Sei sulla pagina 1di 2

Della guerra, di ogni guerra, esiste unidea in s: tutte le guerre recano una specie di impronta nellimmaginario collettivo, che

le identifica e le caratterizza. Non sempre -anzi, quasi mai questa idea coincide con la realt del conflitto: essa determinata da fattori, in qualche modo, metafisici, estetici, immaginari. Il mito della guerra, frequentemente, determina lidea della guerra, e la deforma, la adatta, la rende ricordabile. E un po come il processo per cui ognuno di noi ricostruisce la propria memoria attraverso meccanismi associativi o analogici: in definitiva, si associa quella determinata guerra a quella precisa immagine della guerra. Ed essa ne diviene, per cos dire, la locandina, la foto segnaletica, lessenza. Le guerre napoleoniche sono macchie di colori brillanti: il rosso, il blu, il bianco delle divise, contro il grigio dei fumi e lazzurro del cielo. La guerra civile americana fuoco e fango e bandiere uguali e diverse insieme, che sventolano, debitamente stracciate: La capanna dello zio Tom e Via col vento. La grande guerra la prima e lultima guerra in bianco e nero: gli uomini, le vampe dellartiglieria, la melma e la ruggine del filo spinato, il sangue e la bava verdastra dei gassati sono ugualmente grigi, nerastri, bianchicci. E silenziosi. Si tratta di una guerra che, nella mente dei contemporanei, non ha suoni e non ha colori: una guerra, sostanzialmente, indescrivibile, ed indescritta. Perch rappresent, per lEuropa, il punto di non ritorno: un passo dentro lorrore da cui non esiste rimedio, n consolazione. La seconda guerra mondiale fu una guerra mimetica: i suoi colori sono le livree maculate dei caccia e dei carri armati, gli elmetti con le retine piene di frasche, per camuffarsi tra i cespugli. Nella Grande Guerra non esistono cespugli, non esiste mimetismo: non c salvezza. E la disperata opera della morte: nientaltro. I paesaggi stessi della guerra, le colline gessose delle Fiandre, la linea sbiadita della Woevre, il piatto dolore della Champagne, non si prestano allepos: sono solo sterminate distese di uomini rassegnati, in cui la falce della sterminatrice miete, in una fatica quotidiana, la sua messe sanguinosa. E nella trincea, prima del balzo, sono tutti eroi, perch tutti asserviti al destino, sono la doomed youth di Owen: dopo, non c pi spazio per leroismo individuale, perch la battaglia una specie di enorme macina indistinta. Ogni medaglia concessa una bugia: ogni medaglia negata uninfamia. Tutti andrebbero decorati, per il solo fatto di essere l, in quel Golgotha che ogni mattina pretende le sue croci. Questa non la realt della Grande Guerra, naturalmente: vi furono infinite pause, infiniti momenti di riposo e, perfino, di divertimento, per i soldati. Ma lidea di quel conflitto, la percezione che ne rimane, ha lo stesso stupefatto orrore degli occhi dei sopravvissuti a Vimy Ridge o a Vaux. Per questo, di film sulla Grande Guerra ne sono stati girati pochissimi: come si possono riprodurre sulla pellicola langoscia collettiva? Lorrore? Lo sterminio? Non a caso, i pochi film celebri sul primo conflitto mondiale hanno trattato temi molto specifici e, talvolta, del tutto marginali, nelleconomia di quella guerra: per solito, concentrandosi sulle dinamiche psicologiche individuali o del piccolo gruppo. Mai sullevento e mai sulla battaglia. Il Formicaio di Orizzonti di gloria una specie di Moloch, misterioso e terribile, che la brigata del colonnello Kirk Douglas dovr affrontare, in un previsto olocausto: una sorta di Deserto dei Tartari a ruoli rovesciati. Eppure, nella Grande Guerra, di fortezze come il Formicaio ne esistettero a decine, dalla Ridotta Hoenzollern alla Cascina morta: ma, nel cinema, di loro sopravvisse soltanto lidea, mai la realt. E lidea quella mirabilmente descritta da Fussell: la linea nemica, come confine tra il nostro mondo ed un altro universo, misterioso ed inaccessibile, inimmaginato ed indistinto. La linea nemica come la siepe di Leopardi? Un parallelo azzardato, ma, per la verit, non del tutto inaccettabile. Rimane la catarsi cinematografica, inevitabile, dopo aver toccato il fondo del male, con linsensata fucilazione, che rappresenta la climax tragica della pellicola di Kubrick: dopo la tragedia, si torna al pathos. Lesigenza di umanizzare un conflitto disumano sintetizzata dalla mirabile scena della ragazza tedesca, costretta a cantare dai soldati francesi: nel trasformarsi progressivo delle loro espressioni, che passano dallo scherno e dalla brutalit alla nostalgia e alla commozione, sta tutta limpossibilit di raccontare una guerra che, nella realt, non ebbe alcuna catarsi. Orizzonti di gloria non un atto di accusa verso la guerra: un poderoso esorcismo, nei confronti del male cui non si

rimedia. Vi poi una Grande Guerra ricostruita negli Studios, ad uso di un pubblico alla perenne ricerca di eroi: forse, solo in questo senso, riferendolo alleroismo di cartapesta o, se si preferisce, di celluloide- laforisma insulso di Brecht assume una qualche credibilit. Perch gli eroi di Hollywood rispondono perennemente allo stesso clichet: uomini semplici e pacifici, costretti dalle circostanze a compiere atti formidabili di violenza. In questo senso, la distanza tra Il sergente York, interpretato da Gary Cooper, e un qualunque superpoliziotto in vena di vendetta, con Steven Seagal nei panni del vendicatore, davvero minima. Il campo di battaglia sempre lo stesso: una no mans land fangosa e nebbiosa, in cui si aggirano i demoni del XX secolo. C sempre molto filo spinato e, spesso, qualche fante vi rimane appeso, come un tragico manichino: talvolta, questo accade perfino ad uno dei protagonisti della pellicola, come nel caso di Legends of the Fall con Brad Pitt ed Anthony Hopkins. Proprio in questo film, si rivela in maniera pi evidente lo stretto legame tra limmaginario bellico e quello western, nella memoria collettiva americana: dopo la morte del fratello, crocefisso ai cavalli di Frisia da una mitragliatrice tedesca (la mitragliatrice uno degli oggettisimbolo della guerra moderna: si pensi allM60 di Full Metal Jacket o di Rambo), Brad Pitt si colora il volto come un indiano ed esce, di notte, a caccia di scalpi nemici. Forse, proprio questo il principale limite della cinematografia statunitense sulla Grande Guerra: questo sincretismo tra frontiera e campo di battaglia, che impedisce agli americani di percepire lo Stimmung di una guerra che fu tutta europea, nella sua essenza. Anche York-Cooper un uomo della frontiera: se gli si impone luso regolamentare del fucile, non mette a segno un colpo, ma, se gli si permette di sparare come faceva a casa sua, nella prateria, diventa un cecchino formidabile. E lAmerica che cerca di americanizzare lEuropa, insomma. Solo che, nei confronti della Grande Guerra, loperazione non riesce: il duello tra titani non sempre applicabile al Materialschlacht. Un po diverso il caso del film Flyboys, dedicato alle imprese (ampiamente romanzate), della squadriglia di volontari americani Lafayette: la guerra aerea, infatti, mantenne, nel primo conflitto mondiale, caratteristiche di duello cavalleresco, almeno sulla carta. Perci, una storia come quella degli aviatori statunitensi particolarmente vocata ad una trasposizione cinematografica di stampo hollywoodiano: fu, in un certo senso, un unicum nelleconomia del conflitto, e in decisa controtendenza con il resto degli aspetti mitologici che ne scaturirono. Tuttavia, in conclusione, possiamo certamente postulare che, vuoi per linadeguatezza del mezzo cinematografico a descrivere quellidea di Grande Guerra da cui siamo partiti, sia per lincapacit dei cineasti di scegliere sceneggiature che abbandonassero la trita retorica hollywoodiana, la prima guerra mondiale, sugli schermi, ha riscosso risultati tuttaltro che esaltanti. Forse, alla fine, perch il cinema vive di finzione e descrivere la morte, pura e semplice, un atto poco cinematografico. E la Grande Guerra rimane, nella memoria collettiva, come unimmensa, pura e semplice, morte. A meno che non si voglia ricorrere alla solita vecchia bugia: dulce et decorum est pro patria mori.

Potrebbero piacerti anche