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Francesca E' una di quelle storie che immagini fatte in bianco e nero sfocato, rigido e lontano. Oppure...

s, in colori seppiati: infuso di malinconia e tramonto. Ma, quando accadde, non fu cos: non era cos: erano i colori vivi e fragranti del mondo, col suo vento fresco, coi suoi profumi, le sue sere cristalline... Una strada sulle colline attorno a Roma, circondata da platani d'inizio autunno: verdi e spennellati di giallo. Un'Isotta Fraschini dai grandi fari bonari si fermava qua e l sul ciglio della strada, mentre una ragazza scarmigliata dai lunghi capelli bruni scendeva a raccattare il vestito, la pelliccia, il cappello... Poi ripartiva, circondata dal silenzio, tra allegre nuvolette di foglie cadute. Era una donna molto bella, di ventiquattro anni: grandi, dolci occhi castani, tratti eleganti, sorriso radioso: Contessa Pallavicini-Sforza, si diceva: Francesca. Era soltanto un dire: mistero chi fosse realmente. Apparve un giorno, con la sua chiassosa Isotta Fraschini, e presto tutti, nei dintorni, ne conobbero almeno il nome. Pazza ninfomane, o amante dell'amore, nessuno rammentava un suo no a chi le piacesse, e moltissimi le erano piaciuti. Capitava (spesso) che si desse alla pazza gioia sui sedili posteriore dell'Isotta Fraschini, mentre la sua ineffabili governante guidava tra le colline. Allora, accaddeva che i vestiti, scivolando via dal suo bel corpo, si stendessero ad aspettarla nel vento, sui rami o per terra. Ed ella li raccoglieva con calma, tornando - sola - a casa. S: per amare Francesca dovevi mettere in conto una lunga passeggiata. E i ragazzi grandi tornavano a casa con l'aria allegra e la sigaretta in bocca sul filo del tramonto, molto dopo l'Isotta della Contessa. Non ricordo che nessuno - dovrei dire nessuna - la odiasse, o che si sparlasse di lei, quando quel che faceva allora, e anche oggi... tant': non si poteva non amarla, non provare simpatia per quella creatura ultramondana cos amante della vita. Anch'io l'andai a trovare, un giorno: un giorno speciale, di quelli che non si possono dimenticare. Suonai alla porta, diciannove anni e tanta emozione: mi apr con un sorriso. E mi accorsi subito di amarla: facile illudersi di amare a diciannove anni, ma io l'amo ancora adesso. Per cui so di aver avuto ragione: l'amavo. Visitai la sua casa e , piano dopo piano, trovai quella austera, turrita villa neoclassica popolata di gnomi ed altre piccole creature fatate tristi e moge. Solo all'attico quegli esserini mostravano un po' d'allegria. Francesca ne era addolorata: ed io ricordai e capii. Era il suo cuore, cos solo, ad essere triste, e quelle creature cos sensibili reagivano per simpatia. La resi parte dei miei pensieri, e condivisi i suoi, e le cose continuarono fino al mattino come avrei voluto continuassero per tutta la vita. Ebbi la certezza di leggere anche nei suoi occhi quello stesso pensiero. Ma era un giorno speciale, e dovevo partire: ci salutammo con un lungo bacio sull'orlo di un giorno di sole dorato e d'aria frizzante.

Partii verso il nord, unico soldato triste in un treno stipato di tanti altri soldati tutti falsamente o follemente allegri. Poi coi camion ci inerpicammo sulle colline. Le voci di retrovia erano di un'offensiva austriaca, di grandi movimenti di truppe. Era il settembre del 1917. Ricordo le parole di un cantante, seduto di fronte a me sul fondo del cassone del camion: <<Speriamo di tornare vivi da questa esperienza>>. Dietro di lui il cielo era azzurro, e la collina gialla. Mi accorsi allora di tutta la mia paura, e mi vidi govane carne al macello che rimpiazzava altra giovane carne al macello. Per, non mi ero sbagliato quel mattino: anche Francesca mi amava, con la stessa follia con cui io l'amavo. Me lo dissero - poi - altri romani, altri che avevano vissuto da quelle parti. Francesca mi aspett, non usc pi con la sua Isotta Fraschini: si sedeva allegra sulla scalinata della sua villa a veder passare gli uomini nella speranza di vedermi tornare, e spesso le toccava d'allontanare qualcuno che credeva d'assomigliarmi. No, non era triste: era allegra, con il suo abito carta da zucchero svolazzante, e un sorriso a fior di labbra mentre i suoi capelli giocavano col vento. E pure gli gnomi e le altre piccole creature che popolavano la sua casa erano tornati gioiosi: per la felicit di ci che era stato, che pu rivivere e mai scomparire; per l'amore che avevo acceso nel suo cuore... Ma io non tornai vivo: morii come i tanti che morirono in quella guerra lontana: non importa se a Caporetto o al Piave. Morii allora, e allora Francesca svan, come svanirono la sua casa ed i suoi piccoli inquilini: svanirono nel vento fresco della sera, in un soffio del Ponentino, in una risata cristallina. Nessuno ormai, sulla Terra degli uomini, ci ricorda.

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