infatti, gli elettori inglesi vedevano le
nuove conquiste in Medio Oriente come un buco nero vorace di soldi e truppe.
L’opinione pubblica preferiva che le risorse disponibili venissero impiegate per
migliorare la situazione in patria, stremata dalla guerra appena terminata, piuttosto
che investirle nell’azzardo di una ulteriore espansione coloniale 35. Perciò, i politici
inglesi, nelle loro decisioni, furono sempre condizionati dall’esigenza pressante di
cercare soluzioni che comportassero la riduzione dei costi e il ritiro delle truppe
impiegate.
Un terzo ordine di problemi riguardava la necessità di strutturare le nuove na-
zioni arabe, quasi fossero scatole vuote, sia dando loro un’«anima» politica attraver-
so la nomina di un re, sia dotandole di un’amministrazione statale.
A prendere l’iniziativa per cambiare l’assetto deciso dalla diplomazia anglo-
francese furono proprio gli hashemiti. Infatti, se Õusayn aveva accettato, suo mal-
grado, che gli alleati gli cambiassero all’ultimo minuto le carte in tavola dandogli
un regno risicato invece di un grande impero, Fayâal cercò di mandare all’aria il ta-
volo e la partita. Innanzi alla Società delle Nazioni aveva infatti già da tempo inizia-
to a caldeggiare la causa di una pretesa indipendenza e unità siriana. In realtà, cer-
cava di ritagliarsi i contorni del suo regno, a discapito del progetto di un unico
grande regno arabo. La Siria però, autentico mosaico di razze, religioni e poteri lo-
cali, aveva avuto una sua cornice solo all’interno dell’impero ottomano 36. Inoltre,
la sua spinta nazionalista e indipendentista era assolutamente irrilevante e anzi un
33. Punto 1: la rinuncia alla diplomazia «segreta»; punto 14 la nascita della Società delle Nazioni, ante-
signana dell’Onu.
34. Il punto 12 prevedeva che «alle regioni turche dell’attuale impero ottomano dovrà essere garantita
una sovranità non contestata, ma alle altre nazionalità, che ora sono sotto il dominio turco, dovrà es-
sere garantita un’assoluta sicurezza d’esistenza e la piena possibilità di uno sviluppo autonomo e sen-
za ostacoli. I Dardanelli dovranno rimanere aperti al libero passaggio delle navi mercantili di tutte le
nazioni sotto la protezione di garanzie internazionali».
35. Alla fine della prima guerra mondiale, l’Inghilterra sosteneva il peso economico e politico di 1 mi-
lione e 840 mila militari nazionali ed indigeni di stanza in Medio Oriente.
10 36. Damasco ed Aleppo erano state amministrate separatamente dall’impero ottomano.
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IL BUIO OLTRE GAZA

re proveniente dalla penisola araba era un’ipotesi malvista dalla popolazione, so-
prattutto da quella non musulmana. Ma Fayâal cercò di forzare la mano, profittan-
do anche della rivalità anglo-francese 37. Nel marzo del 1920 un fantomatico Con-
gresso siriano, ovvero un organo autocostituitosi e privo di ogni effettiva presa sul-
la popolazione, proclamò l’indipendenza siriana. La corona del regno, che tra l’al-
tro comprendeva Palestina e Libano, venne offerta a Fayâal, il quale graziosamente
accettò. Poco dopo, un fantomatico Congresso generale iracheno proclamava la
completa indipendenza dell’Iraq e offriva la corona ad ‘Abdallåh, fratello di Fayâal.
Ovviamente, queste iniziative facevano a pugni con gli accordi di spartizione
anglo-francesi. La parola passò alle armi. A Maysalûn i sostenitori di Fayâal venne-
ro sconfitti e il paese fu preso dai francesi. Nel frattempo, in Iraq scoppiava una
violentissima rivolta, la al-Ñawra al-‘Iraqiyya al-Kubrå (Grande Rivolta Irachena)
che vide clero sciita, nazionalisti laici e tribù uniti contro gli inglesi. Rapidamente
questi ultimi si trovarono tanto in crisi da pensare di abbandonare tutto il paese
nelle mani degli insorti e ritirarsi a Bassora.
Chi cercò di evitare il disastro – bilanciando sogni imperiali ed economia dis-
sestata, promesse ad arabi ed ebrei, re senza corona e pretese americane – fu Win-
ston Churchill, ministro delle Colonie. Il quale celebrò al Cairo, nel 1921, le nozze
coi fichi secchi. Nella capitale egiziana Churchill radunò quelli che lui stesso defini
«i miei 40 ladroni» 38, ovvero tutti coloro che nell’amministrazione britannica erano
stati, sino ad allora, coinvolti nelle decisioni sul Medio Oriente. Il celebre statista
inglese dovette innanzitutto forzare la mano proprio al primo ministro Lloyd Geor-
ge, fortemente filoellenico e antiturco; il fatto era che l’appoggio britannico alla
Grande Grecia sognata dal leader di Atene Venizelos comportava l’impegno di
truppe inglesi in Turchia ed esponeva Mosul agli attacchi degli ex ottomani. In
ogni caso, la sconfitta militare dei greci e il disimpegno antiturco degli altri alleati
permisero questa inversione politica britannica.
La soluzione di Churchill fu quella di un regime arabo che fosse vincolato alla
politica inglese, ma che costasse il meno possibile. Così, per salvare la capra del-
l’impero britannico e i cavoli finanziari, letteralmente riciclò la carta hashemita.
Fayâal e ‘Abdallåh, per quanto giudicati dagli alleati l’uno infido e l’altro inetto, rap-
presentavano comunque le migliori carte nelle mani di inglesi e francesi. Sebbene
la Francia si opponesse, Fayâal incarnava il modo più indolore per uscire dalla vo-
ragine finanziaria e dall’azzardo politico che si erano aperti con la rivolta irachena
del 1920. Legato a circoli nazionalisti iracheni sin dalla rivolta araba, dopo la sconfit-
ta siriana aveva indirizzato le sue mire alla Mesopotamia. ‘Abdallåh, invece, era la
soluzione per controllare la Transgiordania, dove peraltro era già insediato. Più
pragmatico e meno ambizioso del fratello, avrebbe accettato la corona anche se pri-
vata del gioiello di parte della Palestina, mantenuta sotto diretta amministrazione in-

37. Il paese era occupato militarmente dagli inglesi, ma destinato ai francesi.


38. Oltre a Gertrude Bell e Lawrence, il gruppo era composto sopratutto da funzionari inglesi filo-ha-
shemiti. 11
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MEDIO ORIENTE, LE BARRIERE INVISIBILI

glese; peraltro, proprio la Palestina, che il mandato della Società delle Nazioni ave-
va ufficialmente reso la terra promessa di un focolare ebraico, si stava già trasfor-
mando in un acceso focolaio di tensioni arabo-ebraiche.
La decisione di Churchill rappresentava la scelta più pratica ed economica.
L’Inghilterra avrebbe avuto un «impero a costo zero», o comunque un impero light,
riducendo i rischi politici e di guerra. Inoltre, avrebbe adempiuto, anche solo for-
malmente, agli impegni richiesti dal mandato della Società delle Nazioni. Fu quindi
così che, quali pedine della politica anglo-francese, i due ambiziosi figli dello sce-
riffo meccano ebbero un regno ciascuno. Fayâal fu incoronato re nell’agosto del
1921, appena cinque mesi dopo la conferenza del Cairo 39. Le due neonate monar-
chie, data la loro debolezza intrinseca, per sopravvivere avrebbero avuto bisogno
di armi 40, soldi e tutela politica inglese 41, rendendole di fatto Stati «clienti», anche
dopo la fine dei mandati. In ambedue gli Stati venne rapidamente formata un’am-
ministrazione locale sul modello indiano, anche se i veri centri di potere erano re e
governo. Certo, Fayâal puntò subito i piedi, rifiutando le ingerenze inglesi, oltre
che le restrizioni sulla sovranità irachena implicite nel mandato della Società delle
Nazioni; inoltre, si appoggiò ai movimenti nazionalisti iracheni, nel tentativo di le-
gittimarsi agli occhi della popolazione come indipendente da chi lo aveva, di fatto,
instaurato. Ebbe quindi inizio un braccio di ferro tra la monarchia e gli inglesi, che
nel 1924 riuscirono a imporre una costituzione modellata secondo gli interessi di
Londra, oltre che a sostituire il mandato con un trattato di alleanza anglo-iracheno,
che di fatto rese il paese un protettorato britannico.
Nel 1932 l’Iraq ottenne l’indipendenza e fu il primo, tra i paesi sottoposti a
mandato, a entrare nella Società delle Nazioni. Anche in questo caso si trattava di
un’indipendenza formale. Infatti il petrolio e la posizione strategica dell’Iraq erano
indispensabili per Londra che, nel 1930, aveva imposto un nuovo trattato bilaterale
il quale prevedeva privilegi economici inglesi e la concessione di basi militari. Ma
dalla fragile quadratura del cerchio realizzata da Churchill rimasero fuori un paio
di cadaveri eccellenti, che avveleneranno sin dall’inizio il quadro geopolitico del-
l’intero Medio Oriente: la questione israelo-palestinese e quella curda.

4. È interessante notare come, paradossalmente, i confini artificiali imposti con


gli accordi e le conferenze del primo dopoguerra corrispondano agli attuali confini
nazionali. Infatti, nella fase di decolonizzazione o di indipendenza seguita alla se-
conda guerra mondiale cambiarono i regimi ma non i confini degli Stati medio-
rientali. Sola eccezione, i territori persi dagli arabi nelle guerre contro Israele. Del
resto, in novant’anni, gli unici tentativi significativi di abbattere le frontiere nazio-

39. Invece ‘Abdallåh inizialmente fu nominato emiro della Transgiordania; il paese ottenne l’indipen-
denza gradualmente, che fu proclamata solo nel 1946.
40. Churchill, lungimirante, propose fin da subito di affidare il controllo militare dell’Iraq sopratutto
alla Royal Air Force.
41. Il soft power inglese fu inizialmente esercitato tramite «advisors», teoricamente solo con potere
12 consultivo, in realtà longa manus di Londra.
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IL BUIO OLTRE GAZA

nali furono l’effimera Repubblica Araba Unita, che dal 1958 al 1961 legò Egitto e
Siria, o i controversi legami di fratellanza tra i governi baatisti di Siria e Iraq.
In conclusione, il quadro che in Medio Oriente emerge a pochi anni dalla fine
della prima guerra mondiale è quello di un instabile equilibrio di Stati di modello
vestfaliano, i cui confini geografici corrispondono alle geometrie degli interessi an-
glofrancesi. A labile guida di questi Stati non-nazionali, che non hanno una storia
vissuta e condivisa nella loro forma attuale, vi sono monarchie senza radici 42. Non
c’è quindi da stupirsi se l’evoluzione storico-geopolitica degli Stati arabi sia sin dal-
l’inizio influenzata dalla loro costante avversione alla concezione statuale occiden-
tale, basata sulla sintesi dei concetti di popolo e governo.
Oggi non vi è Stato mediorientale la cui popolazione non sia divisa da linee et-
niche, religiose o tribali. Il solo Libano, grande poco più delle Marche, riconosce uf-
ficialmente 18 diverse comunità religiose. In altri termini, il concetto di «popolo» in
tutti i paesi mediorientali trova difficilmente una condivisa e concreta realizzazione.
Inoltre, anche la concezione occidentale dello Stato sovrano guidato da un
governo, qui è da riconsiderare. In Medio Oriente il potere statuale è spessissimo
monopolizzato da minoranze claniche, come i tikriti di Saddam, o confessionali,
come gli alauiti in Siria, o ancora tribali, come in Arabia Saudita, senza considerare
gli interessi del «popolo». In altri termini, il concetto di Stato nazionale non è fami-
liare in Medio Oriente, mentre è ben conosciuta e diffusa l’idea e la prassi dello
Stato come «roba di famiglia». Di conseguenza, le costanti della storia politica me-
diorientale contemporanea sono l’uso della forza da parte dello Stato – inteso co-
me élite al potere – per controllare la società, e della violenza contro ogni tipo di
opposizione; l’uso delle risorse economiche e politiche per tessere una rete di di-
pendenza clientelare, al fine di indirizzare il consenso e controllare settori della so-
cietà; l’uso dei proventi petroliferi per garantire all’élite un potere indipendente
dalla società stessa; infine, lo sfruttamento delle divisioni etniche, claniche e reli-
giose per rafforzare il potere delle élite. In tal modo, quest’ultimo si articola su
strutture informali, socialmente pervasive, e non viene condiviso con parlamenti e
aule giudiziarie. Non ci sono logiche istituzionali, ma dinamiche di scambio di
lealtà per protezione.
La realtà di fondo è che il trauma del passaggio dalla dimensione locale – tri-
bale o confessionale che fosse – a quella «nazionale» e, contemporaneamente, il
mutamento dell’orizzonte politico dalla prospettiva imperiale ottomana a quella
del singolo Stato, a tutt’oggi non è stato assorbito. In molti paesi siamo ancora di
fronte a comunità nazionali immaginate, rimanendo l’identità etnica, religiosa o tri-
bale la vera cornice di riconoscimento e riferimento del singolo.
È quindi evidente che un sistema vestfaliano di Stati laici, fondati sul concet-
to di cittadinanza nazionale, non risponde alle caratteristiche socio-geopolitiche
del Medio Oriente. Ma neppure le soluzioni alternative elaborate all’interno del
42. Le monarchie dei grandi paesi mediorientali, tranne quella giordana, ebbero vita breve e tormen-
tata, a partire dall’iracheno Fayâal II rovesciato nel 1958, l’egiziano Fårûq I esautorato nel 1952 e il li-
bico Idrøs I deposto nel 1969. Tutte furono sostituite da regimi militari. 13
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MEDIO ORIENTE, LE BARRIERE INVISIBILI

mondo arabo e musulmano sono riuscite a superare le barriere tra gli Stati, né a
risolvere i problemi politici al loro interno. Queste soluzioni «autoctone» concet-
tualmente si allineano in una tensione ideale verso due estremi: il panarabismo e
il panislamismo. Si tratta di due ideologie fondamentalmente opposte, che han-
no in comune solo il preteso valore universale. Infatti, il panarabismo ha caratte-
re laico, socialista e nazionalista, dove per nazione si intende l’insieme di tutti i
popoli arabi, a prescindere dalla loro religione. Nato con il sogno del grande re-
gno arabo di Õussein, si è sviluppato con il partito Ba‘ñ siriano e iracheno, per
poi raggiungere zenith e nadir seguendo la parabola politica del leader egiziano
Nasser. Il panislamismo invece prescinde dall’etnicità e mira a unire tutti i musul-
mani dell’umma all’interno di un unica nazione retta dall’islam, come una sorta
di nuovo califfato. La dottrina panislamista, o meglio dell’islam militante, fu va-
riamente declinata dal pensiero politico di al-Afôånø, Sayyd Qu¿b, Muõammad
‘Abduh, ‘Alå’ al-Mawdûdø o, per gli sciiti, dall’ayatollah Khomeini e da Ali Sharia-
ti. Anche il fondamentalismo dei più noti jihadisti contemporanei, Osama bin La-
den e Ayman al-Z.awåhirø, si inserisce in questo filone politico. Non a caso, lo
stesso bin Laden ha indicato nella caduta dell’impero ottomano, e del suo califfa-
to, la prima grande disgrazia per la umma musulmana, poi seguita dall’imposi-
zione di usi e politiche occidentali nelle terre dominate, oltre che – naturalmente
– dalla nascita di Israele.
È evidente come l’idea di un’unica nazione islamica o araba e la realtà concre-
ta dei singoli Stati mediorientali siano assolutamente antitetiche.
Inoltre il nazionalismo, fiorito nel secondo dopoguerra ed efficace nel com-
battere il colonialismo occidentale, non è mai riuscito a cementare efficacemente
l’identità del singolo Stato. La spinta rinnovatrice delle ideologie nazionaliste è en-
trata in crisi con la sconfitta araba nella guerra del 1967 e con l’insuccesso dei mo-
vimenti armati laici palestinesi. Lentamente è quindi riemerso l’islamismo radicale,
il cui appeal popolare è ben più vivace del trito nazionalismo vetero-anticoloniali-
sta o socialisteggiante, percepito come legato a regimi inetti e corrotti.
E così, dall’antimperialismo di Fatõ, si è arrivati all’antioccidentalismo di
Õamås. Di fatto, al giorno d’oggi, in Medio Oriente le principali spinte di rottura
degli equilibri internazionali nonché di riassetto politico statale sono quindi i mo-
vimenti jihadisti e le ideologie fondamentaliste come quella salafita. Queste, e la
democrazia d’esportazione della dottrina Bush, sembrerebbero le uniche alternati-
ve geopolitiche, percorribili o meno che siano, alla situazione attuale.

5. I termini del problema, o meglio la prospettiva da cui affrontarlo, devono


essere cambiati. Innanzitutto i confini tra sacro e profano, politica e religione, nella
realtà sono decisamente sfumati: la politica è confessionalizzata – si veda il caso
del Libano – e la religione politicizzata – si pensi all’Iran. Anche i confini tra etni-
cità, religione e nazionalità sono molto labili e spesso si compenetrano. In Iraq, i
jihadisti qaidisti stanno perdendo terreno e consenso proprio a causa di un’allean-
14 za – o meglio, tolleranza – tra sciiti e sunniti in nome del comune spirito patriotti-
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IL BUIO OLTRE GAZA

co-nazionalista iracheno. Nei taliban afghani, il fervore religioso è legato in stra-


grande maggioranza all’etnia pashtun. Ahmadi-Nejad, per rimanere a cavallo della
tigre rivoluzionaria islamica iraniana, cerca di iniettarvi il sangue del laico naziona-
lismo persiano, attizzato dalla reazione internazionale alla sua corsa al nucleare.
Pertanto, la scacchiera politica mediorientale non è delineata da riquadri e pedine
bianche e nere: tutto è intrecciato nel reticolo invisibile delle dinamiche settarie,
etniche e religiose che l’attraversano come fiumi carsici.
Islam e arabismo altro non sono che minimi comun denominatori dell’identità
mediorientale. Non hanno mai avuto la forza di sciogliere i confini degli Stati dove
si sono affermati, abbracciando altri paesi in nome di un ideale sovranazionale 43.
Insomma, il Medio Oriente sembra una scacchiera senza regole 44.
L’affermarsi concreto in un singolo paese di un preteso movimento universali-
sta laico o religioso è sempre dipeso da particolari condizioni locali, nelle quali ri-
mane radicato ma anche dimensionato e vincolato. Esempi ne sono la fedeltà na-
zionalista ed etnica della popolazione sciita irachena, contro le lusinghe della rivo-
luzione islamica khomeinista, oppure la scarsissima propensione a lasciarsi assor-
bire dal panarabismo nasseriano – percepito come imperialismo egiziano – da par-
te dei movimenti panarabi degli altri paesi.
In altri termini, neppure la forza unificante di ideologie universali d’ispirazio-
ne panarabistica o panislamista riesce a superare le barriere geopolitiche imposte
dalle forze particolaristiche del settarismo, radicato localmente su base tribale, oli-
garchica o religiosa. Il particolarismo locale prevale sulla globalizzazione. I vincoli
locali clientelari, d’interesse o di sangue, sono più forti dei legami religiosi, nazio-
nalisti o etnici.
Ciò si spiega col fatto che negli Stati creati artificialmente alla fine della prima
guerra mondiale si è innestato il processo già delineato da Ibn Œaldûn nel XIV se-
colo: singoli gruppi sociali o tribali, legati da uno spirito di coesione comunitaria o
clanica, l’‘aâabiyya, si impadroniscono del potere instaurando un’autocrazia dina-
stica. Gli emiri e i califfi del suo tempo, al pari delle oligarchie claniche, confessio-
nali, militari o cleptoratiche contemporanee, si erano appropriati dello Stato, fa-
cendone mulk, ovvero un proprio dominio esclusivo.

43. Ad esempio, la rivoluzione khomeinista non ha attecchito fuori dall’Iran e l’alleanza con Õizbullåh
è forse più dovuta a una comunanza di interessi geopolitici che religiosi. Per contro, gli sforzi dei mo-
vimenti jihadisti contemporanei di dar vita a un emirato indipendente sono sempre stati frustrati dal
mancato sostegno delle popolazioni dove si cercava di fondare l’emirato, come nel caso iracheno. La
solidarietà locale è più forte del richiamo universale.
44. E così l’uomo, scrive Adonis, poeta contemporaneo libanese di origine siriana:
a volte, è debole e s’interroga balbettando:
appartengo, ma a quale luogo? E a chi? Come inizia e da dove? Qual è la sua fonte di appartenenza?
Il sangue, la razza e la discendenza? (la società non è più un riferimento)
La parlata, la pronuncia, il tono? (la lingua non è più un riferimento)
La tribù, la parentela, la famiglia? (il popolo non è più un riferimento)
Il quartiere, la zona, la regione? (il paese non è più un riferimento)
La dottrina, la via, la confessione? (la religione non è più un riferimento)
La fazione, la corrente, il gruppo? (il partito non è più un riferimento)
Le pallottole, le bombe, i missili? (l'uomo non è più un riferimento). 15
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MEDIO ORIENTE, LE BARRIERE INVISIBILI

Le barriere mediorientali non sono i confini tra gli Stati. Esse derivano invece
dalla difficoltà a creare un sostrato politico neutro alla materia composita dello
Stato, che concìli etnie, religioni e tribù. Sembra infatti impossibile realizzare mo-
delli politici diversi dall’autocrazia, laica o religiosa che sia. Ne consegue una
competizione intrasistemica statale e sistemica regionale, giocata su potere, petro-
lio e religione ed esacerbata dalla negazione del diritto all’esistenza di Israele (e
di riflesso della Palestina).
Ancora oggi la comunità internazionale si trova a dover affrontare l’eredità
avvelenata lasciata dalla dipartita del grande malato d’Europa, l’impero ottomano.
L’invisibile filo della storia che lega le guerre nei Balcani degli anni Novanta, l’in-
vasione irachena del Kuwait nel 1991, la guerra in Iraq nel 2003, le permanenti
crisi in Libano, Cipro e Kurdistan, conduce a Istanbul, sulla soglia della Sublime
Porta ottomana.

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