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Le bighe -6-

Claude Lvi-Strauss

Lezioni giapponesi
tre riflessioni su antropologia e modernit
introduzione, traduzione e cura di lorenzo scillitani prefazione di salvatore abbruzzese

Rubbettino

Il testo delle lezioni qui pubblicate stato preparato per la Ishizaka Lecture n. 8 (Tokyo, 15-16 aprile 1986), promossa dalla Fondazione Ishizaka, organizzazione privata non-profit costituita in memoria di Taizo Ishizaka (1886-1975), con fondi messi a disposizione da circa venti societ alle quali egli aveva partecipato. La Fondazione sponsorizza conferenze, organizza convegni, distribuisce borse di studio a studenti laureati per ricerche allestero e a studenti stranieri in Giappone, allo scopo di promuovere una migliore comprensione, amicizia e benevolenza tra le nazioni.

2010 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it
Progetto Grafico: Ettore Festa, HaunagDesign

Prefazione Lvi-Strauss e il contesto sociologico francese

inserire un autore come Claude Lvi-Strauss nel suo contesto nazionale unoperazione che implica due sostanziali riduzioni. La prima consiste nel ritenere lo spazio della cultura francofona come lunico contesto territoriale nel quale lautore abbia effettivamente sviluppato il suo pensiero, lasciando passare relativamente inosservato il ruolo che i contesti culturali di altre nazioni, come il Brasile e gli Stati Unti, possano avere effettivamente esercitato sullo sviluppo del suo pensiero. La seconda, probabilmente ancora pi densa di conseguenze, consiste nella ricomposizione del contesto nazionale lungo determinati assi culturali, alla luce dei quali possibile riunire, ripartire e ordinare i singoli autori quanto le diverse scuole, le correnti culturali e i paradigmi dominanti. Questa seconda operazione, si affina nel corso degli anni e conosce uno sviluppo accettabile dopo che le singole correnti, sviluppando fino in fondo le loro specifiche caratteristiche, hanno mostrato ciascuna la loro identit ultima e il loro profilo potenzialmente definitivo. Pur tuttavia, resta comunque evidente il carattere arbitrario esercitato da una qualsiasi ricomposizione fatta alla luce di un principio univoco, di una polarizzazione posta in modo comunque interlocutorio. Essa ha un valore puramente esplicativo e vale solo fino a quando non sostituita da una polarizzazione pi efficace.
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Si tratta allora, e in primo luogo, di riconoscere il carattere in qualche modo arbitrario, ancorch non privo di presupposti, delloperazione di contestualizzazione. Situare Lvi-Strauss nel contesto della cultura sociologica francese della seconda met del Novecento vuol dire pertanto riassumere questepoca attraverso delle coordinate specifiche, indicando in qualche modo dei punti di riferimento, quindi degli autori e delle opere, che possono funzionare da segnali di una polarizzazione intorno alla quale si riuniscono i diversi cenacoli presenti nello spazio nazionale. Ora, tanto i punti di riferimento concettuali, quanto gli autori che li rappresentano, sono tanto pi visibili e comprensibili, quanto pi sono collocabili in modo giustapposto luno allaltro, operando cio attraverso polarizzazioni che, proprio perch rivelatrici dei due estremi che le compongono, consentono di ripartire in modo sufficientemente visibile correnti e autori in realt pi articolati. Si tratta di ricorrere, in qualche modo, a una ricostruzione ideal-tipica del contesto culturale francese, operando attraverso la messa a punto di polarit opposte luna allaltra. La prima polarizzazione alla quale possiamo qui fare ricorso quella instaurata dallo stesso positivismo sociologico e da questa sede, e almeno in linea di principio, ricaduto nello spazio di lavoro dellantropologia: si tratta dellopposizione tra societ e individuo, tra fenomeni sociali esterni e coercitivi al singolo attore che si fanno quadri culturali da un lato e soggettivit, ragioni individuali, azioni dei singoli dallaltro. La seconda polarizzazione si sviluppa invece in seno al discorso antropologico e riguarda lopposizione dirompente tra principi universali e diversit culturali, tra una ragione universale e le irriducibili differenze di ogni singola cultura, in una parola: tra universalismo e relativismo. Queste due polarizzazioni non nascono nella stessa temperie culturale ma, al contrario, si sviluppano in due contesti diversi ed a pi di un titolo non conciliabili tra lo6

ro. Volendosi mantenere al contesto francese, la polarizzazione tra societ e individuo, matura infatti sul terreno moderno della seconda industrializzazione sul piano economico, della Terza Repubblica su quello politico e della laicizzazione delle istituzioni su quello dei processi culturali. La seconda si sviluppa invece sul terreno, completamente rinnovato e interamente ricostruito, del secondo dopoguerra; ha alle spalle il degrado umano della Seconda guerra mondiale, ma anche il crescente protagonismo dei popoli non occidentali che, in questi stessi anni di pacificazione militare e di nuovi assetti internazionali, daranno lavvio ai diversi percorsi di indipendenza politica e di rivendicazione identitaria, gli uni e gli altri fusi nellobiettivo di reperire e definire gli elementi specifici che consentono di definire una cultura propria. Se la polarizzazione societ-individuo serve a regolare il campo di conflitti di una societ che transita dalla campagna alla citt, dallartigiano allindustria e per dirla con Primo Levi sostituisce il movimento matematico dellorologio alle oscillazioni delle greggi e della luna1, la seconda si render necessaria per gestire gli equilibri di una societ mondiale obbligata a ripensare la cornice culturale nella quale si definisce. La prima di queste due polarizzazioni ha per riferimento la sociologia e per autore proprio in virt di quelle esigenze di estremizzazione ideal-tipica indicate pocanzi pu indicare in Emile Durkheim il proprio pi efficace rappresentante. La seconda polarizzazione ha invece per riferimento lantropologia culturale e pu indicare un autore come Claude Lvi-Strauss. Se queste due personalit non riassumono lo spirito delle singole discipline alle quali appartengono in realt pi articolate esse ne esprimono comunque in modo chiaro le forme dellopposizione idealtipica che qui abbiamo scelto di sviluppare. Se in Emile
1. Cfr. p. levi, Tutto il miele finito, Einaudi, Torino 1964.

Durkheim troviamo lesaltazione della societ come autorit morale e il conseguente rinvio dellindividuo allo statuto di istanza seconda, che riesce a definirsi ed a svilupparsi solo quando si ricollega saldamente alla prima, in LviStrauss possiamo individuare la sottoscrizione del principio multiculturalista ed il rinvio delluniversalismo allangolo degli etnocentrismi dellOccidente. Entrambe queste polarizzazioni consentono di ripartire lo spazio culturale francese individuando modelli a autori e consentendo di comprendere la portata delle conseguenze in gioco. Metterle luna accanto allaltra, tuttavia, va ben al di l del semplice esercizio dei confronti e delle comparazioni. Durkheim, considerato, a ragione, il padre del funzionalismo, aveva per letnologia un interesse particolare: a partire dalle descrizioni degli etnologi che questi deduce aspetti fondamentali della sua analisi. Lvi-Strauss, da parte sua, deve molto alla sociologia di Emile Durkheim che, per prima, aveva rivelato tutto il peso delle culture nella costituzione del tessuto di credenze, rappresentazioni e valori a partire dalle quali ogni singolo soggetto fa proprio lintero universo culturale della societ di cui parte, appropriazione che non mancher mai di modificare e marcare sensibilmente lintera persona, tanto nei principi, quanto nelle logiche di azione e nei criteri di interpretazione della realt. La societ produttrice del soggetto Il contesto nel quale si afferma lanalisi sociologica di Emile Durkheim coestensivo allaffermazione della seconda modernit, quella che si edifica a partire dal successo delle scienze positive nella seconda met del xix secolo, e somma i successi dellorganizzazione industriale sul piano economico, con quelli della democrazia liberale su quello politico. Per Durkheim, come noto, si tratta di porsi al cro8

cevia di una tensione culturale che deve sovrintendere a due problemi specifici: la realizzazione della coesione in una societ che ha perso lafflato comunitario e la costruzione del consenso politico in una realt che ha sperimentato il conflitto. con Durkheim che la societ vista come autorit morale, la sede nella quale si elaborano valori e principi dalla cui sequela il soggetto viene riconosciuto o rifiutato dal gruppo del quale aspira a fare parte. Alla base c unantropologia negativa in virt della quale il soggetto, senza legami sociali e senza una cultura nella quale si riconosce ed a partire dalla quale pu essere riconosciuto dagli altri significativi, non fa che essere preda dei propri desideri illimitati e costantemente riproposti2. La societ, in quanto sede di legami significativi ai fini del riconoscimento del soggetto, fa della propria cultura un segmento decisivo del processo identitario: questa non solo una lettura della realt, una messa in ordine dellesperienza secondo criteri che la rendono significativa, essa anche e soprattutto la sede di valori e modelli di comportamento che finiscono con il costituire il vocabolario morale dal quale scaturiscono le norme vincolanti ai fini del processo di socializzazione e di accoglienza societaria. Laffievolirsi di tale potenzialit, produce non solo la perdita della coesione sociale e il venir meno della solidariet, ma provoca anche e soprattutto il progressivo scolorirsi della capacit coercitiva delle norme e dei valori provenienti da quella che, fino a quel momento, era la cultura condivisa. I legami, diventando meno forti e non vincolando pi il singolo, con il loro venir meno, sono le norme e i modelli a perdere dimportanza, facendosi puramente formali e intimamente superficiali. Ma soprattutto e assieme
2 Cfr. a tal proposito, a. giddens, Durkheim, Fontana Press, Glasgow 1978; g. poggi, Durkheim, Oxford University Press, Oxford 2000, trad. it. mile Durkheim, il Mulino, Bologna 2003.

a questi la cultura stessa che, perdendo la propria funzione di collante sociale, perde di interesse in quanto tale. Si arriva cos a poter mettere tra parentesi, dimenticandosene progressivamente, non solo le norme e i valori, ma anche il linguaggio simbolico, le narrazioni della propria storia, i principi interpretativi. Con la perdita della cultura comune e della coesione sociale, il collettivo comunitario si scioglie nel mare pi vasto di una nuova societ, con una nuova cultura. In conclusione attraverso lanalisi di Durkheim che la cultura non solo una mera sovrastruttura, funzionale ai rapporti materiali di riproduzione, ma diventa una componente decisiva per la sopravvivenza della societ stessa come collettivit umana autonoma. Attraverso il suo declino la societ stessa, quindi gli esseri umani nella loro consistenza che, perdendo la loro identit culturale e la loro coesione sociale, diventano parte di una nuova societ, dalla quale dovranno mutuare norme e lingua, valori e credenze, stili di vita e modelli espressivi. Lanalisi sociologica di Durkheim decisamente tributaria alla sua riflessione sui fenomeni religiosi. La religione non solamente alla base dei processi di costruzione del legame sociale dove, attraverso la condivisione degli atti rituali, edifica lesperienza stessa dellappartenenza a unentit superiore. Essa anche allorigine delle categorie interpretative della realt. Non si tratta solo degli a-priori kantiani di tempo e di luogo. Per Durkheim lesperienza rituale a fondamento anche di una serie innumerevole di categorie interpretative con le quali il soggetto definisce se stesso, la propria esperienza e luniverso circostante3. Tutta la3. Cfr. r. boudon, mile Durkheim: lexplication des croyances religieuses, in tudes sur les sociologues classiques, vol. ii, Presses Universitaires de France, Paris 2000, trad. it. A lezione dai classici, il Mulino, Bologna 2002.

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nalisi di Durkheim si tiene pertanto intorno alla ricerca degli elementi che possano assicurare quel legame sociale che, nel passato e fino alla vigilia del trionfo della secolarizzazione delle istituzioni come di quello del positivismo scientifico, era assicurato dalla religione. La sociologia positivista di Durkheim si iscrive in pieno nella prospettiva evoluzionista gi tracciata da Comte. Per Durkheim levoluzione del progresso in ambito economico si accompagna allevoluzione in ambito politico e alle trasformazioni sul piano sociale. La stessa transizione delle forme di solidariet, segnalata dalle trasformazioni nel diritto, si iscrive in pieno in una cornice evolutiva che non pone problemi circa la sua consistenza. Ci che lo distingue da Comte risiede esattamente nella consapevolezza degli elementi di criticit che questa stessa evoluzione finisce con il presentare. Ci che fino a quel momento e per unintera classe di intellettuali appariva come la transizione a una societ dove il progresso tecnologico avrebbe certamente incrementato quello politico e luno e laltro avrebbero contribuito a una migliore qualit della vita sociale, Durkheim vi vede invece una possibilit di degrado e il rischio di una sempre pi evidente perdita di solidariet e di coesione sociale. Le trasformazioni dovute alla complessit sociale sfociano inevitabilmente in una differenziazione alla fine della quale la capacit coesiva della societ viene meno e il soggetto vive, in qualche modo, disancorato da legami di ogni sorta e poco propenso a riconoscere ai valori la capacit di orientare le proprie scelte. In pratica, proprio perch il soggetto si ritrova a essere assolutamente segnato dalla perdita dei legami, cos come esposto a tutta una serie di fatti sociali che lo determinano, che la sociologia di Durkheim sfocia nellinteresse verso le culture e la loro capacit di normare la vita del singolo. In Francia questo tipo di impostazione non ha mancato di essere alla base di una consistente discendenza. Lasse
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durkheimiano si strutturer pertanto intorno al paradigma della consistenza e della coercitivit dei fatti sociali come elementi in grado di orientare consistentemente la vita del singolo, fino a determinarne non solo modelli di comportamento e stili di vita, ma anche le stesse scale di valori e la stessa visione complessiva della realt. Essa conoscer apparentamenti rilevanti con la teoria marxiana dellideologia e con la sociologia della conoscenza di K. Mannheim, l dove anche questultime prefigurano una dimensione soggettiva completamente condizionata dalle condizioni desistenza. La scuola durkheimiana, come noto, per quanto decimata fisicamente dalla Prima guerra mondiale, conoscer delle evoluzioni nel pensiero di sociologi come Maurice Halbwacs e Marcel Mauss, mentre nel dopoguerra approder alle analisi di autori come Maurice Duverger, Pierre Bourdieu e Michel Foucault. Allopposto del paradigma del soggetto condizionato dallambiente e dai fatti sociali che lo strutturano prender corpo un paradigma opposto, interamente fondato sul principio della consapevolezza delle scelte soggettive. Alla coercitivit dei fatti sociali verr contrapposta la coscienza individuale, a un soggetto passivo un individuo che valuta, ad ogni momento e pur con i limiti conoscitivi che lo caratterizzano, la validit di tutto ci che gli viene proposto. Di fatto sia le regole, che gli stili di vita, che le letture della realt non sono pi fatte proprie in modo inconsapevole dai soggetti. Lindividuo valuta, sempre e comunque, le plausibilit che gli consentono di sottoscrivere un principio cos come di fare propria una visione del mondo. Non c tratto culturale, tanto nellambito degli strumenti materiali quanto in quello dei principi ideali, che questi sottoscriva in modo inconsapevole, non c tratto culturale che venga rilevato dal soggetto, senza la consapevolezza cosciente di questi, che lo trova plausibile e accettabile alle luce delle conoscenze che possiede. Si afferma cos una prospettiva sociologica
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che ai fatti sociali contrappone lazione sociale, cio lazione cosciente e consapevole che il soggetto pone in essere, tenendo conto della possibile reazione degli altri. Un tale principio, adeguatamente formulato nei classici da autori come Max Weber, Vilfredo Pareto e Georg Simmel, verr ripreso nel dopoguerra da autori come Talcott Parsons e Paul Lazarsfeld. In Francia far il suo ingresso con autori come Raymond Aron, Franois Bourricaud e Michel Crozier. Si dovr comunque a Raymond Boudon lacquisizione del paradigma individualista nella sociologia francese degli anni Ottanta. Lopposizione con il paradigma durkheimiano non potrebbe essere pi netta. Per quanto il soggetto sia esposto a delle letture dominanti della realt e sia portato a rilevare, mutuandolo dal proprio contesto come dal gruppo di cui parte, valori, modelli di comportamento, stili di vita e concezioni del mondo, un tale processo di socializzazione non si produce senza il suo consapevole consenso. Dentro questo secondo paradigma, totalmente opposto al precedente, la cultura, ma ancor di pi il paradigma culturalista, finisce per occupare un posto decisamente secondario. Gli imprinting culturali sono di fatto annullati a partire dal momento in cui il soggetto sceglie consapevolmente e ogni errore da ascrivere pi alla mancanza oggettiva di mezzi di controllo che non a un semplice effetto di socializzazione. Di fatto in opera una razionalit cognitiva che agisce e si muove con il supporto del pensiero riflesso e non presenta alcunch di automatico o di puramente comportamentale. Valori, credenze, valutazioni del mondo e concezioni della vita, tutti i diversi tratti che possono contraddistinguere tanto la cultura materiale quanto quella ideale, sono il risultato di scelte che il soggetto compie attraverso il ricorso a ragioni che percepisce come valide. Il consenso che questultimo concede non mai irriflesso, n puramente emozionale: di fatto questi resta sempre e comunque un attore razionale, di una razionalit che non
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pi limitata al solo interesse ma investe anche i valori che questi fa propri. abbastanza chiaro, a questo punto, il peso e il ruolo esercitato dal pensiero dellantropologo Lvi-Strauss allinterno del quadro culturale francese. Nella tipologia prima rilevata e che appartiene allambito della sociologia, LviStrauss finisce per essere percepito e valutato pi dalla tradizione durkheimiana che dalla prospettiva individualista. Il motivo evidente: se nella sociologia dei fatti sociali il soggetto totalmente condizionato dallambiente, il fuoco dellanalisi non pu che interessarsi a questultimo, alle regole che lo caratterizzano come ai valori e alle concezioni del mondo che lo attraversano. Nellanalizzare le regole il testimone arriva allanalisi del conflitto sociale e dei processi che lo attraversano, mentre nellindividuare valori e concezioni del mondo il punto focale si sposta invece verso lo studio delle culture e degli universi di senso che queste pongono in essere. In un caso come nellaltro il soggetto , di fatto, la sede delle diverse dipendenze che lo condizionano da ogni parte: non ha azioni, ma solo reazioni, comportamenti irriflessi, stili di vita acquisiti e fatti propri in quanto esterni e soprattutto coercitivi. Tuttaltro percorso si produce nella sociologia dellazione, nella misura in cui il soggetto a scegliere consapevolmente. Qualsiasi variabile culturale, economica e politica non ha che un valore contestuale, non costituisce cio nientaltro che il contesto a partire dal quale il soggetto sceglie ci che per lui ha un senso. Il paradigma culturalista Prospettiva culturalista e prospettiva sociologica, hanno in comune un interesse in comune per le culture cosiddette primitive. Unopera come Primitive culture di Tylor (1871)
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verr tradotta e riedita a pi riprese nella Parigi della Terza Repubblica, mentre una sorte analoga segner il destino dellopera di McLennan The Primitive Marriage (1865). In quegli stessi anni il giovane Durkheim si appassionava alle lezioni di Fustel de Coulanges che alla Sorbonne trattava dei riti e dei costumi della citt antica, cio della Roma dellet classica. Una vera e propria attrazione viene registrata nei confronti delle culture primitive, e ci interessa tanto il pubblico quanto gli studiosi di scienze sociali. Non si tratta solo di reazione romantica allimpero culturale dei Lumi, reazione che, per molti, allorigine stessa della sociologia. In realt, per la stessa prospettiva positivista, le culture delle civilt pi elementari contengono gli elementi fondamentali che caratterizzano la societ in quanto tale. In altri termini proprio allinterno della stessa prospettiva evoluzionista che le culture primitive, pur presentando specificit proprie, al punto tale da prospettare lesistenza di una vera e propria logica che nulla aveva a che spartire con quella del mondo moderno, non sono tuttavia derive della ragione ma, al contrario, contengono in nuce tutti gli elementi essenziali e costitutivi della societ in quanto tale. Solo nelle societ primitive, nelle culture delle popolazioni semitiche come in quelle degli aborigeni dellAustralia o degli Esquimesi possibile osservare in modo pi lineare il funzionamento della societ nelle sue forme elementari. Le societ primitive, in altri termini, funzionano come archetipo della societ moderna4. La polarizzazione durkheimiana funziona cos come criterio di collocazione logica delle culture altre: questultime finiscono cos con il costituire il deposito delle forme elementari, mostrandosi come altrettanti laboratori per osservare e comprendere, veden4. Cfr. e. durkheim Les formes lmentaires de la vie religieuse [1912] puf, Paris 1968, trad. it. Le forme elementari della vita religiosa, Meltemi, Roma 2005.

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doli ancora allopera, quegli stessi meccanismi che sono stati a fondamento della societ moderna, colti nella loro forma essenziale, semplice, elementare. Quando Lvi-Strauss interviene, cio quarantanni dopo la pubblicazione del testo di Emile Durkheim sulle Forme elementari della vita religiosa, il panorama potentemente cambiato. Nel 1952 non c pi nessuna traccia dellEuropa del 1912: un intero universo culturale a essere scomparso sotto i colpi della Prima guerra mondiale, dellavanzata dei regimi totalitari e dei massacri della popolazione civile, perpetrati volontariamente come forma esplicitamente ammessa di tattica militare, che resteranno il vero tratto distintivo della Seconda guerra mondiale. Al momento in cui Claude Lvi-Strauss d alle stampe il suo manoscritto su Razza e storia, si venuta costituendo una societ internazionale della quale lEuropa rappresenta solo una parte5. Di questo costituendo consesso delle Nazioni Unite Lvi-Strauss chiamato a definire il quadro concettuale comprensivo, la cornice culturale allinterno della quale la nuova entit sovranazionale pu pensare se stessa. Non si tratta solo di combattere il razzismo e di seppellire definitivamente qualsiasi teoria della razza, ma in gioco invece la necessit di ripensare in positivo alle diversit culturali, vedendole come altrettante provincie finite di significato, aventi una logica propria e tutte ugualmente valide. Una simile impresa implica lo smantellamento di qualsiasi ipotesi evoluzionista, anche di quelle che vedevano, come nel caso della sociologia francese di Durkheim e della sua scuola, le societ primitive come altrettante formazioni sociali in grado di mostrare il funzionamento delle societ pi avanzate, colte cos nelle loro forme elementari. Occorre
5. Cfr. c. levi-strauss, Race et histoire, Unesco, Paris 1952, riedito, Denol, Paris 1987. Da qui in avanti riportato nella forma dallacronimo RH.

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smantellare lidea di progresso, cos come stata imbastita nel crogiolo culturale della seconda met del xix secolo, cos come inevitabile passare alla cartina di tornasole lo stesso concetto di modernit, sul quale si edificata la societ francese a partire dai Lumi e dalla Rivoluzione del 1789. Limpianto concettuale di Lvi-Strauss profondamente tributario alla riflessione sociologica. Loriginalit di ogni singola cultura cio la sua diversit intellettuale, estetica e sociologica non risiede in attitudini particolari, accreditabili a una presunta diversit fisiologica delle razze, bens deriva dalle diverse circostanze geografiche, storiche e sociologiche nelle quali ogni singola cultura si sviluppata. Ma non basta. Nella concretezza della loro storia le culture raramente appaiono isolate, il loro sviluppo molto raramente riducibile allo sviluppo interno di ciascuna, molto pi di frequente queste sono in relazione e quindi in confronto tra di loro. Affianco alle differenze dovute allisolamento, ci sono quelle, altrettanto importanti, accreditabili alla prossimit: desiderio di opporsi, di distinguersi, di riconoscersi [] la diversit delle culture umane meno in funzione dellisolamento dei gruppi che delle relazioni che li uniscono. (RH, 17). Ci che colpisce la radicale opposizione che dovunque rilevabile nei confronti di questa ovvia diversit. Raramente le diversit culturali appaiono per quelle che sono, al contrario finiscono per risultare delle scandalose mostruosit. Ci si rifiuta di ammettere il fatto stesso della diversit culturale e si preferisce rigettare al di fuori della cultura, nella natura, tutto ci che non si conforma alla norma sotto la quale si vive. [] Lumanit cessa alle frontiere della trib, del gruppo linguistico, talvolta dello stesso villaggio. (RH, 20). Pur tuttavia non sufficiente riferirsi a un principio di uguaglianza universale, come quello presente nel concetto di umanit, le diversit non solo permangono, ma costituiscono il primo dato e il pi evidente derivante da qualsiasi confronto.
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Per superare le difficolt che la necessit di dare conto delle diversit apre alla denuncia delle aberrazioni e delle mostruosit delle altre culture, cio per arrivare a dare conto delle differenze di fatto senza postulare delle differenze di valore, diviene importante sbarazzarsi del falso evoluzionismo. Ci che accade in biologia non si sviluppa infatti necessariamente nelle culture. Dire [] che unascia sia levoluzione di unaltra costituisce una formula metaforica che riprende lespressione applicata ai fenomeni biologici []. La nozione di evoluzione sociale o culturale, al massimo, costituisce una procedura tanto attraente quanto pericolosamente comoda, di presentare i fatti (RH, 25). Per Lvi-Strauss non esistono popoli allo stadio infantile, ma tutti sono adulti (RH, 32). Lidea di progresso non implica affatto quella di regolarit e di continuit delle tappe. In realt il progresso procede per salti (RH, 38) e le stesse percezioni del mutamento ci appaiono rilevanti o inesistenti a seconda della loro prossimit al nostro modello di evoluzione, ai nostri valori ed ai nostri interessi: Le culture ci appaiono tanto pi attive quanto pi si spostano nella stessa direzione della nostra, mentre ci risultano stazionarie quando si orientano in modo diverso (RH, 45). Per di pi una valutazione in termini di mutamento o di stagnazione implica lacquisizione di una serie non indifferente di informazioni. Ancora, lo stesso progresso dellOccidente, misurato in termini di sviluppo dei mezzi meccanici, non indica che una priorit relativa. Cambiando il criterio di misura il primato andrebbe certamente altrove: gli eschimesi risulterebbero certamente il popolo maggiormente capace di adattarsi a situazioni geografiche e climatiche estreme, le culture dellOriente e dellEstremo Oriente rivelerebbero una conoscenza del corpo umano assolutamente superiore rispetto a quella presente in Occidente. Larte della navigazione di alcuni popoli polinesiani risulterebbe sorprendente e si scoprirebbe che persino la capacit di armonizzare i
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rapporti tra gruppo famigliare e gruppo sociale trova soluzioni molto pi avanzate presso alcune trib dellAustralia di quanto non accada in Occidente, a dispetto delle condizioni notevolmente arretrate sul piano economico. Tuttavia il primato dellOccidente, riconosciuto peraltro dalle stesse popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, costituisce un fatto altrettanto incontestabile quanto pu esserlo il progresso tecnologico. Per Lvi-Strauss un tale primato si spiega innanzitutto come la conseguenza inevitabile di processi di dipendenza gi consolidati, ma esso va anche addebitato tanto alla capacit dellOccidente di accrescere la quantit di energia disponibile per ogni abitante, quanto a quella di proteggere e prolungare la vita umana. Ora, tali obiettivi non solo sono stati perseguiti anche da altre culture, ma soprattutto a queste che dobbiamo i progressi pi consistenti: dallagricoltura allallevamento, alla tessitura. Queste scoperte non sono state casuali ma hanno richiesto una lunga serie di sperimentazioni analoghe a quelle registrate in ambito scientifico nel caso della scoperta dellelettricit. In nessun caso ci dovuto ad un qualsiasi differenziale psicologico, ma va invece ascritto ad una concomitanza fortuita di diversi fattori di natura storica, economica e sociologica. Quanto alla rivoluzione industriale, questa, incomparabilmente inferiore a quella neolitica, costituisce una sorta di universale al quale tutti i popoli fanno prima o poi ricorso. Il fatto che sia nata in Occidente prima che in Giappone o negli Stati Uniti praticamente senza importanza: Possiamo esser certi che se la rivoluzione industriale non fosse apparsa prima in Europa occidentale e settentrionale, questa si sarebbe comunque manifestata prima o poi, in un altro punto del pianeta (RH, 65). In realt non esiste nessun primato tra le culture anche perch nessuna di queste mai sola e tutti i progressi maggiormente rilevanti risultano da un intreccio culturale, pi o meno consapevolmente voluto e cercato. Solo la fatalit
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di essere isolati costituisce un vero e proprio handicap, mentre la differenziazione tra le varie culture che si ritrovano a collaborare, a costituire la loro pi grande potenzialit: per di pi proprio lampiezza del livello di differenziazione tra le culture coinvolte che, ad esempio, fa la differenza tra lEuropa agli inizi del Rinascimento e lAmerica pre-colombiana. Finalmente lordinarsi causale di fattori storici e non la presenza delluno o dellaltro tratto culturale che si rivela decisivo ai fini dello sviluppo. Questultimo finisce con lessere il risultato della coalizione tra culture, pi che il risultato di una genialit presente in luoghi specifici e assente in altri, una coalizione tanto pi fruttuosa quanto pi alta la differenza tra le culture che collaborano. Lo stesso sviluppo della seconda rivoluzione industriale che tanto ha contribuito nellesaltazione moderna del nuovo e nel primato dellOccidente avrebbe avuto una ben diversa velocit di crescita se non avesse potuto avvalersi della presenza dei Paesi colonizzati (RH, 80). Le conclusioni costituiscono un vero e proprio manifesto alla collaborazione tra i popoli, mentre il mantenimento delle diversit diviene una regola necessaria per evitare un appiattimento culturale che, alla lunga, inciderebbe sul differenziale stesso tra le culture e precluderebbe ogni ulteriore sviluppo. La diversit tra le culture umane dietro di noi, intorno a noi e davanti a noi. La sola esigenza che noi possiamo far valere a suo riguardo (creatrice per ogni individuo dei doveri corrispondenti) che questa si dispieghi in forme attraverso le quali ciascuna finisce con essere un contributo alla pi grande generosit delle altre (RH, 85). Autonomia dellindividuo e condizionamento delle culture Lanalisi di Lvi-Strauss, premiando il caso e lodando linterazione non di rado involontaria tra le culture come
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fattore di progresso, contribuisce a rinforzare lopposizione verso qualsiasi forma di razzismo, intollerabile moralmente, ma soprattutto assolutamente inaccettabile allinterno delledificazione delle nuove istituzioni internazionali. Sul piano della cultura francese essa finisce per essere percepita come il manifesto delle differenze e della loro incommensurabilit, la prova provata del relativismo dei percorsi e degli approcci, la dimostrazione delluguaglianza non solo morale, ma anche tecnico-scientifica, tra i diversi popoli. Non a caso verr recensita come una piccola filosofia ad uso dei funzionari internazionali6. La distanza dallantropologia anglosassone della seconda met del xix secolo non poteva essere pi consistente: qualsiasi primato della cultura occidentale e del progresso industriale di fatto annullata. Gli antropologi che avevano consegnato allimpresa coloniale il mandato della civilizzazione ereditato dalla filosofia dei Lumi sono immediatamente messi fuori gioco. Una tale operazione non senza conseguenze. Di fatto, per quanto mossa dalle pi oneste intenzioni intellettuali, loperazione produce un esito opposto a quello prospettato dai Lumi e alla base della costituzione delle Nazioni Unite. La distruzione del pregiudizio non si risolve pi con lapertura degli altri alla ragione, ma con lapertura di se stessi alle ragioni degli altri7. Il Male, secondo Condorcet, proveniva dalla scissione del genere umano in due classi: quella degli uomini che credono e quella degli uomini che ragionano. Pensiero selvaggio o pensiero colto, logos o saggezza barbara, bricolage o formalizzazione tutti gli uomini ragionano, replica Lvi-Strauss, i pi creduli ed i pi nefasti sono quelli che si considerano come i detentori esclusivi della razionalit. Il barbaro non il contrario delluomo civilizzato [] e il pen6. Diogne couch, in Les Temps modernes, 1955. 7. Cfr. a. finkielkraut, La dfaite de la pense, Gallimard, Paris 1987.

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siero dei Lumi colpevole del radicamento di una tale credenza nel cuore dellOccidente, affidando ai suoi rappresentanti lesorbitante missione di assicurare la promozione intellettuale e lo sviluppo morale di tutti i popoli della terra8. Leredit durkheimiana, il polo culturalista della tradizione sociologica francese, far proprie le acquisizioni di LviStrauss, tanto che, qualche anno pi tardi, si potr leggere in un testo redatto da sociologi tra i pi rappresentativi di questa tradizione che: La selezione di significati che definisce oggettivamente la cultura di un gruppo o di una classe come sistema simbolico arbitraria, in quanto struttura e funzioni di questa cultura non possono essere dedotte da nessun principio universale, fisico, biologico o spirituale, non essendo unite da nessuna specie di relazione interna alla natura delle cose o ad una natura umana9. Il principio universalista, battuto in breccia dalla critica di Lvi-Strauss entrer cos a far parte delle acquisizioni dello stesso pensiero sociologico, colto nella sua tradizione positivista. Sul fronte opposto, quello dellautonomia del soggetto, la sociologia di autori come Raymond Boudon sosterr invece la possibilit di un pensiero trasversale alle diverse culture. Infatti nella misura in cui non c tratto culturale, singola credenza, concezione del mondo, che non venga fatta propria che a partire da ragioni che il soggetto trova sensate, si pu parlare di unevoluzione universale delle credenze, di un lento condensarsi di tutti i popoli intorno a determinati principi universali che, per tale strada, escono fuori dallessere propri delluna o dellaltra cultura, per farsi patrimonio indistinto dellumanit nel suo insieme10. Valori
8. Ivi, p. 82. 9. p. bourdieu, j.c. passeron, La reproduction (lments pour une thorie du systme denseignement), ditions de Minuit, Paris 1970, p. 22. 10. r. boudon, Le sens des valeurs, Presses Universitaires de France, Paris 1999.

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come il rispetto della donna, labolizione della pena di morte, il riconoscimento della dignit dellindividuo, ma anche elementi particolari del sistema di regolazione giuridicopolitica come la divisione dei poteri, sono fatti propri da un numero sempre crescente di nazioni, mentre il mantenimento delle forme precedenti si imbatte in contestazioni sempre pi vaste e condivise. Esiste, in altri termini, la possibilit di oltrepassare i limiti delle singole culture, per riconoscere valori comuni. Un tale risultato non pu provenire che dal carattere ragionevole, cio consapevole e riflesso, delle adesioni ai valori. Per quanto questi si vestano con gli abiti della singola cultura, la loro accettazione meno la conseguenza di un processo di socializzazione che il risultato di una scelta volontaria. Come ogni altra forma di scelta consapevole questi finiscono per costituire lesito di ragioni e non sono riducibili a essere, al contrario, la pura adesione irriflessa ai condizionamenti del gruppo. La critica alletnocentrismo mossa da Lvi-Strauss resta cos in disparte. Ci che in discussione non la capacit della cultura occidentale di contenere principi e valutazioni suscettibili di costituire i principi di una morale universale, quanto la possibilit del soggetto, qualunque sia la sua cultura di appartenenza, di verificare singolarmente e personalmente la validit di tutto ci che gli viene proposto. Si tratta di una possibilit che questi pu cogliere o meno, ma che, di fatto, svuota le culture della loro base coercitiva per farne degli insiemi che hanno un senso proprio, alla luce del quale sono sottoscritte, o rifiutate. salvatore abbruzzese

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Bibliografia
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Introduzione

Che cosa pu significare il confronto fra culture. Elementi per una lettura delle Lezioni giapponesi di Lvi-Strauss dalla lettura di queste pagine1 emerge un LviStrauss in presa diretta con alcuni dei problemi fondamentali del nostro tempo e, tra questi, vi sono problemi bioetici e giuridici sui quali Lvi-Strauss non si mai soffermato cos a lungo , esaminati con lo spirito dellantropologo che sa di essere un uomo di cultura di formazione occidentale a confronto con la cultura e la storia di un Oriente geograficamente e spiritualmente estremo, come quello nipponico. Chi conosce Lvi-Strauss pu ravvisarvi lespressione di una libert di opinioni che si ritrova forse solo nelle Riflessioni sulla libert, che lantropologo espose allAssemblea
1. Il testo delle lezioni pronunciate da Lvi-Strauss a Tokyo fra il 15 e il 16 aprile del 1986 su invito della Fondazione Ishizaka intitolate Lanthropologie face aux problmes du monde moderne non stato sinora pubblicato nelloriginale francese, e ha conosciuto, su autorizzazione dellautore e di Satoshi Tsuzukibashi, una prima versione provvisoria in lingua occidentale, a opera del sottoscritto, nel Quaderno 2000 della rivista di scienze umane Nuovo Sviluppo, diretta dal compianto Luigi Pasquazi, per poi registrare una traduzione in giapponese (Heibonsha, Tokyo 2006) a cura di Kawada Junzo (dellUniversit di Hiroshima) e di Kozo Watanabe (dellUniversit Ritsumeikan di Kyoto).

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Nazionale francese nel maggio del 1976, e in qualche raro intervento polemico. Chi non conosce Lvi-Strauss potr rendersi conto della portata complessiva degli esiti principali di tutta una vita di ricerche: esiti che qui incontrano la prova dellattualit, oltre che come nella migliore tradizione antropologica la prova dellalterit radicale di usi, costumi, credenze, lo sguardo da lontano2 trovando qui di che spaziare da un meridiano culturale allaltro. Chi si interessa allOriente, e in specie al Giappone, potr allargare il suo sguardo con loriginale proiezione ottica di LviStrauss, attestata in particolare dalla conferenza di Kyoto del 9 marzo 1988 su La place de la culture japonaise dans le monde, pubblicata nella Revue dEsthtique (n. 18, 1990). Non mancher, infine, chi creder di poter scorgere, in alcuni passaggi di queste lezioni, labbozzo di una antropologia dellalterit che, proprio pensando anche al Giappone, un filosofo che vi abit e vi insegn da esule tra il 1936 e il 19413, Karl Lwith, tent nel suo scritto di abilitazione (Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, 1928), pubblicato in traduzione italiana soltanto nel 2007, col titolo Lindividuo nel ruolo del co-uomo. La riproposizione in volume delle pagine seguenti occasionata dalla ricorrenza del primo anniversario della scomparsa del grande antropologo, anche se non si tratta di unoccasione puramente celebrativa. La rilettura delle Lezioni giapponesi, infatti, d modo di cogliere lestrema attualit di un approccio formulato da uno dei pi significativi esponenti di quello che Bernard Henri-Lvy ha definito, forse non iperbolicamente, come il momento propria2. Con questa espressione Lvi-Strauss traduce riken no ken, che in giapponese si adopera per designare lo sguardo dellattore che guarda se stesso come se fosse il pubblico (cfr. le Lezioni, p. 82). 3. Cfr. k. lwith, Scritti sul Giappone, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995.

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mente francese del pensiero occidentale, dopo i momenti peculiarmente greco e tedesco4. Il piano di lettura che verr impiegato per misurare la pregnanza attuale dei contenuti offerti dalle Lezioni verte sulla questione del confronto fra culture: questione oggi quanto mai dibattuta, e tale da richiedere, oltre che un inquadramento delle sue premesse teoriche, la ricostruzione di esperienze che rappresentino che cosa ha significato realmente, che cosa significa, e che cosa potrebbe ancora significare un confronto inter-culturale (comprensivo o no di un confronto interetnico). La sostituzione del paradigma filosofico-storico delle civilt e dei loro relativi rapporti di scontro e/o di incontro al paradigma antropologico delle culture, autorizzata dallirrompere sulla scena della globalizzazione di riscritture macrostoriche che recano la firma di un Huntington e di altri interpreti che tentano di leggere i
4. Cfr. b. henri-lvy, Ce que nous devons Lvi-Strauss, in Le Point, n. 1888, 2008. Henri-Lvy giunge a identificare in LviStrauss il momento nel quale il pensiero occidentale si annuncerebbe pienamente nel suo essere francese (ci si spinti, con Patrice Maniglier e altri, a parlare addirittura di una rivoluzione Lvi-Strauss, nel collettaneo Le Sicle de Lvi-Strauss, cnrs, Paris 2008). La presente Introduzione vorrebbe sviluppare la portata di questa affermazione, tentando di verificarne la potenzialit esplicativa in ordine a qualcosa di ben circoscritto, che lantropologia di Lvi-Strauss autorizza a pensare: ossia che le relazioni tra le culture oscillano tra avvicinamenti e distanziamenti, in un costante alternarsi di pulsioni attrattive ovvero repulsive, secondo registri che vanno dallincontro allo scontro, e che configurano tali relazioni come un confronto sempre in atto, suscettibile di svolgersi su pi livelli, e comunque in modo da presentare dimensioni di problematicit che interessano le capacit di integrazione interculturale non meno delle possibilit conflittuali. Forse appartiene alle movenze speculative pi profonde del pensiero di Lvi-Strauss lattitudine dellOccidente a declinarsi in chiave universale, nella duplice valenza, tendenzialmente oppositiva (in termini di maggiore o minore intolleranza) o costruttiva (pi o meno pacifica e dialogica), che proprio la matrice franco-occidentale sembra aver dispiegato, storicamente, con maggior enfasi.

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fenomeni storico-ideali e storico-sociali in prospettiva mondiale, ha offuscato gli elementi che permettono di identificare i fattori di accomunamento ovvero di differenziazione capaci di creare continuit, contatto, ovvero attrito fra soggetti portatori di usi, costumi, tradizioni, narrazioni, linguaggi diversi5. La prospettiva che oggi tende a occupare il campo visivo del lettore attento alle trasformazioni in corso centrata su di una forte rilevanza del processo storico, sia pure rielaborata in un senso, pi o meno dichiarato, di filosofia della storia, assecondata da posizioni di sociologia della cultura e di filosofia della cultura che rileggono il confronto culturale odierno in base a dimensioni fondamentalmente storico-culturali. La lezione delle Lezioni di Lvi-Strauss, che si prover rapidamente a contestualizzare in rapporto ad altri luoghi e momenti significativi dellopera del grande Maestro dellantropologia culturale, procede invece dal riconoscimento di una portata relativa dei processi storici, accompagnato da una costante presa critica di distanze rispetto al configurarsi sempre nuovo delle circostanze che sollecitano la riflessione: ne un esempio lampante il modo in cui LviStrauss tratta questioni di bioetica, affrontate nella prospettiva dalla quale pu porsi un antropologo, certamente condizionato dal tempo in cui vive, ma abbastanza distaccato per riconoscervi tratti di relativa novit. in questo senso che sembra dovere essere letta la raccomandazione di non
5. Samuel P. Huntington fa in verit propria una definizione di cultura di ascendenza sociologica (i riferimenti espliciti vanno a Durkheim e Mauss), indicandovi il tema comune a qualsiasi accezione di civilt (cfr. il suo Scontro delle civilt, Garzanti, Milano 2000, p. 46). Nella misura in cui i termini in questione non risultino intercambiabili, quasi sinonimi, cultura e civilt corrisponderanno rispettivamente, nel presente saggio introduttivo, a una copertura semantica a carattere pi intensamente antropologico (secondo un filone ermeneutico che va da Malinowski a Lvi-Strauss a Geertz) ovvero storico-religioso (che affonda le radici in Burckhardt, Spengler, Toynbee).

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lasciarsi prendere, e magari sviare, dallansia eccessiva di legiferare in materia, che come si vedr trae alimento da una insospettata subalternit dellOccidente a un razionalismo di ascendenza teologico-politica. Daltro canto, limpostazione di una antropologia strutturale, che si identificata con Lvi-Strauss, richiede di portare a maturazione gli elementi che permettono un reale confronto fra le culture: che questo possa aver luogo al livello microstorico delle societ senza scrittura dipende dalla ricchezza di informazioni che da queste ultime pu essere attinta, in ordine alla produzione della vita materiale, alla conformazione delle strutture sociali di base della vita umana, cos come alla strutturazione mitico-simbolica della rappresentazione umana del mondo naturale, della cultura, e del sovrannaturale. Fa un certo effetto notare, a riguardo dello studio delle forme di parentela, che in queste lezioni Lvi-Strauss non accenni affatto alla proibizione dellincesto, che pure occupa, nella sua opera, un posto di notevole rilievo: si pensi soltanto alle Strutture elementari della parentela (1947), che ormai considerato un classico non solo dellantropologia ma anche della filosofia sociale6, nella misu6. Classico potrebbe essere unaggettivazione equivocata come un larvato tentativo di archiviare Lvi-Strauss tra i pezzi da museo da riesumare per le ricorrenze. Al contrario, non esitiamo a fare nostra la seguente affermazione di Marcel Hnaff: tutti coloro che dichiarano obsoleta la sua opera non ci insegnano nulla su di essa ma ci dicono molto sulla loro ignoranza (o. mongin, De la philosophie lanthropologie. Comment interprter le don? Entretien avec Marcel Hnaff, in Esprit, febbraio 2002, p. 136). Su di un versante critico che non va trascurato, gi un filosofo come Althusser, pur palesando tutte le sue perplessit su LviStrauss, relative in particolare a un suo (preteso) misconoscimento di Marx, non poteva non ammettere che la questione di Lvi-Strauss e dello strutturalismo attualmente, e lo rester a lungo, della massima importanza (l. althusser, Su Lvi-Strauss, in id., Su Feuerbach, Mimesis, Milano 2003, p. 95). Sulla portata innovativa delle Strutture elementari della parentela per il pensiero politico e giuridico occidentale postil-

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ra in cui propone una tesi esplicita sullorigine della socialit umana, caratterizzata, in termini fortemente etico-giuridici, dallincidenza essenziale di una regola che detta le condizioni fondamentali di qualsiasi societ umana7. Lautore delle Lezioni nipponiche, tuttavia, non omette di ricordare che qualcosa come lalliance8 corrisponde alla formula elementare della socialit umana: si tratta, al riguardo, dellaltra faccia positiva, obbligante allesogamia della regola delle regole, quella che interdice lincesto. Nel fronteggiare luditorio di una cultura geograficamente, antropologicamente, storicamente altra, Lvi-Strauss forse non a caso ha tralasciato laspetto negativo-proibitivo di una formula regolativa, privilegiando invece la valenza di apertura che invece lalliance suscettibile di dispiegare, quasi a voler sugluministico, in una linea che incrocerebbe lopera di Lvi-Strauss con alcune riflessioni di Emmanuel Lvinas e di Martin Buber, piuttosto che con Rousseau, valga la seguente indicazione: quali che siano le critiche che vi si possono rivolgere, la monumentale opera di Lvi-Strauss forse lunica, nel xx secolo, che sia stata capace di fare i conti, in maniera inedita e risoluta, con le questioni sollevate dal pensiero politico ereditato dai Lumi(cfr. m. asch, Les structures lmentaires de la parent et la pense politique occidentale, in Les Temps Modernes, n. 628, 2004, p. 221). Non daltronde affatto da trascurare lapporto, ricavabile da una lettura di tutto Lvi-Strauss, a una antropologia sociale, dimpostazione filosofica, quale si pu incontrare ne Lanthropologie sociale du Pre Gaston Fessard, di Frdric Louzeau (puf, Paris 2009, passim). 7. In proposito mi permetto rinviare al mio volume sulle Dimensioni della giuridicit nellantropologia strutturale di Lvi-Strauss, Giuffr, Milano 1994. Pi in generale, nella recente bibliografia italiana sullAutore, fra i titoli che meriterebbero di essere citati e dei quali omettiamo la menzione solo per oggettive ragioni di spazio ci limitiamo a ricordare Ragione strutturale e universi di senso, di Sergio Moravia (Le Lettere, Firenze 2004), e le Mie memorie ridestate dai cento anni di Lvi-Strauss, consegnate da Alberto M. Cirese, curatore della edizione italiana delle Strutture elementari della parentela (Feltrinelli, Milano 1969), alla rivista Voci (a. v, 2008, pp. 9-17). 8. Al riguardo si rinvia alle Lezioni, p. 93.

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gerire, discretamente, un modulo potenzialmente trans-culturale e trans-storico tale da mettere due, o pi, interlocutori, in grado di accostarsi reciprocamente, senza con questo rinunciare alla propria identit. Lincontro con il Giappone esemplificativo di un modo realistico di intendere, e di praticare, lesperienza della scoperta dellaltro, che si riflette in scoperta di s: le segrete simmetrie con lOccidente, che Lvi-Strauss crede di poter ravvisare nellelaborazione di tratti a prima vista incompatibili con la sua cultura madre, rivelano un fondo comune di umanit, che perfino il pi radicale dei relativismi non pu negare, pena il suo stesso annunciarsi come programmatico antidogmatismo. Il garbo col quale Lvi-Strauss si pone di fronte ai suoi interlocutori ampiamente documentato dalle pagine che riproducono le sue Lezioni, le quali recano altres testimonianza di un modo non violento, ma pazientemente e gradualmente costruttivo (e ricostruttivo di possibili, sempre latenti lacerazioni), di approssimarsi alla realt che laltro offre di s, al suo modo di leggerla, come di leggervisi, nel contestuale processo di contro-approssimazione che laltro invitato, o provocato, a elaborare per suo conto. Se parliamo di garbo, non vogliamo per questo insistere su aspetti puramente formali delle implicazioni derivabili dallapproccio antropologico, originalmente levistraussiano, al tra, ai nessi che consentono, come ai fattori che ostacolano, il rapportarsi delle culture. In proposito, crediamo interessante, se non opportuno, riproporre la lettura di altri passaggi dellopera di Lvi-Strauss, dai quali emerge una linea di elementi sostanziali che contraddistinguono il duplice movimento secondo il quale, venendo in contatto con altri soggetti, un soggetto culturale inclina a forme pi o meno consapevoli di attrazione ovvero tende, anche qui pi o meno consapevolmente, a sottrarsi, fino a contrarsi in ripiegamenti che sconfinano nellostilit, nella xenofobia, nel razzismo.
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In tal senso, linsegnamento di Lvi-Strauss, del quale stata trattenuta, a ragione, la valenza di potente antidoto a sempre risorgenti manifestazioni di intolleranza razziale, fornisce daltra parte un notevole contributo al depotenziamento di troppo rapide, e facili, quando non comode, assimilazioni del confronto fra culture, sempre complesso ed estremamente articolato, a forme generiche di multiculturalismo, melting pot, meticciato, interculturalit. Questaltra versione dellantropologia di Lvi-Strauss viene generalmente sottaciuta, forse per il suo essere in controtendenza rispetto a certa vulgata scientifico-culturale oggi dominante. Essa invero tale da ridisegnare e risignificare i contorni del dibattito attualmente in corso sulle possibilit, come sui limiti, di ci che va sotto il nome di confronto interculturale, oscillante fra gli estremi opposti costituiti dalla contestazione del mito del dialogo delle civilt9 e da spesso acritici inviti allaccoglienza indiscriminata degli stranieri, magari in nome di una fratellanza universale che forse necessiterebbe di essere rimeditata nellambientazione cristiana (postilluministica) di un pensiero della fraternit umana. La lezione giapponese che Lvi-Strauss crede di poter ricavare sta a indicare una sorta di via di mezzo, tra le possibili vie da esplorare: vale a dire che ogni cultura particolare, e linsieme delle culture di cui fatta tutta lumanit, possono sussistere e prosperare solo secondo un duplice ritmo di apertura e di chiusura, sia sfasate luna in rapporto allaltra, sia coesistenti nella durata. Per poter essere originale, e per poter mantenere, di fronte alle altre culture, scarti che permettano loro un reciproco arricchimento, ogni cultura deve a se stessa una fedelt il cui prezzo una certa sordit a valori differenti, ai quali essa rester total9. Al Dialogo tra le culture di Fred Dallmayr (Marsilio, Venezia 2010) si giustappone Un mythe contemporain: le dialogue des civilisations, di Rgis Debray (cnrs, Paris 2007).

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mente o parzialmente insensibile (si legga la pagina conclusiva di queste Lezioni). evidente, in questa ricezione dellatteggiamento maturato dalla civilt nipponica, una critica ante litteram del tributo da pagare ai processi di globalizzazione, che diventa eccessivo nella misura in cui si traduce nella destrutturazione, se non nellannientamento, del capitale che ogni cultura, per il semplice fatto di esistere, rappresenta. A questo proposito, le lezioni di Tokyo, tenute proprio in un Paese nel quale la dialettica di apertura/isolamento pare aver prodotto esiti quanto mai illuminanti, rilanciano non casualmente posizioni espresse da Lvi-Strauss in altre sedi: in particolare in due interventi per lunesco, uno del 1971 e laltro del 1984, che a loro volta per certi versi riecheggiano i due capitoli conclusivi di Tristi tropici (1955), intitolati Taxila10 e Visita al Kyong, i quali meriterebbero di essere riletti ad alta voce, per la diretta pertinenza che essi rivestono a riguardo di alcune delle questioni essenziali che agitano il mondo sconvolto dallevento apicale11 dell11 settembre 2001. Lvi-Strauss noto per essere lautore di lavori che hanno fatto epoca, e scuola, nella storia del pensiero occidentale contemporaneo: Il pensiero selvaggio (1962) e le monu10. Devo lo spunto iniziale delle riflessioni che seguono a un colloquio con Alessandro Di Caro, autore di un saggio sul Nostro che mantiene tutta la sua pregnanza attuale: Lvi-Strauss: teoria della lingua o antropologismo?, Spirali, Milano 1981. 11. Preferiamo evitare cenni epocali, facilmente equivocabili in termini di filosofia della Storia. Il carattere apicale evocato dal capitolo di Tristi tropici come si vedr ha piuttosto a che fare con un nodo irrisolto di storia delle civilt, attinente alla problematica relazione tra Oriente e Occidente, suscettibile di essere tematizzato in una chiave di antropologia delle culture e delle civilt storiche che, sulla scorta della lettura condotta da Lvi-Strauss, potrebbe rivelarsi capace di una specifica filosofia della cultura, nel solco di una tradizione densa di rimandi autorevoli (cfr. m. hnaff, Lvi-Strauss: une anthropologie bonne penser, in Esprit, gennaio 2004, p. 149).

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mentali Mitologiche (1964-1971) varrebbero da soli a identificare una figura, e a caratterizzarla in base a unimpronta inconfondibile, cosa che ne fa loriginalit di un classico. Tanto basterebbe, per, per consegnare il percorso intellettuale di Lvi-Strauss a un segmento museale, presto o tardi condannato alloblo in quanto superato da autori e correnti ritenuti, a torto o a ragione, meritevoli di maggior considerazione. Il punto, per, che limmenso patrimonio di ricerche lasciato in eredit da Lvi-Strauss tuttaltro che scavato in profondit: a tuttoggi, solo per fare un esempio, allimpresa delle Mitologiche resta da dedicare uno studio appropriato e organico. Inoltre, basterebbe solo accennare al fatto che lantropologia di Lvi-Strauss non unantropologia storico-strutturale per rendersi conto del peso di significati filosofico-culturali dei quali essa portatrice. Ancora: molto ci sarebbe da studiare, e da pensare, forse in una prospettiva oltre-filosofica (mitico-poetica?), a partire dal tentativo, messo in atto da Lvi-Strauss su sentieri non secondari, e poco penetrati, del suo itinerario speculativo, di assegnare alla musica12 il compito di sintetizzare le istanze dellintelletto razionale e della sensibilit, portate altrimenti a seguire direzioni fatalmente spesso opposte. Senza per questo dover pensare a un ruolo specifico da attribuire allarte in generale, in funzione esplicativa o addirittura pedagogica, non sarebbe fuori tema limitarsi a individuare, tra i possibili fattori del dialogo tra le civilt, un linguaggio trasversale a diversi modi di pensare e visioni del mondo, capace eventualmente di armonizzarne le componenti pi suscettibili di prestarsi a una comunicazione autentica fra culture, popoli,
12. Nel richiamare la partizione dellindice de Il crudo e il cotto primo volume delle Mitologiche in forma di generi musicali, Hnaff traccia un interessante parallelo fra la natura polifonica dei miti studiati da Lvi-Strauss e la multidimensionalit alla quale si presterebbe la lettura di una musica allo stato selvaggio come quella di Mozart (cfr. ivi, p. 167).

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individui: perch non potrebbe trovarsi nella musica un linguaggio capace di parlare al pensiero non meno che ai sensi? Le forme della creativit artistica, tuttavia, sono possibili solo in presenza di determinate condizioni: una di queste, paradossalmente, risiede nellallontanamento, spesso ricercato a caro prezzo, da una comunicazione che, mentre favorisce, al tempo stesso impedisce lestrinsecarsi delle qualit che permettono a una creazione di essere, per definizione, irriducibilmente tale. Creare, difatti, presuppone una rete di legami con una storia, con una comunit cui si appartiene, con una fatalit alla quale in parte non ci si pu sottrarre che animano il gesto creatore insieme con la singolarit di colui che lo pone. Fa parte di questo processo la creazione delle condizioni pi favorevoli alla creazione stessa13 (ed lavvertenza lanciata da Lvi-Strauss allunesco nel 1984), tra le quali rientra, a pieno titolo anche se naturalmente non in via esclusiva , la preservazione di una continuit di consuetudini che, al limite, potrebbe giungere fino al rifiuto o persino alla negazione di stili di vita altrui, come si legge nel richiamo formulato da Lvi-Strauss nella sua relazione allunesco del 71 (che gi riprendeva il contenuto dello scandaloso testo, presentato sempre allunesco, nel 1952, su Razza e storia14), per cui non si pu simultaneamente sciogliersi nel godimento dellaltro, identificarsi con lui, e restare diversi15, in quanto la comunicazione integrale con laltro, se pienamente riuscita, condanna a breve o lunga scadenza loriginalit della sua creazione e della mia16. Il padre dellantropologia struttu13. Cfr. c. lvi-strauss, Limportance des relations entre les cultures, in Culture pour tous et pour tous les temps, Paris 1984. 14. Cfr. id., Razza e storia, in Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967, pp. 97-144. 15. Ibidem. 16. Ibidem.

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rale, in quelloccasione, ricordava che le grandi epoche creatrici furono quelle in cui la comunicazione era diventata sufficiente perch corrispondenti lontani fra loro si stimolassero, senza tuttavia essere tanto frequente e rapida da far s che gli ostacoli, indispensabili fra gli individui come fra i gruppi, si riducessero fino al punto che gli scambi troppo facili livellassero e confondessero la loro diversit17. Non si pu dubitare che una posizione del genere, espressa senza mezze misure, urti la sensibilit contemporanea, diffusa quanto meno negli ambienti della media e alta cultura, avvezza e persuasa ad accettare senza riserve le parole dordine imposte dalla nuova fraseologia del culturalmente corretto. Lautorevolezza della posizione di Lvi-Strauss corroborata, per, non soltanto dallo spessore scientifico della sua produzione, ma anche dal fatto, incontrovertibile, che si tratta di un autore che forse pi di altri ha smontato pezzo per pezzo la dottrina razziale, destituendola di qualunque pretesa consistenza scientifica. Chi, infatti, pi di lui ha restituito i popoli cosiddetti primitivi al rango di forme di umanit che nulla hanno da invidiare ai cosiddetti popoli sviluppati quanto a una comune (se non, in certi casi, maggiore) capacit di produrre e riprodurre la vita associata nelle sue condizioni fondamentali? Forse nessuno pi di Lvi-Strauss ha dimostrato quanto peso abbiano determinate invarianti strutturali nel rappresentarci limmagine di una umanit di base condivisa a tutte le latitudini, geografiche e culturali18. Eppure, proprio perch nessuno ha mai potuto dare lezioni di antirazzismo a Lvi-Strauss, a maggior ragione vanno presi in seria considerazione i richiami da lui lanciati a
17. Ibidem. 18. Magistrali, sotto questo riguardo, restano alcuni saggi raccolti nellAntropologia strutturale, che attendono di essere adeguatamente rifrequentati e rivisitati.

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pi riprese. Lo stesso antropologo ricorda quanto scalpore fece la sua presa di posizione contro un certo razzismo ufficiale, di maniera, se non di convenienza, che squalifica come razzistici atteggiamenti peraltro normali, anzi legittimi, e in ogni caso inevitabili19: lungi dal criticare la doverosa vigilanza da esercitare contro linsorgere di sia pur larvate forme di razzismo, Lvi-Strauss faceva rilevare quanto fosse controproducente, per questa stessa giusta causa, un certo modo di servire il termine, per cos dire, in tutte le salse, confondendo una teoria falsa, ma esplicita, con tendenze ed atteggiamenti comuni, di cui sarebbe illusorio sperare che lumanit possa un giorno liberarsi20, e dei quali non si potrebbe escludere per principio la fecondit. come se LviStrauss volesse indicare una sorta di nucleo razionale, di ragione profonda dellautoaffermazione identitaria, dovuta in buona parte al desiderio, presente in ogni cultura, di opporsi alle altre culture che la circondano, di distinguersene, insomma di essere se stessa21; ci non toglie che le culture abbiano una qualche conoscenza reciproca, fino a scambiarsi prestiti, ma, per non dissolversi, hanno bisogno che sotto altri rapporti sussista fra loro una certa impermeabilit22, tale da consentire loro di effettuare scambi fecondi, e non passive importazioni di elementi estranei. Si pu intuire quanto fosse inattuale, nei primi Anni Cinquanta dello scorso secolo, una posizione del genere, assolutamente fuori dagli schemi; si pu capire che essa potesse essere accolta con una certa sufficienza, o comunque con distacco, ancora allinizio degli Anni Settanta; ma, tra la met degli Anni Ottanta e la prima decade del nuovo
19. Cfr. id., Prefazione a Lo sguardo da lontano, cit., p. xi. 20. Ivi, pp. xi-xii. 21. Ivi, p. xi. 22. Ibidem.

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millennio, si prodotta, sulla scena mondiale e mondializzata una trasformazione della condizione umana tale da riproporre quelle riflessioni di Lvi-Strauss in una chiave che le ripresenta in tutta la loro estrema attualit: segno del loro carattere scandalosamente non contingente. Di fronte alle varie forme che libridazione delle culture ha assunto, e sta assumendo, come anche di fronte al riemergere (a volte prepotente) di particolarismi etnici, linguistici, religiosi, quanto mai pertinente risulta il monito di LviStrauss, lanciato in tempi non sospetti: la via su cui lumanit oggi impegnata accumula tensioni tali che gli odi razziali offrono unimmagine ben riduttiva del regime dintolleranza esacerbata che rischia di instaurarsi domani, anche senza che le differenze etniche gli debbano servire di pretesto. Per aggirare questi pericoli, quelli doggi e quelli ancora pi temibili dellavvenire prossimo, ci dobbiamo persuadere che le loro cause sono assai pi profonde di quelle imputabili semplicemente allignoranza e al pergiudizio23. In particolar modo dopo la svolta dell11 settembre, queste parole risuonano come se fossero state dettate alluomo di oggi, alle prese con questioni che hanno rimesso a tema il destino di un mondo che si riteneva (quasi) definitivamente pacificato dopo il crollo del comunismo di marca sovietica, e comunque incamminato verso una fine della Storia24. Questo mondo ormai alle nostre spalle, ma non si intravede una ridefinizione, per quanto approssimativa, di equilibri che possano permettere di indicare una direzione. Stando a quanto Lvi-Strauss ci ha lasciato in eredit, un rischio sembra incombente, se non si gi materializzato in entit culturali separate, che accentuano in senso lo23. id., Razza e cultura, in id., Lo sguardo da lontano, Torino 1984, p. 30. 24. Si d per sottinteso ogni riferimento alla celebre opera di Francis Fukuyama su La fine della Storia e lultimo uomo.

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calistico una autopercezione e una autoaffezione che la globalizzazione attenua, quando non la mortifica fino a sopprimerla: si tratta del rischio di un appiattimento delle differenze che, omologando i soggetti collettivi a un modello unico di pensiero, di linguaggio, di stili di vita, finirebbe con lesasperare unansia di riconoscimento suscettibile di erompere in forme di negazione dellalterit delle quali i pregiudizi razziali non sarebbero che una pallida prefigurazione. Paradossalmente, il fattore che si ritiene capace di promuovere per lo meno limmagine, se non, in parte, la realt di una umanit senza frontiere ossia lintensificazione degli scambi, dei contatti, che passa attraverso lipercomunicazione teletecnologica e multimediatica il medesimo fattore che sta mettendo lumanit sulla strada di una autoespropriazione, col sottrarre alla tolleranza reciproca due requisiti che Lvi-Strauss considerava imprescindibili, per lesperienza che ne avevano le societ senza scrittura: una uguaglianza relativa, e una distanza fisica sufficiente25. Vale a dire una distanza resa giusta, anche in senso politico, da una dialettica di uguaglianza e differenza assunta a base della coesistenza delle culture. Il contributo che letnologo potrebbe offrire al ripensamento di quel che significa vivere in una societ globale, sempre pi influenzata da pulsioni di re-identificazione dei gruppi umani, deve essere allaltezza di una forma nuova di umanesimo: un umanesimo antropologico che, come ci ricordano le Lezioni del 1986, si attesterebbe quale umanesimo tendenzialmente democratico, erede dellumanesimo tradizionale, prima aristocratico e poi borghese ma, diversamente da que25. Cfr. c. lvi-strauss, Razza e cultura, in id., Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino 1984, p. 30. Lantropologo si mostrato decisamente e contro corrente persuaso che lo sviluppo della comunicazione tra gli uomini non li far vivere in armonia, vero il contrario(c. clment, Lvi-Strauss, Meltemi, Roma 2004, pp. 110-111).

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sto, animato dalla tensione a una possibile riconciliazione delluomo con lambiente naturale. Non un caso, probabilmente, che questo appello a un umanesimo generalizzato sia stato rivolto da un Paese, come il Giappone, che delloscillazione tra conservazione per cos dire innovativa e sviluppo per cos dire conservativo ha fatto il segreto della sua originalit26. Detto questo per il presente, o meglio per un futuro in qualche modo gi presentificato nellesperienza di una cultura che ha reagito allimpatto con la modernit, a vocazione euroamericana, restituendovi la propria inconfondibile impronta. Ma che cosa dire del passato, se non del passato remoto e ancestrale, che ritorna impetuosamente sullo scenario contemporaneo, in una maniera che ha sorpreso chi stava accettando, per entusiasmo o per rassegnazione, il nuovo ordine (o dis-ordine) emerso dalla fine della Guerra fredda? A quale luogo dellopera di Lvi-Strauss il lettore delle tre Lezioni qui pubblicate pu alloccorrenza essere rinviato sempre da un peculiare punto di osservazione antropologico , per una riconsiderazione complessiva dei fattori culturali rimessi in gioco dallinattesa eruzione di vulcani geostorici, che parevano ormai sopiti? A quale prospettiva, inoltre, invita a guardare il nuovo moto magmatico avviato con riguardo allargomento che stiamo trattando in questa breve nota introduttiva, ovvero il significato da assegnare al confronto fra culture?
26. Catherine Clment ha saputo riprodurre fedelmente la predilezione per il Paese del Sol levante maturata da un Lvi-Strauss gi avanti negli anni: nel corso delle sue numerose visite da non specialista, lantropologo constat che lanima giapponese affetta da una stupefacente capacit di passare alternativamente da unattitudine allaltra: a volte, aperta alle influenze esterne per assorbirle meglio; in altri momenti ripiegata su se stessa come per negarsi o per assimilare meglio, in una sorta di corto circuito, gli apporti esterni (ead., Le Japon de Claude Lvi-Strauss, ivi, p. 49).

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Desta stupore che, tra le ricostruzioni tentate dagli analisti di geopolitica, e in generale dagli studiosi di scienze sociali, sia del tutto assente il riferimento ai capitoli letteralmente profetici che, sulla base dei resoconti del suo viaggio in Oriente, Lvi-Strauss stese a suggello del suo romanzo antropologico Tristi tropici27. In quelle pagine, al di l dei partiti presi dal loro autore, condivisibili o no, vengono esplicitamente tematizzati sia il successo sia il fallimento di confronti fra civilt storiche o, per usare unaltra inclinazione terminologica, fra culture tradizionali , le loro rispettive premesse, e le loro rispettive implicazioni per la configurazione degli attuali rapporti fra ci che chiamiamo, in via generica e con molta approssimazione, Oriente28 e ci che (con sempre minor chiarezza) intendiamo per Occidente. I contributi preparati da Lvi-Strauss per lune27. Su questopera pesa tuttora la sentenza senzappello formulata nel 1959 da Emmanuel Lvinas: lateismo moderno non la negazione di Dio, ma lindifferentismo dei Tristi Tropici, che ritengo il libro pi ateo scritto oggi, assolutamente disorientato e disorientante (e. lvinas, Fra due mondi (La via di Franz Rosenzweig), in id., Difficile libert, Ed. La Scuola, Brescia 1986, p. 118). Lvinas sapeva di parlare da ebreo praticante (si veda lo scritto, dello stesso anno, intitolato Le pharisien est absent, pubblicato nelledizione originale Difficile libert, Albin Michel, Paris 1976, pp. 46-49) a ebreo dichiaratamente ateo, attingendo in Lvi-Strauss il bersaglio polemico di un pi generale attacco diretto alla visione hegeliana e sociologica della Storia. Un approccio non preconcetto ad alcuni passaggi dellopera incriminata come si avr modo di rilevare potrebbe contribuire quanto meno a sospendere il giudizio, in attesa di precisazioni ulteriori intorno a che cosa effettivamente corrisponda ai termini religione e ateismo riferiti alla concezione che se ne ritrae dalla lettura di Lvi-Strauss. 28. A tale riguardo, si deve dare atto al giovane filosofo Frdric Keck (di cui vale la pena ricordare Lvi-Strauss et la pense sauvage, puf, Paris 2004, e Claude Lvi-Strauss, une introduction, Pocket-la Dcouverte, Paris 2005) di aver ascritto a Lvi-Strauss il merito di aver evitato il duplice scoglio dellorientalismo e delleurocentrismo (cfr. f. keck, Lvi-Strauss et lAsie. Lanthropologie structurale out of America, in EchoGo, n. 7, 2009).

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sco, le Lezioni di Tokyo, insieme con la parte finale di Tristi tropici, compongono, a nostro modesto avviso, un quadro di lettura specificamente antropologico della civilizzazione umana, attraverso lesemplificazione, circoscritta ad alcune aree particolarmente sensibili del globo, di che cosa accade quando il confronto fra culture riesce, o viceversa quando, pi spesso, fallisce. su questo piano conoscitivo che, daltronde, Lvi-Strauss sembra mettere alla prova la sua chiave di accesso teorica allesame delle relazioni interumane in quanto tali: una chiave di accesso che, nella formalizzazione epistemologica strutturalistica con cui vengono presentate le relazioni di parentela e i miti dei popoli un tempo considerati selvaggi, privilegia, rispetto ai rapporti di produzione materiale caratterizzati economicamente, politicamente, ideologicamente da dominio e subordinazione , i rapporti di produzione dei significati contrassegnati da linee di comunicazione, non solo linguistica, e di coordinazione, etico-giuridico-familiare. Limpreparazione dei ricercatori a fronteggiare i fenomeni storico-ideali e storico-culturali in corso dipende forse da una non adeguata integrazione di un documentato approccio fenomenologico quale sar tra breve sintetizzato, nei termini desumibili dalla lettura di Lvi-Strauss con uno sforzo teoretico condotto in costante parallelo con riscontri sul campo. Se, almeno fino al 1989, il confronto dominante su scala internazionale era stato interpretato come confronto fra potenze politico-economiche, lanalisi teorica, dimpostazione liberale (vincente) piuttosto che marxista (perdente), poteva reggere un impianto fenomenologico che, in un modo o nellaltro, rispondeva a determinati postulati, pi che collaudati da risultanze storicosociologiche. Il riaffiorare di un Medio Evo che sembrava definitivamente marginalizzato, ormai fuori dalla Storia, anche attraverso canali di espressione mediatici, dunque ipermoderni, ha sconvolto il metro di giudizio che ci si era
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abituati ad applicare alla rappresentazione dei processi in atto. forse giunta lora di raccogliere la provocazione a pensare che un autore come Lvi-Strauss, misuratosi con i popoli senza Storia, lanciava, quasi sessantanni fa, da una periferia del mondo, allora apparentemente in sonno, che nel giro di pochi anni sarebbe diventata un polo accumulatore di energie non pi sotterranee, ma destinate ad alimentare un conflitto che, a un decennio di distanza dalla sua esplosione, sembra ancora ben lungi dal risolversi. Taxila, una localit che si trova nellattuale Pakistan settentrionale, vicino al confine con lAfghanistan29, nota per essere un sito archeologico di grande rilevanza: la visita a questo centro offr a Lvi-Strauss lo spunto per rintracciare linee di faglia lungo le quali vennero un tempo liberate energie creatrici capaci di plasmare forme di civilt inedite e, insieme, di attrarvi controforze che avrebbero cambiato il volto dellintera Asia centrale, fino a coagularvi una circolazione di messaggi e suggestioni che corrispondono a gran parte dei fattori, effettivi e potenziali, dellipertensione che interessa i centri politicamente, culturalmente, economicamente nevralgici del mondo contemporaneo. Nella lente dingrandimento archeostorica che LviStrauss vi ha applicato, Taxila nomina lepicentro di un sisma prodottosi nelle profondit di un insieme di rapporti fra civilt, pi e meno conflittuali: un complesso gravido di
29. Taxila un sito archeologico della media valle dellIndo, nei pressi di Rawalpindi. Il nome attuale deriva dalla denominazione dellantichissima lingua indiana pli Takkasil, che designava una grande citt della regione del Gandhara, divisa tra il Pakistan settentrionale e lAfghanistan nordorientale. Il testo epico ind Rmyana e antichi testi buddistici la menzionano come una splendida metropoli e un prestigioso centro di studi. Dal V secolo a.C. la citt sub diverse stratificazioni, fino ad essere distrutta nel 455 dagli unni efthaliti (cfr. l. colliva, Taxila, in Enciclopedia archeologica, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2005, p. 516 e m. donza chiodo, Taxila, in lEnciclopedia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2003, vol. 19, p. 481).

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conseguenze che sono sotto lo sguardo di tutti, ma che avrebbe potuto registrare esiti oggi impensabili, ma non per questo improbabili. Lordine di interrogativi suscitati dalla lettura della ideale corrispondenza trans-storica da Taxila, che Lvi-Strauss ci ha consegnato, potrebbe riassumersi, tra laltro, e in maniera significativa, in questo punto: la frattura che ha avuto luogo, che sta avendo luogo, lungo lesteso confine, in parte reale in parte simbolico, che come tutti i confini separa e ad un tempo unisce Oriente e Occidente, origina da fattori contingenti, destinati a venir meno con lesaurirsi delle spinte centrifughe che li hanno determinati, oppure pesca in un fondale ricco di costrutti semantici che chiedono di essere approfonditi, pena il fraintenderli quali residui arcaici privi di interesse per la lettura degli avvenimenti odierni? In altre parole lo si vedr fra poco , nel caos centroasiatico che si sprigionato a cavallo del Duemila, e che conosce sul territorio afghano una concentrazione militare senza precedenti, in gioco soltanto una contesa mossa dallesigenza, da parte di attori interessati, di assicurarsi mezzi di controllo geopolitico e geoeconomico di unarea strategica del pianeta, oppure accennano a delinearsi le proporzioni di un mutamento di rapporti di forza culturali dunque, in ultima analisi, di significazione e di motivazione che nodi problematici non sciolti, e nemmeno consapevolmente affrontati in un passato prossimo o remoto, renderebbero tuttora possibile? Taxila sembra concentrare, sotto lo sguardo di Lvi-Strauss, i motivi essenziali di ci che agita il mondo per vari aspetti frammentato, invece che amalgamato e ricomposto, dal motore della globalizzazione, come di ci che, in una certa direzione, avrebbe potuto (e ancora potrebbe?) dare prospettiva e forma a un tentativo di sintesi di civilt imprevisto (non pi prevedibile?). La fonte alla quale attinge Lvi-Strauss ricca di una tale quantit e articolazione di elementi storici, e artistici, da sfidare a una rinnovata presa di coscienza delle condizioni
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alle quali un confronto tra culture pu essere pensato, sulla base dellesperienza, rappresentata a pi livelli, della reciproca fecondazione delle avanguardie di antiche civilt, passate da un fronte di contrasti apparentemente insuperabili a una sorta di felice, bench non duratura, neoformazione culturale. Il nome di Taxila, in questo senso, potrebbe indicare lo stadio virtuale di una possibilit ancora da esperire: non tanto una buona, generosa, magari utopistica idea, quanto una vocazione, parzialmente mancata ma non perci meno viva, alla realizzazione di un costruttivo confronto fra culture assunto come compito. A Taxila, per alcuni secoli, tre delle pi grandi tradizioni spirituali del Mondo Antico hanno vissuto vicine: ellenismo, induismo, buddismo30; ma questo non il dato di fatto pi indicativo del particolare valore rivestito da quella miniera culturale a cielo aperto che la sanscrita Takail citt dei tagliatori di pietra31 , come anticamente era denominata, perch anche la Persia di Zoroastro era presente e, con i Parti e gli Sciti, si venne a creare una civilt delle steppe qui combinate con lispirazione greca32. Gradualmente veniamo introdotti, dalla lettura incrociata delle inedite Lezioni giapponesi e delle conosciute, ma rimosse pagine finali di Tristi tropici, a una pi profonda esplorazione di un mondo, e di epoche, donde si potrebbe ritrarre una complessiva lezione asiatica, che per la verit tende a convertirsi, attraverso una serie di passaggi al limite tra una antropologia, una storia, una filosofia delle civilt, in una ancor pi ricomprensiva lezione orientale-e-occidentale. Questa lezione, per il suo esplicito sottrarsi a paradigmi comparatistici, offre lopportunit di pensare intensa30. c. lvi-strauss, Tristi tropici, il Saggiatore, Milano 1982, p. 385. 31. Cfr. ivi, p. 383. 32. Ivi, p. 385.

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mente, e di elaborare secondo nuove categorie, la civilt umana nella sua globalit pluridimensionale, non ridotta allo schema parauniversalistico di (an)globalizzazioni a senso (quasi) unico, erette a luogo comune di una pseudoretorica insofferente di apporti critico-riflessivi. Dov possibile rinvenire un luogo come Taxila, nel quale, a eccezione di quella cristiana, tutte le influenze di cui penetrata la civilt del Mondo Antico sono rappresentate33? Dove, luomo dellantichit e, potremmo aggiungere, in certo qual modo lo stesso uomo contemporaneo, in qualit di erede di quelle civilt, e dei loro incroci, compiuti o incompiuti , riannodandosi con la sua storia potrebbe interrogarsi meglio che in questo luogo che gli presenta il suo microcosmo?34. In questo posto, che le invasioni barbariche e poi lIslam hanno ridotto a un cumulo di rovine, vissero forse gli scultori greci che seguirono Alessandro, creatori dellarte del Gandhara, e che diedero agli antichi buddhisti laudacia di raffigurare i loro di35. Si tratta del passaggio che forse pi di altri depotenzia il termine indoeuropeo delle sue (peraltro problematiche) connotazioni genetiche e linguistiche36, per riempirlo di un contenuto storico-antropologico ad alta intensit civile-culturale, tale da autorizzare interrogativi sconcertanti che, riascoltati oggi, sembrano inchiodare i contemporanei ad una pi consapevole e ardita assunzione di responsabilit:
33. Cfr. ibidem. 34. Ibidem. 35. Ibidem. Non un caso se, nel marzo del 2001, suscitando lindignazione di una comunit internazionale che avrebbe presto dovuto registrare ben altri e molto pi dolorosi traumi, i taliban al potere nellEmirato dellAfghanistan si accanirono contro le due colossali statue di Buddha della citt di Bmiyn, simboli-bersaglio di una intera civilt da abbattere. 36. Per le valenze squisitamente antropologiche delle simbologie indoeuropee si rinvia in particolare ai lavori di Georges Dumzil.

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che sarebbe oggi lOccidente se il tentativo di unione fra il mondo mediterraneo e lIndia fosse riuscito in forma durevole? Il Cristianesimo, lIslam sarebbero mai esistiti?37. Se qualcosa come una civilt indo-mediterranea potuta mai crescere fino a tramandarci le vestigia di uno splendore che viaggiatori cinesi ancora ammiravano nel vii secolo, il suo lascito risponde a unoccasione mancata piuttosto che a un progetto realizzato. Verrebbe da chiedersi, a questo punto: se una possibile, per quanto relativa globalizzazione del mondo antico non ha avuto modo di prendere forma, per il precoce venir meno di una unit strutturata intorno a un centro propulsore di civilt risultante da pi affluenti, quale immagine di unit pu oggi sostituirvisi, atteso che le questioni rimaste allora virtualmente irrisolte impongono ora di fare i conti con le medesime difficolt di intesa, se non con le medesime insanate rotture? Il riaccendersi di una nuova, tentata sintesi di civilt avrebbe potuto guadagnare terreno se, in un secondo momento, al profilarsi del netto contrasto fra il Saggio personificazione del Buddha e il Profeta, Maometto, il cristianesimo, in quanto religione organizzata (come sembra di capire), non fosse apparso troppo presto, per riprendere le testuali parole di Lvi-Strauss: se si fosse cio prodotto non come un passaggio dalluno allaltro estremo come in effetti stato ma come una conciliazione a posteriori di questi due estremi38, come una mediazione tra listanza pacifica, orientata a una fusione con lelemento femminile, portata avanti dal buddismo, e la spiccata propensione al messianismo virile e bellicoso espressa dallIslam. Si potrebbe tranquillamente contestare lopinabilit delle asserzioni di Lvi-Strauss, liquidandole come non scientifiche divagazioni dello scrittore. Si pu certo decidere di
37. c. lvi-strauss, Tristi tropici, cit. 38. Cfr. ivi, p. 397.

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passarci sopra, come si pu invece lasciarsene sfidare, prendendole come lo sfondo sul quale leggere in controluce le stesse Lezioni giapponesi. Il cristianesimo vi viene presentato come termine medio di una serie destinata dalla sua logica interna, dalla geografia e dalla storia, a svilupparsi dora in poi nel senso dellIslam; poich questultimo i Musulmani hanno vinto su questo punto rappresenta la forma pi evoluta del pensiero religioso senza peraltro essere la migliore39, configurandosi anzi come la pi inquietante. Ma che cosa centra tutto questo con Taxila? Se Lvi-Strauss, nel 1955, ha potuto constatare che la Francia in via di diventare musulmana40, si sentito legittimato a pronunciare questa sentenza sulla base degli stessi elementi di osservazione che, nel 2010, portano molti Europei ad assegnare altrettale sorte al loro Continente. Si badi che questo punto di vista viene enunciato da Lvi-Strauss nel cono dombra dellambizione delletnografo, che si nutre del tentativo costante di risalire alle origini. Come dire che sono losservazione delle rovine di Taxila, la visita ai centri greco-buddisti fino al kyong della frontiera birmana, a suscitare molto pi che impressioni di viaggio: si trattato di esperienze tali da far maturare una percezione acuta, venata di scetticismo come peraltro nello stile del nostro Autore , dellorizzonte temporale di lunga durata sul quale si stagliano i cambiamenti che interessano il mondo contemporaneo. Troppo impegnati, come naturalmente siamo, dallurgenza di confrontarci con circostanze inedite che invocano approcci non convenzionali, siamo portati a scambiare la pressione delle circostanze con una sua prossimit: che Taxila, e il kyong, centrino con l11 settembre e il terrorismo di matrice islamista, con la guerra in Afghanistan, con le que39. Ivi, p. 397. 40. Cfr. ivi, p. 394.

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stioni relative allimmigrazione di massa, con le dimensioni etiche, giuridiche, politiche, economiche che vi sono coinvolte, qualcosa che si deduce dalla vocazione stessa dellantropologo a scrutare, sotto la cresta delle onde, sotto la superficie degli eventi, i movimenti, lenti ma inesorabili, delle forze che generano la Storia, e la resistenza, talora accanita (disperata?), che altre forze (strutturali?) oppongono alla Storia medesima. Dallo spirito di osservazione antropologico impersonato da Lvi-Strauss apprendiamo, ad esempio, che lIslam, in quanto Occidente dellOriente, troppo simile a ci che tradizionalmente intendiamo per Occidente greco, romano, cristiano, illuminista perch il confronto fra questi due Occidenti non configuri elementi di contraddittoriet: come lIslam che, nel Vicino Oriente, fu linventore della tolleranza, non perdona i non-Musulmani di non abiurare alla loro fede, poich essa ha su tutte le altre la superiorit schiacciante di rispettarle41, del pari noi, euro-occidentali, non possiamo ammettere che dei principi, fecondi per la nostra espansione, non siano ormai apprezzati dagli altri e quindi rigettati da loro, tanto dovrebbe essere grande, a nostro avviso, la loro riconoscenza verso di noi che li abbiamo immaginati per primi42. La contraddizione esplode si noti che Lvi-Strauss dettava queste riflessioni alla vigilia della fase conclusiva della decolonizzazione nel momento in cui il rispecchiamento di due complessi di su41. c. lvi-strauss, Tristi tropici, cit., p. 394. Circa l'Islam quale fautore di tolleranza si considerino le riserve espresse dal sociologo della religione americano Rodney Stark nel suo Gli eserciti di Dio, Lindau, Torino 2010. 42. Ibidem. Sessanta anni fa, quando il primo mondo ancora si cullava nellillusione delle magnifiche sorti e progressive, Lvi-Strauss, in alcune visionarie pagine di Tristi tropici, ha intravisto profeticamente il pericolo dellintegralismo religioso che, partendo dallIslam, avrebbe finito per contagiare lOccidente cristiano (m. niola, Introduzione a Lvi-Strauss fuori di s, Quodlibet, Macerata 2008, p. 24).

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periorit (forse non del tutto ingiustificati) mascherati da benevolenza fa venire a galla comportamenti analoghi piuttosto che differenze supposte come incompatibili: se fosse, almeno in parte, vero che due tradizioni spirituali fanno fatica a confrontarsi costruttivamente non per preconcetti legati alla diversit, ma perch troppo ricche di storia, eccessivamente cariche di un passato che le accomuna, la frizione con la neutralizzazione reciproca che essa comporta dipenderebbe probabilmente da una sorta di effetto cumulo pi che da una presunta ignoranza vicendevole. Le controspinte propulsive che occidentalizzano lIslam nella (asimmetrica) misura in cui islamizzano lOccidente si pensi solamente al progetto di esportazione della democrazia di marca euroatlantica di contro alla penetrazione della Rinascita islamica in larghi strati delle masse musulmane e non mostrerebbero una reciproca tendenza ad accumulare elementi di somiglianza piuttosto che di differenza. In altre parole, quanto pi Occidente europeizzato e Occidente islamizzato si assomigliano, tanto pi si combattono, per giunta con le stesse armi (della tecnica). Lvi-Strauss mette in luce la paradossalit di una situazione che vede restringersi le possibilit di intesa in proporzione diretta alla ricerca ansiosa di minimi comuni denominatori (il cosiddetto monoteismo43, per citare uno fra i tanti): lo spirito che ci anima gli uni e gli altri offre troppi tratti in comune
43. Per una lucida e penetrante smitizzazione filosofica del cosiddetto monoteismo, e dei connessi, possibili malintesi, si veda r. brague, Il Dio dei cristiani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009. In attesa di una verifica filosofico-religiosa da operare con Schelling, e alloccorrenza con Teilhard de Chardin, si potrebbe ad ogni modo dare per acquisito, sullo sfondo di cenni abbozzati nellultimo Lvi-Strauss, che tutte le cosmologie sono in fondo monoteiste e probabilmente non sono concepite per nessun altro fine se non quello di culminare e convergere in un punto sintetico, omega inaccessibile allanalisi (d. dubuisson, Mitologie del XX secolo, Dedalo, Bari 1995, pp. 183-184).

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per non metterci in opposizione44. Lvi-Strauss si chiedeva, in anticipo sui tempi, se, date queste premesse, sarebbe mai stata praticabile lapertura delle frontiere della Francia a un numero consistente di immigrati musulmani, analogamente a come oggi la stessa domanda, divenuta drammaticamente pressante in virt di trasformazioni demografiche imprevedibili mezzo secolo fa, investirebbe la capacit ricettiva (in termini culturali, prima che demografici) di Paesi come lItalia: pu accadere che due forze aggressive, sommandosi insieme, invertano la loro direzione? Ci salveremo, o piuttosto non determineremo noi stessi la nostra perdita se, rafforzando il nostro errore con quello analogo, ci rassegneremo a ridurre il patrimonio del Mondo Antico a quei 10 o 15 secoli di impoverimento spirituale di cui la sua met occidentale stata il teatro e lagente?45. Il centro problematico che Lvi-Strauss credeva di avere scorto, contemplando quel che resta di Taxila, starebbe nel fatto (a suo tempo rilevato, con ispirazione convergente, da Teilhard de Chardin) che, interponendosi fra il Buddismo e il Cristianesimo, lIslam ci ha islamizzati; quando lOccidente si lasciato trascinare dalle crociate ad opporglisi e quindi ad assomigliargli, piuttosto che prestarsi se non fosse mai esistito a quella lenta osmosi col Buddismo che ci avrebbe cristianizzati di pi e in un senso tanto pi cristiano in quanto saremmo risaliti al di l dello stesso Cristianesimo46. Nel sog44. c. lvi-strauss, Tristi tropici, cit., pp. 394-395. 45. Ivi, p. 395. 46. Ivi, p. 398. In unintervista televisiva rilasciata nel novembre del 1997 a Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia, Lvi-Strauss confessava a posteriori quanto segue: in passato, vero, mi sono sentito vicino al buddismo, e ancora oggi continuo ad amarlo. Ma oggi pi che al buddismo mi sento vicino a quello scintoismo che ho conosciuto nei viaggi in Giappone, perch testimonia un rispetto spinto fin quasi alla venerazione non soltanto per gli esseri umani, ma anche per gli animali, le

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giungere che allora lOccidente ha perduto la sua opportunit di restare femmina47, Lvi-Strauss allude a una questione, la questione (del) femminile, che non a caso interessa trasversalmente le linee di confronto fra le culture, e in maniera significativamente drammatica il confronto fra lIslam e le altre culture in generale. Questo punto meriterebbe una trattazione dettagliata e approfondita: pu forse bastare, in questa sede, segnalarlo come decisivo, perch vi si manifesta una delle ragioni fondamentali che, a parere di Lvi-Strauss, avrebbero portato lIslam a tagliare in due un mondo pi civile, per cui quello che gli sembra attuale proviene da unepoca gi compiuta, esso quindi vive in uno spostamento millenario. Ha saputo compiere unopera rivoluzionaria; ma poich questa si applicava a una frazione arretrata dellumanit, seminando il reale ha sterilizzato il virtuale: ha determinato un progresso che linverso di un programma48. Taxila proietta lombra di una scissione non ancora compiuta: la fugace possibilit che il nostro Vecchio Mondo ebbe, di restare uno49. Taxila, con i suoi monasteri buddisti popolati di statue che testimoniano della
piante, le pietre stesse (c. lvi-strauss, Cristi di oscure speranze, nottetempo, Roma 2008, p. 50), le quali ultime, pure, nel loro sfaldarsi soffrono, secondo la coscienza dellumanesimo interminabile di Lvi-Strauss (cfr. p. maniglier, Lhumanisme interminabile de Claude Lvi-Strauss, in Les Temps Modernes, n. 609, 2000, pp. 216-241), che per sarebbe frettoloso e fuorviante bollare come una forma di materialismo, quando come giustamente ha sottolineato qualcuno (cfr. s. petrosino, Capovolgimenti, Jaca Book, Milano 2008, pp. 121-122) proprio Lvi-Strauss ad aver rinvenuto nellarte dei popoli senza scrittura elementi di rinvio al soprannaturale che nemmeno uno spiritualista fervente sarebbe mai riuscito a rendere in una guisa, anche grammaticalmente, cos icastica (cfr. c. lvi-strauss, Guardare Ascoltare Leggere, il Saggiatore, Milano 1994, pp. 135 e ss.). 47. c. lvi-strauss, Tristi tropici, cit., p. 398. 48. Ibidem. 49. Ivi, p. 395.

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felice influenza della scultura ellenica, addita un altro possibile destino, quello, precisamente, che lIslam interdice, drizzando una barriera fra un Occidente e un Oriente che, senza di esso, non avrebbero forse mai perduto il loro attaccamento al suolo comune nel quale affondano le loro radici50. Si visto, ma forse va meglio precisato, restando fedeli al testo di Lvi-Strauss senza con ci aderirvi acriticamente , che il termine Islam copre un ambito semantico nel quale rientra un atteggiamento scolastico, uno spirito utopistico, la convinzione ostinata che basti tracciare un problema sulla carta per esserne tosto sbarazzati51: tutti elementi diffusi nel modo di pensare e di vivere altrimenti qualificabile come occidentale, in conformit al quale, sotto legida di un razionalismo giuridico e formalista, ci costruiamo unimmagine del mondo e della societ in cui tutte le difficolt sono sottoposte a una logica artificiosa e non ci rendiamo conto che luniverso non pi formato dagli oggetti di cui parliamo52. Uno spunto, in particolare, consente di dilatare a una serie di rimandi significativi la lettura levistraussiana di un Occidente islamizzante: si tratta del passaggio allusivo alle due specie sociologicamente cos notevoli come il Musulmano germanofilo e il Tedesco islamizzato: se un corpo di guardia potesse essere religioso, lIslam sarebbe la sua religione ideale: stretta osservanza del regolamento []; ispezioni particolareggiate e cure di pulizia []; promiscuit maschile nella vita spirituale come nel compimento delle funzioni organiche; e niente donne53. Verrebbe da chiosare: soprattutto, niente donne!... Torna in mente il richiamo di Carl Gustav Jung al parallelo tra la religione hitleriana e lislamismo, che predicano
50. Ibidem. 51. Ivi, p. 394. 52. Ibidem. 53. Ivi, p. 392.

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entrambe la virt della spada54. La corda dei rinvii potrebbe vibrare fino alla rilettura del passaggio in cui Nietzsche si chiedeva come un tedesco abbia mai potuto avere sentimenti cristiani55, dal momento che, se lIslam ha in dispregio il cristianesimo, ha in ci mille volte ragione: lIslam ha per presupposto dei maschi56. Ma echeggiano anche
54. La religione, neopagana, di Hitler la pi vicina allislamismo, realistica, terrena, promette la massima ricompensa in questa vita, con Walhalla tipo paradiso maomettano, a cui saranno ammessi i tedeschi degni di questo nome per continuare a gustare i piaceri dellesistenza (Jung parla, Interviste e incontri a cura di w. mcguire e r.f.c. hull, Milano 2009, p. 171). Certe assonanze con espressioni ricorrenti oggi, come fascismo islamico (autorizzate daltronde da frasi come questa, attribuita a Mussolini: come il paradiso dellIslam, cos anche la nostra pace pi sicura sar allombra delle nostre spade, citato da Jun Chabs ne LItalia fascista (politica e cultura), viennepierre, Milano 2004, p. 105), non devono fuorviare. Venature religioidi per usare il lessico di Georg Simmel di regimi politici sono sempre osservabili. Ci che qui allattenzione la misura in cui lIslam come tale, prima di qualunque sua declinazione in termini di islamismo politico, si reso capace di influire sul modo in cui lOccidente, in special modo attraverso alcune sue esperienze storicamente compiute, ha saputo rappresentarsi, in pi o meno apparente contraddizione con se stesso. 55. f. nietzsche, L anticristo, Adelphi, Milano 2004, p. 93. 56. Ivi, p. 92. Con riferimento al maschilismo dimpronta islamica si fatto rilevare, in altra sede, un possibile, singolare parallelismo tra due fenomeni altrimenti incommensurabili: lincremento, registrato in Occidente, dei casi di sintomatologia legati al reflusso gastroesofageo infantile, da un canto e, dallaltro, linsorgere del movimento (per molti aspetti misterioso) noto col nome di Al Qaeda. Il fenomeno volgarmente chiamato rigurgito neonatale, almeno in una certa casistica, potrebbe dimostrare che una forte repressione inconscia di quanto chiede semplicemente di tornare naturalmente a galla determina in queste circostanze un ritorno molto pi violento di ci che si era cercato di rimuovere (a. naouri, Padri e madri, Einaudi, Torino 2005, p. 203). Limpatto, provocato dalloccidentalizzazione degli stili di vita in particolare sulla sensibilit e sulla mentalit di una consistente parte del mondo arabo-musulmano, potrebbe aver gettato i semi di un risentimento covato fino allesplosione violenta: individui di sesso maschile hanno visto messo in pericolo il loro status di privilegiati

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le parole con cui un filosofo tedesco, come Hegel, ha bollato inappellabilmente lastrazione che, nel bene e nel male, divora lislam nel suo insieme: lastrazione dominava i Maomettani: il loro fine era quello di far valere il culto astratto e a ci essi hanno aspirato con il massimo entusiasmo. Questo entusiasmo era fanatismo, ossia un entusiasmo per qualcosa di astratto, per un pensiero astratto, che si comporta in maniera negativa verso lesistente. Lessenza del fanatismo sta solo nel comportarsi verso lesistenza concreta devastandola, distruggendola; tuttavia il fanatismo maomettano era capace nel medesimo tempo di ogni azione sublime una sublimit, libera da ogni interesse meschino, che si accompagna a tutte le virt della magnanimit e del valore militare57, esaltate nella rappresentazione affascinata del Profeta Maometto che si pu trarre dal classico Gli eroi di Thomas Carlyle: il rischio, labnegazione, il martirio, la morte: ecco le lusinghe che agiscono sul cuore delluomo58
rispetto alle donne, e ai figli, si sono organizzati, hanno nutrito il loro rancore, hanno coordinato le loro forze e hanno reclutato un numero sufficiente di fanatici candidati al suicidio per lanciarsi nella nuova forma di guerra che hanno inaugurato (ivi, p. 207). un incoercibile urto (di vomito) che, proprio per la forza (della disperazione?) che lo alimenta, rivela forse lautentica posta in gioco dello scontro di civilt oggi in atto, che sembra vertere sulle modalit costitutive, e regolative, delle relazioni tra uomini e donne, come dellidea che gli uni si fanno delle altre (e viceversa), e dellidea che gli uni e le altre si fanno dei figli (e viceversa). 57. g.w.f. hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, RomaBari 2003, p. 295. A riguardo dellattendibilit di questo testo, curato in edizione italiana da Bonacina e Sichirollo sulla base della versione di Karl Hegel, che si discosta dalla Filosofia della storia universale (Einaudi, Torino 2001) tradotta da Sergio Dellavalle, vanno in ogni caso segnalate le riserve mosse da Paolo Becchi (di cui cfr. Karl-Heinz Ilting e le lezioni hegeliane di filosofia della storia, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, n. 2, 2003, pp. 173-192). 58. t. carlyle, Gli eroi e il culto degli eroi e leroico nella storia, utet, Torino 1954, p. 127.

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eccitato allimpresa eroica. Si tratta di qualit che lo stesso Lvi-Strauss, riferendosi agli arabo-islamici, si trova costretto ad ammettere: quegli ansiosi sono anche degli uomini dazione; presi fra sentimenti incompatibili, compensano linferiorit di cui risentono con delle forme tradizionali di sublimazione che vengono associate da sempre allanima araba: generosit, fierezza, altruismo59. Forse, per, non c bisogno di trovare le affinit pi significative, tra Occidente e Islam, negli aspetti pi conclamati di una certa gamma di quelli che sono diventati, in gran parte, luoghi comuni. Per accertare la contaminazione islamofila dellOccidente basterebbe, per esempio, andare al fondo di una mentalit, diffusa nelle democrazie occidentali, che accentua quanto vi di compulsivo nello sbandieramento tutto ideologico (e ideocratico) del primato delle regole in campo etico, economico, politico. Una certa inflessione fondamentalistica del pensiero politico islamico sembra riprendere, con il leitmotiv de la religione e il terrore, la nota dominante del giacobinismo la libert et la terreur60: non si pu escludere a priori che uno dei fattori del disagio provato da Lvi-Strauss a contatto con lIslam sia da ricondurre a una convergenza, piuttosto che a una divergenza, di elementi ispiratori di una cultura religiosa, che si vuole nello stesso tempo e talora non si astiene dallimporsi come cultura a pieno titolo politica. Per quanto contiene in s di elementi rivoluzionari il liberalismo sembra imparentato con le varie rivoluzioni islamiche pi di quanto forse non ritenga, al di l di postu59. c. lvi-strauss, Tristi tropici, cit., p. 393. 60. Cfr. g.w.f. hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 295. Paul Berman, nel suo Terrore e liberalismo (cfr. Einaudi, Torino 2004, p. 72), parla del totalitarismo musulmano come variante di unidea europea. Non varr forse, per lo meno in una certa misura, e stando a ci che si pu estrarre dalla lettura di Lvi-Strauss, la reciproca?

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lati che sembrerebbero radicalmente antitetici a un credo religioso che letteralmente si traduce con sottomissione. Non sembra quindi peregrino, n iperbolico, che LviStrauss abbia ribattezzato il figlio della Rivoluzione francese, Napoleone Bonaparte, Maometto dellOccidente, che ha fallito l dove laltro ha vinto61. Questa breve introduzione vorrebbe semplicemente dar conto del retroterra intellettuale che ha ispirato a Lvi-Strauss la sua particolare predilezione per il Giappone: per il Giappone buddista, e in quanto buddista. La chance, che lOccidente potrebbe cogliere, di riguadagnare dimensioni che gli sono sfuggite per responsabilit di circostanze storiche che hanno facilitato la contaminazione euroislamica starebbe forse nel lasciar sussistere nella distanza, geografica, antropologica e storica, e grazie ad essa, gli elementi che possono assecondare una rinnovata sintesi di civilt. Paradossalmente, la ricerca di (perdute) lontananze potrebbe rendere a un costruttivo confronto fra culture un servigio pi efficace di quello che, in maniera un po scontata, con sforzi di buona volont spesso vani, crediamo di poter prestare con unermeneutica interculturale che privilegia la comunicazione, gli scambi, il contatto a tutti i costi, in una parola: lavvicinamento incondizionato, programmatico e sistematico. Si visto a quali esiti, non sempre e non necessariamente fortunati, pu portare unidea di civilt islamo-cristiana62 che non si lasci in un modo o nellaltro sedurre da quel che lOriente incarna nel suo Estremo, e che pertanto non si metta nelle condizioni di offrire, quale Estremo Oc61. c. lvi-strauss, Tristi tropici, cit., p. 394. 62. Nellampio spettro di apporti consultabili, sinora pi tentati che riusciti, si va da una proposta come quella, dal sapore bizzarramente antistorico, se non utopistico, presentata ne La civilt islamico-cristiana da Richard W. Bulliet (Laterza, Roma-Bari 2005), al serio, meditato e franco confronto di idee e di esperienze sviluppatosi tra Mohamed Talbi e Olivier Clment in Rispetto nel dialogo (San Paolo, Cinisello Balsamo 1994).

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cidente, le risorse di un patrimonio ancora tutto da valutare e da esplorare. Un approccio antistoricista, come quello di Lvi-Strauss, necessita per di essere integrato, proprio allo scopo di ottimizzare le sue potenzialit, da una proiezione di filosofia della Storia che meriterebbe di essere riattualizzata in funzione della lettura incrociata con i testi di antropologia qui ricomposti: nel 1959, Karl Jaspers, pensatore in attento ascolto delle voci dellOriente, sottolineava che lelemento creatore della struttura dei nuovi grandi imperi dellantichit furono i Macedoni e i Romani63, popoli abbastanza poveri spiritualmente da conquistare, governare, organizzare, acquisire e preservare forme di civilt, salvaguardare la continuit della tradizione culturale64. La Taxila di Lvi-Strauss fa pensare alla (relativa) povert storico-spirituale del Regno macedone come al fattore di polarizzazione capace di inventare una forma di civilt tributaria della Grecia e insieme dei giacimenti culturali del Mediterraneo profondo; Roma avrebbe, per altro verso, esercitato il suo potere di sintetizzatore di civilt in proporzione inversa alla (relativamente bassa) intensit storicospirituale della sua forza. Come dire che, a quei tempi, la salvezza della civilt umana venne dai suoi margini. Ma da quali margini dovrebbe oggi intravedersi? Da un Giappone ultramodernizzato? Da un buddismo dimportazione banalizzato alla moda di qualche civetteria esotica? Da un cristianesimo finalmente liberato, secondo gli auspici di LviStrauss, da una prematura tirannia del formalismo mutuata dallIslam? Da un Islam riformato65 (dallinterno?)?
63. Cfr. k. jaspers, Origine e senso della storia, Edizioni di Comunit, Milano 1972, p. 81. 64. Ibidem. 65. Domina la scena di un dibattito portato a conoscenza del mondo esterno allIslam La riforma radicale (Rizzoli, Milano 2009) del controverso Tariq Ramadan.

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Limprobabilit delle soluzioni immaginate pari allispessimento culturale (e ad una certa sclerotizzazione spirituale) degli attori interessati: troppo ricchi di retaggio storico-spirituale nellottica jaspersiana , troppo appesantiti secondo la lettura di Lvi-Strauss da una prossimit che, invece di mantenerli in atteggiamenti di reciproca fiducia, li irrigidisce in reazioni di segno oppositivo. Le resistenze, ora dichiarate ora latenti, alla globalizzazione, sono forse la spia di un malessere pi profondo, dovuto a una sorta di riflesso condizionato autodifensivo, che porta a interpretare, talvolta, lautoisolamento come risorsa estrema alla quale attingere per preservare la propria identit. Certo, un fenomeno come le migrazioni massicce dalle periferie ai vari centri del mondo sembra attualmente irresistibile, e irreversibile: ma esso equivale, o almeno lontanamente paragonabile al moto centripeto che gener la civilt indo-ellenistica simboleggiata da Taxila? In parole povere: esso, cos come la globalizzazione, risulta, almeno in potenza, formatore di civilt, oppure riduce drasticamente le opportunit di crescita di una civilt? Gi tentare di dare una risposta a questi interrogativi sarebbe un modo per prendere coscienza di quel che realmente in questione quando si parla, pi o meno a proposito, di confronti, scontri, dialoghi tra culture, civilt, religioni. Le Lezioni giapponesi, ricollocate nel contesto di altri contributi dedicati da Lvi-Strauss alla tematica qui sviluppata, rompono lo schema, semplicistico e riduttivo, di approcci eccessivamente schiacciati su paradigmi storicistici, smitizzando talune certezze acquisite, calamitando lattenzione del lettore su ci che pu voler dire, in spirito genuinamente e audacemente antropologico, risalire alle sorgenti: alle sorgenti dalle quali sgorga la pluralit che fa la ricchezza degli individui e delle collettivit umani, e che da sempre ha assunto il significato di un moltiplicatore di diversit, non di un livellatore di differenze. In questo senso,
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tutto ci che sa di standardizzazione e di omologazione, magari camuffate sotto simulazioni di avvicinamento, mina alla radice la capacit delle culture di aiutarsi liberamente a scoprire, e valorizzare, i rispettivi fattori di originalit. In questo specifico senso, lOccidente ha un solo grande, temibile nemico: se stesso66. Sono riconoscente verso mia moglie Nadia, come verso Nicola Capurso e Livio Mariani, per avermi aiutato nella paziente opera di revisione delle bozze. Dedico questa mia iniziativa editoriale alla memoria di Claude Lvi-Strauss, in occasione del primo anniversario della morte. lorenzo scillitani

66. In un recente pamphlet redatto contro la tesi della fine della Storia ritorna la preoccupazione circa il destino della civilt, espressa in anticipo sui tempi da un disincantato Lvi-Strauss, anche se qui accompagnata dallindicazione di una possibile via di salvezza, che pu prolungarsi fino a un realistico confronto fra culture: dire semplicemente alla gente quanto sia ammirevole la tolleranza, invece di formare le persone a comportarsi in maniera tollerante, significa rendere impossibile la stessa tolleranza. Lo stesso vero per tutte le sacre astrazioni che lintellettuale ha a cuore, poich gli uomini non rimangono in comunione meditando sulla virt di una comunit ma facendo delle cose in comune, cos come il valore della cooperazione pu essere insegnato solo facendo cooperare gli uomini (cfr. l. harris, La civilt e i suoi nemici. Il prossimo passo della storia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 216-217).

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Lezioni giapponesi

Prima lezione

le mie prime parole, di ringraziamento, saranno rivolte alla Fondazione Ishizaka, che mi ha onorato dellincarico di tenere, questanno, lezioni illustrate, sin dal 1977, da eminenti personalit. La ringrazio, parimenti, di avermi proposto come tema il modo in cui lantropologia disciplina alla quale ho consacrato la mia vita considera i problemi fondamentali con cui lumanit di oggi si confronta. Per cominciare, vi dir come lantropologia formula questi problemi nella prospettiva sua peculiare. In sguito, tenter di definire che cos lantropologia e di mostrare loriginalit della visione che essa proietta sui problemi del mondo contemporaneo, senza la pretesa di risolverli da sola, ma con la speranza di comprenderli meglio. Da circa due secoli la civilt occidentale si autodefinita come la civilt del progresso. Raccolte attorno al medesimo ideale, altre civilt hanno ritenuto di dover prenderla a modello. Tutte hanno condiviso la persuasione che la scienza e le tecniche progredissero inarrestabilmente, procurando agli uomini sempre maggiore potere e felicit; che le istituzioni politiche, le forme di organizzazione sociale comparse alla fine del xviii secolo in Francia e negli Stati Uniti, con la filosofia che le ispirava, rendessero i membri di qualunque societ pi liberi nella loro condotta personale e pi responsabili nella gestione della vita associata; che il giudizio morale, la sensibilit estetica in una parola
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lamore del vero, del buono e del bello si diffondessero irresistibilmente fino a coprire lintera terra abitata. Gli eventi dei quali il mondo stato il teatro in questo secolo hanno smentito queste previsioni ottimistiche. Si sono affermate ideologie totalitarie che, in molte parti del mondo, continuano a dominare. A decine di milioni gli uomini si sono sterminati, abbandonandosi a genocidi spaventosi. Anche dopo il ristabilirsi della pace, gli uomini non sembrano pi certi che la scienza e la tecnica apportino solo benefici, n che i principi filosofici, le istituzioni politiche e le forme di vita sociale del xviii secolo costituiscano altrettante soluzioni definitive ai grandi problemi posti dalla condizione umana. Le scienze e le tecniche hanno prodigiosamente ampliato la nostra conoscenza del mondo fisico e biologico, attribuendosi un potere sulla natura insospettabile soltanto fino a un secolo fa. Si comincia tuttavia a calcolare il prezzo pagato per la conquista di un simile potere. Si pone sempre pi il problema degli eventuali effetti deleteri di tali conquiste: a disposizione degli uomini sono stati messi strumenti di distruzione di massa che, anche senza essere utilizzati, minacciano con la loro semplice esistenza la nostra specie. In modo pi insidioso, ma reale, la nostra sopravvivenza minacciata altres dalla rarefazione o dallinquinamento dei beni essenziali: lo spazio, laria, lacqua, la ricchezza e la diversit delle risorse naturali. Grazie, in parte, ai progressi della medicina, il numero degli esseri umani si accresciuto di continuo, a tal punto che, in molte parti del mondo, non si riesce pi a soddisfare i bisogni elementari di popolazioni in preda alla fame. Ci non impedisce che altrove, in zone capaci di assicurare la sussistenza, si manifesti uno squilibrio dovuto al fatto che, allo scopo di dare lavoro a un numero sempre maggiore di individui, necessario aumentare la produzione. Ci si sente pertanto sospinti in una corsa senza fine alla produttivit. La
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produzione richiede il consumo che, a sua volta, esige una produzione ancora maggiore. Settori sempre pi ampi della popolazione sono come assorbiti dai bisogni diretti o indiretti dellindustria, e vengono a concentrarsi in enormi agglomerati urbani che impongono unesistenza artificiale e disumanizzata. Il funzionamento delle istituzioni democratiche, i bisogni della protezione sociale comportano, dal canto loro, la creazione di una burocrazia invadente che, parassitariamente, tende a paralizzare il corpo della societ. Ci si pu domandare se le societ moderne, costruite su questo modello, non rischino di diventare presto ingovernabili. A lungo alimentata, la fede in un progresso materiale e morale destinato a non interrompersi mai subisce dunque la sua crisi pi grave. La civilt occidentale ha perduto il modello che si era data da s, e che non osa pi offrire alle altre. Non allora opportuno guardare altrove, allargare il nostro tradizionale quadro di riflessione intorno alla condizione umana? Non dobbiamo integrarvi esperienze sociali pi diversificate rispetto a quelle nel cui ristretto orizzonte ci si era a lungo confinati? Dal momento che non attinge pi dal proprio fondo risorse che la mettano in condizione di rigenerarsi per un nuovo sviluppo, la civilt di tipo occidentale pu apprendere qualcosa sulluomo in generale, e su se stessa in particolare, da quelle societ a lungo disprezzate che, fino a unepoca relativamente recente, si erano sottratte alla sua influenza? Sono queste le domande che, da alcuni decenni, sollecitano pensatori, scienziati o uomini dazione a interrogare lantropologia dato che le altre scienze sociali, pi centrate sul mondo contemporaneo, non offrono loro risposta. Che cos allora questa disciplina rimasta nellombra, e che si ritiene possa avere qualcosa da dire su questi problemi? Per quanto lontani siano gli esempi da cercare nel tempo e nello spazio, la vita e lattivit delluomo si inscrivono in contesti che presentano caratteristiche comuni. Sempre e do65

vunque, luomo un essere dotato di linguaggio articolato, e vive in societ. La riproduzione della specie non abbandonata al caso, ma sottomessa a regole che escludono un certo numero di unioni biologiche. Luomo fabbrica e adopera utensili che impiega in svariate tecniche. La sua vita sociale si svolge allinterno di complessi istituzionali il cui contenuto pu cambiare da un gruppo allaltro, ma la cui forma generale resta costante. Attraverso processi differenti, determinate funzioni economica, educativa, politica, religiosa sono garantite con regolarit. Intesa in senso lato, lantropologia la disciplina che si dedica allo studio del fenomeno umano. Forse questultimo fa parte dellinsieme dei fenomeni naturali, e tuttavia presenta, rispetto alle altre forme della vita animale, caratteri costanti e specifici che ne giustificano uno studio indipendente. In tal senso si pu dire che lantropologia antica quanto lumanit stessa. Nelle epoche delle quali possediamo testimonianze storiche, preoccupazioni di genere per cos dire antropologico sono presenti ai memorialisti che accompagnavano Alessandro Magno in Asia, cos come a Senofonte, Erodoto, Pausania e in una prospettiva pi filosofica ad Aristotele e Lucrezio. Nel mondo arabo, Ibn Batouta, grande viaggiatore, e Ibn Khaldoun, storico e filosofo, testimoniano, nel xiv secolo, di uno spirito autenticamente antropologico, allo stesso modo, molti secoli addietro, dei monaci buddisti cinesi che si recarono in India per documentarsi sulla loro religione, e dei monaci giapponesi che visitarono la Cina con la medesima finalit. In quellepoca, gli scambi tra il Giappone e la Cina passavano soprattutto attraverso la Corea, Paese nel quale la curiosit antropologica attestata sin dal secolo vii della nostra era. Le cronache antiche riferiscono che il fratellastro del re Munmu accett di diventare primo ministro so66

lo a patto di poter dapprima viaggiare in incognito attraverso il regno per osservare la vita del popolo. Si pu dar conto, in tal caso, di una prima ricerca etnografica sebbene, a dire il vero, gli etnografi di oggi non ricevano spesso, come questo dignitario coreano, dallospite indigeno che li accolga, unaffascinante concubina che condivida il loro letto! Sempre le cronache coreane narrano che il figlio di un certo monaco scriveva libri sulle consuetudini popolari della Cina e di Silla*, e che per questo motivo fu accolto fra i dieci grandi saggi di questo regno. Nel Medio Evo lEuropa scopre lOriente, inizialmente in occasione delle crociate, poi attraverso i racconti di emissari inviati, nel xiii secolo, dal papa e dal re di Francia tra i Mongoli e soprattutto, nel xiv secolo, grazie al lungo soggiorno di Marco Polo in Cina. Allinizio del Rinascimento cominciano a distinguersi le svariate fonti dalle quali attinger la riflessione antropologica: la letteratura nata in seguito alle invasioni turche in Europa orientale e nel Mediterraneo; le fantasie del folklore medievale prolungano quelle dellantichit sulle razze pliniane, che prendono il nome dalle descrizioni fatte nel i secolo della nostra era da Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale: si tratta di popoli selvaggi, mostruosi per anatomia e per costumi. Il Giappone non ha ignorato queste fantasie, che sono rimaste pi a lungo nella coscienza popolare probabilmente a causa del volontario isolamento del Giappone dal resto del mondo. Fin dal mio primo soggiorno in Giappone ricevetti in regalo unenciclopedia pubblicata nel 1789, intitolata Zho Kunmo Zui, nella cui parte geografica si danno per realmente esistenti popoli esotici di dimensioni gigantesche, con braccia o con gambe smisuratamente lunghe
* Silla (o Sin-lo) il nome di un regno che occup inizialmente la parte orientale della Corea, per poi estendere il suo dominio allintera penisola asiatica, tra il vi e il x secolo d.C.

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Nello stesso periodo, lEuropa, in possesso di un maggior numero di informazioni, accumulava le conoscenze positive che, dal xvi secolo, cominciavano ad affluire da Africa, America e Oceania in occasione delle grandi scoperte. Le compilazioni di questi resoconti di viaggio conobbero una rapida e prodigiosa diffusione in Germania, Svizzera, Inghilterra e Francia. Questa corposa letteratura alimenter la riflessione antropologica che prende avvio, in Francia, con Rabelais e Montaigne, e che si estende a tutta lEuropa a partire dal xviii secolo. Di questo fenomeno si ritrova daltronde leco, in Giappone, nei viaggi presentati come immaginari, in mancanza di conoscenza diretta dei paesi lontani. Si pensi al viaggio fittizio di Oe Bunpa nel Paese di Harashirya, termine dietro il quale si pu riconoscere il Brasile, abitato da indigeni che ignorano la cerealicoltura, si nutrono di radici secche, non hanno re, ritengono nobili solo gli uomini pi bravi nel tiro con larco. Si tratta di una descrizione simile a quella che Montaigne, due secoli prima, aveva fatto dopo aver conversato con Indiani brasiliani condotti in Francia da un navigatore. Anche se si fa risalire al xix secolo lavvio della ricerca antropologica quale si pratica oggi, il suo primo fattore stato rappresentato da quella che potrebbe definirsi come una curiosit da antiquario. Si rilevava che le grandi discipline classiche, come storia, archeologia, filosofia scienze che godevano di pieno diritto di cittadinanza nei corsi universitari , dimenticavano ogni sorta di residui, di frammenti. Un po come dei carrettieri, alcuni curiosi cominciavano a raccogliere delle briciole di conoscenza, dettagli problematici, frammenti pittoreschi che le altre scienze gettavano sdegnosamente nella loro spazzatura intellettuale. In una prima fase, probabilmente, lantropologia non fu nientaltro che una raccolta di fatti singolari e bizzarri. Si scopriva a poco a poco, tuttavia, che questi frammenti,
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questi resti erano pi importanti di quanto non si fosse creduto. facile comprenderne il perch. Quel che colpisce luomo alla vista degli altri uomini sono i punti in comune. Storici, archeologi, filosofi, moralisti, letterati chiedevano innanzitutto, ai popoli da poco scoperti, una conferma delle proprie credenze circa il passato dellumanit. Ci spiega il fatto che, sin dalle grandi scoperte del Rinascimento, i racconti dei primi viaggiatori non suscitarono scalpore: si riteneva non tanto di scoprire mondi nuovi quanto di ritrovare il passato di quello vecchio. I modi di vivere dei popoli selvaggi dimostravano che la Bibbia, gli scrittori greci e latini avevano ragione a descrivere il giardino dellEden, lEt delloro, la Fontana delleterna giovinezza, lAtlantide o le Isole Fortunate Si trascurava, ci si rifiutava addirittura di prendere in considerazione le differenze, che sono comunque fondamentali dal momento che si tratta di studiare luomo, perch, come Jean-Jacques Rousseau doveva dire pi tardi, per scoprire le propriet bisogna anzitutto osservare le differenze. Si procedeva anche a unaltra scoperta: queste singolarit, queste stravaganze si disponevano tra di loro secondo un ordine molto pi coerente che non gli stessi fenomeni ritenuti come i soli degni di attenzione. Aspetti trascurati o poco studiati, come il modo nel quale societ differenti dividono il lavoro tra i sessi in una determinata societ, sono gli uomini o le donne che lavorano il vasellame, i tessuti o la terra? , consentono di comparare o di classificare le societ umane su basi molto pi solide che in precedenza. Ho menzionato la divisione del lavoro; potrei parlare anche delle regole di residenza. Quando si celebra un matrimonio, dove vanno ad abitare i giovani sposi? Con i genitori del marito? Con quelli della moglie? O stabiliscono una residenza indipendente?
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Altrettanto dicasi delle regole della filiazione e del matrimonio, a lungo trascurate per la loro apparente arbitrariet e insensatezza. Perch un gran numero di popoli distinguono i cugini in due categorie, a seconda che essi provengano da due fratelli o da due sorelle, o da un fratello e da una sorella? Perch, in tal caso, essi condannano il matrimonio tra i cugini del primo tipo e lo raccomandano vivamente, addirittura fino a imporlo, tra i cugini del secondo tipo? E perch il mondo arabo fa eccezione, praticamente la sola conosciuta, a questa regola? Altrettanto ancora dicasi delle proibizioni alimentari, le quali attestano che, nel mondo, non vi popolo che non tenti di affermare la sua originalit col mettere al bando questa o quella categoria di alimenti: il latte in Cina, il maiale per gli ebrei e per i musulmani, il pesce per alcune trib americane e la carne di cervo per le altre, e cos via. Tutte queste singolarit costituiscono altrettante differenze tra i popoli. Ad ogni modo, queste differenze sono suscettibili di comparazione nella misura in cui non esiste popolo presso il quale non si possa osservarle. Donde linteresse che gli antropologi mostrano verso variazioni in apparenza superficiali, ma tali da permettere di operare classificazioni relativamente semplici, che introducono nella variet delle societ umane un ordine paragonabile a quello di cui gli zoologi e i botanici dispongono per classificare le specie naturali. Al riguardo, le ricerche pi valide sono quelle che vertono sulle regole della filiazione e del matrimonio. In effetti, le societ studiate dagli antropologi possono avere un numero di componenti molto variabile, da qualche decina a molte centinaia o migliaia di persone. In ogni modo, se paragonate alle nostre, queste societ presentano dimensioni molto ridotte, di modo che le relazioni umane vi sono connotate in termini personali. Nulla lo mostra meglio della tendenza delle societ senza scrittura a concepire le rela70

zioni tra i loro membri in base al modello della parentela: ciascuno fratello, sorella, cugino, cugina, zio, zia etc. di ciascun altro. E, se qualcuno non parente, uno straniero, dunque un potenziale nemico. Non c nemmeno bisogno di tracciare genealogie: in molte di queste societ regole semplici consentono di assegnare ogni individuo, in base alla sua nascita, a questa o a quella categoria, tra le quali prevalgono rapporti equivalenti a rapporti di parentela. Ora, non esistono societ, per quanto modesto sia il loro livello tecnico ed economico, e per quanto diverse siano per i loro costumi sociali e le loro credenze religiose, che non possiedano una nomenclatura di parentela e regole matrimoniali capaci di distinguere gli individui imparentati in coniugi permessi e coniugi proibiti. Con ci si acquisisce dunque un primo elemento idoneo a distinguere le societ le une dalla altre e a dare a ciascuna il suo posto in una categoria. Quali sono quindi queste societ predilette dagli antropologi, e che siamo abituati da una lunga tradizione a qualificare come primitive, termine, questo, che oggi molti rifiutano e che, in ogni caso, sarebbe necessario definire con precisione? In generale, vengono designati come primitivi gruppi umani che si differenziano dai nostri principalmente per lassenza di scrittura e di strumenti meccanici; ma, a tale proposito, opportuno ricordare alcune verit di carattere primario: queste societ offrono lunico modello che permetta di comprendere il modo in cui gli uomini hanno vissuto insieme durante un periodo storico corrispondente probabilmente al 99 per cento della durata complessiva della vita umana e, dal punto di vista geografico, su di unestensione pari ai tre quarti della superficie delle terre abitate. Linsegnamento che queste societ ci apportano non ha niente a che fare con lillustrazione di fasi del nostro passato remoto. Esse piuttosto illustrano una situazione genera71

le, un denominatore comune della condizione umana. In questa prospettiva, le civilt superiori dellOccidente e dellOriente costituiscono altrettante eccezioni. Difatti, i progressi registrati dalle ricerche etnologiche ci persuadono sempre pi che queste societ considerate come arretrate, come scarti dellevoluzione, respinte in zone marginali e destinate allestinzione, costituiscono forme originali di vita sociale. Esse sono perfettamente vitali, finch non sono minacciate dallesterno. Proviamo dunque a tracciare meglio i loro contorni. Al limite, queste societ consistono in piccoli gruppi comprendenti fra qualche decina e qualche centinaio di persone, e sono lontane fra di loro molti giorni di viaggio a piedi, e con una densit demografica intorno a 0,1 abitante per Km2. Il loro coefficiente di accrescimento molto basso, nettamente inferiore all1 per cento, tale che gli incrementi di popolazione compensano approssimativamente le perdite. Di conseguenza, la loro composizione numerica non varia di molto. Questa costante demografica assicurata, consapevolmente o no, da diversi processi: i tab sessuali dopo il parto, e lallattamento prolungato che, nella donna, ritardano il ristabilirsi dei ritmi fisiologici. da notare che, in tutti i casi osservati, un accrescimento demografico spinge il gruppo a riorganizzarsi su nuove basi. Divenuto pi numeroso, il gruppo si scinde e d vita a due piccole societ, di un ordine di grandezza pari alla precedente. Questi piccoli gruppi mostrano una attitudine spontanea ad eliminare dal loro seno le malattie infettive. Gli epidemiologi ne hanno fornito la ragione: i virus di queste malattie sopravvivono in ogni individuo solo per un limitato numero di giorni, e devono dunque circolare costantemente per mantenersi nellinsieme della popolazione. Ci possibile solo se il ritmo annuale delle nascite sufficientemente elevato: si tratta di una condizione, questa, realizza72

ta soltanto a partire da una base demografica di diverse centinaia di migliaia di persone. Va aggiunto che le specie vegetali e animali sono molto diversificate in ecosistemi complessi, come quelli in cui vivono popoli le cui credenze e le cui pratiche, che errato scambiare per superstizioni, tendono a preservare le risorse naturali. Sotto i tropici, per, ogni specie conta solo un piccolo numero di individui per unit di superficie, come anche nel caso delle specie infettive o parassite: le infezioni possono quindi essere molteplici, pur restando a un livello clinicamente basso. Laids offre un esempio attuale. Questa malattia virale, localizzata in alcuni focolai dellAfrica tropicale dove probabilmente viveva in equilibrio con le popolazioni indigene da millenni, ha sviluppato un rischio maggiore quando le fatalit della storia lhanno introdotta in societ pi ampie. In generale, malattie non infettive sono invece assenti per molteplici ragioni: attivit fisica, dieta alimentare molto pi variegata di quella dei popoli che praticano lagricoltura, tributaria di un centinaio, talvolta di pi, di specie animali e vegetali, povera di grassi, ricca di fibre e di sali minerali, capace di assicurare un apporto sufficiente di proteine e calorie. Donde lassenza di obesit, di ipertensione, di disturbi circolatori. Non c quindi da meravigliarsi se un viaggiatore francese, che visit gli Indiani del Brasile nel xvi secolo, potesse stupirsi che questo popolo cito , composto dagli stessi nostri elementi, non mai stato colpito da lebbra, paralisi, letargia, malattie cancerose, n da ulcere o da altri difetti corporali che si notano superficialmente e allesterno; invece, nel secolo o nel secolo e mezzo che segu alla scoperta dellAmerica, le popolazioni del Messico e del Per scemarono da un centinaio di milioni a quattro o cinque, sotto i colpi non tanto dei conquistadores quanto delle malattie importate, rese pi virulente dalle nuove abitudini di
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vita imposte dai colonizzatori: vaiolo, morbillo, scarlattina, tubercolosi, malaria, influenza, orecchioni, febbre gialla, colera, peste, difterite, e cos via Non avremmo, pertanto, ragione di sottovalutare queste societ solo perch le abbiamo conosciute in una condizione di arretratezza. Il loro valore inestimabile, anche in tale condizione, risiede nel fatto che le migliaia di societ che sono esistite, centinaia delle quali continuano a esistere sulla faccia della terra, costituiscono altrettante esperienze belle fatte: le sole di cui disponiamo poich, a differenza dei nostri colleghi delle scienze fisiche e naturali, noi non possiamo fabbricare i nostri oggetti di studio, quali sono le societ, e farli funzionare in laboratorio. Queste esperienze, tratte da societ selezionate per il fatto di essere le pi differenti dalle nostre, ci offrono la possibilit di studiare gli uomini, le loro opere collettive, allo scopo di comprendere il modo in cui lo spirito umano funziona nelle situazioni concrete pi diverse dove la storia e la geografia lhanno destinato. Ora, sempre e dappertutto, la spiegazione scientifica poggia su quelle che si potrebbero definire come buone semplificazioni. Sotto questaspetto lantropologia fa di necessit virt. Come ho appena detto, una parte importante delle societ che essa predilige sono di ridotte dimensioni, e si concepiscono in funzione della stabilit. Queste societ esotiche sono lontane dallantropologo che le osserva. A separarli una distanza non soltanto geografica, ma anche intellettuale e morale. Questa distanza riduce la nostra percezione ad alcuni tratti essenziali. Vorrei dire che, nel complesso delle scienze sociali e umane, lantropologo occupa un posto paragonabile a quello occupato dallastronomo nellinsieme delle scienze fisiche e naturali. Lastronomia pot costituirsi come scienza, fin dalla pi remota antichit, grazie al fatto che, in mancanza di un metodo scientifico che non esisteva ancora, la distanza dei corpi celesti permetteva di avere una veduta semplificata.
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I fenomeni che osserviamo sono estremamente lontani da noi. Lontani, come ho detto, anzitutto in senso geografico, poich, non molto tempo fa, bisognava viaggiare per settimane o mesi prima di raggiungere i nostri oggetti di studio. Ma lontani, questi fenomeni, lo sono soprattutto in senso psicologico, nella misura in cui questi dettagli, questi fatti di modesta entit, sui quali fissiamo lattenzione, poggiano su motivazioni di cui gli individui non sono chiaramente o del tutto consapevoli. Noi studiamo le lingue, ma gli uomini che le parlano non sono consapevoli delle regole che essi applicano per parlare e per poter essere compresi. Noi non siamo consapevoli delle ragioni per le quali adottiamo un alimento e ne proibiamo un altro. Noi non siamo consapevoli dellorigine e della funzione reale delle nostre regole di cortesia o delle buone maniere da usare a tavola. Tutti questi elementi, che affondano le loro radici nellinconscio pi profondo degli individui e dei gruppi, sono proprio quelli che tentiamo di analizzare e di comprendere malgrado una distanza psichica interna che, su di un altro piano, riproduce la distanza geografica. Perfino nelle nostre societ, dove non esiste questa distanza fisica tra losservatore e il suo oggetto, sussistono fenomeni paragonabili a quelli che indagheremo a grande distanza. Lantropologia si riprende i suoi diritti e ritrova la sua funzione dove usi, abitudini di vita, pratiche e tecniche non sono stati spazzati via dalle trasformazioni storiche ed economiche, attestando, in tal modo, che essi corrispondono a qualcosa di talmente profondo, nel pensiero e nella vita degli uomini, da resistere alle forze della distruzione; ovunque, pertanto, la vita collettiva della gente comune quella che il vostro illustre antropologo Yanagida Kunio chiamava jmin si svolge ancora, in primo luogo, tra contatti personali, legami familiari, relazioni di vicinato, sia nei villaggi sia nei quartieri delle citt: in una parola, nei piccoli ambiti in cui si conserva la tradizione orale.
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Mi pare peraltro caratteristico di questi rapporti di simmetria, osservabili tra lEuropa occidentale e il Giappone, il fatto che la ricerca antropologica vi prenda avvio nello stesso periodo il xviii secolo ma, in Europa occidentale, sotto limpulso dei grandi viaggi che fanno conoscere le culture pi diverse, mentre, nel Giappone allora ripiegato su se stesso, la ricerca antropologica affonda probabilmente le sue radici nella scuola Kokugaku, alla corrente della quale sembra ancora appartenere, un secolo dopo, limpresa di Yanagida Kunio, monumentale almeno agli occhi dellosservatore occidentale. Sempre nel xviii secolo la ricerca antropologica muove i suoi primi passi in Corea, con i lavori della scuola di Silhak, che riguardano la vita rurale e i costumi popolari in quello stesso Paese e non, come in Europa, presso popoli lontani. Raccogliendo una moltitudine di dettagli che a lungo gli storici considereranno indegni della loro attenzione, supplendo alle lacune e alle insufficienze dei documenti scritti con losservazione diretta, cercando di conoscere il modo in cui le persone ricordano il passato del loro piccolo gruppo o il modo in cui esse lo immaginano , come anche il modo in cui vivono il presente, riusciamo ad allestire archivi originali e a mettere in piedi quella che Yanagida Kunio, per citarlo ancora, chiamava bunkagaku, scienza della cultura, cio, in una parola, lantropologia. A questo punto, siamo in grado di comprendere che cos lantropologia e che cosa la rende originale. La prima ambizione dellantropologia di attingere loggettivit. Non si tratta soltanto di unoggettivit che consente, a chi la pratica, di fare astrazione dalle sue credenze, dalle sue preferenze e dai suoi pregiudizi. Unoggettivit del genere caratterizza tutte le scienze sociali, che altrimenti non potrebbero aspirare al titolo di scienza. Loggettivit alla quale lantropologia aspira di un genere che va oltre, perch lantropologia non si limita a innalzarsi al
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di sopra dei valori propri alla societ o allambiente sociale dellosservatore, ma trascende i suoi stessi metodi di pensiero, fino a elaborare formulazioni non solo per un osservatore onesto e obiettivo, ma per qualunque possibile osservatore. Allantropologo non basta, quindi, mettere a tacere i suoi sentimenti, perch egli d forma a nuove categorie mentali, contribuisce a introdurre nozioni di spazio e di tempo, di opposizione e di contraddizione, tanto estranee al suo modo tradizionale di pensare quanto lo sono quelle che sincontrano oggi in certi settori delle scienze fisiche e naturali. Questo rapporto, intercorrente fra i modi in cui i medesimi problemi si pongono in discipline molto distanti tra loro, stato mirabilmente colto dal grande fisico Niels Bohr che, nel 1939, cos scriveva: The traditional differences of human cultures [] in many way resemble the different equivalent modes in which physical experience can be described*. La totalit la seconda ambizione dellantropologia, che considera la vita sociale come un sistema i cui aspetti sono organicamente connessi, e che ben disposta ad ammettere, allo scopo di approfondire la conoscenza di un determinato genere di fenomeni, lindispensabile partizione di un insieme, come accade al giurista, alleconomista, al demografo, allo specialista di scienze politiche. Ma quel che lantropologo ricerca la forma comune, le propriet invarianti che si manifestano al di l dei pi differenti modi di vivere in societ. Per illustrare con un esempio considerazioni che possono sembrarvi troppo astratte, esaminiamo la maniera in cui un antropologo prende contatto con determinati aspetti della cultura giapponese. Non abbiamo certo bisogno di essere antropologi per accorgerci del fatto che il falegname giapponese si serve della
* In inglese nel testo [N.d.T.].

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sega e della pialla al contrario dei suoi colleghi occidentali, perch sega e pialla verso di s, non spingendo lutensile allesterno. Questo dettaglio aveva gi colpito Basil Chamberlain alla fine del xix secolo. Questo professore delluniversit di Tokyo, sagace osservatore della vita e della cultura giapponesi, era un eminente filologo. Nel suo famoso libro Things Japanese egli registra, fra molti altri, questo fatto, rubricandolo Topsy-turvidom, che traduco approssimativamente dove tutto sottosopra, come una stravaganza alla quale Chamberlain non connette un significato particolare. Insomma, egli non va oltre Erodoto, il quale notava, pi di ventiquattro secoli or sono, che, rispetto ai suoi compatrioti greci, gli antichi Egizi facevano tutto al contrario. Dal canto loro, specialisti della lingua giapponese hanno rilevato la curiosit per la quale un giapponese che si assenti per un momento (per imbucare una lettera, per acquistare un giornale o un pacchetto di sigarette) dir volentieri qualcosa come Itte mairimsu; al che gli si risponde Itte irasshai. Laccento non dunque posto sulla decisione di uscire, come nelle lingue occidentali in una circostanza del genere, ma sulla intenzione di un prossimo ritorno. Analogamente, uno specialista dellantica letteratura giapponese sottolineer che il viaggio avvertito come una dolorosa esperienza di strappo, ed dominato dallossessione del ritorno in patria. Analogamente, infine, a un livello pi prosaico, la cucina giapponese non presenta locuzioni corrispondenti, come in Europa, a calare nella frittura, ma a sollevare o elevare (ageru) fuori dalla frittura Lantropologo si rifiuter di considerare questi dettagli come variabili indipendenti, come particolarit isolate, perch, al contrario, sar colpito da quanto esse hanno in comune. In campi differenti, e con differenti modalit, si tratta sempre di riportare a s, o di riportare se stesso allinterno. Invece di porre inizialmente lio come unentit
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autonoma e gi costituita, come se il giapponese costruisse il suo io a partire dallesterno. Lio giapponese appare cos non come un dato originario, ma come un risultato al quale si tende senza essere certi di ottenerlo. Non c da stupirsi se, come mi si riferisce, la celebre frase di Descartes Io penso, dunque sono a rigore intraducibile in giapponese! In campi cos diversi, come la lingua parlata, le tecniche dellartigianato, le preparazioni culinarie, la storia delle idee (si potrebbe aggiungere larchitettura domestica, se si pensa alle numerose accezioni che voi ricollegate al termine uchi), una differenza o, per meglio dire, un sistema di differenze invarianti si manifesta, a un livello profondo, tra quelli che chiamer, a mo di esemplificazione, lo spirito occidentale e lo spirito giapponese, e che si pu sintetizzare con lopposizione tra un movimento centripeto e uno centrifugo. Questo schema servir allantropologo da ipotesi di lavoro, idonea a far meglio comprendere il rapporto fra le due civilt. Per lantropologo, in ultima istanza, la ricerca di una oggettivit pu attestarsi solo a un livello in cui i fenomeni conservano un significato per una coscienza individuale. Si d qui una differenza fondamentale fra il genere di oggettivit al quale tende lantropologia e quello che soddisfa le altre scienze sociali. Ci non toglie che le realt prese in esame, ad esempio, dalla scienza economica o dalla demografia siano oggettive, ma non ci si preoccupa di invocarne un senso nellesperienza vissuta del soggetto, che non vi incontra oggetti quali il valore, la redditivit, la produttivit marginale o la popolazione massima. Si tratta, in tal caso, di nozioni astratte, collocate fuori dal campo delle relazioni personali, dai rapporti concreti fra gli individui, che connotano le societ delle quali gli antropologi si occupano. Nelle societ moderne le relazioni con altri non sono pi fondate, se non in maniera occasionale e frammentaria, su questa esperienza globale, su questa concreta reciproca
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comprensione dei soggetti. Queste relazioni dipendono, per lo pi, da ricostruzioni indirette, operate per mezzo di documenti scritti. Siamo ricollegati al nostro passato non pi mediante una tradizione orale, che presuppone un contatto vissuto con persone, ma per il tramite di libri e altri documenti accumulati nelle biblioteche, dei cui autori la critica si sforza di ricostruire il volto. Nel presente, comunichiamo con limmensa maggioranza dei nostri contemporanei attraverso ogni sorta dintermediari documenti scritti o meccanismi amministrativi , che moltiplicano a dismisura i nostri contatti, comunicandovi, per, nel contempo, un carattere di inautenticit, che suggella ormai i rapporti fra i cittadini e i poteri. La perdita di autonomia, lalterazione dellequilibrio interiore che sono derivate dallo sviluppo delle forme indirette di comunicazione (libro, fotografia, stampa, radio, televisione), sono in cima alle preoccupazioni dei teorici della comunicazione, espresse, sin dal 1948, dal grande matematico Norbert Wiener, creatore con von Neumann della cibernetica e, con Claude Shannon, della teoria dellinformazione. Riflettendo su basi completamente diverse da quelle dellantropologo, nellultimo capitolo del suo fondamentale libro Cybernetics-Control and Comunication in the Animal and in the Machine (1948), Wiener rilevava quanto segue: Thus closely knit communities have a very considerable measure of homeostasis; and this, whether they are highly litterate communities in a civilized country, or villages of primitive savages [] It is no wonder, then, that the larger communities, subject to disruptive influence, contain far less communally available information than the smaller communities, to say nothing of the human elements of which all communities are built up (pp. 187-188). Certo, le societ moderne non sono completamente inautentiche. Volgendosi oggi allo studio delle societ mo80

derne, lantropologia si applica a rintracciarvi e ad isolarvi livelli di autenticit. Quel che consente allantropologo di ritrovare un terreno familiare, quando studia un villaggio o il quartiere di una grande citt, il fatto che tutti conoscono tutti, o quasi. Un antropologo si sente a suo agio in un villaggio di cinquecento abitanti, mentre una citt grande, o anche media, gli resiste. Perch? Perch cinquecentomila persone non costituiscono una societ allo stesso modo di cinquecento. Nel primo caso, la comunicazione non si stabilisce in via principale tra persone, o secondo il modello delle comunicazioni interpersonali. La realt sociale degli emittenti e dei riceventi (per parlare il linguaggio dei teorici della comunicazione) scompare dietro la complessit dei codici e delle reti. Il futuro stabilir probabilmente che il pi importante contributo teorico dellantropologia alle scienze sociali proviene da questa distinzione capitale fra due modalit di esistenza sociale: un modo di vita percepito inizialmente come tradizionale e arcaico, tipico delle societ autentiche; e forme di vita sociale pi recenti, dalle quali il primo tipo non assente, ma dove gruppi imperfettamente e non del tutto autentici affiorano come isolotti alla superficie di un insieme pi vasto, connotato da inautenticit. Non si dovrebbe tuttavia ridurre lantropologia allo studio di sopravvivenze da cercare in luoghi e in tempi molto lontani o molto vicini. Ci che importa, prima di tutto, non larcaismo di queste forme di vita, ma le differenze che queste presentano fra di loro o rispetto a quelle che sono diventate proprie alla nostra forma di vita. I primi lavori sistematicamente dedicati ai costumi e alle credenze dei popoli selvaggi non risalgono molto al di qua del 1850, che il momento storico in cui Darwin gettava le basi dellevoluzionismo biologico, al quale corrispondeva, nella mente dei suoi contemporanei, la fede in unevoluzione della societ e della cultura. ancora pi tar81

di, nel primo quarto del xx secolo, che gli oggetti cosiddetti primitivi si sono visti riconoscere un valore estetico. Sarebbe errato concludere che lantropologia una scienza nuova, nata dalla curiosit delluomo moderno. Quando tentiamo di metterla in prospettiva, di assegnarle un posto nella storia delle idee, lantropologia si mostra invece come lespressione pi generale, e il punto darrivo, di un atteggiamento intellettuale e morale che ha avuto inizio molti secoli fa, e che indichiamo col termine umanesimo. Permettetemi di collocarmi, per un attimo, nella prospettiva occidentale, che la mia. Quando, in Europa, gli uomini del Rinascimento hanno scoperto lantichit grecoromana, e quando i gesuiti hanno fatto del latino la base della formazione scolastica e universitaria, non si trattava, gi allora, di un atteggiamento antropologico? Si riconosceva che una civilt non pu pensare se stessa se non dispone di unaltra o di molte altre civilt suscettibili di fungere da termini di paragone. La conoscenza e la comprensione della propria cultura sono possibili a condizione che la si osservi dal punto di vista di unaltra: un po come lattore di N del quale parla il vostro grande Zeami, che, per valutare il suo gioco, deve imparare a vedere se stesso come se fosse lo spettatore. Invero, quando ho cercato il titolo da dare a un libro pubblicato nel 1983, per far cogliere al lettore la duplice natura della riflessione antropologica che consiste, da un lato, nel guardare molto lontano, verso culture molto diverse da quella dellosservatore, ma anche, per losservatore, nel guardare la sua propria cultura da lontano, come se egli appartenesse a una cultura differente, il titolo che finalmente ho scelto, Lo sguardo da lontano, mi stato ispirato dalla lettura di Zeami. Aiutato dai miei colleghi studiosi del Giappone, ho soltanto trasposto in francese la formula riken no ken, che Zeami adopera per designare lo sguardo dellattore che guarda se stesso come se fosse il pubblico.
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Analogamente, i pensatori del Rinascimento ci hanno insegnato a mettere la nostra cultura in prospettiva, a confrontare i nostri costumi e le nostre credenze con quelli di altri tempi e di altri luoghi. In una parola, essi hanno elaborato gli strumenti di quella che si potrebbe indicare come una tecnica dello spaesamento. Non fu cos anche in Giappone, quando la cosiddetta scuola nativistica di Motoori Norinaga cominci a delineare i tratti da lui indicati come specifici della cultura e della civilt giapponesi? Egli intraprese questopera impegnandosi in un dialogo appassionato con la Cina. Motoori mette a confronto le due culture, ed col delineare determinati caratteri, tipici, a suo modo di vedere, della cultura cinese pomposa verbosit, come egli dice, gusto del taoismo per le affermazioni nette e arbitrarie che egli giunge a definire, per contrasto, lessenza della cultura giapponese: sobriet, concisione, discrezione, economia dei mezzi, sentimento della fugacit e della straziante natura delle cose*, relativit di ogni sapere Questo modo di vedere la Cina come pretesto per affermare la specificit della cultura giapponese fu divulgato, in maniera molto suggestiva, nelle stampe a soggetto cinese illustrazioni del romanzo Suikoden e dei racconti di guerra tratti dal Kanjo prodotte da Kuniyoshi e Kunisada attorno al 1830, che rivelano un gusto spiccato per lenfasi, per lo stile colorito, per il barocco esasperato, per la ricchezza e la ricercatezza dei dettagli dellabbigliamento, molto lontani dalle tradizioni dellukiyo-e. Queste stampe riflettono certamente uninterpretazione tendenziosa della Cina antica, che vorrebbe essere etnografica.
* Nel testo originale Lvi-Strauss rende con poignance lintraducibile espressione giapponese mo no aware, lo straziante delle cose (una acuta e appassionata lettrice dellantropologo, Catherine Clment, nel suo Lvi-Strauss, Meltemi, Roma 2004, p. 49, coglie tutto il patetico contenuto in questa espressione) (N.d.T.).

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Allepoca di Motoori, il Giappone aveva una conoscenza diretta o indiretta solamente della Cina e della Corea. Anche in Europa la differenza tra cultura classica e cultura antropologica riguarda le dimensioni del mondo conosciuto in queste epoche. Allinizio del Rinascimento luniverso umano circoscritto ai limiti del bacino del Mediterraneo. Del resto del mondo si sospetta soltanto lesistenza. Ma si gi capito che nessuna parte dellumanit pu aspirare a comprendersi se non in riferimento ad altre. Nel xviii e nel xix secolo lumanesimo si diffonde parallelamente ai progressi delle esplorazioni. La Cina, lIndia, il Giappone si inscrivono progressivamente nella carta geografica. Col portare il suo interesse alle ultime civilt ancora poco conosciute o trascurate, lantropologia fa raggiungere allumanesimo la sua terza tappa, che probabilmente sar anche lultima in quanto, dopo, luomo non avr pi nulla da scoprire su se stesso, almeno in estensione ( in atto, infatti, unaltra ricerca, in profondit, dalla meta della quale siamo ben lungi). Il problema presenta un altro aspetto. I primi due umanesimi, quello limitato al mondo mediterraneo e poi quello che ingloba lOriente e lEstremo Oriente, contemplavano la loro estensione come limitata non solo geograficamente, ma anche concettualmente. Si poteva entrare in contatto con le civilt antiche, ormai scomparse, solo attraverso i testi e i monumenti. Quanto allOriente e allEstremo Oriente, dove non si incontrava la stessa difficolt, lapproccio restava il medesimo, perch si riteneva che civilt cos lontane e cos diverse fossero degne di interesse solo per le loro produzioni pi ricercate e raffinate. Il campo dellantropologia comprende civilt di genere diverso, che pongono un altro tipo di problemi per il fatto che, prive come sono di scrittura, non offrono documenti scritti. Inoltre, poich il loro livello tecnico generalmente molto basso, la maggior parte di queste civilt non ci
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hanno lasciato monumenti figurati. Donde la necessit di dotare lumanesimo di nuovi strumenti di indagine. I mezzi di cui lantropologia dispone sono a un tempo pi esterni e pi interni (si potrebbe dire pi grossolani e pi raffinati) di quelli delle discipline che lhanno preceduta: filologia e storia. Per penetrare lo spazio di societ di difficile accesso, lantropologo deve posizionarsi molto al di fuori (come nel caso dellantropologia fisica, della preistoria, della tecnologia) e anche molto al di dentro, attraverso lidentificazione delletnologo con il gruppo di cui condivide lesistenza, e per limportanza che egli in mancanza di altre fonti dinformazione deve accordare alle minime sfumature della vita psichica degli indigeni. Trovandosi sempre al di qua e al di l dellumanesimo tradizionale, lantropologia ne deborda in tutti i sensi. Il suo terreno dindagine abbraccia la totalit delle terre abitate, mentre il suo metodo si avvale di procedimenti che appartengono a tutte le forme del sapere: scienze umane e scienze naturali. In successione temporale, i tre umanesimi si integrano, facendo dunque avanzare la conoscenza delluomo in tre direzioni: in superficie, certo, per laspetto anzi pi superficiale in senso proprio come in senso figurato, quanto a ricchezza di strumenti di indagine, poich ci si rende sempre pi conto del fatto che, se lantropologia stata costretta a elaborare nuovi modelli conoscitivi in funzione dei caratteri peculiari delle societ residuali che le erano toccate in sorte, questi modelli conoscitivi possono essere applicati proficuamente allo studio di tutte le societ, compresa la nostra. Ma non tutto qui: lumanesimo classico era circoscritto non solo quanto al suo oggetto, ma anche quanto ai beneficiari, che formavano la classe privilegiata. Lumanesimo esotico del xix secolo si legato agli interessi industriali e commerciali che gli servivano da supporto, e ai quali dove85

va la sua esistenza. Dopo lumanesimo aristocratico del Rinascimento e dopo lumanesimo borghese del xix secolo, lantropologia segna dunque lavvento, per il mondo finito quale diventato il nostro pianeta, di un umanesimo doppiamente universale. Alla ricerca di ispirazione in seno alle societ pi modeste e a lungo emarginate, lantropologia proclama che nulla di umano potrebbe essere estraneo alluomo, e fonda pertanto un umanesimo democratico che supera i precedenti, creati per privilegiati, a partire da civilt privilegiate. Attingendo inoltre da tutte le scienze metodi e tecniche da mettere al servizio della conoscenza delluomo, lantropologia fa appello alla riconciliazione delluomo e della natura in un umanesimo generalizzato. Se ho ben capito il tema che mi avete chiesto di sviluppare in queste lezioni, per noi si tratter di sapere se questa terza forma di umanesimo, rappresentata dallantropologia, si mostrer pi capace, rispetto alle forme precedenti, di dare soluzione ai grandi problemi che si pongono allumanit di oggi. Per tre secoli il pensiero umanistico ha alimentato e ispirato la riflessione e lazione delluomo occidentale. Oggi constatiamo che questo pensiero stato incapace di impedire i massacri su scala planetaria che furono le guerre mondiali, la miseria e la denutrizione che imperversano in maniera cronica su gran parte delle terre abitate, linquinamento dellaria e dellacqua, il saccheggio delle risorse e delle bellezze naturali Lumanesimo antropologico riuscir, meglio degli altri, a dare risposta agli interrogativi che ci tormentano? Nelle lezioni seguenti tenter di definire e di esaminare alcune grandi questioni alle quali lantropologia pu, secondo me, aiutarci a rispondere. Oggi, per concludere, vorrei indicare un contributo dellantropologia che, per il fatto di essere modesto, offre almeno il vantaggio di essere certo. Infatti, uno dei benefici dellantropologia in defi86

nitiva, forse, il suo beneficio essenziale consiste nellispirare a noi, membri di civilt ricche e potenti, una certa umilt, nonch nellinsegnarci una certa saggezza. Gli antropologi testimoniano che il nostro modo di vivere, i valori in cui crediamo, non sono i soli possibili; che altri modi di vivere, altri sistemi di valori hanno permesso, e continuano a permettere, a comunit umane di trovare la felicit. Lantropologia ci invita allora a moderare la nostra vanagloria, a rispettare altri modi di vivere, a farci rimettere in discussione dalla conoscenza di altre usanze che ci suscitano stupore, sconcerto o ripugnanza un po come capitava a Jean-Jacques Rousseau, il quale preferiva credere che i gorilla, da poco descritti dai viaggiatori della sua epoca, fossero uomini, piuttosto che correre il rischio di negare la qualifica di uomini a esseri che, forse, rivelavano un aspetto ancora sconosciuto della natura umana. Le societ studiate dagli antropologi distribuiscono lezioni tanto pi degne di ascolto quanto pi, attraverso ogni sorta di regole in cui, come dicevo pocanzi, sarebbe errato scorgere soltanto superstizioni, esse hanno saputo realizzare, tra luomo e lambiente naturale, un equilibrio che noi non riusciamo pi a garantire. Mi soffermer brevemente su questo punto. Nella Francia del xix secolo, il filosofo Auguste Comte ha formulato una legge dellevoluzione umana che chiamata dei tre stadi: secondo questa legge, lumanit sarebbe passata attraverso due fasi successive: una religiosa, poi una metafisica, e starebbe sul punto di accedere a una terza, positiva e scientifica. Lantropologia non ci rivela unevoluzione dello stesso tipo, nella misura in cui il contenuto e il significato di ogni stadio differiscono da quelli che Comte immaginava. risaputo, oggi, che popoli cosiddetti primitivi, che non conoscono lagricoltura e lallevamento, o praticano solo unagricoltura rudimentale, ignorando in certi casi
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larte di fabbricare vasellame e tessuti, e che vivono soprattutto di caccia e di pesca, e di raccolta di frutti selvatici, non sono oppressi dalla paura di morire di fame e dallangoscia di non poter sopravvivere in un ambiente ostile. La loro scarsa consistenza demografica, la loro prodigiosa conoscenza delle risorse naturali consentono loro di vivere quella che forse noi esiteremmo a chiamare abbondanza. Tuttavia come studi dettagliati hanno dimostrato, con riferimento ad Australia, Sudamerica, Melanesia e Africa , da due a quattro ore di lavoro al giorno sono pi che sufficienti perch i loro membri attivi assicurino la sussistenza di tutte le famiglie, ivi compresi i bambini, che non partecipano ancora alla produzione alimentare, e i vecchi, che non vi partecipano pi. Nulla a che vedere col tempo che i nostri contemporanei passano in fabbrica o in ufficio! Sarebbe dunque errato ritenere questi popoli schiavi degli imperativi dellambiente. Tuttal contrario, essi godono, di fronte allambiente, di una indipendenza maggiore di quella degli agricoltori e degli allevatori, perch dispongono di maggior tempo libero, che d loro modo di fare largo spazio allimmaginazione, di interporre tra loro e il mondo esterno, come cuscinetti ammortizzatori, credenze, fantasticherie, riti, in breve tutte le forme di attivit che chiameremo religiose e artistiche. Supponiamo che lumanit abbia vissuto in condizioni del genere per centinaia di millenni. Osserveremmo allora che con lagricoltura, con lallevamento, e poi con lindustrializzazione, lumanit si sempre pi innestata, se cos si pu dire, sul reale. Nel xix secolo e fino a oggi, per, tale innesto ha avuto luogo in maniera indiretta, attraverso concezioni filosofiche e ideologiche. Tuttaltro mondo quello in cui penetriamo attualmente: un mondo in cui lumanit si trova bruscamente di fronte a determinismi pi vincolanti, che risultano dalla sua enorme consistenza demografica, dalla sempre pi limitata
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quantit di spazio libero, di aria pura, di acqua non contaminata, di cui lumanit dispone per soddisfare i suoi bisogni biologici e psichici. In questo senso, si pu ipotizzare che le esplosioni ideologiche susseguitesi da quasi un secolo, e tuttora in atto quella del comunismo e del marxismo, quella del totalitarismo, che non hanno perduto la loro forza nel terzo mondo, quella, pi recente, dellintegralismo islamico , costituiscano altrettante reazioni di rivolta a fronte di condizioni di esistenza prodottesi in brutale rottura con quelle del passato. Si produce un divorzio, si scava un fossato fra i dati della sensibilit, che ormai hanno per noi il significato generale di dati, circoscritti e rudimentali, riguardanti lo stato del nostro organismo, e un pensiero astratto in cui si concentrano tutti i nostri sforzi di conoscere e di comprendere luniverso. Nulla pi di questo ci allontana dai popoli studiati dagli antropologi, per i quali ogni colore, ogni intreccio, ogni odore, ogni sapore hanno un senso. Questo divorzio irrevocabile? Forse il nostro mondo si avvia verso un cataclisma demografico o verso una guerra atomica che sterminer i tre quarti dellumanit. In questo caso, i sopravvissuti si ritroveranno in condizioni di esistenza non tanto diverse da quelle delle societ in via di estinzione, di cui ho parlato. Anche se, per, si scartano ipotesi cos terrificanti, ci si pu chiedere se societ che si sviluppano impetuosamente ognuna per conto proprio, e che tendono a rassomigliarsi sempre di pi, non ricreeranno fatalmente al loro interno differenze situate su coordinate diverse da quelle su cui si sviluppano delle somiglianze. Forse esiste un optimum di diversit che, sempre e dovunque, si impone allumanit per consentirle di restare vitale. Questo optimum sarebbe suscettibile di variare in funzione della quantit delle societ, del loro peso numerico, della loro distanza geografica e dei mezzi di comunicazione di cui es89

se dispongono. Questo problema della diversit, infatti, si pone non soltanto a proposito delle culture considerate nei loro rapporti reciproci, ma anche in seno a qualunque societ racchiuda al suo interno gruppi e sottogruppi non omogenei: caste, classi, ambienti professionali o confessionali Questi gruppi sviluppano fra di loro differenze alle quali ciascuno annette grande importanza, e questa diversificazione probabilmente si accresce quando la societ acquista dimensioni pi ampie e diventa pi omogenea sotto altri aspetti. probabile che gli uomini abbiano elaborato culture differenti in ragione della distanza geografica, delle caratteristiche particolari dellambiente in cui si trovano, dellignoranza, in cui essi erano, di altri tipi di societ. Ma, accanto alle differenze dovute allisolamento, vi sono quelle, altrettanto importanti, dovute alla prossimit: desiderio di opporsi, di distinguersi, di essere se stessi. Molti costumi sono nati non da necessit interne o da casi propizi, ma dalla semplice volont di non essere da meno di fronte a un gruppo vicino, che sottoponeva a norme precise un campo di pensiero o di azione che non si era pensato di regolamentare. Ci che fondamentalmente identifica il metodo dellantropologo dato dallattenzione e dal rispetto da lui prestati alle differenze tra le culture cos come a quelle interne a ciascuna. Lantropologo non cerca dunque di stendere un elenco di ricette da cui ogni societ andrebbe ad attingere secondo il suo capriccio, ogni volta che avvertisse al suo interno una imperfezione o una lacuna. Le formule proprie a ciascuna societ non sono trasferibili a qualunque altra. Lantropologo si limita a invitare ogni societ a non credere che le sue istituzioni, i suoi costumi e le sue credenze siano i soli possibili; egli dissuade dallimmaginare che tali istituzioni, costumi e credenze siano iscritti nella natura delle cose per il solo fatto di ritenerli validi, e che possa
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impunemente esportarli in altre societ il cui sistema di valori sia incompatibile con il proprio. Dicevo pocanzi che la massima ambizione dellantropologia di ispirare agli individui e ai governi una certa saggezza. Non posso darvi, al riguardo, un esempio migliore della testimonianza di un antropologo americano che fu Public Affairs Officer del generale Mac Arthur durante loccupazione del Giappone. Ho letto una sua intervista, dove questo antropologo racconta come la pubblicazione, nel 1946, del famoso libro di Ruth Benedict, Il crisantemo e la spada, avesse dissuaso loccupante americano dallimporre al Giappone labolizione del regime imperiale, contrariamente alla sua intenzione originaria. Ruth Benedict, che ho conosciuto bene, non era mai andata in Giappone prima di scrivere il suo libro; e, per quanto ne sappia, aveva lavorato in campi molto diversi. Ma era antropologa, e si pu quindi attribuire allo spirito antropologico, alla sua ispirazione e ai suoi metodi, anche nellapproccio a grande distanza a una cultura, e senza esperienza preliminare, il merito di aver saputo penetrare la sua struttura e di aver saputo evitarne un crollo le cui conseguenze sarebbero state forse ancora pi tragiche di quelle delle sconfitta militare. La prima lezione dellantropologia ci insegna che ogni costume, ogni credenza, ancorch sconcertanti o irrazionali possano sembrarci quando li paragoniamo ai nostri, partecipano di un sistema il cui equilibrio interno si stabilito nel corso dei secoli, e che non si pu sopprimere un elemento di questo insieme senza rischiare di distruggere tutto il resto. Se pure non fosse portatrice di altri insegnamenti, questultimo basterebbe da solo a giustificare il posto sempre pi importante che lantropologia occupa tra le scienze delluomo e della societ.

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Seconda lezione

nella mia prima lezione avevo detto che avrei tentato di definire e di esaminare alcuni problemi che si pongono alluomo moderno, e alla soluzione dei quali lo studio delle societ senza scrittura pu in parte contribuire. A tale scopo dovr considerare queste societ sotto tre prospettive: la loro organizzazione familiare e sociale, la loro vita economica, infine il loro pensiero religioso. Quando si prendono in considerazione da un punto di vista molto generale i caratteri comuni alle societ studiate dagli antropologi, una constatazione si impone: come ho brevemente accennato ieri, queste societ fanno appello alla parentela in una maniera molto pi sistematica di quanto non accada oggi tra di noi. In primo luogo, esse adoperano le relazioni di parentela e di alliance* per definire lappartenenza o la non-appartenenza al gruppo. Molte di queste societ rifiutano ai popoli stranieri la qualit di esseri umani. E, se termina alle frontiere del gruppo, lumanit acquista al suo interno una qualit supplementare: i membri del gruppo non soltanto
* Alliance un termine che, nel lessico dellautore, corrisponde di volta in volta a matrimonio, imparentamento, pi di rado ad alleanza. Ove non suggerito altrimenti dal contesto, si preferito non tradurre questo vocabolo, in modo da preservarne la dilatazione semantica [N.d.T.].

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sono gli unici esseri umani, veri, per eccellenza. Essi non sono soltanto concittadini, ma parenti di fatto o di diritto. In secondo luogo, queste societ considerano la parentela, e le nozioni a essa collegate, come anteriori ed esteriori alle relazioni biologiche (come la filiazione di sangue) alle quali noi, invece, tendiamo a ridurle. I legami biologici forniscono il modello secondo il quale concepire le relazioni di parentela, ma queste ultime offrono al pensiero un quadro di classificazione logica. Una volta elaborato, questo quadro consente di distribuire gli individui in categorie prestabilite, che assegnano a ciascuno il suo posto in seno alla famiglia e alla societ. Infine, queste relazioni e queste nozioni compenetrano interamente il campo della vita e delle attivit sociali. Reali, postulate o infinite, esse implicano diritti e doveri ben definiti, differenziati per ogni tipo di parenti. Pi in generale, si pu dire che, in queste societ, la parentela e lalliance costituiscono un linguaggio comune, capace di esprimere tutti i rapporti sociali economici, politici, religiosi etc. , e non soltanto quelli familiari. Lesigenza primaria che si impone alle societ umane di riprodursi, ossia di conservarsi nella durata. Ogni societ deve dunque possedere questi elementi: una regola di filiazione che consenta di definire lappartenenza di ogni nuovo membro al gruppo; un sistema di parentela che determini il modo in cui si classificheranno i parenti, consanguinei o acquisiti; infine, regole che definiscano le modalit dellimparentamento matrimoniale col prevedere chi pu o chi non pu sposarsi. Ogni societ deve anche disporre di strumenti con cui rimediare alla sterilit. Ora, questo problema dei rimedi alla sterilit molto sentito nelle societ occidentali, dacch queste hanno scoperto mezzi per assistere la procreazione, o per ottenerla artificialmente. Non so che cosa accade in Giappone. Ma si tratta di una questione che impegna lopinione pubblica in
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Europa, negli Stati Uniti, in Australia, dove si sono costituite commissioni ufficiali per discuterne. A questi dibattiti le assemblee parlamentari, la stampa e la pubblica opinione fanno larga eco. Di che cosa esattamente si tratta? Ormai possibile o, per certi procedimenti, lo diventer presto procurare figli a una coppia, di cui uno dei membri, o ambedue, siano sterili, con diversi metodi: inseminazione artificiale, dono dellovulo, prestito o affitto dutero, congelamento di embrione, fecondazione in vitro con spermatozoi provenienti dal marito o da un altro uomo, o con un ovulo proveniente dalla moglie o da unaltra donna. I figli nati da tali manipolazioni potranno dunque, a seconda dei casi, avere un padre e una madre normali, una madre e due padri, due madri e un padre, due madri e due padri, tre madri e un padre e persino tre madri e due padri nel caso in cui il genitore non sia anche il padre, e nel caso in cui intervengano tre donne quella che dona un ovulo, quella che presta il suo utero, e quella che sar la madre legittima del bambino. Non tutto qui, perch ci si trova di fronte a situazioni in cui una donna chiede di essere inseminata con lo sperma congelato del marito defunto, oppure due donne omosessuali reclamano la possibilit di avere insieme un figlio proveniente dallovulo delluna, fecondato artificialmente da un donatore anonimo, e subito impiantato nellutero dellaltra. Non si capisce nemmeno perch lo sperma congelato di un bisnonno non potrebbe essere impiegato, un secolo dopo, per fecondare una pronipote; il figlio sarebbe allora fratello del bisnonno di sua madre e fratello del proprio nonno. I problemi cos posti sono di due ordini: uno di natura giuridica, laltro di natura psicologica e morale. Quanto al primo ordine di problemi, i diritti dei Paesi europei si contraddicono. Per il diritto inglese, la paternit
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sociale non esiste, neppure come finzione giuridica, e il donatore di sperma sarebbe quindi legittimato a rivendicare il figlio, oppure sarebbe tenuto a provvedere ai suoi bisogni. In Francia, al contrario, il Codice Napoleone, fedele al vecchio adagio Pater is est quem nuptiae demonstrant, stabilisce che il marito della madre il padre legittimo del bambino. Ma il diritto francese si contraddice, perch una legge del 1972 autorizza le azioni di ricerca della paternit. Non si sa dunque neanche quale dei rapporti, il sociale o il biologico, prevalga sullaltro. Di fatto, nelle societ contemporanee lidea che la filiazione derivi da un legame biologico tende a prevalere sullidea che vede nella filiazione un legame sociale. Ma, allora, come risolvere i problemi sollevati dalla procreazione assistita, in cui, per la precisione, il padre legittimo non sia nemmeno il genitore del bambino, e in cui la madre, intesa nel senso sociale e morale del termine, non abbia fornito lovulo, n probabilmente lutero nel quale si svolge la gestazione? Daltra parte, quali saranno i diritti e i doveri rispettivi dei genitori sociali e biologici, ormai dissociati? Quale decisione dovr prendere un tribunale se la prestatrice dutero abbandona un figlio malformato e se la coppia, che si rivolta ai suoi servigi, lo rifiuta? O, al contrario, se una donna fecondata cambia idea e pretende di tenere il figlio per s? In ultima analisi, una qualunque di queste pratiche, dal momento che possibile, pu essere liberamente attuata, o la legge deve autorizzarne alcune e vietarne altre? In Inghilterra, la cosiddetta commissione Warnock (che prende il nome dal suo presidente) ha raccomandato di proibire il prestito dellutero fondandosi su di una distinzione fra la maternit genetica, la maternit fisiologica e la maternit sociale, e considerando che, delle tre, la maternit fisiologica a creare il legame pi stretto fra la madre e il figlio. Pur accettando la procreazione assistita per consentire a una coppia sposata di risolvere un problema di sterilit, la mag96

gioranza dellopinione pubblica francese si mostra incerta nel caso di una unione libera, come nel caso di una donna che desideri essere fecondata con lo sperma congelato del marito defunto. Lopinione diventa decisamente negativa se si tratta di una coppia che desideri avere un figlio dopo la menopausa della donna, o se si tratta, ancora, di una donna sola oppure di una coppia omosessuale che desideri avere un figlio. Da un punto di osservazione psicologico e morale, la questione fondamentale sembra essere rappresentata dalla trasparenza. Il dono dello sperma o dellovulo, cos come il prestito dellutero, devono essere anonimi, o i genitori sociali, ed eventualmente il figlio stesso, possono conoscere lidentit dei donatori? La Svezia ha rinunciato allanonimato, la tendenza inglese sembra andare nella stessa direzione, mentre in Francia lopinione e la legge vanno nel senso opposto. Ma anche i Paesi che ammettono la trasparenza sembrano concordare con gli altri nel dissociare la procreazione dalla sessualit, si potrebbe dire addirittura: dalla sensualit. Infatti, se ci si vuol limitare al caso pi semplice, ovvero al dono di sperma, lopinione pubblica lo ritiene ammissibile solo se esso ha luogo in laboratorio e con lintervento di un medico: si tratta di un metodo artificiale che esclude fra il donatore e la ricevente ogni contatto personale, ogni condivisione emotiva ed erotica. Ora, per quanto riguarda il dono sia di sperma sia di ovulo, la preoccupazione che tutto si svolga nellanonimato sembra contraria a dati universali che, anche nelle nostre societ, ma senza che lo si dica, fanno s che questo tipo di servizio venga reso in famiglia pi spesso di quanto non si creda. A titolo di esempio, citer un romanzo incompiuto di Balzac cominciato nel 1843, in unepoca in cui i pregiudizi sociali erano molto pi forti che nella Francia odierna. Questo romanzo, dal titolo significativo I piccoli borghesi, che un autentico documento depoca, narra in che modo due cop97

pie di amici, una feconda, laltra sterile, si misero daccordo: la donna feconda si incaric di fare un figlio con il marito della donna sterile. La bambina nata da questa unione fu circondata di pari tenerezza dalle due coppie, che alloggiavano nello stesso palazzo, e tutti intorno a loro conoscevano la situazione. Le nuove tecniche di procreazione assistita, rese possibili dal progresso della biologia, hanno disorientato il pensiero contemporaneo. In un campo essenziale alla conservazione dellordine sociale, le nostre idee giuridiche, le nostre credenze morali e filosofiche si rivelano incapaci di trovare risposte a situazioni nuove. Come definire il rapporto fra la parentela biologica e la filiazione sociale, diventate ormai due cose diverse? Quali saranno le conseguenze morali e sociali della dissociazione tra la sessualit e la procreazione? Occorre riconoscere, oppure no, il diritto dellindividuo a procreare, per cos dire, da solo? Un figlio ha il diritto di procurarsi le informazioni essenziali che riguardano lorigine etnica e la salute genetica di chi lo ha procreato? Fino a che punto, ed entro quali limiti, possono essere trasgredite le regole biologiche che i credenti della maggior parte delle religioni continuano a ritenere di istituzione divina? Su tutti questi problemi gli antropologi hanno molto da dire, perch le societ da loro studiate hanno affrontato questi problemi, e hanno proposto delle soluzioni. Tali societ certamente ignorano le tecniche moderne di fecondazione in vitro, di prelievo di ovuli o di embrioni, di transfert, di impianto e di congelamento, ma hanno immaginato e messo in atto formule equivalenti, almeno sui piani giuridico e psicologico. Se ne dar qualche esempio. Linseminazione con donatore ha il suo equivalente in Africa, tra i Samo del Burkina Faso studiati dalla mia collega Franoise Hritier-Aug, che ha preso il mio posto al Collge de France. In questa
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societ, ogni ragazzina si sposa molto presto ma, prima di andare a vivere con lo sposo, deve scegliersi, al massimo per tre anni, un amante riconosciuto ufficialmente come tale. La moglie d al marito, come primo figlio, quello avuto dallamante, ma che sar considerato come primogenito dellunione legittima. Da parte sua, un uomo pu avere pi spose legittime ma, se queste lo lasciano, egli rester di diritto il padre di tutti i bambini avuti da queste donne. Presso altre popolazioni africane, il marito vanta un diritto anche su tutti i figli che nasceranno, un diritto riconosciutogli, per, ad ogni nascita seguita dal primo rapporto sessuale post partum. Questo rapporto designa luomo che sar di diritto il padre del bambino successivo. Un uomo la cui moglie sia sterile pu quindi, dietro pagamento, intendersi con una donna feconda allo scopo di essere designato padre di diritto. In tal caso, il marito legittimo donatore di seme, e la moglie affitta il suo grembo a un altro uomo o ad una coppia senza figli. Non si pone dunque il dilemma, scottante in Francia, fra la gratuit e lonerosit del prestito dellutero. Tra gli indiani Tupi-Kawahib del Brasile, che ho visitato nel 1938, un uomo pu sposare, simultaneamente o in successione, pi di una sorella, oppure una madre, e la di lei figlia, avuta da una precedente unione. Mi parso che queste mogli crescano in comune i loro figli senza darsi molto pensiero se il figlio del quale luna o laltra donna si occupa il suo oppure quello di unaltra sposa del marito. Simmetricamente, in Tibet si d il caso che molti fratelli abbiano in comune una sola sposa. Tutti i figli sono attribuiti al primogenito, che viene chiamato padre, mentre gli altri mariti sono chiamati zio. In situazioni del genere la paternit o la maternit individuali sono ignorate, o quanto meno trascurate. Ritorniamo allAfrica, dove i Nuer del Sudan assimilano la donna sterile a un uomo. In quanto zio paterno,
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questa donna riceve il bestiame che rappresenta il prezzo della fidanzata (bride price in inglese), pagato per il matrimonio dei suoi nipoti, e se ne serve per comprare una sposa che le dar dei figli grazie alle prestazioni retribuite di un uomo, sovente straniero. Tra gli Yoruba della Nigeria donne ricche possono anchesse acquistare spose da spingere ad avere rapporti con un uomo. Alla nascita di figli, la donna, sposa di diritto, li rivendica, e coloro che li hanno effettivamente procreati, se vogliono tenerseli, devono corrisponderle un lauto prezzo. In tutti questi casi, coppie formate da due donne, che noi definiremmo, alla lettera, omosessuali, praticano la procreazione assistita per avere figli dei quali una donna sar il padre legittimo, laltra la madre biologica. Le societ senza scrittura conoscono anche equivalenti dellinseminazione post mortem, che i tribunali francesi proibiscono, mentre in Inghilterra la commissione Warnock chiede che una legge escluda dalla successione e dalleredit paterna il figlio che non si trovi concepito nellutero della madre al momento del decesso del marito. Tuttavia, unistituzione attestata da millenni (perch esisteva gi tra gli antichi ebrei), come il levirato, consentiva, e talora imponeva, che il fratello cadetto generasse in nome del fratello morto. Tra i Nuer sudanesi, ai quali ho accennato, se un uomo moriva celibe o senza discendenza, un parente prossimo poteva prelevare dal bestiame del defunto il necessario con cui acquistare una sposa. Questo matrimonio fantasma, come lo chiamano i Nuer, lautorizzava a generare in nome del defunto, poich questultimo aveva fornito il compenso matrimoniale capace di creare la filiazione. Per quanto tutti gli esempi descritti indichino che lo statuto familiare e sociale del figlio si determina in funzione del padre legittimo (anche quando questi sia una donna), ci non toglie che questo figlio conosca lidentit di chi lo ha generato, nonch i legami affettivi che uniscono lu100

no allaltro. Contrariamente a quel che possiamo temere, la trasparenza non suscita, nel figlio, un conflitto derivante dal fatto che padre biologico e padre sociale sono individui differenti. Queste societ non provano neppure un timore simile a quello, tra noi diffuso, dellinseminazione con lo sperma congelato del marito defunto o, al limite, di un lontano progenitore: in molte societ si ritiene che i figli siano la reincarnazione di un antenato che decide di rivivere in un neonato. Il matrimonio fantasma dei Nuer ammette un ritocco supplementare nel caso in cui il fratello, sostituto del defunto, non abbia generato per conto suo. Il figlio generato in nome del defunto (e che il padre biologico considera quindi come suo nipote) potr rendere al padre biologico lo stesso favore. Poich questo genitore pertanto il fratello del padre legittimo, i figli da lui messi al mondo saranno suoi cugini legittimi. Tutte queste formule offrono altrettante immagini metaforiche anticipate delle tecniche moderne. Si pu constatare, allora, che il conflitto, cos inquietante, fra la procreazione biologica e la paternit sociale non esiste nelle societ studiate dagli antropologi. Queste ultime attribuiscono, senza esitazione, il primato al sociale, in modo tale che i due aspetti non entrino in contrasto nellideologia del gruppo o nellanimo degli individui. Mi sono dilungato su questi problemi perch mostrano molto bene, come sembra, quale tipo di contributo la societ contemporanea pu aspettarsi dalle ricerche antropologiche. Lantropologo non propone ai suoi contemporanei di adottare le idee e i costumi di questa o di quella popolazione esotica. Il nostro contributo molto pi modesto, e si volge in due direzioni. In primo luogo, lantropologia rivela che quanto consideriamo come naturale, fondato sullordine delle cose, si riduce a vincoli e abitudini mentali propri della nostra cultura. Essa ci aiuta quindi a liberar101

ci dei nostri paraocchi, a capire come e perch altre societ possono ritenere semplici e scontati usi che a noi sembrano inconcepibili o persino scandalosi. In secondo luogo, i fatti di cui ci occupiamo abbracciano unesperienza umana molto vasta, poich provengono da migliaia di societ che si sono succedute nel corso dei secoli, a volte di millenni, e che si distribuiscono su tutta lestensione delle terre abitate. Il nostro contributo consiste, cos, nel mostrare quelli che possono essere considerati come universali della natura umana, e nel poter suggerire in quali contesti si svilupperanno processi ancora incerti, che sarebbe errato denunciare affrettatamente come deviazioni o perversioni. Il grande dibattito attualmente in corso a proposito della procreazione assistita dominato dallesigenza di sapere se, su che cosa, e in quale senso conviene legiferare. Alle commissioni e ad altri organismi istituiti dai poteri pubblici di molti Paesi partecipano rappresentanti dellopinione pubblica, giuristi, medici, sociologi, in qualche caso antropologi. da sottolineare che questi ultimi operano dovunque nella medesima direzione: contro unansia eccessiva di legiferare, di permettere questo e di proibire quello. A giuristi e a moralisti troppo impazienti gli antropologi offrono suggerimenti di prudenza e di tolleranza, facendo notare che anche le pratiche e le aspirazioni che sconcertano maggiormente procreazione assistita a beneficio di vergini, nubili, vedove, o di coppie omosessuali presentano un loro equivalente in altre societ, che non se la passano peggio delle nostre. Gli antropologi propongono pertanto che si lasci fare, e che ci si attenda dalla logica interna di ogni societ la creazione delle strutture familiari e sociali che si riveleranno durature, oppure leliminazione di quelle che daranno luogo a contraddizioni la cui espressione soltanto pu dimostrarne linsuperabilit. Passo ora al secondo capitolo: la vita economica. Anche in questo settore linteresse delle ricerche antropologiche
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di rivelarci modelli molto diversi dai nostri, dunque di esortarci a riflettervi, eventualmente persino a rimetterli in discussione. In questi ultimi anni, alle frontiere dellantropologia e della scienza economica si sviluppato un intenso dibattito: le grandi leggi della scienza economica sono applicabili a tutte le societ, o soltanto a quelle, come le nostre, che funzionano in uneconomia di mercato? Nelle societ antiche, nelle societ contadine recenti o contemporanee, e anche in quelle studiate dagli antropologi, impossibile, il pi delle volte, separare i cosiddetti aspetti economici da tutti gli altri. Non si pu ridurre lattivit economica praticata dai membri di queste societ a un calcolo razionale il cui unico oggetto consisterebbe nel massimizzare i profitti e nel minimizzare le perdite. In queste societ, il lavoro non serve soltanto a realizzare un profitto, ma anche si potrebbe dire: soprattutto ad acquistare prestigio e a contribuire al bene della comunit. Atti che, per noi, avrebbero un carattere puramente economico traducono preoccupazioni al tempo stesso tecniche, culturali, sociali e religiose. In misura minore, non avviene qualcosa di analogo presso di noi? Se lintera attivit delle societ mercantili dipendesse dalle leggi economiche, la scienza economica sarebbe una scienza esatta, tale da consentire di prevedere e di agire di conseguenza, il che da escludere. Si pu vedere in questo la prova che anche in comportamenti che ci sembrano meramente economici intervengono altri fattori, che smentiscono la scienza economica. Ma questi fattori restano velati per noi dietro uno schermo di pretesa razionalit, e lo studio di societ differenti, che vi accordano maggior importanza, ci aiuta a evidenziarli. Che cosa ci rivelano allora queste societ? Innanzitutto, e contrariamente a quel che si potrebbe ritenere, una stupefacente capacit di risolvere problemi di produzione. Persino nei tempi remoti della preistoria gli uomini hanno sa103

puto dedicarsi ad attivit industriali su larga scala. In Francia, Belgio, Olanda, Inghilterra si conoscono siti di molte decine di ettari di estensione, punteggiati da pozzi minerari per lestrazione della selce, e in cui lavoravano a centinaia operai probabilmente organizzati in gruppi. I noduli di selce passavano attraverso laboratori specializzati, di un tipo simile agli anelli di una moderna catena industriale. In alcune officine si sgrossava la materia prima, in altre si tagliavano schegge, in altre ancora si abbozzavano schizzi in modo da darvi una forma definitiva: picconi da minatore, martelli, asce etc. Questi centri minerari e industriali esportavano i loro prodotti nel raggio di diverse centinaia di chilometri, la qual cosa presupponeva una potente organizzazione commerciale. Lantropologia fornisce indicazioni dello stesso genere. Ci si a lungo interrogati come popolazioni numerose, il cui lavoro era richiesto per la fondazione delle citt e dei monumenti maya del Messico e dellAmerica centrale, potessero vivere sul posto traendo mezzi di sussistenza da una piccola agricoltura diradata, come quella praticata al giorno doggi dai contadini maya. Grazie alle fotografie aeree e satellitari, si appreso da poco che nei territori maya e in diverse regioni del Sudamerica (Venezuela, Colombia, Bolivia) esistevano sistemi agricoli molto sofisticati. Uno di questi, in Colombia, risale a unepoca che va dallinizio dellera cristiana al vii secolo. Alla fine di questo periodo, tale sistema si estendeva su di unarea di 200.000 ettari di terre soggette a inondazione, prosciugate da migliaia di canali tra i quali si coltivava la terra su pendii sopraelevati artificialmente. Associata alla pesca nei canali, questa agricoltura intensiva poteva alimentare pi di mille abitanti per chilometro quadrato. Lantropologia, comunque, mostra un paradosso. Infatti, a lato di queste grandi realizzazioni che documentano una mentalit definibile, nel nostro linguaggio, come pro104

duttivista, ce ne sono altre che la smentiscono. Questi stessi popoli, o altri, sanno limitare la produttivit con procedimenti inibitori. In Africa, in Australia, in Polinesia, in America, capi o sacerdoti esperti, oppure corpi di polizia organizzati a questo scopo detengono poteri assoluti per stabilire linizio e la durata della caccia, della pesca e della raccolta dei prodotti selvatici. La credenza, molto diffusa, in padroni soprannaturali di ogni specie animale o vegetale, che puniscono i colpevoli di eccessi, contribuisce a limitare questi ultimi. Analogamente, ogni sorta di prescrizioni rituali e di tab fanno della caccia, della pesca e della raccolta altrettante attivit gravide di conseguenze, che esigono da chi vi si dedica un atteggiamento prudente e riflessivo. A livelli e in campi svariati, le societ umane osservano quindi, in materia economica, comportamenti eterogenei. Non esiste un modello unico di attivit economica, ma pi di uno. I modi di produzione studiati dagli antropologi raccolta, caccia e raccolta, orticoltura, agricoltura, artigianato etc. ne rappresentano tipi altrettanto diversi. difficile ridurli, come al riguardo in passato si riteneva, a fasi successive dello sviluppo di un modello unico capace di sintetizzarle allo stadio pi evoluto, che poi sarebbe quello da noi proposto a modello. Nulla lo indica meglio delle discussioni in corso sullorigine, sul ruolo e sugli effetti dellagricoltura. Sotto molti aspetti, lagricoltura ha rappresentato un progresso, perch fornisce pi cibo su di uno spazio e in un tempo determinati, permette una pi rapida espansione demografica, un popolamento pi denso, una maggiore estensione e ampiezza delle societ. Ma lagricoltura, per altri aspetti, costituisce un regresso, poich, come ho notato nella mia prima lezione, degrada il regime alimentare, limitato ormai a pochi prodotti ricchi di calorie ma relativamente poveri di principi nutritivi. I suoi risultati sono meno sicuri, perch
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basta un cattivo raccolto a diffondere la carestia. Lagricoltura richiede anche maggiore fatica. Potrebbe anche essere sua la responsabilit della propagazione delle malattie infettive, come lo suggerisce, in Africa, la coincidenza notevole, nel tempo come nello spazio, della diffusione dellagricoltura e della malaria. La prima lezione dellantropologia in materia economica consiste pertanto nellindicare che non si d una sola forma di attivit economica ma se ne danno diverse, e che tali forme non possono essere ordinate su di una scala comune, perch rappresentano, piuttosto, altrettante scelte fra possibili soluzioni. Ognuna presenta vantaggi, dei quali per bisogna pagare il prezzo. Non facile mettersi in questa prospettiva perch, nel considerare le cosiddette societ arretrate o sottosviluppate quali sono apparse nei contatti sviluppatisi nel xix secolo, trascuriamo un dato di fatto evidente: queste societ erano soltanto sopravvivenze, vestigia mutilate a seguito di sconvolgimenti che noi stessi abbiamo direttamente o indirettamente provocato. Infatti, fu lavido sfruttamento delle contrade esotiche e delle loro popolazioni, determinatosi tra il xvi e il xix secolo, ad aprire al mondo occidentale la via dello sviluppo. Il rapporto di estraneit fra le cosiddette societ sottosviluppate e la civilt industriale consiste soprattutto nel fatto che questa civilt ritrova in quelle societ il proprio prodotto, ma sotto un aspetto negativo che essa non sa riconoscere. La semplicit, la passivit apparenti di queste societ non sono loro intrinseche. Questi caratteri sono, anzi, il risultato del nostro sviluppo al suo stadio iniziale, prima che venga a imporsi dallesterno a societ preliminarmente saccheggiate affinch lo sviluppo stesso possa prendere avvo sulle loro rovine. Nellaffrontare i problemi dellindustrializzazione dei paesi sottosviluppati, la civilt industriale vi incontra lim106

magine deformata, e come fissata dai secoli, delle distruzioni che ha avuto bisogno di operare per poter esistere. Malattie introdotte dalluomo bianco fra popolazioni assolutamente non immunizzate hanno cancellato intere societ dalla carta geografica. Persino nelle zone pi remote del pianeta, dove si potrebbe immaginare che resistessero societ incontaminate, i germi patogeni, che viaggiano a una velocit sorprendente, hanno portato devastazioni, talora molti decenni prima che il contatto vero e proprio avesse luogo. Altrettanto si pu dire delle materie prime e delle tecniche. In Australia esistono societ per le quali lintroduzione delle asce di ferro, mentre ha facilitato e semplificato il lavoro e lattivit economica, ha comportato la rovina della cultura tradizionale. Per motivi complessi, nel dettaglio dei quali forse ci si dilungherebbe troppo, ladozione di utensili metallici ha comportato il crollo delle istituzioni economiche, sociali e religiose che erano legate al possesso e alla trasmissione delle asce di pietra. Ora, sotto forma di strumenti utilizzati o danneggiati, a volte perfino di indescrivibili rovine, il ferro viaggia pi rapidamente e pi lontano degli uomini a favore delle guerre, dei matrimoni, degli scambi commerciali. Una volta definiti i contesti storici allinterno dei quali si manifestano le discontinuit culturali, si pu tentare, con una certa approssimazione, di cogliere le cause profonde della resistenza che queste societ spesso oppongono allo sviluppo. Tra queste cause figura, in primo luogo, la tendenza della maggior parte delle cosiddette societ primitive a preferire lunit ai conflitti interni; in secondo luogo, il rispetto che esse mostrano verso le forze della natura; infine, il loro rifiuto di impegnarsi in un divenire storico. Si pi volte invocato il carattere di non competitivit di alcune fra queste societ, allo scopo di spiegarne la resistenza allo sviluppo e alla industrializzazione. Non va esclu107

so, ad ogni modo, che la passivit e lindifferenza che vengono loro imputate possano essere una conseguenza del trauma dovuto al contatto, e non una condizione originaria. Inoltre, quanto a noi appare come un difetto e come una mancanza pu corrispondere a una maniera originale di concepire i rapporti degli uomini tra di loro e con il mondo. Lo si capir con un esempio. Quando alcuni popoli dellinterno della Nuova Guinea impararono dai missionari a giocare a calcio, adottarono questo gioco con entusiasmo. Invece, per, di cercare la vittoria di uno dei due campi, essi moltiplicavano le partite finch le vittorie e le sconfitte da una parte e dallaltra non fossero tornate in equilibrio. Il gioco finisce non, come per noi, quando c un vincitore, ma quando ci si assicurati che non ci sar uno sconfitto. Osservazioni condotte presso altre societ sembrano deporre in senso contrario, tale comunque da escludere, analogamente, un vero e proprio spirito di competizione, come nel caso dei giochi tradizionali che si svolgono tra due campi rappresentanti rispettivamente i vivi e i morti, e che devono quindi concludersi necessariamente con la vittoria dei primi. infine degno di nota il fatto che a tutte le cosiddette societ primitive estranea lidea di un voto espresso a maggioranza. Queste societ ritengono che la coesione sociale e larmonia allinterno del gruppo siano preferibili a qualunque innovazione. La soluzione di una controversia pertanto rinviata, ogni volta che sia necessario, al momento in cui si prenda una decisione unanime. Talora le deliberazioni sono precedute da combattimenti simulati. In questo modo si compongono vecchie liti, e si passa al voto solo quando il gruppo, cos rigenerato, ha realizzato al suo interno le condizioni di unindispensabile unanimit. Che le societ in questione resistano allo sviluppo dipende anche dallidea che esse si fanno del rapporto fra na108

tura e cultura. Lo sviluppo presuppone, infatti, che si faccia passare la cultura davanti alla natura, e questa priorit accordata alla cultura non quasi mai ammessa sotto questa forma, se non dalle civilt industriali. Probabilmente tutte le societ riconoscono che tra i due regni esiste una separazione. Nessuna societ, per quanto modesta, rifiuta di attribuire un valore elevato alle arti della civilt cottura degli alimenti, fabbricazione di terracotta, di tessuti attraverso le quali la condizione umana si distacca dalla condizione animale. In ogni modo, tra i cosiddetti popoli primitivi, la nozione di natura presenta sempre un carattere di ambiguit: la natura precultura, ed anche sottocultura; eppure, essa costituisce lambito nel quale luomo spera di incontrare gli antenati, gli spiriti, gli di. La nozione di natura include quindi una componente soprannaturale, e questa sopranatura al di sopra della cultura cos come la natura stessa ne al di sotto. Non ci si deve dunque stupire se le tecniche, i manufatti sono svalutati dal pensiero indigeno ogni volta che si tratta dellessenziale, cio dei rapporti fra luomo e il mondo soprannaturale. Nellantichit classica come in quella dellOriente e dellEstremo Oriente, nel folklore europeo come nelle societ indigene contemporanee, si pu incontrare in molti casi la proibizione dellimpiego di oggetti di fabbricazione locale o di importazione per tutti gli atti della vita cerimoniale, e in momenti diversi del rituale. Sono consentiti soltanto oggetti naturali lasciati allo stato grezzo, o utensili arcaici. Come nel caso della proscrizione del prestito a interesse da parte dei Padri della Chiesa e da parte dellIslam, luso delle cose, si tratti di denaro o di altri strumenti, deve conservare una purezza primitiva. Analogamente va interpretato il rifiuto delle transazioni immobiliari. Se povere comunit indigene del Nordamerica e dellAustralia hanno a lungo rifiutato e tutto109

ra, in certi casi, rifiutano di cedere territori in cambio di indennit a volte considerevoli, perch, per diretta ammissione degli interessati, essi vedono nella terra ancestrale una madre. Portiamo ancora oltre questo ragionamento: gli Indiani Menomini della regione nordamericana dei Grandi Laghi, ancorch perfettamente informati delle tecniche agricole dei loro vicini Irochesi, si rifiutavano di applicarle alla produzione del riso selvatico che costituisce la base della loro alimentazione, ed comunque molto adatto alla coltivazione perch non potevano ferire la loro madre terra. La stessa opposizione fra natura e cultura si ritrova spesso a fondamento della divisione sessuale del lavoro. Per quanto variabili appaiano le sue regole quando si comparano societ differenti, esse comportano elementi costanti che sono interpretati in maniera diversa, e le cui applicazioni soltanto divergono. Molte societ considerano come omologhe lopposizione natura/cultura e lopposizione donna/uomo. Esse riservano dunque alle donne le forme di attivit concepite come dipendenti dallordine della natura, come il giardinaggio, o tali da mettere lartigiano a contatto diretto con la materia, come la vasaia che modella a mano, mentre luomo si assume i medesimi compiti quando si tratta di eseguirli mediante strumenti o macchine la cui fabbricazione implica un certo grado di complessit, peraltro variabile a seconda delle societ. In questa duplice prospettiva, si capisce come non abbia senso parlare di popoli senza storia. Le societ da noi chiamate primitive hanno una storia come tutte le altre ma, a differenza di quanto accade per noi, esse si sottraggono alla storia, e si sforzano di sterilizzare al loro interno tutto ci che potrebbe costituire laccenno di un divenire storico. Le nostre societ sono fatte per cambiare: il principio della loro struttura e del loro funzionamento. Le cosiddette societ primitive ci appaiono tali, soprattutto, perch sono
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concepite dai loro membri come capaci di durare. La loro apertura allesterno molto limitata, dominate come sono da una sorta di campanilismo. In compenso, la loro struttura sociale interna presenta unarticolazione pi fitta di rapporti, uno scenario pi ricco che nelle civilt complesse. Perci, societ di infimo livello tecnico ed economico possono fare esperienza di un sentimento di benessere e di pienezza: ognuna di esse ritiene di poter offrire ai suoi componenti la sola vita che merita di essere vissuta. Una trentina danni fa ho illustrato la differenza tra le cosiddette societ primitive e le nostre servendomi di una immagine che ha suscitato molte critiche, perch, secondo me, non era stata ben compresa. Suggerivo di paragonare le societ a delle macchine, che si dividono, come noto, in due tipi: le macchine meccaniche e le macchine termodinamiche. Le prime sfruttano lenergia che loro fornita in partenza. Se fossero costruite a regola darte, in mancanza di attriti e di surriscaldamenti, in teoria potrebbero funzionare per un tempo indefinito. Al contrario, le macchine termodinamiche, come le macchine a vapore, funzionano in base a uno scarto di temperatura fra la caldaia e il condensatore, producendo molto pi lavoro delle altre, ma consumando nel contempo la loro energia e distruggendola progressivamente. Dicevo quindi che le societ studiate dagli antropologi, se paragonate alle nostre moderne societ, pi imponenti e pi articolate, sono assimilabili a societ fredde, contrapposte a societ calde: come orologi paragonati a macchine a vapore. Si tratta di societ che generano poco disordine entropia, nel linguaggio dei fisici e che tendono a conservarsi indefinitamente nella loro condizione iniziale (o in quella che esse immaginano come iniziale); ci spiega il fatto che, viste dallesterno, esse sembrano societ senza storia.
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Le nostre societ non si limitano a fare largo uso di macchine termodinamiche. Per la loro struttura interna, esse somigliano a macchine a vapore. In societ come le nostre devono prodursi antagonismi paragonabili a quelli che dato osservare, in una macchina a vapore, tra la fonte di calore e lorgano di raffreddamento. Le nostre societ funzionano in base a una differenza di potenziale che si d sotto forma di gerarchia sociale e che, attraverso la storia, conosciuta col nome di schiavit, di servit, di divisione in classi, etc. Societ del genere producono e mantengono al loro interno squilibri che servono a produrre, nello stesso tempo, molto pi ordine corrispondente alla civilt industriale ma molto maggiore entropia sul piano delle relazioni interpersonali. Le societ studiate dagli antropologi possono pertanto essere considerate come sistemi a debole entropia, prossimi allo zero assoluto di temperatura storica: questo che intendiamo quando definiamo tali societ come senza storia. Le societ storiche, come le nostre, conoscono, fra le loro temperature interne, scarti pi grandi, che sono dovuti alle diseguaglianze economiche e sociali. Invero, ogni societ presenta sempre luno e laltro aspetto, che sono come lo yin e lo yang della filosofia cinese: questi due principi si oppongono e si integrano, ma si d sempre yin nello yang, e viceversa. Una societ una macchina e, insieme, il lavoro compiuto da questa macchina: come macchina a vapore, genera entropia; come motore, produce ordine. Questi due aspetti ordine e disordine corrispondono ai due modi nei quali una civilt pu essere considerata: da un lato la cultura, dallaltro la societ. La cultura consiste nellinsieme dei rapporti che gli uomini di una determinata civilt intrattengono col mondo; pi in particolare, la societ consiste nei rapporti che questi stessi uomini intrattengono fra di loro.
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La cultura fabbrica ordine: noi coltiviamo la terra, costruiamo case, produciamo manufatti. In compenso, le nostre societ generano molta entropia, perch dissipano le loro risorse e si sfibrano nei conflitti sociali, nelle lotte politiche, nelle tensioni psichiche che suscitano negli individui. E i valori, sui quali esse inizialmente poggiano, subiscono un inesorabile logoramento. Si potrebbe quasi dire che le nostre societ perdono progressivamente la loro ossatura e tendono a polverizzarsi, a ridurre gli individui che le compongono allo stato di atomi intercambiabili e anonimi. La cultura di quelli che chiamiamo primitivi, o popoli senza scrittura, costruisce molto meno ordine; per questa ragione li qualifichiamo come popoli sottosviluppati. In compenso, la loro societ produce entropia in misura molto minore. In linea di massima, queste societ sono egalitarie, di tipo meccanico, disciplinate dalla regola di unanimit che ho sopra descritta. Per contro, la cultura dei civilizzati, o presunti tali, costruisce ordine in grado elevato, come attestato dal macchinismo e dalle innumerevoli applicazioni scientifiche, ma la loro societ produce anche molta entropia. Forse lideale starebbe in una terza via: una via capace di portare la cultura a produrre un ordine sempre maggiore, senza parallelo accrescimento di entropia nella societ. In altri termini, come il conte di Saint-Simon raccomandava in Francia allinizio del xix secolo, bisognerebbe saper passare cito dal governo degli uomini allamministrazione delle cose. Nel formulare questo programma, SaintSimon precorreva la distinzione antropologica fra cultura e societ e, nello stesso tempo, la rivoluzione che si realizza attualmente sotto i nostri occhi col progresso dellelettronica. Questa rivoluzione ci fa probabilmente intravedere la futura possibilit di passare da una civilt che un tempo inaugur il divenire storico, riducendo per gli uomini allo stato di macchine, a una civilt pi saggia, capace co113

me si comincia a fare con i robot di trasformare le macchine in uomini. Con lintegrale assegnazione alla cultura del compito di fabbricare il progresso, la societ sarebbe allora liberata da una maledizione millenaria, che la costringeva ad asservire buona parte degli uomini al progresso. La storia, ormai, si farebbe tutta da s, e la societ, posta al di fuori e al di sopra della storia, potrebbe nuovamente fruire di quella trasparenza e di quellinterno equilibrio la cui non incompatibilit attestata dalle meno degradate fra le cosiddette societ primitive. In questa prospettiva, evidentemente utopistica, lantropologia attingerebbe la sua giustificazione pi alta, poich le forme di vita e di pensiero delle quali essa si occupa non rivestirebbero pi soltanto un interesse storico e comparativo: tali forme ci rappresenterebbero, piuttosto, una chance permanente delluomo, che lantropologia, con le sue osservazioni e le sue analisi, ha la missione di salvaguardare. Dal paragone, appena tracciato, fra due tipi di societ derivano anche suggerimenti di portata pi immediata e pratica. Se ne pu trarre una prima conseguenza: modelli di attivit economica che, nellottica industriale e finanziaria moderna, costituiscono altrettante vestigia arcaiche, altrettanti ostacoli allo sviluppo, meritano di essere considerati con rispetto e di essere trattati con molto riguardo. Ci si preoccupa oggi di allestire banche genetiche in cui si preservi quel che ancora resta di specie vegetali originali, create nel corso dei millenni da modi di produzione del tutto diversi dai nostri. Si spera in tal modo di limitare i danni di unagricoltura ridotta a poche specie a resa intensiva, ma tributarie di fertilizzanti chimici, e sempre pi vulnerabili agli agenti patogeni. Ci si potrebbe appagare di preservare i risultati di questi modi arcaici di produzione, ma non sarebbe opportuno
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assicurarci che i savoir-faire (in inglese: know-how) insostituibili, grazie ai quali questi risultati furono ottenuti, non scompariranno in maniera irreversibile? Ci si pu altres interrogare se il nostro futuro economico non richieda, da parte nostra, la preservazione o la restaurazione, nel processo produttivo, dei fattori psicologici, sociali e morali. Gli specialisti di sociologia industriale denunciano una contraddizione fra la produttivit oggettiva, che impone la parcellizzazione e limpoverimento dei compiti, la perdita di iniziativa nel lavoro, lallontanamento del produttore dal suo prodotto, e la produttivit soggettiva, che permette al lavoratore di esprimere la sua personalit e il suo desiderio creativo. Mi limiter a un esempio: un melanesiano, che sia obbligato dalle regole sociali a mantenere con ostentazione la famiglia della sorella, o che, in virt della dimensione degli ignami prodotti nel suo giardino, cerchi di dimostrare di avere buoni rapporti con le divinit agricole, animato da urgenze al tempo stesso tecniche, culturali, sociali e religiose. Ci che lantropologo ricorda alleconomista, qualora questi lo dimentichi, che luomo non puramente e semplicemente spinto a produrre sempre di pi. Nel lavoro, luomo tenta pure di soddisfare aspirazioni che sono radicate nella sua natura profonda: compiersi come individuo, lasciare nella materia la sua impronta, dare, con le sue opere, unespressione oggettiva alla sua soggettivit. Sotto tutti questi aspetti, lesempio delle cosiddette societ primitive pu ammaestrarci, perch esse si fondano su principi che permettono di convertire la quantit delle ricchezze prodotte in valori morali e sociali: realizzazione personale nel lavoro, considerazione da parte dei parenti e dei vicini, prestigio morale e sociale, accordo riuscito fra luomo e i mondi naturale e soprannaturale. Le ricerche antropologiche contribuiscono a comprendere meglio la necessit di unarmonia tra questi diversi elementi della natura
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umana. Dovunque la civilt industriale tenda a distruggere tale armonia, lantropologia pu metterci in guardia e pu indicarci alcune delle vie da percorrere per riconquistarla. Il tempo si fa breve; sar quindi pi sintetico nellesporre il terzo capitolo inserito nel mio programma, che dedicato agli insegnamenti che si possono trarre dalle concezioni religiose pi diffuse tra i popoli studiati dagli antropologi. Per lantropologo, le religioni costituiscono un vasto repertorio di rappresentazioni che, sotto forma di miti e di riti, si combinano in guise diversificate. Queste combinazioni, salvo che agli occhi dei credenti, sembrano a prima vista irrazionali e arbitrarie. Si pone allora la questione di sapere se sia opportuno fermarsi a descrivere quel che non si pu spiegare, oppure se, dietro lapparente disordine delle credenze, delle pratiche e dei costumi, sia possibile scoprire una coerenza. Considerando come punto di partenza i miti delle popolazioni indigene del Brasile centrale, che ho conosciuto di persona, mi sono reso conto del fatto che, se ogni mito presenta laspetto di un racconto bizzarro, privo di qualsiasi logica, tra questi miti esistono rapporti pi semplici e meglio intelligibili delle storie che ogni mito in particolare racconta. Mentre, per, il pensiero filosofico o scientifico ragiona formulando e concatenando concetti, il pensiero mitico funziona adoperando immagini prese a prestito dal mondo sensibile. Invece di stabilire rapporti fra idee, il pensiero mitico oppone il cielo e la terra, la terra e lacqua, la luce e loscurit, luomo e la donna, il crudo e il cotto, il fresco e il putrido..., elaborando cos una logica delle qualit sensibili: colori, intrecci, sapori, odori, rumori e suoni. Il pensiero mitico seleziona, dispone o oppone queste qualit per trasmettere un messaggio in qualche modo codificato.
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Eccone un esempio, fra centinaia di altri che ho tentato di analizzare nei quattro grossi volumi intitolati Mitologiche, apparsi tra il 1964 e il 1971. Che due amanti incestuosi, o proibiti luno allaltro dalle convenzioni sociali, riescano a unirsi solo al momento di morire, quando diverranno un corpo solo, una storia che accettiamo facilmente, perch le nostre tradizioni letterarie ce lhanno resa familiare. In Occidente abbiamo il romanzo medievale di Tristano e Isotta, e lopera di Wagner. E mi pare che anche la tradizione giapponese conosca questo genere di racconto. A lasciarci sconcertati sarebbe invece unaltra storia, quella nella quale una nonna appiccica luno allaltra un fratello e una sorella neonati per farne un solo bambino. Questo bambino cresce, un giorno tira verticalmente una freccia che, nel ricadere, lo taglia a met, separando in tal modo il fratello e la sorella, che si affrettano a diventare amanti incestuosi. Questa seconda storia ci sembra assurda e incoerente. Ora, questa stessa storia coesiste con la prima storia fra gli Indiani del Nordamerica, e basta paragonarle episodio per episodio perch ci si convinca che la seconda storia riproduce esattamente la prima, semplicemente raccontandola a parti rovesciate. Non avremmo qui e l, pertanto, che un solo mito, illustrato da popolazioni vicine con racconti simmetrici e capovolti? Non se ne potrebbe dubitare qualora, a voler fare un passo avanti, si osservasse che, in Nordamerica, il primo racconto pretende di spiegare lorigine di una costellazione nella quale, dopo la morte, si trasformano gli amanti incestuosi (analogamente al Bovaro e alla Tessitrice della tradizione cinese, celebrati in Giappone dalla festa di Tanabata), mentre il secondo racconto pretende di spiegare lorigine dei compiti del sole. Ci equivale a dire che, in un caso, si hanno punti luminosi che si stagliano su di uno sfondo scuro e, nellaltro, punti oscuri che si stagliano su di uno
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sfondo luminoso. Allo scopo di illustrare figure celesti capovolte si racconta quindi la stessa storia, ma in due sensi opposti, come se si proiettasse una pellicola cinematografica dallinizio o dalla fine e come se, nel secondo caso, si mostrasse la corsa di una locomotiva a marcia indietro, col fumo che rientra nel fumaiolo, condensandosi progressivamente in acqua. Il risultato di questanalisi che, invece di due miti differenti, non ve n che uno solo. Si procede quindi per gradi, e una moltitudine di racconti insignificanti fa posto a oggetti sempre meno numerosi, ma tali da chiarirsi gli uni per mezzo degli altri. Il senso dei miti non appartiene a ciascuno di essi presi in s, ma si appalesa solo quando i miti sono posti in rapporto luno con laltro. Chi mi ascolta forse mi chieder in che cosa ricerche del genere possano contribuire a gettare luce su problemi attuali. Le nostre societ non hanno pi miti. Per risolvere i problemi posti dalla condizione umana e dai fenomeni naturali, esse si rivolgono alla scienza o, per meglio dire, per ciascun tipo di problema si rivolgono a una disciplina scientifica specializzata. sempre cos? Ci che i popoli senza scrittura invocano dai miti, ci che lintera umanit ne ha invocato, nel corso delle centinaia di migliaia di anni, forse dei milioni di anni della sua lunghissima storia, la spiegazione dellordine del mondo che ci circonda e della struttura della societ in cui si nati, la dimostrazione della loro legittimit, la comunicazione della certezza fiduciosa che il mondo nel suo complesso, e la societ particolare cui si appartiene, resteranno tali quali furono creati allinizio dei tempi. Tuttavia, quando ci interroghiamo circa il nostro stesso sistema sociale, noi pure ci appelliamo alla storia per spiegarlo, giustificarlo o criticarlo. Questo modo di interpretare il passato varia in funzione dellambiente al quale apparteniamo, delle nostre convinzioni politiche, dei nostri at118

teggiamenti morali. Per un cittadino francese, la Rivoluzione del 1789 spiega la forma della societ attuale. Cos, a seconda che riteniamo questa forma giusta o sbagliata, non rappresentiamo a noi stessi la Rivoluzione del 1789 alla stessa maniera, e aspiriamo a scenari futuri differenti. In altre parole, limmagine che ci facciamo del nostro passato, prossimo o remoto, di natura fondamentalmente mitica. Sarebbe azzardato, da parte mia, estendere queste riflessioni al Giappone. Ma, per quel poco che conosco della storia del vostro Paese, mi facile immaginare che qualcosa del genere potesse accadere alla vigilia dellera Meiji, per i sostenitori del potere degli shgun e per coloro che propugnavano la restaurazione del regime imperiale. Allepoca di un congresso organizzato dalla Fondazione Shgun nel 1980 a Osaka, mi sembrato proprio che i partecipanti giapponesi continuassero a proporre, circa la restaurazione Meiji, interpretazioni divergenti: alcuni vi scorgevano una volont di aprirsi alla vita internazionale e auspicavano una spinta sempre pi forte in questa direzione, senza secondi fini, senza nostalgia n rammarico; altri, invece, coglievano in questa apertura loccasione di prendere a prestito dallOccidente le sue armi per poter eventualmente resistergli, conservando i tratti specifici della cultura giapponese. Ci si pu allora domandare se sia possibile una storia obiettiva e scientifica o se, nelle nostre moderne societ, la storia non svolga un ruolo paragonabile a quello dei miti. Il compito che i miti svolgono per le societ senza scrittura legittimare un sistema sociale e una concezione del mondo, spiegare come sono oggi le cose attraverso la lettura di ci che esse furono, trovare la giustificazione della loro condizione attuale in una passata, e concepire il futuro in funzione sia di questo presente sia di questo passato assimilabile al compito che le nostre civilt assegnano alla storia. Si d per una differenza: come ho tentato di mostrare con un esempio, ogni mito sembra raccontare una storia
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diversa, e poi si scopre che si tratta spesso della medesima storia con gli episodi disposti in altra maniera. Noi, invece, vogliamo credere allesistenza di una sola storia, mentre in realt ogni partito politico, ogni ambiente sociale, talora ogni singolo individuo parla di una storia diversa e, contrariamente al mito, ladopera per darsi ragioni per sperare, non che il presente riproduca il passato e che il futuro continui il presente, ma che il futuro sia diverso dal presente allo stesso modo in cui il presente stesso stato diverso dal passato. Il rapido raffronto, che ho appena tracciato, fra le credenze dei cosiddetti popoli primitivi e le nostre ci porta a capire che la storia, quale adoperata dalle nostre civilt, esprime non tanto verit oggettive quanto pregiudizi e aspirazioni. Anche in questo caso lantropologia ci impartisce una lezione di spirito critico, perch ci fa comprendere meglio che il passato della nostra societ, come quello di societ differenti dalla nostra, non hanno un solo possibile significato. Non si d uninterpretazione assoluta del passato storico, ma si danno interpretazioni tutte relative. Per concludere questa lezione, mi conceder una riflessione ancora pi audace. Anche per quanto concerne lordine del mondo, la scienza oggi passa da una prospettiva intemporale a una storica. Il cosmo non ci appare pi, come allepoca di Newton, governato da leggi eterne, come la gravitazione. Per lastrofisica moderna, il cosmo ha una storia: ha avuto inizio 15 o 20 miliardi di anni or sono con un evento unico (in inglese: big bang), si dilatato, sguita a espandersi e, stando alle ipotesi, continuer allinfinito nella stessa direzione o alterner cicli di espansione e di contrazione. Mentre avanza, per, la scienza ci persuade a diventare sempre meno capaci di dominare col pensiero fenomeni che, per i loro ordini di grandezza spaziale e temporale, sfuggono alle possibilit della nostra mente. In tal senso, la
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storia del cosmo diviene, per il comune mortale, una sorta di grande mito, poich consiste nello svolgimento di accadimenti unici, la realt dei quali non potr mai essere provata, essendosi prodotti una volta sola. Se allora, a partire dal xvii secolo, si poteva ritenere che il pensiero scientifico si opponesse radicalmente al pensiero mitico, fino a doverlo eliminare in breve tempo, ci si pu chiedere se non sia osservabile linizio di un movimento inverso. Il pensiero scientifico non forse spinto proprio dal suo progresso verso la storia? Qualcosa di analogo accadde gi nel xix secolo in biologia con la teoria dellevoluzione, e anche la moderna cosmologia si orienta in questo senso. Ho tentato di mostrare che anche presso di noi la conoscenza storica conserva affinit con i miti. E se, come sembra, proprio la scienza tende a diventare una storia della vita e una storia del mondo, non si pu escludere che, dopo aver a lungo seguito strade divergenti, il pensiero scientifico e il pensiero mitico in futuro si ricongiungano. In questipotesi, linteresse che lantropologo porta al pensiero mitico risulterebbe ancora pi fondato, per il contributo che tale forma di pensiero reca alla conoscenza di vincoli sempre attuali, inerenti al funzionamento dello spirito.

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Terza lezione

tutto quanto esposto nelle mie prime due lezioni invita a ridurre la distanza che si tentati di allargare tra le societ senza scrittura in considerazione del loro basso livello tecnico ed economico e le nostre. A giustificare questo scarto sono valsi nel passato e ogni tanto vi si ricorre ancor oggi due tipi di argomento. Secondo alcuni, questo scarto sarebbe insormontabile, perch dipenderebbe dal fatto che i gruppi umani si differenziano in base al loro patrimonio genetico. Tra i loro patrimoni esisterebbe una ineguaglianza che si riflette sulle capacit intellettuali e sulle tendenze morali: la tesi dei razzisti. Invece, secondo la teoria evoluzionistica, lineguaglianza delle culture avrebbe unorigine non biologica, ma storica: sullunica strada che tutte le societ devono necessariamente percorrere, alcune sarebbero andate avanti, altre avrebbero segnato il passo, altre forse avrebbero fatto marcia indietro. Il problema consisterebbe soltanto nel comprendere i motivi contingenti del ritardo accumulato da alcune societ, in modo da aiutarle a recuperarlo. Ci troviamo allora di fronte ai due ultimi problemi alla soluzione dei quali lantropologia spera di poter contribuire: uno il problema delle razze, laltro riguarda il senso da attribuire alla nozione di progresso. Durante tutto il xix secolo e nella prima met del xx, ci si interrogati se, e in quale modo, la razza influenzasse la cultura.
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La constatazione che popoli di apparenza somatica diversa presentano abitudini di vita e credenze differenti porta a concludere che le differenze fisiche sono legate alle differenze culturali. Come ammesso con buon senso nel preambolo della seconda dichiarazione dellunesco sul problema delle razze, quel che persuade luomo della strada a riguardo dellesistenza delle razze levidenza immediata dei suoi sensi cito , con cui distingue insieme un africano, un europeo, un asiatico e un amerindio. Contro questo preteso legame fra razza e cultura lantropologia ha da tempo fatto valere due argomenti. In primo luogo, le culture attualmente esistenti, e soprattutto quelle che esistevano fino a due o tre secoli fa sulla superficie terrestre, sono di gran lunga pi numerose delle razze che i ricercatori pi meticolosi si sono affannati a catalogare: svariate migliaia contro una o due dozzine. Ora, due culture elaborate da uomini considerati come appartenenti alla medesima razza possono differenziarsi tra loro in maniera simile o pi spiccata, rispetto a due culture che procedono da gruppi razzialmente diversi. In secondo luogo, i patrimoni culturali si sviluppano molto pi rapidamente che non i patrimoni genetici. Tra la cultura conosciuta dai nostri bisnonni e la nostra c di mezzo un mondo. Si giunti a sostenere che registrabile, fra le abitudini di vita degli antichi Greci e Romani e quelle dei nostri antenati del xviii secolo, una differenza minore rispetto a quella che si d fra le abitudini di questi ultimi e le nostre. Tuttavia, noi raccogliamo pressappoco la loro eredit. Queste due ragioni spiegano come da circa un secolo si sia prodotto un divorzio tra i cosiddetti antropologi culturali o sociali, che studiano le tecniche, i costumi, le istituzioni e le credenze, da un lato e, dallaltro, gli antropologi fisici della vecchia scuola, che si ostinano a fare misurazioni e verifiche su crani, scheletri, o su esseri viventi. Non
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si poteva stabilire alcuna correlazione fra i due tipi di inventario. Se mi lecito proporre unimmagine, il setaccio degli antropologi fisici non era abbastanza capace di trattenere le differenze tra le culture, alle quali invece noi, antropologi culturali o sociali, attribuiamo un significato. In compenso, ma solo da trenta o quarantanni, si instaurato un rapporto di collaborazione fra lantropologia e quella nuova disciplina biologica che si chiama genetica delle popolazioni, la quale, con argomenti biologici, ha confortato la tradizionale diffidenza degli antropologi verso ogni tentativo diretto a stabilire una connessione, o addirittura un rapporto causa-effetto, tra le differenze razziali e le differenze culturali. Il concetto tradizionale di razza poggiava per intero su caratteri esteriori e ben visibili: statura, colore della pelle e degli occhi, conformazione cranica, tipo di capigliatura, etc. Anche a voler ammettere che le variazioni osservabili in questi differenti campi siano concordanti, cosa che sembra molto improbabile, nulla prova che tali variazioni concordino anche con differenze sulle quali i genetisti hanno fatto luce e delle quali hanno mostrato limportanza, quantunque non siano immediatamente percepibili dai sensi: gruppi sanguigni, proteine del siero del sangue, fattori immunitari, etc. Alcune variazioni non sono comunque meno reali di altre, e si potrebbe immaginare in certi casi lo si anche accertato che le seconde abbiano una distribuzione geografica completamente diversa dalle prime. A seconda dei caratteri conservati, razze invisibili faranno quindi la loro apparizione in seno a razze tradizionali, oppure segmenteranno i gi incerti confini che a queste venivano assegnati. Nel concordare con le posizioni degli antropologi, i genetisti hanno dunque sostituito la nozione di razza con quella di stock genetico. Anzich presentare caratteri ritenuti immutabili, e frontiere ben tracciate, uno stock genetico
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fatto di dosaggi relativi a questo o a quel luogo, e che hanno continuato a variare nel corso delle epoche. I limiti che si assegnano a questi dosaggi sono arbitrari. Ancora: tali dosaggi aumentano o diminuiscono attraverso gradazioni impercettibili, e le soglie che qua e l si fissano dipendono dal tipo di fenomeno del quale il ricercatore si occupa, e che egli circoscrive per le sue classificazioni. Questa nuova alleanza per usare unespressione alla moda fra gli antropologi e i genetisti ha comportato un cambiamento notevole nellatteggiamento verso i cosiddetti popoli primitivi. Con altri argomenti, questo mutato atteggiamento va nel senso in cui, fino ad allora, gli antropologi erano stati i soli a impegnarsi. Per secoli sono apparsi assurdi e scandalosi costumi consistenti in strane regole matrimoniali, in interdizioni arbitrarie come quella che impedisce i rapporti sessuali fra gli sposi finch la madre allatta il neonato , in privilegi poligamici di cui i capi o gli anziani beneficiano, in usanze che ci ripugnano, come linfanticidio. La genetica delle popolazioni ha dovuto prendere forma intorno agli anni Cinquanta perch ci si rendesse conto delle ragioni di questi costumi. Tendiamo inoltre a considerare le razze pi lontane dalla nostra come le pi omogenee: agli occhi di un bianco tutti i gialli si rassomigliano, e le rappresentazioni stereotipate dei bianchi nella cosiddetta arte namban suggeriscono che altrettanto vera la reciproca. Ora, sono state scoperte considerevoli differenze fra trib primitive che vivono nella stessa area geografica, e queste differenze sono quasi altrettanto significative fra villaggi di una medesima trib che fra trib distinte per lingua e per cultura. Pertanto, neppure una trib isolata costituisce una unit biologica. Ci si spiega con la maniera in cui si formano nuovi villaggi: un gruppo familiare si separa dal suo lignaggio genealogico e si stabilisce in disparte. Pi tardi, gruppi di individui tra di loro imparentati lo raggiungono, e vanno a condividere il
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nuovo ambiente. Gli stock genetici, che quindi ne risultano, si differenziano tra di loro molto pi che se non fossero leffetto di raggruppamenti prodottisi casualmente. Ne deriva una conseguenza: se i villaggi di una medesima trib comprendono formazioni genetiche differenziate allinizio, ognuna delle quali vive in un relativo isolamento, e in competizione le une con le altre a causa di ineguali coefficienti di accrescimento, tali formazioni ricostituiscono un insieme di condizioni, note ai biologi, come particolarmente capaci di favorire unevoluzione incomparabilmente pi rapida di quella in generale osservabile tra le specie animali. Ora, risaputo che levoluzione che ha portato ominidi fossili fino alluomo attuale si prodotta, in termini relativi, molto rapidamente. Se si ammette che le condizioni attualmente osservabili fra alcune remote popolazioni offrono, almeno sotto certi aspetti, unimmagine approssimativa di quelle vissute dallumanit in un lontano passato, si dovr riconoscere che tali condizioni, da noi ritenute sfortunate, erano le pi idonee a fare di noi quel che siamo divenuti, e che esse restano le pi adatte a mantenere la medesima direzione, conservandone il ritmo, dellevoluzione umana, mentre le imponenti societ contemporanee, in cui gli scambi genetici si producono in unaltra maniera, tendono a frenare levoluzione o ad alterarne lorientamento. Il nostro sapere doveva evolvere fino al punto che noi si diventasse coscienti di questi nuovi problemi, per riconoscere una valenza oggettiva e un significato morale a modi di vivere, usi e credenze ai quali in precedenza si riservavano solo motteggi o, nel migliore dei casi, una curiosit di degnazione. Tuttavia, con lingresso della genetica delle popolazioni sulla scena dellantropologia, si prodotta unaltra svolta, dalle implicazioni teoriche forse ancora pi significative. Ho ricordato elementi che dipendono dalla cultura: le cosiddette societ primitive mantengono un basso
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coefficiente di crescita demografica, prolungando fino a tre o quattro anni la durata dellallattamento, osservando diverse proibizioni sessuali, praticando, in caso di necessit, laborto e linfanticidio. Il tasso di riproduzione degli uomini, che varia sensibilmente, a seconda che essi abbiano una o pi mogli, favorisce determinate forme di selezione naturale. Tutto ci riguarda il modo in cui i gruppi umani si suddividono e si ricostituiscono, le consuetudini imposte agli individui dei due sessi per lunione e per la riproduzione, le indicazioni concernenti laccoglimento o il rifiuto dei bambini, e la maniera di allevarli, il diritto, la magia, la religione e la cosmologia. Direttamente o indirettamente, questi fattori modellano la selezione naturale, orientandone il corso. A partire da questi dati, i termini del problema relativo ai rapporti fra le nozioni di razza e di cultura registrano un radicale mutamento. Per tutto il xix secolo e nella prima met del xx, ci si interrogati se, e in quale modo, la razza influenzasse la cultura. Rilevata linsolubilit del problema, ci si resi conto, adesso, della necessit di invertire le posizioni. Sono le forme culturali qua e l adottate dagli uomini, le loro abitudini di vita passate e presenti, a determinare in larga misura il ritmo e lorientamento della loro evoluzione biologica. Lungi dal dover domandarci se la cultura sia o no in funzione della razza, scopriamo che la razza o quel che in genere si intende impropriamente come tale una delle tante funzioni della cultura. Come potrebbe essere altrimenti? la cultura di un gruppo a fissare i limiti geografici del territorio da esso occupato, i suoi rapporti di amicizia o di ostilit con i popoli vicini e, di conseguenza, la relativa importanza degli scambi genetici che, grazie agli intermatrimoni permessi, favoriti o vietati, potranno prodursi tra di loro. noto, peraltro, che persino nelle nostre societ i matrimoni non sono affidati completamente al caso. Vi inter128

vengono, infatti, fattori consci o inconsci: distanza fra le abitazioni familiari dei futuri sposi, origine etnica, religione, livello di educazione, risorse familiari... Se lecito fare deduzioni a partire da usi e costumi che, fino a poco tempo fa, erano largamente diffusi, si ammetter che, fin dai primi momenti della vita in societ, i nostri antenati hanno dovuto conoscere e applicare regole matrimoniali tali da permettere o proibire un determinato tipo di imparentamento. Ne ho illustrato qualche esempio nelle lezioni precedenti. Regole del genere, applicate per generazioni, non potrebbero influire in maniera differenziale sulla trasmissione dei patrimoni genetici? Non basta; difatti, regole di igiene praticate da ogni societ, limportanza e lefficacia relative delle cure dispensate a questo o a quel tipo di malattia o di deficit mentale, consentono o prevengono, a gradi diversi, la sopravvivenza di determinati individui e la disseminazione di un materiale genetico che, in mancanza di tali regole, avrebbe registrato una pi rapida scomparsa. Altrettanto dicasi degli atteggiamenti culturali mostrati nei confronti di certe anomalie ereditarie, e delle pratiche che colpiscono indiscriminatamente i due sessi in certe congiunture cosiddette nascite anormali, gemelli etc. o che, come nel caso dellinfanticidio, riguardano in modo particolare le bambine. Infine, let relativa degli sposi, la fertilit e la fecondit differenziali, a seconda del tenore di vita e delle funzioni sociali, almeno in parte sono direttamente o indirettamente sottoposte a regole la cui origine, in definitiva, sociale, non biologica. Levoluzione umana non dunque un sottoprodotto dellevoluzione biologica, bench non ne sia neppure completamente distinta. La sintesi tra queste due posizioni diventa possibile a patto che i biologi e gli antropologi si rendano conto dellaiuto reciproco che possono prestarsi, e delle loro rispettive limitazioni.
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probabile che, allorigine dellumanit, levoluzione biologica abbia selezionato caratteristiche preculturali, come la posizione eretta, labilit manuale, la socievolezza, il pensiero simbolico, lattitudine a vocalizzare e a comunicare. compito della cultura, invece, dal momento in cui comincia ad esistere, consolidare e diffondere questi elementi. Nel loro diversificarsi, le culture consolidano e favoriscono linsorgere di altre caratteristiche, come la resistenza al freddo, o al caldo, in societ che, per amore o per forza, hanno dovuto adattarsi a climi estremi, o come la resistenza a una quantit rarefatta di ossigeno nellaria, in societ che vivono ad alta quota, etc. E chi pu escludere che gli atteggiamenti aggressivi o contemplativi, labilit tecnica, etc. siano parzialmente legati a fattori genetici? Nessuno di questi tratti, quali dato registrare a livello culturale, pu essere collegato direttamente a una base genetica, ma non si potrebbe escluderne a priori leffetto ultimo di nessi intermedi. In tal caso, si potrebbe a ragione sostenere che ogni cultura seleziona attitudini genetiche che retroagiscono sulla cultura, consolidandone lorientamento. Entrambi gli approcci sono in parte analoghi, e in parte complementari. Analoghi perch, in pi di un senso, le culture sono paragonabili a dosaggi irregolari di tratti genetici che, non molto tempo fa, si designavano col termine razza. Una cultura consiste in una molteplicit di caratteristiche, alcune delle quali, a livelli diversi, sono comuni a culture vicine o lontane, mentre altre separano le culture in maniera pi o meno marcata. Queste caratteristiche si equilibrano allinterno di un sistema che, nelluna come nellaltra ipotesi, deve essere vitale, pena la sua progressiva eliminazione da parte di altri sistemi, pi adatti a propagarsi o a riprodursi. Ai fini dello sviluppo delle differenze, in modo che diventino sufficientemente nette le soglie capaci di distinguere una cultura da altre confinanti, le condizioni sono, a grandi linee, simili a quelle che rendono possi130

bili le differenze biologiche tra le popolazioni: relativo isolamento protratto nel tempo, scambi limitati, siano essi di ordine culturale o genetico. A prescindere dallordine di grandezza, le barriere culturali svolgono la stessa funzione delle barriere genetiche, prefigurandole tanto meglio in quanto tutte le culture lasciano nel corpo la loro impronta: con stili di abbigliamento, di acconciatura e di ornamento, con mutilazioni corporali e con comportamenti gestuali, le culture imitano differenze paragonabili a quelle che possono darsi tra le razze. Col preferire certi modelli fisici ad altri, le culture li stabilizzano ed eventualmente li diffondono. Trentaquattro anni fa, in un opuscolo intitolato Razza e storia, scritto su richiesta dellunesco, invocavo il concetto di coalizione per spiegare che culture isolate non possono creare da sole le condizioni di una storia autenticamente cumulativa. Dicevo che, per questo, culture tra loro differenti devono cambiare, volenti o nolenti, i loro rispettivi stili di vita, concedendosi pertanto la chance di realizzare, nel grande gioco della storia, le serie lunghe che permettono a questultima di avanzare. Attualmente i genetisti formulano prospettive abbastanza simili circa levoluzione biologica, come quando mostrano che un genoma costituisce in realt un sistema nel quale alcuni geni giocano un ruolo di regolazione, altri influenzano insieme un solo carattere, o viceversa, nel caso in cui pi caratteri si trovino a dipendere da un solo gene. Quel che valido per il genoma individuale lo anche per una popolazione che debba essere sempre in condizioni tali (per la combinazione tra diversi patrimoni genetici, che si realizza al suo interno) da permettere di stabilire un equilibrio ottimale, capace di migliorare le sue possibilit di sopravvivenza. Si pu dire, in questo senso, che la ricombinazione genetica svolge, nella storia delle popolazioni, un ruolo paragonabile a quello esercitato dalla ricombinazione
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culturale nellevoluzione delle abitudini di vita, delle tecniche, delle conoscenze, dei costumi e delle credenze. Infatti, individui predestinati dal loro patrimonio genetico ad acquisire soltanto una cultura particolare avrebbero discendenti particolarmente svantaggiati: le variazioni culturali, cui questi ultimi sarebbero esposti, sopraggiungerebbero pi rapidamente dellevoluzione del loro patrimonio genetico, e della sua diversificazione, prodotta in risposta alle esigenze generate da queste nuove situazioni. Antropologi e biologi concordano dunque, oggi, nellammettere che la vita in generale, e in particolare quella umana, non pu conoscere uno sviluppo uniforme perch, sempre e dappertutto, presuppone e genera la diversit. Questa diversit, intellettuale, sociale, estetica, filosofica, non legata da alcun rapporto di causa ed effetto a quella che, sul piano biologico, esiste fra le grandi famiglie umane. Tra i due ordini di differenze si d un parallelismo solo su di un altro piano. Ma in che cosa consiste, per la precisione, questa diversit? Invano si sarebbe ottenuta dalluomo della strada la rinuncia ad attribuire un significato intellettuale o morale al fatto di avere la pelle nera o bianca, i capelli lisci o crespi, perch egli tacesse di fronte a unaltra questione, nella quale questo stesso uomo della strada si impegna senza esitazioni: se non esistono disposizioni razziali innate, come dar conto del fatto che la civilt occidentale ha registrato ben noti, immensi progressi, mentre le civilt di popoli di altro colore sono rimaste indietro, alcune a met strada, altre con un ritardo accumulato nellordine di millenni o decine di millenni? Non si potrebbe pretendere di aver risolto con una risposta negativa il problema dellineguaglianza delle razze umane, se non si riflettesse anche sul problema dellineguaglianza o della diversit delle culture umane che, nella mentalit comune, strettamente connesso al primo. Ora, la diversit delle culture raramente apparsa agli uomini quale essa in realt: fenomeno naturale che risul132

ta dai rapporti diretti o indiretti fra le societ. Gli uomini, piuttosto, vi hanno scorto qualcosa di mostruoso o di scandaloso. Dai tempi pi remoti, una tendenza che si potrebbe ritenere istintiva, a giudicare da come saldamente ancorata, spinge gli uomini a ripudiare puramente e semplicemente i costumi, le credenze, gli usi e i valori pi lontani da quelli in vigore nella propria societ. Gli antichi Greci e gli antichi Cinesi denominavano i popoli estranei alla loro cultura adoperando termini traducibili con barbari, che, etimologicamente, sembrano evocare il cinguetto degli uccelli. Si trattava di respingere i barbari tra gli animali; e anche il termine selvaggio, da noi a lungo impiegato, e che significa della foresta, richiama un modo di vivere animalesco, in contrapposizione alla cultura umana. Tutto ci attesta il rifiuto di ammettere il fatto stesso della diversit culturale; si preferisce rigettare fuori della cultura, nella natura come mostra il vocabolo tedesco Naturvlker , tutto ci che si allontana dalle norme sotto le quali si vive. Invero, i grandi sistemi religiosi e filosofici si tratti del buddismo, del cristianesimo o dellislam, delle dottrine stoica, kantiana o marxista, o infine delle diverse dichiarazioni dei diritti delluomo si sono costantemente pronunciati contro questo atteggiamento. Tuttavia, questi sistemi dimenticano che luomo realizza la sua natura non in una umanit astratta, ma in seno a culture tradizionali che si differenziano tra di loro a seconda dei luoghi e dei tempi. Stretti fra la duplice tentazione di condannare esperienze che li urtano moralmente, e di negare differenze da loro non comprese intellettualmente, i moderni hanno tentato compromessi che li mettessero in grado sia di tener conto della diversit delle culture sia di sopprimere quanto di scandaloso e di sconvolgente essa conserva. Levoluzionismo, che a lungo ha dominato il pensiero occidentale, costituisce dunque un tentativo diretto a ri133

durre la diversit delle culture, proprio mentre finge di riconoscerla in pieno. Infatti, se si considerano le differenti condizioni in cui versano le societ umane, sia remote nel tempo che lontane nello spazio, come altrettanti stadi o tappe di uno sviluppo unico che le spinge tutte nella medesima direzione, la diversit che dato osservare fra di loro risulta ormai solo apparente. Lumanit diventa unica e identica a se stessa. Si d il caso che questa umanit e questa identit si realizzino solo progressivamente, e non dappertutto allo stesso ritmo. La soluzione evoluzionistica seducente, ma semplifica abusivamente i fatti. Nella sua ottica peculiare ogni societ pu ripartire le altre societ in due categorie: quelle a essa contemporanee, ma geograficamente lontane; e quelle vicine nello spazio, ma a essa preesistenti. Quando si considerano le societ del primo tipo, si tentati di stabilire tra di loro rapporti equivalenti a un ordine di successione temporale. Come potrebbero societ contemporanee, che continuano a ignorare lelettricit e la macchina a vapore, non richiamare fasi arcaiche della civilt occidentale? Come non paragonare le trib indigene senza scrittura e senza metallurgia, ma che disegnano figure sulle pareti rocciose e fabbricano utensili di pietra, con i popoli sconosciuti che, quindici o ventimila anni fa, produssero unattivit analoga in Francia e in Spagna? Quanto Medio Evo viaggiatori occidentali non hanno ritrovato in Oriente, quanta parte del secolo di Luigi xiv nella Pechino di prima della Grande guerra, quanta et della pietra fra gli indigeni dellAustralia o della Nuova Guinea? Questo pseudoevoluzionismo mi sembra estremamente pericoloso. Delle civilt scomparse conosciamo solo certi aspetti, che sono tanto meno numerosi quanto pi antica la civilt considerata, poich gli aspetti noti sono soltanto quelli che hanno potuto resistere alloltraggio del tempo.
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Il procedimento consiste quindi nel prendere la parte per il tutto, nel desumere, dalla somiglianza fra certi aspetti di due civilt (una attuale, laltra scomparsa), lidentit di tutti gli aspetti. Ora, non soltanto questo modo di ragionare logicamente insostenibile ma, nella maggior parte dei casi, contraddetto dai fatti. A titolo di esempio, ricordiamo le idee a lungo predominanti in Occidente circa il Giappone. In quasi tutti i lavori redatti su codesto Paese fino alla Seconda guerra mondiale, si poteva leggere che, in pieno xix secolo, il Giappone era rimasto sotto un regime feudale simile a quello conosciuto dallEuropa nel Medio Evo; e che solamente nella seconda met del xix secolo, cio con due o tre secoli di ritardo, il Giappone era entrato nellet capitalistica e si era aperto allindustrializzazione. Tutto ci ci risulta oggi essere falso. In primo luogo perch il presunto feudalesimo giapponese, di spirito militare, impregnato di dinamismo e di pragmatismo, non presenta che somiglianze superficiali col feudalesimo europeo. Questo feudalesimo rappresenta una forma perfettamente originale di organizzazione sociale. In secondo luogo, esistono altri motivi, ancora pi importanti: gi nel xvi secolo, il Giappone era una nazione industriale che costruiva, esportandole in Cina, decine di migliaia di armature, di sciabole e, un po pi tardi, di archibugi e di cannoni. In quello stesso periodo, il Giappone contava pi abitanti di qualunque altro Paese europeo, un maggior numero di universit, un pi elevato tasso di alfabetizzazione; infine, un capitalismo mercantile e finanziario, che non doveva nulla allOccidente, registrava un forte sviluppo molto prima della restaurazione Meiji. Lungi dunque dallinscriversi, luna dietro laltra, in una medesima linea di sviluppo, le due societ hanno piuttosto seguito vie parallele, adottando, per, in ogni momento della storia, scelte che non necessariamente coincidevano; un po come se, con le stesse carte in mano, ciascu135

na avesse deciso di giocarle in un turno differente. Come a molti altri possibili paragoni, a quello tra Europa e Giappone estranea la nozione di un progresso a senso unico. Se tutto ci vero per societ che sono coesistite nel tempo, anche se molto lontane le une dalle altre, lo altrettanto per le societ del secondo tipo, che pocanzi ho distinto ossia quelle che, in un luogo determinato, hanno preceduto storicamente la societ attuale? Lipotesi di unevoluzione unilineare, cos fragile quando viene invocata allo scopo di collocare su di una medesima scala societ geograficamente lontane, sembra in tal caso difficilmente eludibile. Le testimonianze della paleontologia, della preistoria e dellarcheologia concordano nellindicare che i territori occupati dalle grandi civilt attuali furono inizialmente abitati da specie diversificate del genere Homo, che tagliavano grossolanamente la selce. Col trascorrere del tempo, questa attrezzatura viene affinata e perfezionata; la pietra tagliata lascia il posto alla pietra levigata, allosso e allavorio; quindi la volta della fabbricazione del vasellame, della tessitura, dellagricoltura, progressivamente associati alla metallurgia, nella quale pure possibile distinguere delle tappe. Non si pu parlare, in questo caso, di una vera e propria evoluzione? Tuttavia, non cos facile credere di poter disporre questi inconfutabili progressi in una serie regolare e continua. Per lungo tempo sono state distinte tappe successive: et della pietra tagliata, et della pietra levigata, et del rame, poi del bronzo, poi ancora del ferro... Era troppo semplice. Sappiamo oggi che la levigatura e il taglio della pietra talora si sono affiancati luna allaltro; e, quando prevale la levigatura, si tratta non di un progresso tecnico la materia prima della levigatura, infatti, pi costosa del taglio , ma di un tentativo di copiare su pietra le armi e gli utensili di rame o di bronzo in possesso di civilt certamente pi avanzate, ma contemporanee e vicine a quelle dei loro
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imitatori. A seconda delle zone del mondo considerate, il vasellame compare sia contestualmente alla pietra levigata, sia in una fase anteriore. Sino a non molto tempo fa si riteneva che le tecniche della pietra tagliata industrie a nuclei, a schegge, a lamine corrispondessero a un progresso storico articolato in tre fasi: paleolitico inferiore, paleolitico medio, paleolitico superiore. Oggi si ammette comunemente che queste tre forme hanno potuto coesistere, rappresentando non altrettante tappe di un progresso a senso unico, ma aspetti o, come si dice, facies, di una realt molto complessa. Centinaia di millenni, forse pi di un milione di anni fa, industrie litiche furono opera di un antenato di Homo sapiens: Homo erectus. Ora, queste industrie attestano una complessificazione e un affinamento che sono stati superati solo alla fine del neolitico. Non si tratta di negare la realt dei progressi compiuti dallumanit. Se ne deve avere semplicemente una prospettiva pi sfumata. Lo sviluppo delle nostre conoscenze spinge a distendere nello spazio forme di civilt che si era portati a scaglionare nel tempo. Il progresso non necessario, n continuo, perch si svolge per salti, per scatti o, per dirla con i biologi, per mutazioni. Questi salti e questi scatti non vanno ogni volta pi lontano e nella stessa direzione, perch si accompagnano a mutamenti di rotta, un po come il cavaliere del gioco degli scacchi, che ha sempre a disposizione pi di un movimento, ma in direzioni diverse. Lumanit in progresso non somiglia ad un personaggio che, gradino dopo gradino, sale su per una scala, ma fa piuttosto pensare a un giocatore la cui chance distribuita su tanti dadi e che, ogni volta che li getti, li vede dispersi sul tavolo. Quel che si vince con una giocata si rischia sempre di perderlo con laltra, ed solo per un colpo di fortuna che la storia diventa cumulativa, vale a dire che i conti tornano in modo da formare una combinazione favorevole.
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Ma come ci comporteremmo di fronte a una civilt capace di realizzare combinazioni favorevoli dal suo punto di vista, ma prive di interesse per la civilt cui appartiene losservatore? Questi non sarebbe forse incline a definire questa civilt come stazionaria? In altre parole, la distinzione fra storia stazionaria e storia cumulativa (una che accumula le scoperte e le invenzioni, e laltra forse anche attiva, ma che assisterebbe al dissolversi di ogni innovazione in una sorta di flusso e riflusso tale da non sottrarsi mai stabilmente alla direzione originaria) non dipende forse dalla prospettiva etnocentrica che insistiamo ad assumere per valutare una cultura diversa? Saremmo quindi portati a considerare come cumulativa qualsiasi cultura capace di svilupparsi in un senso analogo al nostro, mentre le altre culture ci sembrerebbero stazionarie, non necessariamente perch in effetti lo sono, ma perch la loro linea di sviluppo non ha per noi alcun significato, non essendo misurabile nei termini del sistema di riferimenti da noi impiegato. Per far meglio comprendere questo punto, che ritengo fondamentale, in passato ho fatto ricorso a molti paragoni, che adesso mi permetto di riprendere. In primo luogo, latteggiamento da me denunciato somiglia, sotto molti aspetti, a quello osservabile nelle nostre stesse societ, dove gli anziani e i giovani non reagiscono agli avvenimenti nella medesima maniera. Le persone anziane in genere considerano come stazionaria la storia che si svolge durante la loro vecchiaia, in opposizione alla storia cumulativa della quale sono stati testimoni in giovent. Unepoca in cui, da anziani, non si ha pi un impegno, o in cui non si esercita pi un ruolo, cessa di avere un senso. Non vi accade nulla, o ci che accade si presenta, agli occhi degli anziani, sotto un aspetto negativo. Al contrario, i loro nipoti vivono questo periodo con tutto il fervore che i loro progenitori hanno perduto.
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Nelle nostre societ, gli avversari di un regime politico non ne riconoscono mai volentieri levoluzione, ma lo condannano in blocco, lo rigettano fuori dalla storia, come una sorta dintervallo dopo del quale, finalmente, la vita normale riprender il suo corso. Del tutto diversa la concezione dei militanti, e va notato che tanto pi diversa quanto pi importante il posto da loro occupato nellapparato del partito al potere. Lantitesi tra culture progressiste e culture conservatrici sembra allora dipendere da quella che si potrebbe definire una differenza di messa a fuoco. Per chi osserva al microscopio, che si messo a fuoco su di un corpuscolo piazzato a una certa distanza dallobiettivo, i corpuscoli che si trovano al di l o al di qua, anche di uno scarto minimo, appaiono confusi e offuscati, oppure non compaiono affatto. Analogamente, per chi viaggia in treno, la velocit e la lunghezza apparenti di altri treni scorti dal finestrino variano a seconda che essi circolino nella medesima direzione o in quella opposta. Ora, ogni membro di una cultura vi strettamente legato, cos come questo ideale viaggiatore lo al suo treno. Sin da quando nasciamo, lentourage familiare e sociale ci comunica un complesso sistema di riferimenti, composti da giudizi di valore, motivazioni, centri di interesse, comprese le idee che ci inculcano a riguardo del passato e dellavvenire della nostra civilt. Nel corso della nostra vita, noi ci spostiamo letteralmente portandoci dietro questo sistema di riferimenti, e i sistemi di altre culture, di altre societ, sono accostati solo attraverso le deformazioni alle quali il nostro stesso sistema li sottopone, quando addirittura non ci rende incapaci di vederne alcunch. Ogni volta che siamo portati a definire una cultura come inerte o stazionaria, dobbiamo allora chiederci se questo apparente immobilismo non provenga dal fatto che non conosciamo i suoi veri interessi, e se, adoperando i suoi criteri, che sono diversi dai nostri, questa cultura non sia vittima
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della medesima illusione nei nostri confronti. Per dirla altrimenti, queste culture non porterebbero alcun interesse luna allaltra semplicemente perch non si rassomigliano. Negli ultimi due o tre secoli, la civilt occidentale ha preferito dedicarsi alla conoscenza scientifica e alle sue applicazioni. Se si adotta questo criterio, la quantit di energia disponibile per ciascun abitante della terra diventer lindicatore del grado di sviluppo delle societ umane. Se il criterio fosse stato rappresentato dalla capacit di vincere ambienti geografici particolarmente ostili, gli eschimesi e i beduini porterebbero la palma della vittoria. Pi di qualunque altra civilt, lIndia ha saputo elaborare un sistema filosofico e religioso capace di contenere i rischi psicologici implicati da squilibri demografici. LIslam ha formulato una teoria della solidariet di tutte le forme di attivit umana tecnica, economica, sociale e spirituale , ed noto che questa visione delluomo e del mondo ha consentito agli arabi di occupare un posto preminente nella vita intellettuale del Medio Evo. Rispetto allOccidente, lOriente e lEstremo Oriente possiedono un vantaggio di molti millenni in ordine a tutto ci che riguarda i rapporti fra il fisico e il morale, e lutilizzazione delle risorse di questa macchina superiore che il corpo umano. Arretrati sui piani tecnico ed economico, gli Australiani hanno elaborato sistemi sociali e familiari cos complessi che, per poter comprenderli, c bisogno di fare appello a certe forme della matematica moderna. possibile riconoscere negli aborigeni dellAustralia i primi teorici della parentela. Il contributo dellAfrica pi complesso ma anche pi oscuro, perch cominciamo appena adesso a comprendere il ruolo di melting pot che questo continente ha esercitato nel Vecchio Mondo. La civilt egizia intelligibile solo come lopera comune dellAsia e dellAfrica. I grandi sistemi politici dellAfrica antica, i suoi contributi al diritto, il suo pensiero filosofico a lungo ignoto agli occidentali, le sue ar140

ti plastiche e la sua musica sono altrettanti aspetti di un passato molto fecondo. Si pensi infine ai molteplici contributi dellAmerica precolombiana alla cultura materiale del Vecchio Mondo: innanzitutto, la patata, il caucci, il tabacco e la coca (base dellanestesia moderna) che, a diversi titoli, costituiscono quattro pilastri della civilt occidentale; il mais e larachide, che rivoluzionarono leconomia africana prima ancora di essere conosciuti in Europa e, come nel caso del mais, di diffondervisi; e poi ancora il cacao, la vaniglia, il pomodoro, lananas, il peperone, svariate specie di fagioli, di cotone e di cucurbitacee. Infine lo zero, base dellaritmetica e, indirettamente, della matematica moderna, era conosciuto e utilizzato dai maya almeno cinque secoli prima della sua scoperta da parte degli indiani, che lo comunicarono allEuropa tramite gli Arabi. forse questa la ragione per cui, alla stessa data, il calendario maya risultava essere pi preciso di quello del Vecchio Mondo. Torniamo per un momento sul caso dellEuropa e del Giappone. A met del xix secolo lEuropa e gli Stati Uniti erano sicuramente allavanguardia in materia di industrializzazione e di macchinismo. LOccidente aveva saputo sviluppare meglio la conoscenza scientifica per trarne ogni sorta di applicazioni, capaci di permettere un notevole accrescimento del potere delluomo sulla natura. Ma ci non vero allo stesso modo in tutti i campi, come quello della metallurgia dellacciaio e quello della chimica organica, tanto che i giapponesi erano esperti nelle tecniche della tempera e in quelle delle fermentazioni, il che spiega forse come essi oggi siano allavanguardia in biotecnologia. Guardiamo ora alla letteratura. Solo nel xviii secolo assistiamo in Europa allapparizione di opere paragonabili, per sottigliezza e profondit psicologiche, al Genji monogatari; e, per ritrovare in un memorialista i voli lirici e la straziante melanconia dei vostri cronisti del xiii secolo, bisogna aspettare Chateaubriand.
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Nella mia prima lezione, ricordavo che linteresse per le cosiddette arti primitive risale, in Europa, a meno di un secolo fa. In Giappone, un interesse del genere risale al xvi secolo, con la passione manifestata dai vostri esteti per il vasellame rustico, opera di umili contadini coreani. a quellepoca che, presso di voi, si afferma il gusto per le materie lasciate allo stato grezzo, per le tessiture ruvide, per i difetti di fabbricazione, per le forme irregolari o asimmetriche, in una parola per ci che Yanagi Setsu, il grande teorico di questi stili arcaici, chiam larte dellimperfetto. Questa arte dellimperfetto, prodotta al di l delle intenzioni dai suoi primi autori, andava a ispirare in Giappone la ceramica raku, le ardite semplificazioni di un maestro ceramista come Ketsu, e, sul piano grafico e plastico, lopera di pittori e decoratori quali Statsu e Krin. Ora e si tratta del punto dove voglio arrivare , questo aspetto dellarte giapponese, illustrato dalla scuola Rimpa, proprio quello che, nella seconda met del xix secolo, affascin lEuropa e fece evolvere la sua sensibilit estetica. Ci ha determinato una progressiva dilatazione della curiosit europea, che giunta a integrare le cosiddette arti primitive. Ma non lasciamoci trarre in inganno: a questa infatuazione larte giapponese aveva preparato lOccidente senza che questo lo sospettasse, perch ad arti simili per il loro arcaismo gli artisti giapponesi, che ho citato, si erano ispirati molti secoli prima, assimilandone la lezione. Lesempio poco rilevante, ma mi pare indicativo. Noi crediamo che le idee e i gusti progrediscano quando spesso, invece, si limitano a girare intorno. Si scambia cos per un progresso ardito il loro ritorno al punto di partenza. Peraltro, non sono i contributi frammentati a dover attirare maggiormente lattenzione. Per troppo tempo si tenuto conto di tutte le priorit: fenicia per la scrittura, in Occidente; cinese per la carta, la polvere da sparo, la bussola, indiana per il vetro e lacciaio... Questi elementi non
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sono di importanza pari al modo in cui ogni cultura li associa, li conserva o li esclude. Quel che rende originale una cultura risiede, piuttosto, nella maniera sua peculiare di risolvere problemi, di mettere in prospettiva valori che sono grosso modo gli stessi per tutti gli uomini: tutti gli uomini, senza eccezioni, possiedono infatti una lingua, tecniche, unarte, conoscenze positive, credenze religiose, una organizzazione sociale e politica. Ma il loro dosaggio non mai precisamente lo stesso per ogni cultura, e lantropologia si applica a comprendere le segrete ragioni di queste scelte anzich redigere inventari di fatti separati. La dottrina alla quale ho appena accennato a grandi linee nota col nome di relativismo culturale. Questa teoria non nega la realt del progresso, n che si possano disporre certe culture le une in rapporto alle altre, a condizione di limitarsi a questo o a quellaspetto particolare. Il relativismo culturale afferma comunque che, per quanto ristretta, questa possibilit incontra tre limiti. In primo luogo, se la realt del progresso incontestabile quando si consideri lumanit in una prospettiva a volo duccello, il progresso tuttavia si manifesta in settori particolari, e anche qui in modo discontinuo, non esente da stagnazioni e regressi locali. In secondo luogo, quando lantropologo esamina e confronta in dettaglio le societ preindustriali, che costituiscono il suo principale tema di ricerca, incapace di ricavare criteri che permettano di ordinarle tutte su di una scala comune. Infine, lantropologo si dichiara impotente a emettere un giudizio di natura intellettuale o morale sui rispettivi valori di questo o di quel sistema di credenze o di questa o quella forma di organizzazione sociale. Effettivamente, per lantropologo i criteri di moralit sono, in ipotesi, una funzione della societ particolare che li ha adottati. per rispetto verso i popoli da loro studiati che gli antropologi si vietano di formulare giudizi sul valore compa143

rato della cultura degli uni e degli altri. Essi sostengono che nessuna cultura essenzialmente capace di emettere un giudizio vero su di unaltra cultura, poich una cultura non pu evadere da se stessa, e quindi il suo apprezzamento resta prigioniero di un relativismo al quale non v rimedio. Ora e si tratta di uno dei problemi che si pongono allantropologia odierna , non forse vero che, da un secolo circa, tutte le societ hanno riconosciuto una dopo laltra la superiorit del modello occidentale? Non vediamo che il mondo intero ne prende a prestito gradualmente le tecniche, gli stili di vita, il modo di abbigliarsi e perfino le distrazioni? Dalle masse asiatiche sino alle sperdute trib della giungla sudamericana o melanesiana, uno schieramento unanime, e senza precedenti nella storia, ha proclamato, fino a unepoca recente, la superiorit di una forma di civilt su tutte le altre. Nel momento in cui la civilt di tipo occidentale comincia a dubitare di se stessa, i popoli che hanno ottenuto lindipendenza nel corso degli ultimi cinquantanni continuano a esaltarla almeno per bocca dei loro dirigenti, i quali si spingono ad accusare talvolta gli antropologi di prolungare pericolosamente la dominazione coloniale, contribuendo, per lattenzione esclusiva che vi prestano, a perpetuare pratiche cadute in disuso, che costituiscono un ostacolo allo sviluppo. Se mi lecito evocare un ricordo personale, quando, nel 1981, percorrevo la Corea del Sud in compagnia di colleghi e studenti, questi ultimi, come mi stato riferito, dicevano tra di loro in tono beffardo: Questo Lvi-Strauss, si interessa solo a cose che non esistono pi. Il dogma del relativismo culturale dunque messo in discussione proprio da coloro a beneficio morale dei quali gli antropologi avevano creduto di dover formularlo. Questa situazione pone allantropologia, e allumanit nel suo insieme, un grave problema. In queste tre lezioni, ho sottolineato a pi riprese che la progressiva fusione di
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popolazioni fino a poco tempo prima separate dalla distanza geografica, e da barriere linguistiche e culturali, segnava la fine di un mondo, che era stato il mondo in cui gli uomini, per centinaia di millenni, forse per uno o due milioni di anni, avevano vissuto in gruppi stabilmente divisi fra di loro e capaci di svilupparsi ciascuno in maniera differente, sul piano sia biologico sia culturale. Gli sconvolgimenti scatenati dalla espansione della civilt industriale, con laccresciuta rapidit dei mezzi di trasporto e di comunicazione, hanno abbattuto queste barriere. Nel contempo sono venute meno le opportunit offerte da queste barriere, per lelaborazione e per il collaudo di nuove combinazioni genetiche e di nuove esperienze culturali. Probabilmente ci culliamo nel sogno per cui leguaglianza e la fraternit regneranno un giorno fra gli uomini, senza che sia compromessa la loro diversit. Non bisogna tuttavia farsi illusioni. Le grandi epoche creatrici furono quelle in cui la comunicazione era diventata sufficiente per stimoli reciproci tra partners lontani, senza tuttavia essere abbastanza frequente e rapida perch gli ostacoli, indispensabili tra gli individui come tra i gruppi, si assottigliassero al punto che una estrema facilit di scambi uniformasse e confondesse questa diversit. Difatti, se vero che, per progredire, gli uomini devono collaborare, nel corso di questa collaborazione sidentificano gradualmente gli apporti la cui diversit iniziale era proprio ci che rendeva feconda e necessaria la collaborazione. Il gioco in comune, dal quale risulta ogni progresso, deve comportare, a pi o meno breve scadenza, una omogeneizzazione delle risorse di ciascun giocatore. Se la diversit una condizione iniziale, va riconosciuto che le chances di vittoria diventano tanto pi deboli quanto pi a lungo deve durare la partita. questo il dilemma dinanzi al quale oggi, secondo lantropologia, lumanit moderna si trova. Tutto sembra ac145

creditare la prospettiva di una civilt mondiale. Ma proprio questa espressione non contraddittoria se, come ho tentato di dimostrare, lidea di civilt comporta e richiede la coesistenza di culture il pi possibile diverse tra di loro? Il fascino che il Giappone esercita oggi sullanimo di tante persone, sia in Europa sia negli Stati Uniti, non riguarda soltanto i suoi progressi tecnici e i suoi successi economici, ma si spiega in gran parte con la confusa sensazione che, fra tutte le nazioni moderne, la vostra si mostrata la pi adatta a navigare tra questi due scogli, la pi capace di elaborare formule di vita e di pensiero idonee a superare le contraddizioni tra le quali lumanit del xx secolo si dibatte. Il Giappone entrato con determinazione in una civilt mondiale, senza tuttavia rinunciare, finora, ai suoi caratteri specifici. Quando, allepoca della restaurazione Meiji, il Giappone si deciso ad aprirsi, si convinto a dover eguagliare lOccidente sul piano tecnico per poter salvaguardare i propri valori. A differenza di tanti popoli, cosiddetti sottosviluppati, il Giappone non si consegnato, mani e piedi legati, a un modello straniero, ma si temporaneamente allontanato dal suo centro di gravit spirituale solo per poter meglio tutelarlo proteggendo la sua orbita. da secoli che il Giappone si tiene in equilibrio fra due atteggiamenti: da un lato aperto alle influenze esterne, pronto ad assorbirle; daltro lato ripiegato su di s, come per concedersi il tempo di assimilare questi apporti esterni in modo da lasciarvi impressa la sua traccia. Questa stupefacente capacit, mostrata dal Giappone, di alternare due atteggiamenti, di essere fedele sia a divinit nazionali sia a quelli che voi stessi chiamate di invitati, vi probabilmente familiare, e io non pretendo di insegnarvi nulla. Vorrei soltanto, con qualche esempio, avvicinarvi di pi al modo in cui losservatore occidentale reagisce a queste idee. Nella mia seconda lezione rilevavo con quale urgenza si pone il problema della salvaguardia delle abilit tradiziona146

li. Voi avete risposto a questo problema con listituire il sistema dei tesori nazionali viventi, ningen Kokuh. Non penso di violare un segreto di Stato se vi informo che i pubblici poteri nel mio Paese preparano attualmente provvedimenti rivolti a stabilire in Francia un sistema direttamente ispirato al vostro. Un altro aspetto della vostra storia che, per noi Francesi, particolarmente istruttivo pertiene alle modalit differenti se non addirittura opposte con le quali i nostri due Paesi sono entrati nellera industriale. In Francia, una borghesia composta da avvocati e burocrati, alleata a contadini avidi di piccola propriet, ha fatto una rivoluzione che, contestualmente, ha soppresso antichi privilegi e ha soffocato un capitalismo nascente. Il Giappone, da parte sua, ha proceduto a una restaurazione che, risalendo alle origini, mirava anche a integrare il popolo nella comunit nazionale, ma capitalizzando il passato, invece di distruggerlo. Il Giappone ha cos potuto mettere al servizio del nuovo ordine risorse umane pienamente disponibili, perch lo spirito critico non aveva avuto il tempo di provocare i suoi guasti e perch tutto un sistema di rappresentazioni simboliche, risalente allepoca precedente la produzione del riso e gi da questa integrato, era ancora abbastanza solido da dare una legittimazione ideologica al potere imperiale, e poi alla societ industriale... In conclusione, lo sguardo che noialtri occidentali volgiamo al Giappone ci conferma nella persuasione che ogni cultura particolare, e linsieme delle culture di cui fatta tutta lumanit, possono sussistere e prosperare solo secondo un duplice ritmo di apertura e di chiusura, sia sfasate luna in rapporto allaltra, sia coesistenti nella durata. Per poter essere originale, e per poter mantenere, di fronte alle altre culture, scarti che permettano loro un reciproco arricchimento, ogni cultura deve a se stessa una fedelt il cui prezzo una certa sordit a valori differenti, ai quali essa rester totalmente o parzialmente insensibile.
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Voi mi avete concesso lonore di tenere queste lezioni, persuasi forse che lantropologia possa insegnare qualcosa al Giappone. Se per, ed la quarta volta, mi reco nel vostro Paese con una curiosit, una simpatia, un interesse sempre pi vivi, la ragione ogni soggiorno mi rafforza nella mia persuasione che, per il suo modo originale di affrontare i problemi delluomo moderno e per le soluzioni suggerite, il Giappone pu insegnare molto allantropologia.

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Indice

Prefazione di Salvatore Abbruzzese Introduzione di Lorenzo Scillitani Prima lezione Seconda lezione Terza lezione

pag.

5 25 63 93 123

Finito di stampare nel mese di novembre 2010 da Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)

Le bighe

1. Manuele ii Paleologo, Dialoghi con un Persiano 2. Victor E. Frankl, Lettere di un sopravvissuto 3. Ralph Waldo Emerson, Condotta di vita 4. Gilbert Keith Chesterton, Luomo eterno 5. Michael Ende, Storie infinite 6. Claude Lvi-Strauss, Lezioni giapponesi

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