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PRETESTI Collana a cura di Anna Grazia DOria 217

Giorgio Morale

Paulu Piulu

Manni

2005 Piero Manni s.r.l. Via Umberto I, 51 - San Cesario di Lecce


e-mail: info@mannieditori.it www.mannieditori.it

MOSCA CIECA CON IL SOLE

In copertina: disegno di Chandra Livia Candiani Progetto grafico di Vittorio Contaldo

La storia delle mie verit ecco linfanzia M. Cvetaeva, Natalja Con arova c

Il padre
Il padre apparve dopo, annunciato da un odore acido, aspro, pungente, tuttil contrario dellodore della madre. A volte capitava stesse a casa: bracciante agricolo, veniva chiamato alla giornata. Allora la sua voce metteva i brividi, il suo volto era una fortezza compatta che non permetteva infiltrazioni. Non cera modo di sfuggire al suo sguardo e rifugiarsi sotto lala della madre. La casa era sottosopra: cera sempre qualcosa da spostare, angoli da pulire, pareti da scoprire, mobili da ammucchiare. Per Paolo cera una sedia, unisola circondata da pavimenti bagnati e dalle fauci di attrezzi insidiosi; oppure lo scalino di casa, il sottile confine fra dentro e fuori, terra franca dove la legge marziale della casa aveva una tregua. A volte cerano grandi litigi. Al culmine, il padre inforcava la bicicletta e andava via. Va, va a cercare tua madre e tua sorella diceva la madre. Chiss cosa gli diranno contro di me faceva poi. Al ritorno del padre erano mutismi, sguardi che si evitavano e che Paolo rincorreva, spiando il primo accenno di distensione; quando arrivava, era accolto da uno scoppio di risa immotivate, incontenibili, che trascinavano anche il padre. Un giorno la madre, seduta sullo sgabello davanti alla specchiera, raccoglieva i trucchi, che facevano un bellapparire sul ripiano del mobile. Perch? domand Paolo, desolato di quel vuoto. Perch pap non vuole. In quei casi Paolo parteggiava per la madre.
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Il nonno paterno mor prima che Paolo compisse due anni, di un brutto male, dissero. Quando Paolo andava a trovarlo con la madre, il nonno era sempre a letto. Lodore della malattia si faceva a ogni visita pi acuto. Abbracciatevelo gli diceva la madre. vostro nipote! Porta il vostro nome!. A Paolo piaceva rotolare nel letto, ma al nonno dava fastidio, ordinava che portassero via il bambino. Quando Paolo fu pi grande, gli raccontarono che il nonno era stato un brigante e aveva posseduto tanti soldi, che aveva sperperato giocando a carte e frequentando donne. Per molti anni Paolo pens a lui con orgoglio. La nonna paterna aveva una drogheria e lo rincorreva quando Paolo, andando in negozio, afferrava tutto. Cerano certe bottigliette con zucchero e acqua colorata. Nella fuga, Paolo violava le camere che la nonna teneva serrate e, una volta raggiunto, piuttosto che mollare il bottino, preferiva spargerlo per le stanze o spingerlo sotto i mobili. Contava di recuperarlo in un secondo tempo. Quando la nonna mor, andarono allospedale. Non fecero entrare Paolo nella camera mortuaria. Paolo si figurava tutto un mattino in un lungo corridoio, invece lattesa fu breve. Quando i parenti uscirono dalla visita, una smorfia di dolore era stampata sulla faccia di suo padre: il labbro inferiore si piegava, mentre lui nascondeva il viso. Fra i mormorii, Paolo sent la zia Dina che andava ripetendo: Che puzza! Che puzza!. E agitava le mani, a far intendere quanta. A casa, la madre di Paolo disse al padre:
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Tua madre era l, fredda, su un tavolo di marmo, e tu sei stato lunico ad abbracciarla e baciarla. Per forza disse lui. Era mia madre.

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Case
Paolo ha una bussola per la memoria dellinfanzia: sono gli spazi in cui ha vissuto, le case e le strade; ognuno reca impressa una data. Una porta, una finestra, una lampadina su cui si sono posati lungamente i suoi sguardi sono segnavia e quegli occhi gli permettono di vedere ancora. Quasi quella primissima infanzia giacesse in fondo a un oceano, in essa agevolmente Paolo simmerge, come un palombaro, per trarne fuori inattesi reperti. Paolo nacque in un cortile. Alla sua nascita, spiritello mobile, svolazzava come una farfalla nei cieli della stanza, sfiorando le pareti, scendendo a sorvolare il letto grande, la culla dove cera il corpo piccolo protetto da un velo, i mobili con i confetti offerti ai visitatori. Nacque alle undici di mattina: silenzio, voci, fruscii, frastuoni, la penombra del velo che, nei giorni seguenti, volentieri avrebbe strappato. Altre volte avrebbe voluto alzarsi in volo, ma non c pi riuscito. Paolo ricorda la calma raccolta del cortile, i passi strascicati, i soliti passanti, un pieno di sole. Ricorda il caldo della prima estate: toglieva il respiro e il sonno. Invano la madre sbarrava la porta al sole, invano giungeva la sera: buio e afa riuscivano ancora pi soffocanti. Il momento pi bello era il pasto mattutino. La madre imboccava Paolo sul marciapiede davanti casa. Il clima era gentile e finestre e fiori si mostravano in tutto il loro splendore: le finestre, verdi; i fiori, rossi. Con essi Paolo aveva un solo fuggevole appuntamento giornaliero, che aspettava come una
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salvezza. Il loro fascino era accresciuto dallelezione della madre, che li offriva in premio alla sua carezza, una volta consumato il pasto. Dopo, se anche pi volte Paolo le faceva cenno di condurlo dai fiori rossi, lei era inflessibile e i fiori, seppure a pochi passi, restavano lontani un giorno. Zia Sara e le figlie custodiscono il ricordo della seconda casa. Alla loro vicinanza erano dovute brevi assenze della madre. Era un giorno destate (perch sempre destate? Forse perch lestate illumina meglio i ricordi?). Si era appena conclusa la delizia del bagno. La madre lo aveva lavato, profumato e vestito; lo aveva pettinato; aveva commentato con voce ridente: Adesso ci diamo il borotalco Adesso ci mettiamo il vestitino nuovo. Paolo aveva nuotato e sollevato spruzzi nella bagnarola metallica che aveva trasformato in un mare in tempesta. Aveva tenuto la spugna, laveva inzuppata e laveva strizzata, facendo la pioggia. Era andato sottacqua. Adesso lavventura era finita ed era tornata lestate. La madre aveva accostato la porta contro linvasione delle mosche. Cera solo una fessura. Vittorioso, un raggio affilato fendeva la penombra e simmergeva nella bagnarola, di nuovo piena di acqua limpida e fresca. Comera sensibile lacqua e come rispondeva al dito di Paolo che le faceva il solletico! I cerchi sallargavano, raggiungevano i bordi del recipiente e venivano a chiamare Paolo, a invitarlo. E se Paolo savvicinava, anche il fondo salzava, a fargli coraggio. Come sarebbe stata contenta la madre, se da solo fosse entrato nella vasca e si fosse lavato di nuovo! Sarebbe stato pi pulito. Gli avrebbe detto: Bravo!. Vincendo laltezza, Paolo scavalc e fu dentro. Non aveva pensato ai vestiti. Lacqua fuoriusc. Apparve la madre.

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La casa del quartiere Stazione dava la visuale su una via lunga come il richiamo del venditore ambulante: Bomboloni! Bomboloni!. Accentato sulla prima o, per attirare subito lattenzione, e strascicato sulla terza, per prolungarla, mentre sorvolava sulla seconda, in un precipitato dansia. Luomo passava a met mattina, con unimmensit di bomboloni nel canestro di vimini. Dal giorno in cui gli lanci due bomboloni, dietro i quali, complimentoso, arriv pure lui, per aiutarlo a scartarli, per Paolo non ci fu richiamo pi gradito. Paolo ricorda la carta che sappiccicava alle dita, i bomboloni che gli riempivano la bocca, la saliva che scendeva a sporcarlo.

Allo specchio
I traslochi sono rimasti nella memoria come viaggi da una citt a unaltra. Ogni volta ripartivano da stanze vuote e mal illuminate, bagagli a mucchi, pranzi improvvisati. Ogni volta, giochi dombre sconosciuti alle pareti. Abolendo lorientamento, il buio confondeva gli spazi e ingannava i sensi. Paolo non capiva se un rumore provenisse da destra o da sinistra, dallalto o dal basso; turbinava, finch Paolo sinabissava in fondo al gorgo, o levitava a mezzaria, costretto a capriole senza fine dallingovernabile altalena delle immagini. Come unancora, Paolo invocava la mano che la madre tendeva da un letto allaltro. Paolo lafferrava, facendo passare la sua attraverso le assicelle che formavano la sponda del lettino, incerto confine con il mare aperto, come il parapetto di una nave. Cos anche Paolo ebbe una lampada della notte. La sua luce, pi che rischiarare lo spazio circostante, era appena sufficiente a segnalare la sua presenza; era solo una piccola stella perduta nel firmamento. Bastava comunque a non farlo sentire abbandonato in quella notte senza luna. Certi giorni la madre usciva presto, si recava dalla signora di una sartoria che le dava lavoro per casa. La sera prima recitava le istruzioni; Paolo annuiva e la rassicurava, gi pregustando la gioia di sentirsi pi grande, pi solo. Quando il giorno lo svegliava, guidato da quella stella, Paolo si alzava, lasciava la camera da letto e andava a sedersi davanti alla porta a vetri, dalla quale poteva guardare ed essere guardato. In quei

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mattini, tutta la strada passava davanti alla sua porta e diventava sua amica. Una frotta di bambini veniva a giocare sul marciapiede, in un semicerchio di cui Paolo era il centro. Una volta Paolo si svegli prima del solito. La strada appena destata savviava lentamente nel nuovo giorno. Erano radi i passanti e i bambini non erano ancora usciti a giocare: li aspettava Paolo, li aspettavano i marciapiedi accoglienti, che non meritavano tanta solitudine. Nessuno saccorgeva di lui e persino i muri della casa di fronte assorbivano i suoi sguardi senza rimandarglieli. Paolo si drizz in piedi sulla sedia e si trov a consulto con la sua immagine, riflessa dallo specchio a muro. Quello specchio era una sorta di casetta variopinta; dalle foto, come da tante finestrelle, guardavano visi noti e meno noti; sui ripiani, come piante sui balconi, fiorivano i trucchi della madre. Paolo era sempre stato incuriosito da quegli oggetti in confezioni lucide, a cui la madre teneva tanto. Adesso erano l, disponibili. Allung la mano e cominci a studiarli. Apr un rossetto, tracci qualche linea sul viso e trov che faceva un belleffetto. Pi si pitturava, pi si esaltava, fino a quando non ebbe pi spazio libero. Ci ripass sopra del bianco, pi volte, per evitare che bianco e rosso si confondessero, e fin con una rosea spruzzata di cipria. Si gir verso la strada e la vide finalmente animarsi. Bambini savvicinavano, lo segnavano a dito, richiamavano coetanei e adulti. Le donne savvicinavano anchesse, ridendo e commentando. Sera appena formata una piccola ressa, quando arriv la madre. Divertita anche lei, non picchi Paolo: si limit a sgridarlo e a ordinargli di pulirsi, mentre in Paolo nasceva una domanda: Se mi pulisco, quando potr pitturarmi di nuovo?.

La fabbrica
Siamo alla periferia, di notte, in una strada che attraversa i campi. Due figure avanzano frettolose in un mare dinchiostro. Una un uomo; tiene per il manubrio una bicicletta, sul cui portabagagli ciondola un fagotto: il figlio, che poco fa ha detto di avere freddo. Allora si sono fermati e la mamma lha avvolto in una piccola coperta. Laltra una donna, che cammina di fianco al marito reggendo delle borse. Non c nemmeno la luna. Un cane andato loro incontro, sbucato dal buio abbaiando, il bambino si spaventato e il padre ha messo in fuga lanimale con un sasso. Per fortuna il passo delluomo sicuro; e poi in lontananza ci sono delle luci: sembrano le barche da pesca che di notte si vedono sul mare. Tant vero che il bambino ha domandato: Quello il mare?. No, quelle sono le luci delle case. E questo cos? domanda il bambino, tendendo le orecchie a un fragore lontano. questo il mare. Chiss com agitato!. Mi pare che il bambino ogni tanto sonnecchi. Il padre lo sostiene, finch un sasso o una buca non lo riscuotono bruscamente. La famiglia unita, ma se si potesse vedere meglio, se il buio permettesse di vedere, ci accorgeremmo che la loro espressione afflitta. Quando arriviamo? domanda il bimbo. Tra poco. Sempre tra poco!. Ormai siamo proprio vicini. Perch andiamo al buio?. Perch cos pi bello.
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Perch non dici la verit? interviene la madre. Perch siamo poveri, gli devi dire, e ci vergogniamo a farci vedere. Da quando siamo sposati, non abbiamo fatto che cambiare casa. Cosa potevamo fare, se le famiglie non ci hanno aiutato?. Adesso dove andiamo? domanda ancora il bimbo. In una casa nuova risponde il padre. Non una casa, una fabbrica corregge la madre. una fabbrica nostra?. la fabbrica dove lavora tuo padre. Ma la casa nostra?. Non nostra, ci andiamo per non pagare laffitto. Cos risparmiamo, mettiamo da parte un po di soldi e poi ci facciamo una casa nostra. Se Dio vorr! conclude la madre. Era una fabbrica di mattoni, il cui edificio rosso, che risaltava nel verde della campagna, era la prima avvisaglia del centro abitato per chi arrivava da Noto. Vicino alla fabbrica cerano stradine con case basse sulla cui porta la sera saccendevano delle lampade. A Paolo sembravano case da presepe. In quel tratto di strada i piedi mettevano le ali, perch l abitavano le puttane: parola sconosciuta, minacciosa, innominabile. Pi tardi, capitava qualcuno domandasse alla madre: Abitate l, vicino a quelle case con le lampadine?. Lei rispondeva risentita: Abitiamo pi in l, perch non sono una di quelle. Paventando che un giorno o laltro la madre avesse una reazione eccessiva, Paolo prese a temere quella parola, che per, per ingenuit o per malizia, puntualmente arrivava: allora Paolo stava sulle spine, finch non aveva termine lo scabroso argomento. La parola proibita per gli rimaneva dentro,
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ogni volta che veniva pronunciata si gonfiava, rimbombava, andava occupando tutta la persona. Una volta trov la strada dei denti e scapp fuori: Puttana!. Paolo non tent di giustificarsi. Cosa avrebbe potuto dire, Volevo sentire che suono avesse? Sub la punizione in silenzio, come un peccatore impenitente. Appena arrivati, la prima sera, alla luce fioca di una lampada di basso voltaggio, la nuova casa non li aveva riempiti di gioia. I loro cuori, gi abbastanza provati, erano come una spugna strizzata fino in fondo, che deve aspettare si allenti la presa per riacquistare il volume abituale. Entrare era stato come sprofondare in un purgatorio di attesa e disagio. Il pavimento della casa era pi basso rispetto al livello della strada, da cui si accedeva attraverso un alto scalino. Era proprio il gesto dello scendere nellumidit, nella penombra, nella penuria che allinizio stringeva il cuore. La casa era una sola lunga stanza. In passato era stata un deposito di cemento, adesso diventava labitazione del custode e della famiglia. Appena entrati, a destra cera la pila per lavare i panni, un lavandino, un appendistoviglie, il gabinetto in realt lapertura di un pozzo nero, in cui si versavano orina ed escrementi da un vaso. A sinistra cera un fornello a gas e un tavolo con le sedie. Era un tavolo alla buona, perch i genitori di Paolo avevano dovuto portare a casa di parenti il tavolo bello, grande, con il ripiano di marmo, parte dellesigua dote di nozze. Fino a quando restarono alla fabbrica, la madre and periodicamente dai parenti. Chiedeva di vedere il tavolo, ci si sedeva davanti e spiegava che quando avrebbero avuto una casa loro lavrebbero ripreso. Poi tirava fuori dalla borsa un panno e puliva accuratamente il mobile, controllando controluce che
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non recasse macchie o impronte. Dopo la cerimonia, la visita aveva termine. Tornando alla casa, oltre il bagno e la cucina, pi in fondo, a sinistra si ergeva un monumentale armadio in legno scuro, con specchi enormi, che occupavano tutta laltezza di quattro ante. Al centro cera il letto, su cui sovrastava leffigie della Sacra Famiglia: un bassorilievo in gesso a tenui colori pastello. Alla parete di destra, in cui si apriva, in alto, una piccola finestra, era addossato il letto di Paolo. Nei giorni successivi il loro arrivo, il padre complet larredamento. Divise lo spazio diurno dalla camera da letto con un paravento: uno scheletro in legno, su cui erano incollati fogli di giornali. Le tante figure sovrapposte e accostate a caso formavano un fertile campo per la fantasia. Anche le travi e le canne del soffitto componevano motivi e disegni dietro cui perdersi.

I soldi
Nei primi anni della fabbrica i litigi fra i genitori di Paolo continuavano. Il padre aveva minore facilit di parola rispetto alla madre. Come se gli argomenti, insieme alla lingua, gli simbrogliassero in bocca, a un certo punto ammutoliva, i lineamenti gli si contraevano, prendeva la bicicletta e andava via. Una volta Paolo gli corse dietro fino alluscita della fabbrica, perch non andasse; lui si limit a guardarlo e and via lo stesso. Ogni volta Paolo aveva paura che il padre non tornasse. Rimasto con la madre, ne ascoltava le lagnanze: una cantilena che finiva col suonare falsa. La paura di Paolo si nutriva di una contemporanea paura della madre. Il padre e un cugino avevano progettato di emigrare in Venezuela. LAmerica ricca diceva il padre. L si fanno soldi a palate. Ma al momento decisivo part solo il cugino, la madre di Paolo non firm il consenso allespatrio. Paolo ricorda che il cugino scrisse un paio di volte, dicendo che dovera stava bene e reiterando linvito perch fosse raggiunto, poi non diede pi notizie di s. Il padre di Paolo nei primi tempi tornava ogni tanto alla carica. LAmerica ricca diceva. Qui facciamo una vita risicata. Ma non se ne fece nulla. La zia Sara serb risentimento per la madre di Paolo. Se andava anche tuo marito diceva forse mio figlio non si sarebbe perso. Cosa potevo fare? rispondeva la madre di Paolo. Avevo

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il bambino piccolo. Se succedeva qualcosa, come facevo da sola?. Capitava che, guardando la foto del figlio nello specchio a muro, la zia Sara battesse la mano sulla coscia e sospirasse. Allora Paolo sentiva una fitta e si sentiva un po colpevole. LAmerica fu una cometa dalla coda lunghissima, che pian piano svan. Non altrettanto i litigi, che tenevano la scena di lunghe serate. Paolo impar a individuarne largomento principe: i soldi. Il tema sannunciava in sordina; diventava dominante quando i genitori tiravano fuori dallarmadio la scatola azzurra che fungeva da cassaforte. Tutta la casa allora si bloccava, finch il rito non era compiuto. Paolo contemplava da lontano le operazioni di contare, aggiungere o sottrarre, vedendo ogni tentativo di avvicinarsi respinto come un sacrilegio. Divenne geloso di quellentit che catturava tutta lattenzione dei suoi. In quei momenti insorgevano tutti i fastidi e i bisogni: la fame, la sete, il mal di pancia, un formicolio in tutto il corpo. Paolo correva intorno qua e l, finch, a prova, savventurava in tattiche davvicinamento. Impiegava un tempo interminabile per guadagnare, silenzioso, qualche passo. Il terreno gli scottava sotto i piedi. A volte arretrava, spaventato della sua audacia, sospeso sullabisso degli ultimi passi. Una voce lo bloccava, confermando la potenza del mostro: Aspetta, va a giocare. Spesso imprecazioni, gesti di rabbia, mani rivolte al cielo maledicevano lavversit del destino, appena attenuata dalla misera fortuna di non dover pagare, abitando alla fabbrica, affitto e luce. A quei discorsi avrebbe voluto prender parte anche Paolo, per dire quello che sentiva. La povert non gli sembrava il peggiore dei mali.
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Meno male che il pap non andato in America pensava. Ma le parole non volevano uscire. La lingua, legata, lo condannava a una prigione invisibile: poteva ascoltare, ma non parlare. Una volta, dopo una discussione furibonda, quando la tensione si sciolse, il padre gli domand: Sai di cosa abbiamo parlato?. Dei soldi fu la pronta risposta. Altro Paolo non riusc a dire. Divenne impaziente di verificare la materia di quel bene prezioso, quei fogli di carta colorata impregnati del grasso e del sudore delle tante mani che li avevano posseduti, il cui forte odore si diffondeva nello stanzone. Un giorno si fece coraggio. Me li fai toccare?. Il padre, con gesto improvviso, glieli diede. Tieni, sono per te!. Paolo fu sbigottito. Il padre insisteva. Prendi!. Tutti?. Tutti. Appena li ebbe in mano, arriv la domanda. Cosa fai adesso?. I loro occhi non lo mollarono. Per lunghi secondi Paolo fu sulle spine. Credere o non credere? Pass in rassegna varie risposte sarebbe stato bello dare una risposta da grande. Alla fine il desiderio di liberazione gli soffi in bocca le parole. Li brucio!. Fu un campanello dallarme, che fece scattare la trappola in cui era caduto. I soldi gli furono tolti di mano, come per metterli in salvo. Stupido bambino, questo il valore che dai ai soldi?.

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Due anni
una mattina dinverno, laria frizzante e limpida. C il sole, ma non ancora spuntato da dietro la casa. Ledificio proietta davanti a Paolo la propria ombra, ma in lontananza il creato ha colori vivissimi. La madre lo ha vestito e gli ha pettinato i capelli in boccoli di cui egli va orgoglioso. Lha quindi messo a sedere sullo scalino. Il suo volto si fa per lui cielo, mentre gli dice, agitando davanti ai suoi occhi lindice e il medio nel gesto che gli americani usano per dire vittoria: Oggi la tua festa. Oggi fai due annuzzi! Oggi fai due annuzzi!. Nelle belle giornate, mentre la madre lavorava dentro, Paolo, seduto sulluscio, godeva il tepore. Il cuore della fabbrica era oltre la tettoia, dove confluivano scaglie di marmi e sacchi di cemento. Lingranaggio lambiva appena Paolo; gli trasmetteva il tenue moto dello sguardo che seguiva landirivieni di merci e uomini. Rumor di ferraglia era laccordo dei suoi pensieri. A tratti era rapito dagli alberi remoti, inafferrabili come un dipinto. Capitava, entrando e uscendo, che lasciasse la porta aperta. La madre accorreva a chiuderla, per difendere la sua intimit. In seguito gli ingiunse di bussare, quando avesse voluto entrare. Paolo avverte ancora il tormento di quella porta negata alla sua iniziativa. Il divieto gli faceva sentire irrimediabile il gesto della chiusura, netta la separazione fra dentro e fuori, penoso lallontanamento dalla madre. In caso dindecisione arrivava lultimatum: Scegli!.
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Dopo il primo entusiasmo, Paolo era sopraffatto da noia e indifferenza per il quadro che gli stava davanti. Si agitava, salzava in piedi, grattava alla porta di legno grezzo, di cui qualche scheggia a volte gli restava nelle dita; finiva per bussare. Inavvertitamente arriv la bella stagione, sollevando uno dopo laltro veli e sipari fin allora abbassati. Prima i mandorli si vestirono di bianco e la luce sprigionata si riverber allintorno, assumendo, nei prati, forma di farfalle e margherite. Anche le piogge, pi rade, furono improvvise, leggere e cristalline, lultimo schermo alla rivelazione finale. Poi spuntarono le campanule, che Paolo chiamava campanelli, che sin dal nome squillavano come un richiamo, e i papaveri, che sbandieravano a festa il loro rosso. Un giorno la madre disse a Paolo: Oggi ti porto a giocare sul prato. Paolo si trov di colpo in quel luogo che, dallo scalino di casa, gli era sembrato tanto bello e irraggiungibile. Anche gli alberi non furono pi appiattiti dalla lontananza, per conquistare, ognuno, forme e sfumature proprie. Paolo divenne orgoglioso del suo prato: unisola verde e gentile, da dove la prospettiva sallargava e lorizzonte, non impedito dagli edifici, si abbassava, vasto, scoprendo la massa azzurra delle montagne. Le montagne! Si spost su di esse il confine della fantasia. Furono la lontananza e laltezza, la forza e la gioia. A volte a Paolo sembrava di poterle raggiungere. Tendeva braccia e gambe, si proiettava su strade e case sospese allincrocio di linee oblique, misurava lazzurro che lo separava da esse e calcolava la curvatura del cielo, rimandando da un giorno allaltro il salto decisivo. Anche i suoi, venendo a guardarlo nelle pause del lavoro, lo rassicuravano sorridendo:
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Il prossimo sar pi alto!. Proprio davanti alla casa cera un pozzo: una o allinizio e una alla fine, e in mezzo un lungo e stretto cilindro. Sulle pareti urtava la voce di Paolo, quando, quasi levitato per la forza dei gesti con cui esprimeva il desiderio, un adulto lo prendeva in braccio e lo faceva guardare in quel cannocchiale capovolto. Nel fondo Paolo vedeva, piccolissima, la sua immagine. Avrebbe voluto raggiungerla, ma, pi si agitava per vedere meglio, pi si stringevano le braccia che lo reggevano. Paolo ricorda la filastrocca che gli ripeteva un operaio facendo il verso di tirare su acqua dal pozzo: Chicchirich, sutto lettu cci ni su tri: unu ca canta, unu ca frisca, unu ca tira lacqua frisca. Per Paolo era un canto alla gioia dellacqua e ai misteri del pozzo. Questa era la sua filastrocca: Paulu piulu caccarazzu sinfilau jntra n cannizzu, si jnciu ri privulazzu Paulu piulu caccarazzu. Paulu era il nome, di cui piulu era, con lartificio della consonanza, una duplicazione. Piulu era un sostantivo onomatopeico, che si potrebbe tradurre con lamento. Indicava il verso di un uccello notturno e, per trasposizione,
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lo stesso uccello, che si diceva avesse il potere di dare la chiamata della morte; perci, figurando come apposizione di Paolo, gli attribuiva il potere dellanimale. Caccarazzu era il nome delluccello, che veniva dietro al suo richiamo. A Paolo veniva in mente come, guardandosi allo specchio, vedeva lo spazio fra gli occhi e il naso formare nel volto un triangolo che ricordava il capo delluccello. La sovrapposizione fra lui e lanimale era a questo punto totale. Paulu piulu caccarazzu: la chiusa arrivava a conferma. Non tutti avevano una filastrocca, Paolo s. Rideva orgoglioso e chiedeva. Ancora!. Diana apparve dopo, quando cominciarono a splendere anche i meriggi. Quando Paolo laccarezzava, essa si metteva con la pancia allaria e le zampe ritte al cielo. Aveva il pelo folto, anche se corto. Il dorso era bianco a chiazze marroni: sembrava la schiuma del mare, con in mezzo isole vaganti che aspettavano di essere scoperte, carezza dopo carezza. Allinizio Paolo pensava che fosse sporco, ma poi vide che era proprio quello il suo colore. Non ringhiava mai, era docile e appena vedeva Paolo cominciava a saltare, perch voleva che egli le tirasse dei sassi. Si chiamava Diana e, anche se allora Paolo non conosceva la dea cacciatrice, intuiva trattarsi di una dea: la dea che illuminava: di gioia, i suoi meriggi.

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Il nonno, il cavallo, la stalla


Dopo che i nonni paterni morirono, la grande casa al corso si chiuse ancor pi nel silenzio e nel lutto. Poi, con la smobilitazione del negozio, nuove camere furono vietate alle corse di Paolo. La zia Dina, fattasi guardiana dellimmobilit degli spazi, lo faceva sentire perennemente di passaggio: il suo sguardo sorvegliava i passi del nipote, la sua mano era rapida nel bloccare ogni slancio, la sua voce era il gorgogliare di una brocca ripiena, che traboccava a ogni iniziativa. Tuttaltra atmosfera a casa dei nonni materni: l la porta non era una barriera, ma una cerniera fra dentro e fuori sempre aperta. I suoi numerosi abitanti non sapevano di chiuso e dombra, ma di luce e daria, che pescavano in continui scambi con la strada. Il nonno era sempre in procinto di partire o darrivare dal gran mondo. Nei suoi occhi lucidi Paolo vedeva il vento e la polvere di tante corse da carrettiere e la fatica di scrutare nelloscurit, le tante notti dei suoi racconti avventurosi. Raccontava di quando, durante la guerra, si dedicava al contrabbando, percorrendo, diceva, tutte le strade della Sicilia e Paolo vedeva la Sicilia come un incrociarsi di strade, che il nonno dominava dallalto del carro. Per Paolo questo rappresentava il massimo della conoscenza, mentre il braccio destro del nonno, alzato nellatto di agitare la frusta, sua personale messaggera alle orecchie del cavallo, era il massimo dellautorevolezza. Misteriosa era lintesa fra luomo e lanimale, qualcosa della cui forza era passata alluomo, e che luomo ricambiava con attenzioni che si riserverebbero al pi fedele compagno. Quando arrivava dalla nonna, la prima preoccupazione era il ristoro della bestia; la seconda, il suo. Per assolvere
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queste incombenze, la casa sospendeva le altre attivit. La nonna e le zie accorrevano, consapevoli che un ritardo sarebbe stato punito con le vibrazioni di una voce tonante. Il tramestio cessava quando il nonno si metteva a tavola. Una delle sette meraviglie del mondo era il piatto in cui lui mangiava; uno di quei piatti in cui destate si faceva asciugare al sole la conserva, strabiliante tanto in circonferenza quanto in altezza; un bastimento stracarico che minacciava di affondare da tutte le parti. Accompagnava tutti i cibi con vino rosso; se la nonna rilevava unincompatibilit, il nonno sentenziava: Latti e meli, vivici beni. Poi con aria ispirata recitava una quartina in lode del vino. Iu vivu vinu e mai mi sentu saziu, quantu ni vivu e vivu ricu: siziu. U vinu vali cci ri lu tupaziu, cu vivi acqua ppi mia a n bruttu viziu. In quei momenti il suo faccione si faceva cos rosso che sembrava sotto pelle gli scorresse solo vino; e pareva struggersi di tenerezza, mentre le labbra gli si facevano sottili sottili nella pronuncia della u finale dei versi. A Paolo pareva non dovesse essere facile riempire quel pancione, vasto come il mondo da lui percorso, che aggiungeva imponenza alla figura del nonno. Quando la sera usciva, in vestito nero e camicia bianca, da solo occupava il marciapiede. Si riconosceva da lontano, nei gesti di protendere il pancione e di agitare il bastone nodoso, mentre i muri si ritraevano per fargli largo. Attorno a lui laria era agitata da mille tempeste. E il capo sempre pi gli si ergeva, tentando le nubi, rotondo un palloncino l l per spiccare il volo, come se il pancione fosse una montagna che gli impedisse la visuale.
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A Paolo piaceva quando il nonno lo portava con s sul carro. Prima di partire gli raccomandava di tenersi forte al pomello. Andava a condurre il cavallo alla stalla, appena fuori del paese. Paolo sincantava a guardare le ruote, a seguire i raggi nel loro giro, a rincorrere dal fuso al cerchione lessenza del moto. Si sentiva partecipe delle avventure del nonno, dei lunghi viaggi per le strade della Sicilia. Era orgoglioso dei saluti che, andando, gli fioccavano addosso, segno della considerazione di cui godeva. A Paolo piaceva la pace senza tempo della stalla, la penombra in cui le mucche agitavano la coda, le galline razzolavano, le mosche facevano le padrone, insieme allodore grasso e pungente delle feci. Osservava con riverenza il rito del beveraggio e i gesti esperti del nonno che riempiva le mangiatoie, dopo aver staccato il carro e deposto i finimenti. Paolo sempre stato compreso dellimportanza del cavallo, intimidito dal copioso sudore, da cui deduceva le distanze percorse; dalle orecchie sensibili, che si drizzavano come cercando di capire i discorsi; dal girare la testa verso di lui, che, non osando affrontarlo frontalmente, gli sostava al fianco. E il nonno interveniva, a comandare che ci si mettesse di fronte, altrimenti il cavallo si sarebbe innervosito. Di quel mondo antico incantatore la stalla rappresentava per Paolo una gran parte.

Mamma Maria
Da un mondo ugualmente lontano veniva la casa dei nonni. Il passato la pervadeva. Forse per lilluminazione a candele o a petrolio, che la sera fra una persona e laltra erigeva presenze sconosciute e confondeva i contorni delle conosciute. O forse per laffollamento di strani oggetti, come cuscini e merletti, madie e telai, ceste e finimenti, mortai e macinini. Il forno e la cucina a legna in anni di attivit avevano reso la parete nera come il cielo in una notte senza luna, in cui locchio smarrisce il senso delle misure e delle prospettive. Con essa faceva un bel contrasto, come il giorno con la notte, sulla parete di fianco, tutta una batteria di lucidi coperchi, come una schiera di scudi allineati alla battaglia. Allaltezza della divisione dellunico stanzone in cucina e camera da letto, operata con laccostamento di un armadio e di una credenza, si protendeva come la prora di una nave un grande soppalco in legno: il regno degli zii. Tutto rendeva la casa una patria delezione. Ciononostante Paolo non mai riuscito a farsene un quadro completo, troppi erano gli angoli che restavano misteriosi. Come sarebbe stato esaltante frugare da cima a fondo in cassetti e stipi a muro! O nelle casse e cassettine che avevano trovato posto sotto il tavolo o sotto il letto, contendendolo ai giochi! Ma troppa era lautorit del nonno e troppa la cura della nonna, perch Paolo osasse tanto. Quando arrivava il nonno, con larghi movimenti si tirava dentro le lunghe strade e il gran mondo. A stargli vicino, Paolo temeva di essere schiacciato, perci si contraeva, facendo rientrare le sporgenze: piedi, mani, naso, respiro. Qualcosa del genere doveva essere capitata alla nonna, che sembrava

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essersi rimpicciolita. Qualsiasi posto della casa occupasse, era sempre come rincantucciata in un angolo. Se il nonno labbracciava, diventava una bambina e agitava le braccia come le ali di una libellula. Quando si divincolava, tornava a percorrere la stanza come una trottola. Compensava la mancanza degli stivali delle sette leghe del nonno con una sorta di moto perpetuo, come alcuni giocattoli che, raggiunta una meta, rimbalzano, fanno dietro-front e ne tentano unaltra. Erano, ognuno nel proprio territorio, re e regina. La giurisdizione del nonno si estendeva su Avola e oltre. Chi avesse confessato di non conoscerlo avrebbe ammesso un proprio limite. Quella della nonna si esercitava sul quartiere Stazione, che sorgendo, con le case bianche di calce, fra i giardini pubblici e la ferrovia, aveva motivi di vanto tali che ne facevano il cuore della vita cittadina. Cose ne succedevano tante, da beghe fra comari a storie damore e di coltello. E quando litigava, la gente urlava di rabbia; quando qualcuno arrivava o partiva, urlava di gioia o dolore, come se lurlo fosse la sanzione dellevento. Quale era poi lo stupore, al vedere gli stessi che prima urlavano andare per strada impassibili come statue. La nonna aveva una capacit particolare nel captare le nuove anche nel breve tragitto dalla casa al droghiere. Sembrava che le novit laspettassero e alla svolta della cantonata le sappiccicassero addosso; a volte la venivano a cercare perfino a casa. Altro motivo di orgoglio era la sua bellezza. La sua fiaba preferita era quella della sua giovent. Era stata la pi bella dei suoi tempi, diceva, e tutti la invidiavano e ne sfuggivano il paragone. I migliori partiti di Avola la ricercavano, ma lei li aveva rifiutati tutti. Solo uno le piaceva, per il portamento
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fiero: il nonno. La incantavano i suoi occhi neri come grani di pepe, i baffetti da malandrino, il papillon con le ali sempre tese, la distinzione dellorologio al taschino, il bastoncino da gran signore. Era lunico che non sera tirato indietro, quando la famiglia di lei laveva rifiutato, e lei aveva gioito, quando lui laveva rapita: mentre lei camminava per strada, laveva afferrata e caricata su una carrozza Paolo faticava non poco a far combaciare i contorni di quei personaggi da fiaba con la realt. Ma quando, a volte, le zie mettevano da parte le sedie, avviavano il giradischi e iniziavano le danze, il nonno e la nonna ripetevano la storia del loro amore. Scendevano in pista pestando il piede per terra, con un movimento che ricordava la prima toccata dellarco sul violino, e accordavano il passo come riprendendo un gesto interrotto ma conosciuto a memoria. Allora la nonna era davvero la giovinetta, lui il malandrino che la rapiva nei ghirigori della danza; lei si affidava fiduciosa, lui diventava agilissimo e la guidava attraverso le altre coppie come attraverso i casi della vita. Le delusioni, raccontava la nonna, erano venute dopo, la sua vita non era stata quale lei se lera immaginata. Uneco giungeva da quei tempi; un filo, doro come la gabbia che il sole le disegnava attorno, quando sedeva di primo pomeriggio davanti alluscio semiaccostato; tenue come la sua voce appassionata, che intonava le melodie della giovent. Forse perch voleva non solo narrare, ma continuare a vivere la fiaba della bella principessa; forse perch aveva fatto sempre la mamma nella vita, prima delle bambole di pezza, dopo dei figli, poi dei nipoti; o forse per qualche altro motivo che Paolo sconosce, la nonna non voleva che egli la chiamasse nonna. Doveva chiamarla mamma: mamma Maria.

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Il mare
Lo zio Saro portava spesso Paolo al mare, quando Paolo andava a trovare la nonna e lui era in casa ma la casa era troppo stretta per le sue inquietudini di adolescente. Allora portava Paolo in bicicletta e a Paolo toccava il posto pi scomodo: il telaio. Paolo scopriva il mare come un cane dopo le ultime case, le case in costruzione, i giardini. Man mano che si avvicinavano, quel triangolo azzurro che dal pi antico dei ricordi non smetteva di accompagnare per strade e strade di Avola diventava brezza, odore salmastro, chiarit. A volte si fermavano, fra curiosi e mosche, davanti alle case di pescatori che stavano di sentinella alla Marina Vecchia. I tetti erano altissimi, reti brune pendevano alle pareti come arazzi, tutto odorava di tonnina. Niente distoglieva i pescatori dal lavoro. Erano scalzi, con risvolti ai pantaloni, petto nudo o camicia aperta, stretta da un nodo a farfalla. Arrivati sulla spiaggia, Saro esibiva la sua abilit. Era bravo nellinsegnare ai sassi strade sul mare. Paolo impar a contare seguendo i salti a pelo dacqua. Dopo Saro diceva a Paolo di aspettarlo sulla spiaggia e correva sui barconi enormi che giacevano nella grande tonnara, davanti al porticciolo della Marina Vecchia. Paolo lo vedeva dal suo posto di osservazione arrampicarsi sui barconi con altri ragazzi: tante figure nere, visti in controluce. I loro movimenti, nella lontananza, erano silenziosi; i gesti, rimpiccioliti e rallentati; poi sparivano tutti, inghiottiti dalle rigonfie pance delle imbarcazioni, partiti per un viaggio fantastico che anche Paolo bramava. A volte Paolo
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temeva che lo zio partisse davvero e si spaventava, ma in genere aspettava un po prima di chiamarlo; nel frattempo, si trovava a tu per tu con il mare. Prima vedeva roteare davanti agli occhi tanti atomi luminosi, che a tratti lo inducevano a smarrire la prospettiva, non fosse stato per i gabbiani, attenti a tracciare il lontano e il vicino con i voli. Un momento dopo, con un cambiamento della messa a fuoco, gli sembrava di poter spingere lo sguardo fino a distinguere il punto esatto in cui terra e mare si congiungevano. In quel punto, a volte gli capitava di scorgere un azzurro diverso da quello del mare e del cielo, e lo attribuiva alla costa di una terra lontana. Si domandava come facesse a stare insieme tanta acqua a separarlo da altre terre, che, era sicuro, avrebbe raggiunto un giorno, e sentiva irrefrenabile la spinta a levarsi in alto in alto, fino a tendere con locchio un filo che congiungesse la sua terra con quelle doltremare. Ma tutto ci che gli era concesso era ergersi in punta di piedi su un rialzo o su uno scoglio per superare quella prospettiva schiacciata che alla lunga lopprimeva, nella quale la battigia era il vertice di una piramide rovesciata che aveva come facce il mare e la terra e come base il cielo: e lui, piantato in prossimit del vertice, si sentiva prigioniero. A volte in un eccesso di coraggio, rispondendo al fascino delle onde, Paolo avrebbe voluto andar loro incontro. Altre volte, fatto improvvisamente codardo, fuggiva gli assalti di mille lingue che si protendevano a far vacillare la sabbia sotto i piedi, come quei cani che, nonostante ti dibatta per scrollarteli di torno, ti stanno sempre alle calcagna. Tra un estremo e laltro, Paolo faticava a trovare la giusta posizione. A volte saspettava che, come un miraggio, apparisse allorizzonte un
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punto quasi indistinguibile, che poi avanzasse velocemente sulle acque aumentando dimensioni e acquistando figura umana. Altre, si figurava di essere egli stesso a scivolare sulle acque, tratto da una forza arcana. Altre ancora, situava larcano sotto le acque. Paventava mostri enormi, grandi quanto il mare e con tentacoli pronti a svolgersi in tutte le direzioni. Li sentiva crescere nellattesa, sotto lapparente indifferenza della superficie. Finch, incapace di durare quella fantasia, linterrompeva, decidendo di relegarli negli anfratti marini, da cui mai si sarebbero mossi, e di placare i pensieri nella visione della calma incolumit di vele lontane.

La pioggia
Nel ricordo le stagioni intermedie sfumano, assorbite da quelle forti. Dopo i primi acquazzoni, linverno arrivava a grandi passi. Il calendario diceva che le giornate saccorciavano, ma per Paolo, che non sapeva leggere, sallungavano. Ridotte le visite, ridotti gli spazi aperti, si vedeva diventare uno spettatore. Degli utensili da cucina gli erano familiari tutte le forme: lammaccatura di una pentola, lustione di un manico, il fondo di una padella. Le pareti erano ricche di rientranze e sporgenze. Il paravento tappezzato a giornali era il telone di un cantastorie. Ma lo spettacolo principale era la madre: la madre che, con una carezza energica, spolverava i mobili; la madre che lavava i pavimenti, conducendo una battaglia personale contro lo straccio, che torceva e spingeva avanti e indietro, con un accanimento che le alterava i lineamenti e incuteva paura; la madre che guidava il ferro da stiro a carbone lungo le pieghe dei vestiti come una locomotiva sui binari, mentre Paolo giocava a spostarsi al suo passaggio allultimo momento; la madre che cuciva, con le mani che, secondo la lunghezza del filo, ora savvicinavano ora sallontanavano dalla stoffa informe, da cui i suoi gesti avrebbero tratto lentamente il vestito che Paolo avrebbe indossato E poi quelle storie dei bambini raccontate sottovoce, fatte delle cose di tutti i giorni, intrecciate in una sequela interminabile, ritmata, anzi cantilenata! In quel borbottio Paolo metteva tutto se stesso. Quando raggiungeva la sicurezza del canto, era come se una fiammella si fosse accesa e Paolo dimenticava quello che lo circondava. In tal modo le giornate trascorrevano indistinte.

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Le sere invece acquistavano vivezza. Quando arrivava il padre, accendeva il fuoco in un vecchio bacile e tutto assumeva un altro ritmo. Mentre i genitori si affaccendavano per la cena, li rincorrevano le domande di Paolo. Perch piove?. Perch gli uccellini fanno la pip spiegava semiserio il padre. Paolo rideva, finch arrivava la correzione della madre: Perch Ges Bambino fa piovere!. Allora anche il padre sinchinava alla maest di Ges Bambino. Il padre poneva anche indovinelli. Ajju nu saccu ri purcidduzzi; quannu cianciunu, cianciunu tutti. Cosa sono?. Dimmelo tu!. Le tegole. A volte, dopo cena, il freddo spingeva luno vicino allaltro e tutti vicino al fuoco, ma il caldo lottava non poco con gli spifferi e le fessure del tetto. Certi momenti la pioggia rendeva assorti, come un lungo racconto del cielo alla terra che cercavano di decifrare. Quando, a letto, Paolo la sentiva interminabile, gli sembrava che tutto il cielo volesse scendere gi e che lindomani avrebbe visto cosa cera dietro, oltre lazzurro. A volte, quando picchiettavano distintamente sulle tegole, cercava di distinguere una goccia dallaltra; poi, esausto, si rassegnava ad accettarle confuse tutte insieme. A volte si sve38

gliava, ed era scuro anche a giorno fatto, e si accorgeva che pioveva ancora. In quei casi si prolungavano le operazioni dinizio giornata, che, pi era lenta a partire, pi Paolo e la madre rallentavano. Quando pioveva per giorni e giorni, si formavano grandi pozzanghere simili a rigurgiti, quasi la terra non ce la facesse a trattenere tutta quellacqua. Quelle zone, che Paolo chiamava il mare, restavano proibite per giorni. Paolo spiava i camion che venivano a scaricare materiali, sollevando schizzi e lasciando solchi che, asciugato il terreno, si sarebbe divertito ad appianare.

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Le preghiere
Le preghiere erano il gesto conclusivo della giornata. Il padre, che la fatica del lavoro metteva in pace con se stesso e col mondo, sbrigava la pratica con un frettoloso segno della croce (Pare che scacci le mosche diceva la madre); poi guardava Paolo sorridendo compiaciuto. Quel sorriso diceva: Io non so le preghiere, nessuno me le ha insegnate o forse le ho seppellite con linfanzia; ma tu imparale: come se, dicendole tu, le dicessi anchio; come se tu le dicessi anche per me. Difatti Paolo pregava anche per il padre, per quanto pensasse che lui non ne avesse bisogno. Lo reputava infatti particolarmente vicino a Ges: tant vero che si chiamava Giuseppe come il padre di Dio e lavorava tanto come il gran falegname. Dire le preghiere era un modo per essere pi vicino al padre e alla madre, avvicinandosi a un mondo che superava anche loro. In piedi sul letto dove aveva ruzzolato fino a poco prima, rivolto allimmagine della Sacra Famiglia in cui vedeva un quadro di loro stessi, Paolo si lasciava guidare le mani dalla madre nel segno della croce. Poi, con le mani giunte a formare una puntuta piccola ala dangelo rivolta verso lalto, ripeteva le parole che gli venivano offerte come una formula propiziatoria per passare indenne la notte. Le recitava a voce alta, attento a cogliere nellintervallo fra i suoni un segno del loro accoglimento. Vedi che ti ascolta? diceva la madre tendendo lorecchio. Il silenzio che assorbiva le parole dava la risposta che Paolo aspettava. Le domande sul padre dei cieli invece seguivano Paolo
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anche nella solitudine. Lo cercava nei cieli, aspettandosi di vederlo affacciarsi da un balcone di nuvole. Quando il cielo era azzurro azzurro, la massa daria compatta impediva di vedere. Quando il cielo era tempestoso, un raggio di luce che filtrava da uno squarcio era visibilmente un riverbero della gloria divina. Anche il tramonto era unora interessante per cercare segni nel cielo. E anche la notte, quando la luna rendeva il cielo trasparente. In quel sentore di divine cose, particolarmente tangibile risultava a Paolo langelo custode. Perennemente alle sue spalle, se si girava Paolo, si girava lui. Unica spia della sua presenza era un leggero fremito dellaria, come un battito dali in risposta allo scatto di Paolo. Era lunico essere celeste che, anzich guardare dallalto, si accostava tanto a Paolo, da camminare coi suoi passi e vedere coi suoi occhi, arrivando a coincidere con lui, col suo sguardo interiore, che in certi momenti gli sembrava arrivasse da lontano, da un oltre di lui. Con un fagotto di preghiere e un angelo per amico, la madre spingeva Paolo nella notte. Pur con tanto viatico, la notte stentava a partire. Il buio era troppo: una massa nera compatta e viscida, che gli occhi di Paolo non potevano contenere. E non cera un solo buio, ma mille, con tanti occhi piccoli come spilli che lo trafiggevano. Paolo chiudeva gli occhi per non vedere e non farsi vedere. Senonch gli spilli che si sconficcavano dagli occhi si spargevano sul corpo, come tanti brividi che un alito daria cattiva, infiltratosi da una fessura delle coperte, sollevava sulla pelle. A Paolo sembrava di essere allaperto. Appena taceva il rumore delle coperte e del corpo che si girava e rigirava, i topi zampettavano cos vivacemente sulle tegole da annullare la distanza: erano sul capo,
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alla radice dei capelli. In qualche spostamento pi brusco forse facevano cadere del terriccio, o forse era Paolo che se lo sentiva cadere addosso, insieme al rumore di cocci e minutaglia e ai loro squittii. Allora si fasciava nelle lenzuola come una mummia e ne tirava un lembo fino a coprirsi gli occhi. Ma adesso erano i muri che si animavano di una vita sottile che scorreva nelle loro cavit. Pareva una lucertola, un insetto, una foglia secca o un altro essere ostinato che serpeggiava, strisciava. Il rumore era tanto vicino al suo letto, che Paolo temeva quellessere lo raggiungesse. A distogliere Paolo da presenze cos ravvicinate arrivavano labbaiare dei cani e i richiami degli uccelli notturni, che, dicevano, venivano a raccogliere lultimo respiro dei morenti. Paolo pregava, di nuovo; balbettava ansioso che, per favore, non si trattasse di uno di loro. Ambedue i rumori costruivano una pi vasta geografia: sorgevano strade di campagna e di paese, fra un ramo e laltro, fra un rintocco e laltro del campanile. Paolo si librava sulla cima del suono, dove lo raggiungeva il sonno.

Le attese
Adesso Paolo pensa che saper aspettare sia una gran dote, allora non lo intuiva nemmeno in compenso si esercitava nelle attese. A volte si aspettava anche di sera, quando il padre faceva straordinari o lavori occasionali. Lacqua bolliva nella pentola il coperchio traballando suonava ladunata, ma capitava che la madre dovesse aggiungerne altra per fermare lebollizione o addirittura spegnere il gas. Per un po la madre lo teneva buono raccontando storie, dopo cominciava a chiedersi anche lei come mai il marito tardasse. La madre raccontava di una donna alta alta, che tutti chiamavano la tigre, e andava in giro con un sacco dove rinchiudeva i bambini. Una notte Paolo se la vide comparire davanti. Nel buio, al quale non si era ancora abituato, forme danzavano, evanescenti; corpuscoli si cercavano, si aggregavano, assumevano laspetto minaccioso di una figura femminile alta alta che digrignava i denti, artigliava le mani e si curvava sopra di lui. Era la tigre, senza dubbio, ma perch aveva la faccia della madre? Paolo url e rabbrivid. La paura non labbandon quando i suoi accesero la luce, gli fecero bere un bicchiere dacqua e lospitarono nel lettone. Eri tu la ladra di bambini di cui parlavi nel racconto? Avevo a volte il timore che, per un amore grande come il tuo, la mia personalit fosse dimpedimento. Per rimuoverlo, eri sempre a spiare e controllare pensieri e sentimenti, che avrei voluto lanciare in aria, come un aquilone, e disperdere. Ma li riportavano a terra le domande irresistibili, linfallibile preveggenza, le prove, i rimbrotti, i trabocchetti, gli occhi neri che arrivavano dappertutto Eri tu la ladra di bambini?
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Anche se eri la pi buona, col tuo Dio-medaglione al collo; col tuo trascorrere agevolmente dal riso al pianto, dal pianto al riso, che mi disorientava; col tuo antico risentimento per il lavoro, che ti restava estraneo Eri tu la ladra di bambini?. Questo pensa Paolo. E se avesse potuto formulare in parole ci che sentiva, quella sera avrebbe detto pressappoco cos; ma non poteva. Ciononostante il pensiero che la ladra di bambini, la tigre, potesse essere la madre non lo lasciava tranquillo. A lei non ebbe il coraggio di dirlo, temendo di accelerare una catastrofe, mentre vegliava controllando il respiro. La madre si commuoveva per le sue storie e le spuntava qualche lacrima prima di arrivare alla fine del racconto. Lo stesso succedeva al padre con il riso. Egli raccontava le storie del contadino saggio che sostiene davanti al re che il cibo migliore del mondo sono i fagioli e la cosa migliore la cacca, a cui il re si trova a dar ragione in occasione di un mal di pancia che lo porta alla morte. Oppure di Giuf, il popolano sciocco che prende tutto alla lettera, come quando la madre gli dice di buttare due ceci nellacqua per la minestra e lui ne butta davvero due; oppure come quando la madre gli dice di tirarsi dietro la porta di casa, uscendo, e lui la scardina e la trascina per strada. Racconti sempre storie sporche! lo rimproverava la madre. Sono quelle che mhanno insegnato si difendeva lui. Come lacqua che, quando sta per riempire la brocca, sempre pi borbotta e nello stretto passaggio lotta con laria, finch, quando il recipiente colmo, si riversa, cos il padre. Man mano che savvicinava alla fine della storia, stentava a tratte44

nere i conati del riso, fino a quando, irrefrenabile, il riso scoppiava, prima della battuta finale. Siccome il riso contagioso, Paolo sommava il suo scroscio. La storia passava in secondo piano, appiglio a cui tornare quando il riso stava esaurendosi, per rilanciarlo pi sonante. La madre sulle prime era divertita anche lei. Ma, come succede per tutte le cose belle, pi se ne ha, pi se ne vuole avere. Cos Paolo e il padre: pi ridevano, pi volevano ridere. Se fossero stati veramente due brocche, lacqua si sarebbe riversata sui pavimenti, avrebbe invaso tutti i luoghi e la casa sarebbe stata allagata. Allora la madre si riscuoteva e li riprendeva, come se fossero due bambini. Quando la breve serie delle storie si esauriva, tornava a spalancarsi il vuoto delle attese. Allora la radio giganteggiava nel mobiletto di legno scuro. A essa si rivolgevano, umili e fiduciosi, Paolo con invocazioni, la madre con gesti rituali. Lascolto era limitato; tanta, laspettativa, che saccumulava e saccumulava, finch la mano girava la manopola, provocando lo scatto che indicava laccensione. Allinizio cerano scariche, come se il dio avesse un raschio in gola o volesse differire le rivelazioni. Paolo fremeva, tanto gli pesava ogni ritardo. Man mano che la manopola scorreva, la voce silluminava di lucine rosse, gialle, verdi, che segnalavano nel quadro le stazioni trasmittenti. Paolo non saprebbe dire se laffascinassero di pi i nomi delle citt o quelle lucine, che componevano un teatrino col sipario abbassato, esasperando la sua curiosit per ci che succedeva dietro le quinte. Quando la manopola girava troppo rapida, scaturiva una tempesta sonora in cui non era facile orientarsi. Spesso giungevano nenie arabe e idiomi stranieri, che la madre scartava. La gioia di Paolo saccendeva, quando lo sorprendeva il programma preferito: il segnale orario. Lannuncio era preceduto da un trillo che si librava nel45

laria e per pochi, fulminei secondi faceva trasalire le ombre. Era un canarino che cantava solo per Paolo, il quale se lo figurava come un compagno di prigionia, a cui, in mancanza daltro, poteva offrire solo la vicinanza, a comune conforto.

Lo spirito della festa


Paolo le riconosceva nel calendario dai numeri in rosso, per correre ai quali avrebbe voluto strappare tutti gli altri fogli. Giorni e giorni prima il volto di Avola veniva mutando. La popolazione femminile si spargeva per negozi e parrucchieri. Abbigliamenti e acconciature nuovi, fino al giorno della festa, alimentavano sfilate davanti allo specchio o in cerchie ristrette, a cui si attribuiva il potere di dispensare suggerimenti e rassicurazioni critiche troppo palesi o irreparabili no, avrebbero potuto nascere dissapori o inimicizie. I pi avrebbero ammirato le novit il gran giorno, limitandosi, nellattesa, a congetture e domande. Si vedevano facce compiaciute; modi condiscendenti, di quella condiscendenza che deriva dalla coscienza del proprio valore; e ammiccamenti amichevoli, come a significare: Vorrei dire, ma non posso. La citt stava al passo. Le vie principali saddobbavano di una ricca illuminazione, sospesa sulla strada da un palazzo allaltro. Ogni anno Paolo si domandava quali figure essa avrebbe composto, mentre sbalordiva nella contemplazione degli operai che salivano su scale altissime e lo lasciavano col naso in su, a farsi guidare dalla mano della madre. La sera della festa, abbagliato, anche il cielo spariva nella sua lontananza. Allora frusciavano le stoffe, scricchiolavano le scarpe nuove; allaltezza del seno, i ventagli irradiavano come soli; tanti ori luccicavano su polsi e scollature come ex voto sulle statue dei santi. Bambini e adulti facevano ressa

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attorno alle bancarelle di arachidi, semi, ceci abbrustoliti, dolciumi. Tutti richiamati dalla medesima golosit, ma gli adulti forniti di ben superiori mezzi per soddisfarla. Paolo da una parte si sentiva legittimato dai loro modi, dallaltra provava risentimento per tanti adulti che, agendo da bambini particolarmente potenti, usurpavano i diritti dei bambini veri. Quelli che godevano il passeggio seduti ai tavolini dei bar assumevano unaria superba, come se la processione si svolgesse in loro onore. Si baloccavano con cucchiaini e gelati e facevano ordinazioni con la riflessiva autorevolezza di un generale. Intanto, come le formiche procedono in lunga fila e, quando sincontrano con la fila proveniente dalla direzione opposta, si fermano, si annusano e si toccano le zampine, cos lincontro di conoscenti veniva salutato con una breve sosta, loscillare delle teste, una stretta di mano. Leuforia di Paolo cresceva in misura proporzionale al numero degli incontri, da cui si aspettava un complimento, uno scherzo, un regalo. Il vocio, landirivieni, la ressa avevano un potere ipnotico, che cancellava il ricordo di propositi e prediche. Le orchestre suonavano in piazza i motivi in voga, che, per la disposizione dei palazzi e le leggi misteriose della propagazione dei suoni, non si sentivano magari da due passi, ma si sentivano benissimo da casa di Paolo, quasi il suono facesse pi fatica ad attraversare il centro abitato che a levarsi in alto, oltre case e campanili, e da l diffondersi in tutte le direzioni. Poi cerano le bancarelle di giocattoli, da cui le trombette chiamavano insistentemente; e i grappoli dei palloncini, che, una volta posseduti, scappavano subito di mano, portandosi su nelloscurit il cuore e il diritto di affermare: mio!; n mancava la gioia ostentata dei bambini pi fortunati Immancabilmente Paolo veniva deluso.
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Sei incontentabile! gli diceva la madre. A una certa ora, pensando alla levata del giorno seguente, i genitori gli facevano prendere la via di casa. Non erano ancora finiti gli ultimi suoni e gli ultimi fuochi che gi nella mente Paolo sentiva risuonare, accompagnandolo, nella strada del ritorno. E siccome, finch cerano luci accese e gente per strada, per lui la festa non era finita, lultimo sguardo alla festa era dato attraverso la lente deformante delle lacrime. Ancora pi triste, tra poco, sarebbe stato vedere da lontano il paese: un mucchietto di case, sopra cui avrebbe aleggiato, in un alone di musica e luce, come un coro angelico, lo spirito della festa.

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Doppu Natali, friddu e fami


Paolo ricorder sempre ci che gli diceva il padre: Doppu Natali, friddu e fami. Il detto gli incuteva un sacro terrore del futuro. In compenso, scoprire che i disagi non erano terribili come aveva temuto alimentava il suo ottimismo. Per strada sincontravano suonatori di ciaramelle e un maggior numero di mendicanti, ad approfittare del transitorio aumento della bont operato da Ges Bambino. La citt si faceva un presepe. E dentro il grande presepe vivente, nelle vetrine dei negozi, tanti presepi gareggiavano fra loro. Luci colorate e addobbi dargento e doro smentivano il detto che non tutto oro quello che luce. Nellaria fredda di mezzanotte si rinnovavano promesse e raccomandazioni, inviti alla devozione e gesti rituali. Limmagine della Vergine, ancor pi bella nella lontananza fisica e nel ricordo, infondeva uno struggente senso di purezza. E non solo padre e madre, ma anche nonno e nonna, zii e zie si muovevano, tutti assieme, per la nascita. Da ogni dove, come loro, gente andava in chiesa, come venendo da un lungo cammino. Le strade erano buie e assorte, le sagome appena visibili. Pi sappressava alla meta, pi la gente sinfittiva. Fervevano il parlottio, lo scalpiccio. Sullo spiazzo facce e braccia emergevano alla luce, ed erano abbracci e strette di mano. Paolo ricorda la decorosa semplicit dellaltare maggiore,
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laustera solennit di dipinti scuri alle pareti; spiava lininterrotto mormorio delle vecchine, dagli occhi neri come il lutto dei vestiti e dei cuori; aspettava gli scampanellii che lo divertivano tanto, evocando lidea di uno scodinzolio sonoro. Lincenso sinnalzava in circonvoluzioni attorte come le colonne barocche, e a lui pareva che il cielo scendesse in terra, o che la terra salisse in cielo. Quando la sua tensione aveva termine, era per chiedere alla madre: Quand che fanno il cielo?. Il giorno dopo, le ore cadevano nel silenzio come campane, svegliate dai lavori del mattino. Poi, pian piano, si scaldava il sole del giorno di festa, il sole pi luminoso. Contrariamente agli altri giorni, che avevano la parte centrale lenta e interminabile, come un treno merci che, guardi e guardi, sembra non finire mai, il treno della festa partiva come un accelerato, ma proseguiva come un rapido. Sarebbe finito arenandosi tristemente in un binario morto, come una locomotiva daltri tempi.

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Le citt di Paolo
Avola era un mondo vario e accidentato. I quartieri erano regioni separate luna dallaltra dalle depressioni degli spiazzi o da corsi e viali che, come fiumi, vi sinfiltravano con tanti rivoli: alcuni si perdevano nei campi, altri immettevano nelle valli e nelle gole dei larghi e dei cortili. Nelle vaste pianure delle piazze si ergevano gli altopiani dei sagrati, dove svettavano le facciate delle chiese. In seguito, Paolo si sarebbe installato nel centro e da l avrebbe dominato la geografia della citt, diventata fin troppo piccola. Allora invece i suoi spostamenti disegnavano tanti centri, tutti dislocati sulla circonferenza esterna. Per questo, oltre che per la ridotta misura dei suoi passi, le distanze risultavano moltiplicate e Avola appariva assai grande. I suoi confini si prolungavano nella citt dei morti del camposanto e nelle grandi case dei pescatori. Anche i monti erano unestrema propaggine della citt, le sue torri di guardia. Nel linguaggio abituale si diceva gi per indicare il mare e su per indicare la stazione. Cos nellorientamento di Paolo i punti cardinali si spostavano: allimmagine del mare e del punto in cui nasceva il sole veniva a sovrapporsi lidea del sud, fino alla perfetta coincidenza di sud ed est. Ancora adesso, ovunque si trovi, Paolo soffre dellerrore e, dove vede spuntare il sole, l cerca il suo sud e sillude che, dove finiscono le case, inizi la lunga striscia luminosa che allora vedeva il sole stendere sul mare. Noto sembrava a Paolo un paese di fiaba. Ogni palazzo era un castello, ogni edificio splendeva come se avesse il sole den52

tro. Le statue dei santi e degli uomini illustri emergevano dalle nicchie e dalle decorazioni per un tacito plauso. Le vaste scalinate formavano un cammino di maest e donore che ogni volta Paolo aspirava scalare, sentendosi a ogni gradino pi vicino al cielo. Solo, dopo un po gli sembrava di soffocare: gli mancava il mare, vederlo in lontananza, sapere che ci fosse. Ne cercava un succedaneo nel passeggio della Flora, dove si apriva il panorama sul Val di Noto, leggermente ventilato e odoroso. Prima di arrivare a Noto la strada era costeggiata da grotte scavate nella roccia. La madre spiegava che risalivano allultima guerra: in occasione dello sbarco degli alleati avevano fornito rifugio agli sfollati. Il viaggio verso Siracusa era invece un viaggio verso il mare, scandito da tappe precise: i monti Iblei si azzurravano fino a confondersi con lorizzonte; a Cassibile si ergeva fra i campi il castello della marchesa, fatto della stessa pietra luminosa delle chiese di Avola e dei palazzi di Noto; il fiume Anapo, fra canne e papiri, si versava nel mare, che sintravvedeva come un preannuncio dellaperto splendore del golfo di Siracusa. Era unemozione attraversare il ponte che congiungeva la terraferma con lisola di Ortigia. Gli occhi non riuscivano a contenere la luce e i colori del porto, le tante barche attraccate e oscillanti. Vedere una nave era un avvenimento. Dove va? chiedeva Paolo. Lontano, forse in America rispondeva la madre. A quel nome la nave diventava portatrice di una possibilit di vita che nel passato si era prospettata al padre e che forse nel futuro sarebbe tornata a riproporsi, sia per lui sia, forse, per Paolo.

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Primavera
Via via le nuvole non furono pi una minaccia di segregazione, ma gomitoli di lana bianca e soffice, che un gatto faceva rotolare da un angolo allaltro del cielo. Le ultime piogge avevano lasciato pozze che sotto il sole divennero tanti specchi in mezzo allerba verde, che sarebbe stato bello mandare in frantumi con un calcio. Poi anche quelle furono un ricordo. Paolo esultava e ringraziava la bella stagione, che elargiva ogni giorno qualche minuto di luce in pi. Anche la fatica, adesso, pesava meno, consentendo al padre, dopo il lavoro, di accompagnare Paolo in amichevoli perlustrazioni nel grande spazio della fabbrica. Un giorno il padre distinse dellinsalata che cresceva spontanea fra lerba. Ne raccolse e ne port a casa. A casa prese a dire: terra buona, quella del prato, ci cresce di tutto. E anche: Adesso in campagna ora di piantare peperoni e pomodori. Completando quei discorsi e collegando i fili di un ragionamento che si andava formando, intervenne la madre: Potremmo farci un orto. Il padrone ebbe meno titubanze nellacconsentire di quante ne ebbe il padre di Paolo a fare la richiesta. Cos ogni giorno, alla chiusura della fabbrica, cominci il lavoro allorto. Appena smossa, riscuotendosi da un lungo sonno, la terra mise in mostra un brulicare di larve e dinsetti che presero a muoversi in tutte le direzioni, in un gran soffio caldo, come
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per effetto di uno sbadiglio proveniente dalle profondit risvegliate. Il lavoro e la stagione procedettero speditamente, in gara affinch luno non superasse laltra. Erano tanti la luce e il tepore e tanti la voglia e lenergia con cui il padre assestava i colpi, che la terra pareva leggera e docile. Fu delimitato lo spazio, preparato il terreno, tracciati i solchi e piantati semi e piantine. Lungo i solchi si eressero montagne in miniatura, che sulle prime Paolo si divertiva a scavalcare, subito raggiunto dagli allarmi: Calpesti le piantine!. Fino a quando Paolo non cambi lo sport preferito, i genitori spiarono i suoi movimenti; lui, i loro; e tutti quanti, la crescita delle piantine. Paolo gioiva di ogni loro progresso, di riconoscerle, di nominarle e di constatare come le forme via via assunte corrispondevano alle aspettative. Mentre la primavera diventava estate, quei frutti dellorto che pian piano acquistavano volume e colore erano proprio i pomodori ricchi di sole; le cipolle, il cui acre succo un distillato degli umori della terra; i peperoni rossi, verdi, gialli; le melanzane turchine; le verdure verdi, concentrato dacqua e luce; le patate, roccia fatta alimento; e poi i cocomeri, a proposito dei quali Paolo si domandava come potesse tanto caldo produrre tanta polpa dacqua e zucchero; e le angurie, le cui fette erano lallegria dellestate portata sulla tavola, come una grande bocca aperta a un sorriso. Mentre il padre lavorava allorto, la madre creava davanti alla casa il suo giardino, una corte variopinta che divenne il primo e lultimo contatto giornaliero col mondo esterno. Paolo ricorda la rosa, nelle vesti rossa, bianca, rosa, il cui nome bastava a suscitare rispetto ed emozione tuttavia la chiami pure, chi vuole, regina dei fiori: le preferenze di Paolo
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andavano al re garofano, suo sposo, il cui profumo vinceva ogni altro, che, eretto sullo stelo, era limmagine stessa della maest. Cera poi lortensia, imponente nel vaso come una duchessa in carrozza, che non la finiva pi di distribuire i rotondi sorrisi delle sue ricche infiorescenze e, con modi estroversi e marcatamente femminili, non mancava dincutere soggezione. E poi cerano gli alti dignitari, i papiri, misteriosi nella loro esilit; le begonie, damine semplici e aggraziate; i gerani, orgogliosi delle loro porpore; e le calle, alfieri armati di lance e scudi. Alle estremit vigilava tutta una guardia irta di spade e frecce, le giovani palme e le felci ombrose; e poi, nei posti di minor riguardo, ma non per questo meno preziosi, gli abili operai, la menta, il basilico, il prezzemolo; e per finire, il principe solitario, il gelsomino, che arrampicandosi ai lati della porta stupiva tutti con la nobilt della sua altezza. Queste piante, la madre le allineava come una bambina i suoi tesori, e a ognuna riservava cure appropriate. Cos, nella solitudine della fabbrica, lo scrosciare dellacqua rispondeva ai colpi dellorto; il sentore della terra bagnata era la base che amalgamava tutti gli odori, e i colori di foglie e fiori ravvivati dallacqua trovavano la loro cornice in quelle ore serene. Secondo le stagioni, fra travasare, potare, concimare, annaffiare, smuovere la terra, ogni giorno, al sorgere e al tramontare del sole, cera un gran da fare. A volte Paolo lasciava la madre inginocchiata davanti ai vasi e sallontanava. In quel tempo che egli avvertiva come infinito, per lui cerano lo spiazzo e il cielo, il cane e la vasca, il vento e i sassi, il frastuono delle battaglie solitarie, che ancora gli tumultuavano nellorecchio sulla strada del ritorno. Lo strepito gli si spegneva dentro e il gesto battagliero gli
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si bloccava, man mano chegli si avvicinava. Nellaria fattasi pi scura distingueva la madre ancora inginocchiata come in preghiera, in un dialogo muto con le sue dilette. Il tempo sembrava essersi fermato attorno a lei e per Paolo era come fare un tuffo nel vicinissimo passato. Ancora qualche passo, per, e il silenzio appariva vivo di piccoli movimenti, continui e studiati, e il verde delle potature sparso per terra narrava loperosit di quellimmobilit apparente. La madre diceva che nulla la riposava come quel lavoro che rivendicava per s sola, perch le piante la riconoscevano e reclamavano proprio lei. Per darne una prova, invocava la testimonianza delle dirette interessate: allora sembrava anche a Paolo che le foglie vibranti a ogni movimento dellaria si tendessero verso di lei in una maniera singolare. Paolo quasi saspettava che parlassero, per dire nel nostro linguaggio la loro devozione. Anchegli gustava quei momenti come una tregua: finch la madre era occupata, cessava il pungolo delle sue osservazioni. Dinverno, portate dentro casa la sera, fuori la mattina dopo, le piante si sarebbero addormentate e svegliate con loro, parte delle loro vicende con la muta, viva presenza.

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Estate
La vera estate cominciava quando scoppiava il canto delle cicale e vinceva ogni cosa. Per tutta la stagione esse seguivano chi andava per il paese, dalle campagne della periferia ai cortili, dai giardini pubblici alle piazze. Ovunque cerano alberi, le fronde risuonavano, enormi sonagli agitati dalla campagna al cielo per un invito a una festa. Quel ritmo, uniforme, assordante, conteneva ogni musica. Il cielo rispondeva mescolandovi i suoi raggi, numerosi, scroscianti, abbaglianti. Un giorno il padre fece a Paolo una sorpresa: gli port una cicala, prigioniera nel cavo delle mani. Indovina cos. Sembrava nascondesse un tesoro. Poi apr le mani. Rovesciata sul dorso, appariva una cosa inerme e scura, che emetteva meccanicamente il suo verso appena si mollava la presa: una cicala. Paolo non si spiegava come potesse stare sul palmo della mano una forza della natura. Vuoi toccarla? Vuoi provare?. Malgrado gli inviti del padre, Paolo non volle usarla come un giocattolo e preg che fosse riportata sugli alberi. Prefer, come prima, considerare invisibili e onnipresenti le cicale, il cui canto, che durava tanto quanto il giorno, e per tanti giorni quanti ne aveva lestate, era il suono stesso della luce. Adesso quelle serate sembrano a Paolo interminabili, fissate in pochi gesti che si ripetono allinfinito; allora gli sembravano fin troppo brevi: il padre era stanco delle lunghe giornate di lavoro e si andava a dormire presto. Egli aveva portato la luce elettrica nello spiazzo davanti casa e la sera trasportava58

no fuori il tavolo. Apparecchiavano, mangiavano, scherzavano, guardavano il cielo. Facevano anche discorsi, ma sono rimasti tutti l. Ha seguito Paolo, invece, il ricordo della madre che, dopo cena, cominciava a cantare. Col canto la madre si trasformava. In genere era chiusa a difendere i pensieri, chino il capo a cucirli luno allaltro. Nel canto invece da dentro traeva sentimento, da fuori pescava aria. Il padre sorrideva compiaciuto, ma non cantava mai era stonato, diceva la madre. Poi lei annunciava: Questa la canzone di tuo padre. In omaggio del marito intonava una canzone che parlava di una casetta rossa che guardava il mare Per un paio di minuti sognavano tutti dietro quella casa. La luce elettrica stendeva per terra un tappeto doro, attorno alla lampada gli insetti si rincorrevano come pensieri ad alta voce. Intorno le ombre si allungavano, finch si facevano fitte. Di tanto in tanto si sentivano le macchine sullo stradone, si vedeva il riflesso dei fari. Una di quelle sere, mentre dopo cena si guardavano in faccia, il padre o la madre Paolo non ricorda chi esattamente: direbbe la madre, per il suo realismo; o il padre, per certa sua leggerezza gli regalarono la morte con la stessa indifferenza con cui avrebbero potuto regalargli un giocattolo. Paolo non sapeva che si dovesse morire, pensava che la morte fosse un male evitabile: dovuto a malattie e incidenti, ma con cure e precauzioni rimandabilissimo fino a millanni e forse pi. Si figurava di avere tutto il tempo per diventare grande e forte e imparare tutto quello che occorreva, senza nessuna fretta, nessuna scadenza. Di fronte alleternit, le piccole contrariet di tutti i giorni gli sembravano cose da poco. Mangia e diventi grande gli dicevano.
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Egli lo faceva con impegno, deciso a garantirsi salute e futuro. Io non morir mai diceva. Ma sciocco, tutti dobbiamo morire. Paolo rabbrivid e non seppe come proseguire, i genitori risero della sua sciocchezza. Comunque gli dissero dopo la morte ci ritroveremo in cielo e non moriremo pi. Per un po, nei mesi seguenti, Paolo continu a balbettare.

Autunno
Dal culmine dellestate al primo autunno la madre si preparava per linverno come per una spedizione. Dallestate si portava le conserve, i sughi, i pomodori salati; dallautunno, lolio, il vino cotto, la marmellata di cotogne, le olive in salamoia. In quei giorni tutta Avola risuonava del paziente rimestare delle donne nei larghi piatti delle conserve sui marciapiedi e sui terrazzi, con gli abiti macchiati di pomodoro e in capo bianchi fazzoletti per proteggersi dal sole. In pieno agosto saccendevano fuochi negli slarghi delle strade e si protendevano le braccia a mescolare il pomodoro che si faceva bollire in enormi calderoni. Grandi amori e grandi inimicizie, invidie e gelosie, confidenze e maldicenze a non finire nascevano per via di prestiti di piatti e strumenti concessi o negati; si sarebbero rincorsi fino allanno successivo, quando avrebbero avuto una possibilit di appello. Nei fine settimana anche il grande spazio deserto della fabbrica sanimava di voci e attivit. Poi era la volta delle mandorle, a far bella mostra di s sui marciapiedi, dove eran fatte rotolare con rumore secco e legnoso; e delle carrube, dal suono leggero e vuoto, buone per bestie e bambini. I ragazzi, passando, non resistevano alla tentazione di un assaggio, e i loro appostamenti e andirivieni sintrecciavano con quelli dei sensali e delle offerte. Poi entravano in azione i frantoi e i palmenti, lavorando giorno e notte, con tanti spettatori a contendersi i posti migliori. Tra questi la mamma Maria, attentissima a che nessuno le passasse avanti, senza pace finch non entrava in possesso del suo poco olio. Poi faceva il racconto delle battaglie che aveva dovuto sostenere. Poi Ecco gli ultimi giorni grigi dellautunno, quando la
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superficie dei campi un manto pesante, morbido e umido, e anche le mosche volano sempre pi sbadatamente, a volte sembrano persino addormentarsi in volo e, prigioniere dei loro sogni, forniscono un bersaglio fin troppo facile. Anche i nostri gesti sembra che rallentino, si facciano pi meditati, pi insistiti. Forse per la resistenza dellaria, fattasi pi vischiosa; forse per un compiacimento della volont, che prolunga il tintinnare delle posate mentre si ripongono nel cassetto. I panni, umidi, sono pi pesanti; i pavimenti, pi appiccicosi. Paolo si strusciava addosso alla madre, impaziente di assaggiare le confetture messe da parte per linverno. Poi un giorno comincia a piovere e le montagne si schiariscono, si schiariscono, finch, con tanta acqua in mezzo, diventano trasparenti come la pioggia: arrivato linverno.

Inverno
Quellinverno fu assai ricco di muschi e licheni, ma anche di scrosci e rovesci, corse e inzaccheramenti. Paolo ricorda piogge come un lungo assedio e giorni come una lunga notte polare, mentre intorno lattivit della fabbrica procedeva come sempre. I rumori delle macchine per giungevano in sordina, insinuandosi fra le gocce che cadevano fitte. La natura sembrava impegnata in un lavoro pi grande, che tutto sovrastava. Paolo e la madre ascoltavano e aspettavano, non cera nientaltro da fare; a volte guardavano da una fessura della porta. Le giornate non subivano variazioni di rilievo, erano un ponte interminabile dalla mattina alla sera. Finite le operazioni canoniche dinizio giornata, le ore diventavano un supplizio. Due soli erano i pasti: la colazione e la cena. Una diminuzione della pena era il sonno pomeridiano, che giungeva odiato: Paolo temeva potesse succedere qualcosa di straordinario mentre dormiva. Se viene pap? domandava alla madre. Se viene pap, ti sveglio lei rispondeva. A volte dormiva anche lei e prendeva con s Paolo nel letto grande. Lei saddormentava subito e Paolo stava a guardarla. A vederla rinserrata dietro le palpebre e col respiro appena percepibile, abbandonata al sonno e disinteressata a lui, Paolo sinquietava. Se muore mentre dorme? si chiedeva. Se non interveniva un movimento o un respiro pi marcato a tranquillizzarlo, non sapeva resistere alla tentazione di toccarla. Le sollevava le palpebre.

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Chiss se vede anche mentre dorme?. Le scostava le labbra, la scuoteva, la svegliava per sentirla parlare ed essere sicuro che fosse ancora con lui. Quando ci alziamo?. Tra un po. La risposta era unesca per tornare alla carica, trascorso un tempo che Paolo potesse definire un po. La sua ansia accorciava gli intervalli, finch cera la sgridata o il risveglio definitivo. Spesso bisognava piazzare recipienti per raccogliere lacqua che filtrava dalle tegole e aspettare che finisse quel gocciolio metallico, da cui si diffondeva tanta umidit, ma tanta, che tutta laria, i muri, le stoffe, il pane, tutto sembrava bagnato. Il pasto serale era troppo breve perch potesse essere piena ricompensa a quel purgatorio. Si scaldavano con la luce accesa, la pentola che bolliva, i racconti e i discorsi, prima di affrontare il freddo delle lenzuola. Prima dandare a dormire spiavano il cielo, per vedere se erano apparse le stelle. A volte cerano temporali che rapivano con la loro forza. Preceduti dai lampi, loro messaggeri, e dai segni della croce della madre di Paolo, che coprivano gli intervalli, i tuoni partivano da dietro la casa, dove Paolo collocava il loro imprecisato luogo dorigine. Rotolando come grossi bidoni su un camion in una strada dissestata, avanzavano verso di loro in un modo cos pervasivo, che alterava la percezione dello spazio. Quando pi si temeva lo scontro, quando la collisione sembrava inevitabile, deviavano per invisibili gallerie e andavano a schiantarsi un po pi in l, un po pi su. Ma il vento che linvestiva, facendo leva sulle fessure, sollevava la casa in alto, come a cacciarla, in una folle rincorsa, a reincontrarsi col
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nemico; e la sferzava come londa marina. La casa era una navicella in balia dei flutti, sullaltalena dei quali si disperava di vedere il faro, lapprodo. Una sera ci fu una schiarita. Arrivarono tanti uomini e il padre disse a Paolo: Allora, andiamo a raccogliere lumache?. La madre fece indossare a Paolo vestiti vecchi e stivali di gomma. Sotto la tettoia anche gli altri uomini cambiavano i vestiti, calzavano stivali, accendevano lumi, sistemavano fagotti sui portabagagli delle biciclette. Appena uscirono in aperta campagna, bast fare pochi passi perch Paolo non sapesse pi dove si trovasse. Allinizio procedevano in processione; poi, quando cominciarono ad avvistare le lumache, a ventaglio. Un ventaglio che sapriva negli slarghi, si chiudeva negli spostamenti, diventava una linea orizzontale quando trovavano in un muro di sassi una ricca riserva di caccia. Gira e rigira, a tratti finivano in vista delle luci del paese; allora Paolo distoglieva lo sguardo, per allontanare il momento in cui il bel gioco sarebbe finito. Quando era Paolo ad aprire la strada, avanzava a fatica sullerba fresca e abbondante che non lasciava vedere la terra; quando camminava nel sentiero aperto da altri, erba e fango erano mischiati, formando una sostanza viva e viscida. Dovunque Paolo si girasse, era verde da tutte le parti. Un verde da cui le sagome dei grandi, nei lunghi tabarri, emergevano dalla cintola in su, come una via di mezzo fra la terra e il cielo; mentre egli vi era totalmente immerso. La luce dei lumi penetrava nella vegetazione e, l dove essa era pi folta, sembrava illuminarla dallinterno. I lumi sembravano doni portati religiosamente in mano, oppure frutti offerti dalle piante per rischiarare il cammino. Sulla loro scia saltavano insetti color foglia e color stecco, quasi solida sostanza
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vegetale libratasi in volo. Paolo si lanci davanti agli altri e alla fine il paniere di suo padre fu il pi pieno. Il giorno dopo, davanti la porta di casa, gocce dacqua cadevano ritmicamente dalle tegole, come in dialogo fra di loro, trovando le stesse piccole pozze, gi, ad aspettarle.

Il segreto
A un certo punto ci saccorge che qualcosa non si pu fare. Il senso di spontaneit ha termine. Non siamo pi circondati da sorrisi, dobbiamo provocarli escogitando buffonerie. Nessuno ci saluta per strada, nessuno pi attacca bottone. Non ci seguono lodi e compiacimenti, ma rimbrotti, pretese e condizioni. Devessere stato fra i quattro e i cinque anni. Paolo si domand tutta un tratto: Perch nessuno sorride pi?. Non toccarti gli diceva la madre, dandogli il bacio della buonanotte, se no Ges piange. Il suo indice oscillava nel segno del diniego, poi sirrigidiva indicando il cielo. Lui ti guarda, lui vede tutto. Paolo, che aveva sempre pensato Ges come un bimbo a lui somigliante, cominci a vederlo come un faccione minaccioso sospeso sul suo letto, con un occhio enorme spalancato a spiarlo: in questo modo il Figlio veniva veramente a coincidere con il Padre. Cercava dingannarlo muovendosi cauto sotto le coperte, ma il buio amplificava i rumori: doveva fare i conti anche con lorecchio grande di Dio. Saccorse poi che i genitali gli lasciavano un tipico odore nelle mani, e Dio divenne un enorme naso pronto a fiutarlo. Anche in questo caso Paolo cerc una scappatoia, mettendo le mani sotto le ascelle, a impregnarsi di un odore ugualmente forte, schermo alla sua trasgressione. Paolo aspettava che essi dormissero, essi aspettavano che dormisse lui. A volte sentiva la madre dire:

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Aspetta, non dorme ancora!. Allora non cera verso che saddormentasse. Temeva misteriosi progetti, forsanche un abbandono. Grande era la maestria nel discernere se pi sospetto fosse un movimento compiuto o mancato, un respiro emesso o trattenuto. Talvolta i maneggi nel lettone erano concordi, tal altra discordi. Di tale discordia, chi incolpare? Chi assolvere? Vuoi pi bene alla mamma o al pap?. La domanda, concentrato di delizia e tormento dellamore materno, lasciava Paolo senza parole. La madre, consapevole della mutevolezza del cuore umano in generale e infantile in particolare, non si contentava di una sola risposta, reiterava la domanda, esigeva piena soddisfazione. La caccia alla risposta era irta di trabocchetti. Paolo guardava alternativamente luna e laltro, cercando in loro un consiglio, dato che la bilancia del sentimento rifiutava un verdetto. Alla fine la tensione dattesa nel silenzio della madre, che non lasciava scampo, e il sorriso tollerante del padre, che lo liberava da qualsiasi obbligo, gli mettevano in bocca la risposta. Forse per un senso donnipotenza, forse per via di quelle investigazioni condotte con tanta passione dalla madre, Paolo fu perseguitato da un sogno ricorrente: uno dei due genitori doveva morire, stava a lui decidere quale, in un patteggiamento col destino che lo sfiniva. A volte si svegliava urlando nellattimo della morte, altre listante successivo. A volte bloccava la scena nel punto culminante, la faceva ripetere allinfinito, con la speranza di trovare lalternativa indolore, e ogni volta i tentativi erano votati al fallimento. Rimandava lirreparabile, ma il rimando prolungava la sofferenza. Con i suoi Paolo manteneva il pi assoluto silenzio, temendo di offen68

derli. Alla fine si profil una via duscita: egli avrebbe sfidato il destino, egli si sarebbe offerto alla morte. Abbracciava in sogno leroismo, come sostituto dellimmortalit. Il risveglio di una nuova coscienza di s fu nei primi tempi un vestito troppo lungo in cui Paolo continuava a inciampare, vedendo spuntare a ogni passo dubbi dove prima era stato tutto piano. Si domandava come tenere le mani, che, se pendevano inerti, sentiva come unescrescenza posticcia; se erano in attivit, trovava dissonanti ai suoi comandi. Cercava la perfetta corrispondenza fra comando e gesto, senza giungere a un risultato univoco. Lo tormentava la posizione dei denti: erano da tenere serrati, con le arcate combacianti, o con una sottile fessura, dove lasciare insinuarsi la lingua? E questa andava lasciata distesa, arrotolata o inarcata? Gli altri saffaccendavano alle loro opere quotidiane, senza avvedersi di niente. Ma il battito delle ciglia era spontaneo o comandato? Paolo teneva gli occhi fissi, attento a non lasciarsi sfuggire un battito, fino a quando li sentiva lacrimare, esausto ma senza risposta. Allora interrompeva lesperimento, giusto il tempo di asciugare di nascosto le lacrime e cominciare daccapo. Paolo scacci questo errore con un altro. Scopr che le avventure della lingua restavano celate a tutti, cos come ci chegli pensava. La scoperta lo riemp di soddisfazione: finalmente aveva trovato nel pensiero uno spazio tutto suo. Anchegli non vedeva i ghirigori delle lingue e dei pensieri altrui, ma, anzich applicare loro la legge della reciprocit, si convinse che gli altri non pensassero. La loro identit aveva termine nella faccia, nelle fronti piatte, dietro le quali non avvertiva nessun tormento, nessun disegno. Il riso e il pianto degli altri erano solo riso e pianto, Paolo non attribuiva loro
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il retroterra di un pensiero. Conserv questa convinzione fino alle soglie delladolescenza. Intanto coltivava il suo segreto, un nulla che tutto poteva contenere.

Domande
A volte le sensazioni erano un muro con cui Paolo si scontrava, ma che non poteva scavalcare. Perch il caldo dellestate gli asciugava il naso e gli toglieva il respiro? Perch la penombra gli stendeva una coltre nera sugli occhi, quando egli lasciava la luce delle strade per gli interni? Cosera il formicolio in tutte le membra, quando era stato gran tempo immobile e poi muoveva i primi passi, come se avesse appesi ai piedi sacchi pieni di sabbia? Cosera lo smarrimento, quando dun tratto si bloccava e pensava: Questo lho gi vissuto. Ma quando?. Avrebbe voluto andare un po pi avanti o un po pi indietro di quella vita presente, ma intorno cera nebbia e non poteva e si sentiva piccolo piccolo. Tante domande lo tormentavano: tanti sassolini ai piedi, tanti foruncoli dove pi morde il vestito. Non meno ricco di favole che di scienza, sabbandonava alle congetture. Per lo pi il fenomeno era ragione a se stesso. Quando vedeva la luna spuntare dal muretto, sbalordiva, ammirava e diceva: cos che nasce la luna!. Anelava allalba, che gli svelasse il segreto dellorigine del giorno, pregava il padre che una mattina svegliasse anche lui, quando salzava per andare a lavorare. Quando la luna era pi tonda e pi rossa, sembrava pi vicina e sul punto di svelarglielo Insoddisfatto delle situazioni, passava innanzi, sicuro di poter tornare a esse in un futuro imprecisato, e al reincontro affidava la soluzione. Sentiva, nel corpo, strade che andavano e venivano. Ma nulla, proprio nulla di quanto viveva era perso

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per sempre, perch tutto veniva assimilato e custodito fedelmente. In seguito, quando perfino leco avrebbe faticato a risalire, sarebbe subentrata la certezza di essere egli stesso impastato di quei vissuti, non pi parte, ma sostanza di lui. Quando capitava in un luogo dove non era previsto che fosse, sembrava a Paolo di scoprire il lato nascosto delle cose, laltra faccia della luna. Cos era una nuova conoscenza o una visita a sorpresa o affacciarsi alla porta quando tutti erano in casa. Per questo insisteva per andare a buttare gli avanzi della cena: lo emozionava essere solo, di notte; solo a correre e riempirsi di brividi guardando il cielo, a cercare le invisibili linee che collegavano una stella allaltra. Fu cos che una sera fu spaventato da una stella cadente, unaltra da un anello bianco attorno alla luna, unaltra da una luce che alternativamente saccendeva e si spegneva nel cielo. A volte restava sospeso sulluscio di casa, come un ladro, per rubare un ultimo raggio di luna. Lo spiazzo pareva un silenzioso deserto lunare; i cespugli, tutti bianchi, un gregge meditabondo. La porta chiusa, fessure di luce, le voci dei suoi che si offrivano indifese al suo orecchio gli suggerivano nuove domande: Cosa diranno senza di me? Cosa succede quando io non ci sono? Parleranno di me?. A volte un piede sulla soglia, una mano sulla porta chiusa si lasciava catturare da quellacqua limpida che era il cielo, vi cercava il riflesso del suo volto; ma immediatamente quel lago tranquillo diventava un immenso oceano e doveva distogliere lo sguardo per evitare le vertigini. Quanto pi si trovava in situazioni insolite, tanto pi sen72

tiva davvicinarsi alla vita vera. Per decretarne linizio aspettava il momento in cui pi nulla sarebbe stato una novit e avrebbe potuto guardare le cose con lo sguardo delladulto.

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Sei grande!
A volte il padre sembrava un bambino come Paolo. Camminava impettito, un pulcino nellaia, lo sguardo in avanti, le mani dietro la schiena. Quante volte Paolo si domandava cosavessero da raccontarsi luna e laltra mano! Tante volte, come dimportanza gli sembrava quel gesto! Molte cose il padre non le sapeva, a esempio perch le stelle non cadono o se sono pi veloci le nuvole o la luna, quando dinverno scatenano le loro corse nei cieli. Oppure: come fare a camminare, con tanti morti sotto i piedi e sopra la testa, tutto un paradiso, tutto un inferno, e quelli dellaltra parte della terra che stanno a testa in gi. Se per Paolo domandava perch la luna lo seguisse sempre ovunque andasse, il padre o taceva sorridendo o rispondeva con un indovinello: Ajju narancia, vajju n Francia, vajju n Turchia e sempri ccu mmia! Cos?. Paolo ormai sapeva che larancia era la luna, ma qualche volta fingeva di non saperlo, cos il padre poteva dirlo lui ed era contento. Quando gli altri parlavano, il padre ascoltava e annuiva, come un padre che accondiscende al figlio. Un momento dopo era lui stesso il figlio incantato dalle storie del padre. Nel suo volto Paolo vedeva tutta la sua sconoscenza del mondo, lincredulit e lo stupore che li accomunavano e li rendevano speciali. Allora si diceva che tutti e due sarebbero cresciuti e avrebbero trovato la risposta a tutte le domande. Se
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per il padre appoggiava le braccia sul tavolo, mettendo in evidenza le montagne dei muscoli, recuperava di colpo tutta la sua imponenza e conquistava lammirazione del figlio. Capitava, andando in visita da parenti, che si trattenessero quel tanto perch Paolo crollasse il capo sulle ginocchia di uno dei genitori. Passato il tempo dei saluti e delle feste, subentrava la monotonia dei discorsi, la cui cantilena agiva da ninna nanna. Destate i discorsi si tenevano sulluscio e tutta la strada ne era testimone. Le famiglie esibivano i loro numeri in cerchie pi o meno folte: le persone anziane e di riguardo sedute sulle sedie, anche in doppie file, a condurre i discorsi; gli altri sugli scalini o appoggiati al muro, ad assistere. Dinverno si riunivano nel chiuso delle case, attorno ai fuochi verso cui protendevano i corpi e le mani. Poi con il fuoco si spegnevano i discorsi. Allora del ritorno era inevitabile che il padre prendesse Paolo in braccio. Era un momento che Paolo aspettava, lultima gioia della giornata. Godeva il caldo del contatto amoroso e il gioco del dormiveglia, con gli occhi che si aprivano e si chiudevano sugli effetti ottici della strada che, dalle spalle del padre, vedeva allontanarsi oscillando. Ogni volta che apriva gli occhi temeva dessere arrivato, ma, con sollievo, si trovava pi indietro di quanto saspettasse. Il dolore sannunci con lodiosa frase: Ti stai facendo pi pesante. Prese a farsi pi intenso in misura proporzionale alla frequenza con cui il padre la ripeteva. Sulle prime Paolo si stupiva che il padre lo trovasse pesante, il padre di cui ammirava la forza e linfaticabilit. Poi Paolo savvide della resistenza esercitata, anche contro la sua volont, dal suo corpo alla spinta delle braccia che lo sollevavano. Un giorno si rese conto che ormai da tempo camminava con le sue gambe.
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La corsa
Come un aereo in ricognizione, la sera sorvola la campagna, a larghi cerchi concentrici. tardi, pi tardi delle altre sere. I cieli rombano, ma a occidente c ancora la luce splendida del tramonto, un coro aperto in una larga o sonora. Una mandorla indica unaltra, pi su, pi gi, a destra, a sinistra, fra mille foglie, mille rami, che tremano nervosi a ogni strappo. A uno strappo pi vigoroso una pioggia di fuscelli e foglie che gli cade addosso, fra unaureola di moscerini e polvere. Paolo chiude gli occhi per difendersi da pulviscolo e luce, quel bianco lento che precede la rapida discesa delloscurit. Le mani trovano da s il bottino, basta lasciarle andare a tentoni fra punture e graffi. Se Paolo si ferma, la campagna si ferma con lui e trattiene il respiro in ascolto. A un tratto si distingue dagli altri per la sua intenzionalit il rumore di due legni percossi. una canna che batte su un ramo proprio sopra di Paolo, ma quando egli alza gli occhi il cielo che gli crolla addosso sprigionando frantumi e scintille. Segue la canna nella sua lunghezza e allimpugnatura scopre due mani e due bocche spalancate a un sorriso indecifrabile. Il rumore di prima lo attribuisce al batter dei denti di quelle due bocche malvagie. Paolo si vede scoperto, esposto a qualsiasi ritorsione. Corre per la campagna, con un senso impellente durgenza, di cui alla fine non ricorda pi la causa, e sente qualcosa precipitare al basso ventre, il corpo sospeso nellattesa. Non riesce pi a fermarsi, e pi corre e pi viene. Corre anche
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quando ha lasciato la campagna e raggiunto lo spiazzo della fabbrica, corre anche se nessuno lo segue, fino a quando spalanca la porta di casa. Cosa c?. La domanda lo coglie di sorpresa, ma dopo un bicchiere dacqua ricorda. Sar stato qualcuno che come te raccoglieva le mandorle rimaste dice tranquillo il padre. Il giorno dopo Paolo trova il suo tesoro ammucchiato dove lha lasciato. Se ne riempie un sacchetto e via, di corsa. E di nuovo mentre corre ritorna temuta e liberatoria quella sensazione: qualcosa che scende al basso ventre, una palla incandescente che ingigantisce a ogni passo; qualcosa di caldo umido, come se orinasse. Arrivato a casa controlla: asciutto. Si accorge che una sensazione piacevole e la ricerca. Non sa cosa sia, sa solo che bisogna correre. Correre col vento che fischia nelle orecchie e le percuote come una sventagliata di spari; correre con tantaria che saffretta in gola, come litri dacqua ghiacciata che non spengono la sete; correre finch pieno daria e ha la testa pesante. Il vento conosce tutte le direzioni e a volte le percorre tutte nello stesso tempo, allora a Paolo sembra che il vento non sia uno solo, ma tanti. Anche gli alberi sono una banda affiatata e si divertono con niente: a volte lurlo, a volte la corsa, a volte il girotondo attorno alla campagna. A volte fanno a mosca cieca con il sole. A volte si capovolgono, fanno le capriole, si dondolano aggrappati al cielo. A volte nascondono lanima dietro il tronco, una cosa nera che, quando Paolo la rincorre, gli sfugge: ne vede appena la coda, che striscia sulla corteccia. A volte si divertono a illuderti, ti tendono la mano come un
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amico, ma poi, quando ti avvicini, sirrigidiscono chiudendosi nella loro importanza, come i bambini ben educati che non danno confidenza. Oppure, con la coda dellocchio, li sorprendi a schernirti, strizzando locchio dal ramo pi alto. Nellora del caldo vogliono fare la siesta, non riesci nemmeno a guardarli, abbagliano come specchi. Ma quando il tramonto suona lallarme, il cielo avvampa e gli alberi ritornano scalmanati bambini di strada. Con loro riprende la sassaiola, tu solo contro tanti nemici, tanti alberi moltiplicati dallombra. Corri, e con te corre la campagna. Ti stendi per terra, la terra ormai non si vede, e non hai pi dubbi. Da grande guarder dallalto gli alberi e spinger la testa fra le nuvole.

La febbre
A tramonto inoltrato tocca rispondere ai richiami e tornare a casa, anche se Paolo vorrebbe seguire il sole nel suo viaggio. Sembra di poterlo raggiungere, dove finisce la campagna. Paolo anela allet adulta come a un sole sempre acceso. uno struggimento fisico, un desiderio daltezza, unaltezza da cui si attende una rivelazione essenziale. A volte crede di coglierne un barlume nel volto degli adulti, ma subito i volti si ricompongono, si chiudono nella loro distanza. A volte, per colmarla, Paolo tende le membra, ma senza troppa convinzione non come quando, in punta di piedi, domandava: Sono grande?. La distanza del cielo come la distanza del tempo, e correndo sembra di poterla abolire. Quando Paolo risponde ai suoi e torna a casa, si porta tanto azzurro dentro e trasparenti ali da corsa. Tornato a casa, tantaria non vuole uscire dalla testa e la gola, per quanto beva, rimane secca. Le gambe, mentre Paolo siede a tavola, continuano a galoppare sempre pi su, nel cielo serale, finch il corpo si riempie di brividi Sono arrivate le febbri e il loro invisibile fardello. Prima periodi indefiniti dincoscienza, le palpebre pesanti e la gola arsa, che le bevande consentite non placano dolciastre e tiepide, scendono inavvertite. Poi lalternarsi di sonno e veglia, il letto di crine che punge e la fronte che scotta, la violenza del male e la severit delle regole. Quasi per nasconderlo al male, Paolo immerso nella penombra. Le attivit, pur alacri, si svolgono silenziose. Le cure scacciano un dolore con un altro

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dolore. Le ore e i giorni, con la loro uniformit, gli passano addosso squassandolo come un carro strapieno. Solo il paravento, come un grande fumetto, viene in suo soccorso. Finch un giorno il letto diventa pi piccolo, sempre pi piccolo, e infine butta gi Paolo furtivamente, approfittando dellassenza della madre. Attira Paolo la vita che si svolge fuori, a pochi passi da l. Si fa accanto alla porta chiusa e ascolta i rumori, ma ogni passo che savvicina o una voce sconosciuta lo fanno trasalire e se ne allontana. Leco di una discussione lo preoccupa: rimane in tensione fino a sentirla sciogliersi in risate di pacificazione. Gli piacerebbe sapere di cosa ridono, ma sono lontani. Gioca ad afferrare i fili di luce che le fessure del tetto e della porta lasciano passare; non ci riesce e si vendica mettendo in fuga il pulviscolo con soffi poderosi. Dialoga con il grande specchio dellarmadio, fino a non avere niente da dire. Allora ritorna a letto. Ma il tempo non passa. Nemmeno chiudendo gli occhi Paolo riesce a localizzare la madre. Comincia lispezione agli angoli pi riposti, che non mancano perfino in una casa piccola. Apre uno dopo laltro i cassetti, a volte deluso della banalit del contenuto; a volte avido di piccole gioie, come lodore fresco del gelsomino messo a profumare la biancheria; a volte intrepido nellaccostarsi ai grandi tab: la pistola del padre, la scatola con i soldi, lo scrigno con il tesoro di anelli e collane. Tocca a piacimento il quadro della Sacra Famiglia, apre il ventaglio, splendente come una raggiera, sprofonda nel letto grande, fra salti e capriole, e dopo ogni azione cancella i segni del suo passaggio.

I grandi magazzini
Come le galline razzolano nellaia, alla ricerca del boccone preferito, e ognuna, quando lha avvistato, proietta il capo nella beccata che preceda la compagna: cos la madre di Paolo e altre donne, attorno agli scaffali e ai banconi dei grandi magazzini, spingendosi e sgomitandosi, per non lasciarsi carpire il capo prescelto. Paolo rimaneva escluso dal centro dellaia, come il galletto pi giovane, finch la madre emergeva dalla mischia con la preda. Un giorno attir Paolo un maglione, che tenne la madre sospesa: la scelta era convincente, il costo eccessivo. La madre parlava fra s e s, mentre frugava sbadatamente nel bancone. A un tratto il maglione spar nella borsa. Alluscita Paolo domand se lavessero rubato e alla risposta affermativa pose il problema: Ges cosa dice?. E lei: Ges ci perdona, perch noi siamo poveri. Visto il figlio non ancora persuaso, continu: Ges perdona i poveri, perch i poveri sono santi. Rubano per bisogno, non per cattiveria. Paolo trov vero il ragionamento e si sent pi vicino a Ges. Poi la madre gli disse: Vedrai: questo maglione ti sapr di zucchero. Al padre non dissero niente. stata unoccasione spieg la madre. Trovata quella strada, continuarono a percorrerla. La madre nel viaggio di ritorno faceva il conto dei guadagni e stabiliva quante preghiere avrebbero detto per aiutare Ges a

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perdonarli. Il padre continuava a ignorare quel sistema di appropriazione dei beni. stata unoccasione diceva la madre. Cos giustificava i sempre pi numerosi acquisti, di cui ogni volta faceva unesposizione, colmandone tavolo e sedie. A Paolo scappava da ridere. Il padre si guardava intorno, incerto, come se la cecit del non sapere diventasse una benda che gli rendesse difficoltoso lorientamento. Poi concludeva, ridendo pure lui: Tutte a voi capitano le occasioni!. Nel viaggio la madre prese a dire a Paolo: Ho visto la tale e la tal altra persona di Avola che mettevano cose in borsa. Si vede che non siamo i soli. Poi sospirava: Speriamo che nessuno ci veda e lo vada a dire in giro. Un giorno, mentre frugava in un bancone, la madre disse sottovoce a Paolo: Ci hanno visti. C un controllore. Fecero un giro e si fermarono a un altro bancone. Ci ha visti proprio. Ci segue. Paolo non vedeva nessuno con la faccia del controllore. Fammelo vedere diceva. Ma la madre brusca: Non posso indicartelo. proprio davanti a noi. E poi: Se ci prendono, cosa facciamo?. Diciamo che siamo poveri, perci siamo santi. A loro non interessa, ci fanno arrestare lo stesso. Anche se Ges ci perdona?. Anche. Cosa possiamo fare?.
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Promettiamo a Ges che, se ci fa uscire salvi da qui, non lo facciamo pi. Si avviarono precipitosamente alluscita. La madre stringeva forte la mano di Paolo e non guardava in faccia nessuno. Quando si trovarono sul marciapiede, continuarono a camminare senza parlare fino alla fermata dellautobus. stato un miracolo diceva la madre nel ritorno. Il controllore ci aveva visti, ma non era sicuro. Se avessimo preso qualcosa, ci avrebbe fatti arrestare. Ges lavrebbe permesso? si domandava Paolo. Ges non ci aiuta?. Ma le domande gli restarono in gola.

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Babele
Settimanalmente il padre ritornava, atteso, dallamministrazione della fabbrica e con un sorriso consegnava alla moglie la paga, dicendo: Ecco un pezzo di casa!. Non aveva ancora visto la luce e quella casa aveva gi una storia. Sposatisi in gran segreto, non avendo dove andare ad abitare, i genitori di Paolo erano tornati dalle rispettive famiglie dorigine. Lingombrante segreto aveva avuto solo pochi giorni di vita. In seguito alle felicitazioni di un testimone, il padre sulle prime aveva negato che una sua figlia si fosse sposata; poi aveva sottoposto a interrogatorio le cinque figlie. Messa alle strette, la madre di Paolo aveva finito con lammettere tutto. Cos era cominciato il lungo peregrinare. La loro prima casa era stata una stanza di venti metri quadrati. Tenevano la biancheria impilata in un angolo come gli incartamenti dellufficio del registro. I vestiti decoravano le pareti su grucce scheletriche; alcuni, appesi a chiodi invisibili, veleggiavano a mezzaria come fantasmi pensosi. I loro beni: un letto, un tavolo, una sedia. Sulla sedia sedeva il padre, la madre gli sedeva sulle ginocchia. Era inevitabile che ci tornasse in mente a Paolo, ogni volta che sentiva il padre dire: Ecco un pezzo di casa!. Evocata dal suono di quelle parole, o frutto di unessenza volatilizzatasi dalla preziosa scatola azzurra, come il genio
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dalla lampada di Aladino, Paolo vedeva nellalto della stanza, dove le travi e le canne assorbivano la poca luce, materializzarsi le forme della casa. Senonch lintera somma veniva contata e la madre concludeva: Non siamo nemmeno alle fondamenta!. La bella immagine scoppiava come una bolla di sapone e Paolo rimandava il sortilegio alla settimana successiva. Intanto, assuefatto al suono delle cifre, impar a riconoscere dal suffisso mila le parole importanti e anche lui ogni settimana prese a domandare: Quanto abbiamo?. Quando furono superate le centomila Paolo intu trattarsi di un traguardo. Non vide lora dincontrare un orecchio in cui riversare la parola magica. Capit mentre la madre esaminava un lavoro con la sarta. Il bambino che Paolo aveva eletto a depositario della rivelazione gli rispose: Mio padre quei soldi li guadagna in un giorno!. Il silenzio a cui Paolo si vot aggiunse efficacia al rito, officiato dalla volont inflessibile della madre. Immancabilmente i soldi venivano divisi in due parti: una per le spese, una per la casa. Il padre soppesava la scatola azzurra, la mano tesa come un piatto di bilancia. Com leggera! commentava. Eppure i muri della casa continuavano a salire. Quando giunsero a una discreta altezza, il padre cominci a portare notizie di siti edificabili in vendita. Andarono a vederne uno sulla strada che va alla Marina Vecchia. Era sera e Paolo non distingueva nulla. Il sensale con movimenti a squadra disegnava linee nel vuoto, dicendo:
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Qui passer una strada, l ci sar un incrocio. La madre misurava gli spazi coi passi e con lo sguardo. Sembrava orientarsi benissimo nella futura disposizione del quartiere e insisteva perch le fosse venduto un certo sito. Voleva una casa allincrocio di due vie ed esposta al sol nascente. Dal terrazzo si vedr il mare dissero a Paolo. Paolo rivide la casetta rossa della canzone e si sent rapito in un destino. I lavori furono pagati un po in contanti, un po in cambiali. Li seguirono ammirati, come ledificazione di Babele. Figlio dei proprietari, a Paolo era permesso effettuare spericolate discese dalle montagne di sabbia e scimmiottare il lavoro dei muratori. Attingeva acqua da grossi bidoni e la mescolava con la terra. Guardato con invidia da uno sciame di ragazzi che, come collegati a fili elastici, un po savvicinavano, un po sallontanavano, cacciati via dalla signora.

La partenza
Era la soglia dellanno 1960 e Paolo aveva ormai dimenticato lAmerica, quando nel suo universo fece lingresso un altro corpo celeste: la Germania. I pionieri ne tornavano gi, portati dal caldo estivo, ed erano desempio ad altri. Con qualche parola straniera che sinseriva nei discorsi rendendoli pi convincenti, narravano di grandi fabbriche e miniere dove i soldi si scavavano insieme al carbone. Appena tornati, gettavano le fondamenta di case che avrebbero completato nei successivi ritorni. Quelle interrotte in stadi arretrati della costruzione avrebbero fornito nel frattempo un formidabile campo di giochi per i ragazzi. Anche il fratello minore da Colonia scriveva al padre di Paolo mirabilie. Daltra parte i soldi non bastavano mai; le cambiali, a fine mese, esigevano soddisfazione; e la madre aveva concepito un nuovo obiettivo: innalzare di un secondo piano la casa. Inoltre il lavoro alla fabbrica era diventato pesante per il padre di Paolo, che aveva superato i trentacinque anni e sentiva crescere la fatica. Quanto tempo dovr durare qui? diceva. Se prima o poi dovr cambiare, meglio prima che poi. Tutto, insomma, congiurava a favore della partenza. Paolo era invaso da un odio feroce nei confronti del denaro. Ricordava quando la madre anelava a una casuccia: appena quattro muri nemmeno intonacati e un tetto sotto cui mettere la testa e si domandava come mai non si sentisse appagata. A scopo dissuasivo agitava lo spauracchio dellAmerica. Ma la Germania vicina diceva il padre e dopo che mi sar sistemato anche voi potrete venire. La promessa alimentava in Paolo timori e incertezze. Prima comunque fu tentata unaltra strada: trovare un lavoro
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meno faticoso e pi redditizio ad Avola. Si fece il giro dei parenti, prodighi di pareri e consigli. Il padre di Paolo and in pellegrinaggio dai potentati della provincia, che lo mandarono da una parte allaltra, rincorrendo i fili di una speranza che stentava a diventare progetto. Fece varie anticamere, perso in stanze gremite di persone e doni. Alla fine gli dissero che aveva superato let per essere assunto dagli enti pubblici. Bisognava pensarci prima. La risposta lasci una scia di sensi di colpa; fu il definitivo via libera per la partenza. Finirono le processioni e le diplomazie; cominciarono i preparativi, molto laboriosi. Il padre si licenzi dalla fabbrica e si fece il trasloco nella casa nuova. Da un giorno allaltro Paolo si trov catapultato in un quartiere cittadino ancorch periferico e in una casa normale ancorch angusta. Il materno senso del decoro e la decisione di non far diventare Paolo un ragazzo di strada chiusero la porta di casa alle sue galoppate. Anche il padre ebbe la sua delusione: la liquidazione fu inferiore alle attese. Il proprietario, per alleggerire gli oneri della ditta e, almeno sulla carta, la fatica dei dipendenti, aveva dichiarato soltanto tre giornate lavorative la settimana. Consumata anche questa delusione, cominciarono le visite ai negozi per dotare il padre di un corredo adatto al clima tedesco. Si prese a riempirne le valigie, bocche voraci in paziente attesa in un angolo della casa, che Paolo sorvegliava con rispetto e rancore. Poi fu la volta dei saluti ai parenti, un nuovo lungo giro. In Paolo salternavano euforia per le novit e avvilimento per le loro conseguenze, che via via gli edificavano attorno una prigione domestica. Sarebbe stato meglio rimanere alla fabbrica si ripeteva. Intanto, pi il giorno temuto savvicinava, pi i giorni passavano rapidamente. In mezzo a tanto trambusto Paolo sentiva crescere il vuoto in casa. Gli ultimi giorni gli sembrava
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strano che il padre fosse ancora con loro. Infine, incredulo, si ritrov alla vigilia del gran giorno. Non voleva perdersi lo spettacolo della partenza, perci aveva pregato il padre che svegliasse anche lui, quando si sarebbe alzato. Era la prima vera partenza a cui assisteva, la prima che lo riguardasse cos da vicino. Tante altre sarebbero seguite a essa, ma nessuna lo avrebbe definitivamente immunizzato da quel senso di trepida attesa che le accompagna. Sera svegliato qualche secondo prima che il padre arrivasse, aveva sentito il suo passo avvicinarsi, sera gi disposto al suo richiamo. Una volta gi dal letto, un serpentello daria fredda lo fece rabbrividire. A Paolo sembr che fossero stati abbattuti soffitti e pareti, lasciando la casa esposta a tutti i venti. Con gli occhi ancora incollati dal sonno, si port appoggiandosi a una parete su una sedia, dove cerc un po di tepore accoccolandosi, consolando la testa nellabbraccio delle gambe. Alla debole luce dellalba, anche le cose sembravano addormentate, anche i colori. I genitori parlavano a bassa voce per non disturbarle, rincorrendosi nelle attivit e nelle raccomandazioni. Lo spettacolo era molto parco, i gesti banali, appena un po convulsi per lemozione. Perfino gli specchi sembravano ciechi: rimandavano ombre, non figure. La partenza! Due valigie accanto alla porta, qualche cassetto aperto, qualche oggetto fuori posto: tutto l. Eppure contrastava tanto col puntiglioso ordine che abitualmente regnava nella casa, che questa sembrava sottosopra, come se fosse stata sconvolta da quel vento di prima e adesso aspettasse che tutto finisse per riacquistare la sua stabilit. Poi la tavola li riun ancora una volta, dando lillusione della quotidianit. Ma lorologio teneva il tempo e il padre lo interrogava a intervalli sempre pi brevi. Al suo ora! il gruppo si sciolse.
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Accanto alla porta aspettavano le valigie, presso cui si svolsero i saluti. Quel giorno Paolo non prevedeva venticinque anni di emigrazione. Intanto simprimeva nella memoria lo scorcio della fronte e dei bei capelli biondi e ricci, mentre il padre abbassava per salutarlo la guancia rasata delle grandi occasioni. E poi ci fu la cosa pi difficile da raccontare, il bacio che avvinse il padre e la madre e li tenne ambedue con gli occhi chiusi, le bocche che aderivano, le mani delluna dietro la nuca dellaltro, lasciando Paolo per la prima volta escluso da un loro abbraccio. A domandarsi come nella loro vita potesse materializzarsi una scena tanto bella da risultare imbarazzante, che egli aveva pensato appartenesse solo alle favole e alle locandine cinematografiche. Quindi la porta sapr e si chiuse, come tante altre volte. La madre lasci scorrere tutta la serratura e disse: Adesso non ci rimane che aspettare, come due anime del purgatorio; aspettare finch arriver la prima lettera. Improvvisamente la madre, che con quella frase era sembrata volersi immobilizzare per un tempo indefinito, si riscosse: Non gli ho ricordato di non dormire sul treno, di stare attento alle valigie. Vagli dietro, diglielo!. Intanto il padre ne aveva fatta di strada! Quando Paolo lo vide, cos piccolo, le valigie parevano inchiodarlo a una fatica immane. Eppure era quasi alla fine del corso, e quando Paolo lo chiam egli non sent e continu a camminare. Paolo correva e il padre camminava, ma la distanza non sembrava ridursi. A Paolo veniva da ridere: quasi quasi arrivavano alla stazione! Il padre saccorse di lui solo quando Paolo gli fu allato e gli rifer il messaggio. Pos le valigie e diede a Paolo il bacio che segretamente attendeva. La bocca gli si contrasse come quando era morta sua madre, mentre diceva al figlio:
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Bravo! Sei grande ormai. Adesso vai a casa. Paolo se ne torn indietro piano piano. Il sole cominciava a scaldare. Paolo ripensava alla smorfia di dolore che gli aveva dato la misura dellamore del padre, a come sembrava piccolo fra le due valigie, alla sua avventura in Germania, allincognita della vita solitaria con la madre. Soprattutto, la mente ritornava alla cosa pi sorprendente: quel bacio fra il padre e la madre.

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LA TORTA DI SABBIA

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Bella , nel regno della memoria, una pecorella smarrita R. Walser, La rosa

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Lo chiamavano Joseph
Due brevi trilli sul campanello della bicicletta: lannuncio del postino. Con la massima concentrazione delludito, Paolo e la madre lo seguivano di porta in porta. Quando aveva sorpassato la loro, riponevano in serbo la speranza come un tovagliolo usato per ritirarla fuori al passaggio pomeridiano. A volte la madre, temendo un errore o una dimenticanza, usciva a domandare se non ci fosse posta per lei. Fin che il postino, vedendola sulla porta, le annunciava da lontano, a gesti, la buona o la cattiva notizia. La prima lettera tard. La madre la lesse a bassa voce e poi la raccont a Paolo. Il padre scriveva che il fratello aveva perso la testa per una tedesca e che, la sera in cui egli era arrivato, quello era andato a ballare ed era tornato a tarda notte. Il padre scriveva che in Germania tutti facevano cos: lavoravano come bestie e dicevano che il lavoro era chaisse, cio merda. La sera andavano nei locali, a ballare e ubriacarsi, specialmente il sabato, spendendo tutti i soldi in birra. Dopo non si reggevano in piedi per tornare a casa. Hai una famiglia, lhai scordato? aveva detto il padre di Paolo al fratello. Laltro, che non voleva sentire prediche, gli aveva risposto: Cosa sei venuto a fare qui? Quella la porta. Per fortuna il padre aveva conosciuto un emigrato italiano che lo aveva portato a casa sua e invitato a dividere alloggio e spese. Laffitto per era caro e fra poco il padre sarebbe andato a vivere nelle baracche allestite dalla ditta per gli stranieri.

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La madre leggeva battendo la mano contro la coscia, con colpi che facevano trasalire Paolo, e dava in esclamazioni: in mezzo a una strada, come un pellegrino. Ha solo gli occhi per piangere. Paolo vedeva il padre fermo in una strada lunghissima, come quando era andato alla stazione. Se lo figurava su un marciapiede sconosciuto, a guardare a destra e a sinistra, incerto sulla strada da prendere. Parenti, serpenti disse la madre. Per contro, essa innalz un piedistallo per lospite del marito e gli indirizz una lunga lettera, in cui gli esponeva le trepidazioni della famiglia. Concludeva affidando il marito allo sconosciuto e invocandone la protezione, quasi fosse una divinit familiare. Il signore rispose con una lettera che fu accolta come un oracolo. Diceva di stare tranquilli, perch in Germania i lavoratori italiani erano rispettati. Diceva che Giuseppe aveva la testa a posto. Tutto casa e lavoro, viveva come un pasci: mangiava patate e beveva birra, come un vero tedesco. La madre di Paolo rimase pensierosa. Insorsero elementari fantasie. Se appariva un moscone, la madre diceva: Buone notizie. Forse arriva la lettera di pap. Guardando una nuvola, sospirava: Chiss se anche il pap ha visto quella nuvola. Nelle lettere scriveva: Vorrei essere un uccellino e volare da te quando tu non mi aspetti. Quando le leggeva ad alta voce prima di sigillare la busta, Paolo aspettava questa frase che gli piaceva molto e, se non cera, insisteva perch la madre laggiungesse.

Venne linverno. Il padre scriveva che si era trasferito nelle baracche, molto fredde. Cerano cos tanti spifferi, che sembrava di dormire allaperto. Parlava della neve, nessuno di loro laveva mai vista. Diceva che durante la notte la neve sui marciapiedi diventava ghiaccio e la mattina si scivolava. Quando si alzava per andare al lavoro era ancora buio. Il ghiaccio era liscio come uno specchio. La neve ricopriva le baracche come un lenzuolo. Sembrava di essere ancora a letto e di sognare. Diceva anche che aveva avuto spese e perci non poteva mandare molti soldi. Comunque sul lavoro le cose andavano bene. Biondo comera, veniva preso per tedesco. Lo chiamavano Joseph. La madre di Paolo stava sovrappensiero, inseguendo unopinione non ancora formata. come alla guerra diceva. come essere al fronte. Mentre Paolo cercava di figurarsi la guerra, la madre riprendeva: Se si dimentica di noi?. Di fronte allincredulit del figlio, travasava in lui la sua saggezza: Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. E anche: Occhio non vede, cuore non duole.

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Ape, erba, imbuto


Anche Paolo scriveva due righe per inviare al padre baci e abbracci; in fondo apponeva la sua firma: pochi caratteri, che gli sembravano pesanti quanto la lettera della madre. Da quando Paolo aveva compiuto quattro anni, la madre aveva cominciato a dargli lezioni di scrittura e lettura. La sorella pi giovane, che Paolo chiamava Uccia, aveva messo a disposizione il suo vecchio libro di prima elementare. A un errore di scrittura, partiva una bacchettata sulle mani; a uno di lettura, la madre gli pungeva la lingua con un ago. Tanti nomi aspettavano Paolo: ape, erba, imbuto, oca, uva. Poi: bandiera, dado, farfalla Poi tante storie. Prima andava a tentoni, cercando di riconoscere la forma delle parole; dopo appoggiandosi sulle lettere pi note, come chi attraversa un ruscello saltando di sasso in sasso. Infine procedette spedito, con brusche accelerazioni e frenate improvvise, come chi ha imparato da poco a camminare. Leggeva, ma la madre doveva spiegargli. Fu una rivelazione quando saccorse che lettera e significato procedevano appaiati. Fu come liberarsi della mano che lo proteggeva. E se prima procedeva passo passo, non riuscendo a gettare locchio pi in l, nella nebbia fitta, dopo si vide il cammino sgombro e la fine della frase laspettava come un chiaro orizzonte. La scrittura era una corsa a ostacoli: finita una lettera, bisognava affrontarne unaltra. Trovava difficile costringere lettere e numeri in righe e quadretti, come animali in gabbie, da cui sporgevano una testa, una pancia o una zampa.
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Il padre, quando ancora cera, rideva a guardarlo. Che fatica! diceva. Pare che trascini una zappa. Diventerai medico lincoraggiava la madre. Guadagnerai tanti soldi. Paolo aveva di mira la scrittura del padre, ispida come insetti l l per spiccare il volo; quella della nonna, tutta svolazzi e ghirlande. Capiva che doveva scavalcare le punte aguzze delle aste, che allineava sulle righe; sorvolare limmensit della pagina, dove seminava tante o simili a isolotti nel mare. Solo dopo avrebbe potuto mostrare un mucchio di quaderni, come la nonna, e dire: Sono tutti pieni. Saro con gesti spavaldi e voce studiata recitava Oh, Valentino vestito di nuovo, il nonno declamava strofe sui paladini, in bocca alla nonna le poesie erano una variante delle canzoni di giovent. E Paolo: una rima appariscente lo faceva arrossire, certe parole gli mettevano la pelle doca, le storie tristi linducevano ai singhiozzi. Camminando, si ripeteva dei versi, sottovoce; a volte, ne aggiungeva di suoi. Ma la madre linterrompeva. Basta con questo lamento. O anche: Zitto! Sembri uno zingaro. La stessa madre, per, affinava il gusto di Paolo per le parole. Piangeva quando leggeva ad alta voce la poesia che parlava delluccellino che moriva prima del domani in cui gli erano stati promessi da un bambino tre o quattro pani. Aiutava Paolo a rivivere le neve, il ramo, la sera. Paolo saccostava al libro, per assaporare da s la storia, bench la sapesse a memoria. Poi girava avidamente le pagine, correndo ai racconti pi lunghi, che per molto tempo si limit a pregustare guardando le illustrazioni.
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Le visite
Fu tutto pianificato: le occupazioni, la dieta, gli acquisti, le visite. La zia Dina li guidava nella penombra delle grandi stanze, con gli scuri accostati contro luce e caldo. Ogni stanza era odorosa della sua merce: mele cotogne, mandorle, olio, vino. Il chiuso conservava gli odori. Lei mostrava tutto e non dava niente. Quando sbucavano sul terrazzo, indicava: Quanto sole!. Come se fosse anche quello un suo possesso. Nel ritorno, chiudeva la mostra con sermoni il cui succo era: La roba, chi la fa e chi la disfa. Il marito della zia Dina era un contadino benestante. Rigido come il re di spade nelle carte della briscola, appena si muoveva, si disarticolava in torsioni e stralunamenti. I familiari battevano sul suo chiodo fisso: la sua unione sterile, che gli traeva imprecazioni a non finire allindirizzo della moglie. tappata e sigillata diceva. Non c niente da fare. E tutti a ridere. Sestasiava di barzellette scandalose ed espressioni malandrine. Paolo non le intendeva, ma amava gli scoppi di riso che attizzavano. Lo zio parlava a sbuffi, interrompendosi con balbettii, smorfie e ammiccamenti. Il riso stava in attesa, come sullorlo di un precipizio. La battuta era accompagnata da un gesto della mano, dallalto al basso, come per scagliarla con pi forza sulluditorio.

A casa della mamma Maria cerano sempre andirivieni e diverbi. Gli zii sovvertivano le aspettative dei nonni. Saro non voleva andare a scuola, mentre Uccia s. Lo zio maggiore fuggiva il lavoro, mentre smaniavano per un lavoro qualsiasi le zie grandi. Il nonno stava allerta, pronto a correre quando lo zio veniva segnalato in una casa da gioco. Ma nonostante i contrasti, poche cose erano care a Paolo come quella casa. Star sulla soglia e affacciarsi sulla via gli apriva il cuore come davanti al mare. Dal davanzale di una finestra, una pianta di basilico che pareva soffocare nel suo vaso diffondeva un forte odore per la strada sparsa dimmondizie. I venditori ambulanti salternavano senza interruzione o addirittura sincrociavano, come se si fossero dati convegno nel luogo preferito, con le comari che avrebbero voluto dividersi in quattro per dar retta a tutti. Negli intervalli fra un richiamo e laltro, cera sempre una voce che cuciva col canto frammenti di antiche melodie: e il risultato era bello come il vestito di Arlecchino. Quando vedeva arrivare Paolo e la madre, la mamma Maria non diceva, come quando cera il padre: Ecco la Sacra Famiglia!. Diceva invece: Ecco mastrAngelo col cane appresso!. Spesso li portava a vedere la madre grande. La madre grande pareva sbalzata in un blocco di granito, sempre tuttuno con la sedia, sempre con lo stesso vestito nero lungo fino alle caviglie che la proteggeva dal caldo e dal freddo. Aveva rughe numerose e incavate, e da ognuna emergevano escrescenze come gemme rigonfie, che buttavano bianchi cespugli. Anche dal mento partivano bianchi filamenti, come radici aeree.
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Quando salzava, per pochi passi, su massicce scarpe da uomo abili a reggere la sua mole, era una montagna che si spostava, traballando come per unavvisaglia di terremoto. Paolo arretrava, paventando un crollo, ma preferiva non darlo a vedere; le figlie facevano le viste daccostarsi, le mani protese a soccorrerla; ma lei agitava una mano per precludere la via a ogni intervento, mentre con laltra si sosteneva alla sedia come a un bastone. Viveva con due figlie zitelle. A volte Paolo giungeva nel mezzo della pettinatura della madre grande. I capelli venivano liberati dalle forcine e sciolti, bianchi e lunghissimi. Allora la madre grande era davvero una montagna vigorosa, che anche in pieno inverno non cessava di emettere copiosa vegetazione. Le due figlie brigavano gran tempo, a pettinare con ampi gesti, ad annodare trecce con dita acrobatiche. I capelli che restavano nel pettine venivano appallottolati e riposti con cura come batuffoli di cotone. Paolo aveva orecchiato certi discorsi della nonna. Prima che morisse, il padre grande le aveva affidato confessioni indicibili: dispetti e dinieghi da parte della moglie; perfino insulti e bastonature. Paolo ripensava al padre grande che si lisciava i mustacchi e, grave di pensieri e danni, li sopportava poggiando il capo al bastone. Poi studiava la madre grande e ne temeva la cattiveria. Paolo indovinava pensieri e intenzioni di tutti; della madre grande no. Intenta spesso a ruminare, era restia a rispondere a un cenno dintesa o a un sorriso. Smorfie e fanciullaggini non la toccavano. La parola era rara, gli occhi distanti. Forse vedevano solo a partire da una certa altezza danni.

Sul terrazzo
I mattini erano immobili. Solo un moscone col fremito delle ali risvegliava aspettative e presentimenti. Laria pesava sulle cose, come quelle coltri che ricoprono poltrone e divani per preservarli da polveri danni. La madre puliva ogni giorno. I mobili erano sbigottiti di tante attenzioni. Lavorando la madre cantava, con rabbia. Non voleva che i vicini indovinassero la sua tristezza. Si sentiva spiata, accerchiata, reclusa. Per Paolo era come la gorgone: aveva il potere di pietrificarlo. Perci gli piaceva sentirla cantare, ma gli metteva paura vederla emettere il canto con violenza. Per lo stesso motivo a volte la madre parlava sottovoce, come se i nemici fossero dentro. Certi momenti la casa taceva del tutto, come se la vita lavesse abbandonata. Nei dopopranzo i mobili dormivano, e gli occhi, per quanto bussassero alla loro superficie, non ottenevano risposta. Solo le mosche, come Paolo, cercavano amicizia. Come un ragno, di pomeriggio Paolo cresceva al riparo degli angoli bui: il confluire di due pareti, il sottoscala. Concluso il quotidiano esercizio di scrittura e lettura, insegnava lequilibrio a matite e legnetti, esponeva collezioni di coralli, biglie di vetro, conchiglie. Affondava una nave giocattolo in una bacinella e riviveva lurlo di guerra, larrembaggio, lincendio sul mare. Da una fessura di unimposta su cui batteva il sole catturava un raggio con uno specchio e lo inviava a scalare finestre e balconi. Oppure lanciava una palla sulla sommit della scala, che i gradini sincaricavano di rimandargli indietro. La sera, la lampada proiettava ombre inerti, come se fosse il sole di un sistema bloccato per leternit.

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A volte silluminavano per un fatto curioso o per una battuta insolita e ne prendevano mentalmente nota, ripromettendosi: Lo scriveremo al pap. Al momento della scrittura si ritrovavano davanti al frusto inventario dei fatti. Subito dopo la partenza del padre, la casa era diventata tutta un tratto grande. In seguito sembr a Paolo che lui e la madre sespandessero fino a occuparla tutta. Solo certi spazi restavano inaccessibili, angoli e fessure dove crescevano le ombre e sannidavano gli scarafaggi. A prima vista, quelle bestie non si distinguevano, nel pavimento di mattoni a scaglie nere, se non, dopo qualche attimo, per il movimento. Una volta accesa la luce, Paolo contava fino a dieci prima di entrare in una stanza, per dar loro il tempo di rintanarsi. Ciononostante entrava con circospezione. Quegli esseri gli sembravano imprevedibili, incontrollabili come il buio. Era impressionante vederli spuntare dal lavandino, sentire gli zampettii nervosi attorno al buco, immaginare lingorgo nello scarico. Una volta, quando abitavano ancora alla fabbrica, Paolo aveva visto il padre buttato a dormire per terra, con la bocca aperta: e un grosso insetto gli passeggiava sulla faccia. A volte vedeva qualche bambino giocare: imprigionava uno scarafaggio nel cavo delle mani o lo faceva passare da una mano allaltra: lo teneva con due dita per il dorso per vedergli agitare le zampine; lo buttava gi e lo riprendeva o lo capovolgeva e lo faceva girare come la met di un guscio di noce; oppure ne catturava due e li costringeva a muoversi in percorsi obbligati. Allora Paolo soffriva, come se il contatto riguardasse la sua persona. A volte Paolo fermava il piede appena in tempo: nella sua traiettoria scorgeva uno scarafaggio intento a bilanciare le antenne. Rabbrividiva al ricordo del
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viscido che sera diffuso sulla sua pelle quando gli era capitato di schiacciarne uno. Temeva che il pavimento si aprisse e lui si trovasse circondato da quelle bestie nere. Era la debolezza di quei corpi, pronti a spiaccicarsi sotto di lui, a turbarlo. A volte, quando la madre doveva stendere la biancheria, Paolo laccompagnava in terrazzo. Talvolta si attardava, quando lei aveva finito e tornava gi; si stendeva per terra e stava l, solo, fingendo che attorno ci fosse solo cielo; posseduto dalle nuvole, incombenti ma innocue.

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La bambina brava
Una bambina lo prese in un suo gioco: confezionare torte di terra. Paolo per divertirla assaggiava qualche zolla, la masticava, facendo crocchiare grani di sabbia tra i denti. La mangia davvero! diceva la bambina schifata, e si guardava attorno, come a invocar testimoni. Le torte si mangiano rispondeva Paolo. La bambina conosceva bene i negozi vicini. Andava a comprare bicarbonato, riponeva alcuni bastoncini sul palmo della mano e ci faceva colare un po di saliva. Si sprigionava un allegro sfrigolio che solleticava il palmo e pizzicava la lingua. Paolo la imitava, bastavano dieci lire. Tinsegno come si fa diceva lei. E regalava a Paolo un po di saliva. A volte la bambina portava un limone, saccovacciava davanti a Paolo e sbucciava il frutto a morsi. Poi ne dava una met a Paolo, apriva il pugno dove custodiva una manciata di sale e gliene versava un po sulla mano aperta. Mangiavano spicchi intinti nel sale. Il limone profumava, i denti si legavano, gli occhi stavano fissi sulla faccia dellaltro, per cogliervi i segni della sofferenza. Gli portava anche unerba dal gusto dolce-amaro, che raccoglieva nei prati che si vedevano oltre le ultime case. Era unerba strana: steli come lunghi tubicini, con in cima un fiore giallo. Gliela porgeva come un ricco bottino e gli diceva: Mangia, erevadduci. Che significa erba dolce. Poi lo tirava ai bordi del fosso dove scorreva la fognatura e gli insegnava a distinguere i mazzi di ortiche. Gli spiegava
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come toccarle senza che lo ferissero: trattenendo il respiro, come morti. A volte lo incitava ad acchiappare grilli e cavallette e Paolo fingeva agguati che nel balzo finale mancavano il bersaglio. Lo mandava avanti, piazzata alle sue spalle come in formazione militare. In certi momenti Paolo rallentava e lei gli saltava innanzi. Stai ferma. La fai scappare protestava Paolo. Paolo e la madre la chiamavano la bambina brava. Paolo laspettava e la cercava con gli occhi. Quando viene la bambina brava? domandava alla madre. A volte, appena fatta la domanda, la bambina brava appariva come rispondendo alla sua chiamata. A volte Paolo la scopriva accoccolata per terra e la sua solitudine era un invito perch egli la raggiungesse. La madre di Paolo proteggeva quellintimit e scacciava gli altri bambini, che rispondevano con una gragnuola di sassi. Quei bambini stavano sempre assieme, dietro bidoni, cantonate, carretti. Quando vedeva un bambino da solo, Paolo si domandava se fosse uno di quelli. Un giorno Paolo volle fare il cattivo. Fu facile, mentre la bambina gli dava le spalle, spingerla in un fosso. Com successo? Chi stato? domandava la madre. Paolo stette sulle spine, ma la bambina, soffocata dalle lacrime, non seppe spiegarsi.

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Allasilo
Uno degli ultimi temporali li colse di sorpresa. Sul far della sera, sabbatt con violenza. In terrazzo, il giardino della madre fu sconvolto. Portarono le piante al riparo, incuranti della pioggia e della porta che sbatteva. Lortensia fu la pi colpita: rotto il vaso, spezzato il fusto, sconciata la pianta. Era quella per cui la madre aveva particolare affezione. Questa pianta la mia vita era solita dire. Se muore lei, muoio anchio. Adesso era inconsolabile, si dava pugni in testa e saccusava. Avrei dovuto pensarci prima!. Nei giorni seguenti la madre fu tutta nervi e ira. Paolo prese labitudine di immobilizzarsi, quando lei urlava. Nel punto dovera, si bloccava, come un tronco, fisso lo sguardo sul pavimento, finch la tensione si scioglieva. Poco dopo il temporale la madre sammal. Uccia veniva ad aiutarla. Un giorno rest a letto. Si contorceva e urlava dal dolore. La sera arriv il medico: nera la carrozza, neri vestito e borsa. Paolo non pot assistere alla visita. Faceva la spola: uno sguardo a cavallo e vetturino, un orecchio a ci che avveniva di l. Andato via il dottore, la casa non fu pi la stessa: un po dellaria fredda portata da quello era rimasta. Dissero a un Paolo guardingo che la madre sarebbe dovuta andare allospedale. Un taxi lavrebbe condotta a Siracusa. Tu starai con la mamma Maria. La mamma Maria disse che per Paolo sarebbe stato meglio andare allasilo.
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C andata tua madre gli disse. Ci sono andati gli zii. Cos Paolo conobbe la bianca rigidit di stanzoni e corridoi, la monotonia di tavoli e sedie, linsapore coercizione di piatti tutti uguali. Arrivata lora dei giochi in cortile, tutti, al via, si lanciavano in tutte le direzioni, come rondini nel cielo di aprile. Le loro voci formavano una montagna difficile da scalare, un muro compatto che vanificava ogni suo tentativo. Non cera rincorsa che valesse, non cera aggiramento possibile. Gli occhi di Paolo saggrappavano al largo bianco cappello di suor Vincenza, a cui la nonna laveva affidato, che sorvolava i giochi come le ali di un gabbiano. La mano della suora lo guidava sicura verso un isolotto di attivit pi raccolte, che per finiva col farsi risucchiare dalloceano in tempesta che lo lambiva. Ritrovatosi solo, Paolo saffannava a emergere dal gorgo per guadagnare una parete che sostenesse il suo spaesamento. Un giorno fu sorpreso da una suora giovane che lo condusse con s attraverso scale e corridoi; apr una porta e si trovarono in chiesa, in alto, accanto a una grande vetrata colorata che versava addosso tanto azzurro. Qui siamo pi vicini al Signore disse la suora. A Paolo sembr di essere veramente in cielo. Un giorno suor Vincenza parl alla nonna. Questo bambino non gioca, non mangia. Tenetelo a casa.

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Come si baciano i fidanzati


La mamma Maria salzava allalba per provvedere al bucato e far scorta dacqua in giare, bacinelle, pentole, brocche, bottiglie, prima che fosse sospesa la fornitura, da met mattina al giorno dopo. Quindi si disponeva alle compere, allertando lorecchio per non fallire lappuntamento coi venditori ambulanti. Quando il nonno arrivava per il pranzo, la nonna laggiornava sulleconomia domestica, vantando le fatiche che avevano fruttato il risparmio di poche lire. Il nonno adottava un ostinato sospetto come strumento dinchiesta. Inforcava gli occhiali come unarmatura, preparandosi allapparizione del quaderno con colonne ordinate di conti. Invano la nonna batteva sui fogli con le nocche e con lindice collegava punti diversi di quel capo di battaglia. Il nonno finiva per scostare il quaderno, senza accordargli fede. Zie e zii non facevano a gara per festeggiare Paolo, come quando si recava in visita con i genitori. Ognuno andava e veniva a orari differenti e la nonna apparecchiava per chi arrivava il piatto preferito. A volte essa pareva muoversi in casa a occhi chiusi; altre non trovava niente e chiamava Paolo in soccorso. Sar un dispetto delle donne di casa diceva. Quando la nonna attendeva al cucito, Paolo la vedeva prendere la mira, ma poi, a dispetto di tanta attesa, mancare il bersaglio della cruna dellago. Allora Paolo accorreva. La nonna lamentava il rovinio degli anni, la mano non ferma, la vista che non laccompagnava pi. Anche nella lotta contro le mosche la nonna aveva nomina112

to Paolo aiutante in campo. Lavorando parlava, illustrando le azioni che andava svolgendo. O parlava della madre di Paolo. Paolo non si domandava pi: come poteva avere una madre, sua madre? Come un inizio, lei che cera sempre stata? La nonna mostrava foto sbiadite, forniva prove e racconti. Oppure commentava i casi di famiglia, comunicando a Paolo il timore che le ispirava il nonno. Speriamo che stasera non torni ubriaco diceva. Al calare del sole, in una pausa delle attivit, partiva un richiamo. Comare, venga a sedere qua. Le comari arrivavano una dopo laltra, come i piccioni dove c un grano da beccare, portandosi una sedia per il cerchio della conversazione. Seduto vicino alla nonna, con un pane in mano, Paolo spalancava gli occhi su fazzoletti neri e pupille scure. A cena si stringevano tutti attorno al tavolo, piccolo per il loro numero. La notte era divertente dormire con le zie, tre e con lui quattro in un letto grande. A parte dormivano i due zii. Era unavventura camminare, con le assi del soppalco che ondeggiavano e il vento che infuriava sulle teste; andare a letto una gara. Vinceva chi arrivava ultima, quando il gelo delle lenzuola era stato smorzato. Mentre la perdente batteva i denti, le altre le ammassavano sopra coperte, scialli, cappotti. Appena arrivava Paolo, le zie se lo contendevano. Che caldo questo bambino!. Poi giocavano a intrecciare le gambe. Di chi questo piede? domandava una. E tutte a ridere. Si dirimeva la questione con pizzicotti e
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solletichi, che traevano esclamazioni al proprietario, mentre i rimbrotti provenienti dagli zii rendevano ancora pi difficile soffocare il riso. Poi arrivava il sonno e scioglieva il groviglio dei corpi. Un giorno Paolo insistette perch Saro lo portasse come un tempo al mare, ma lo zio era diventato pi brusco. Arrivati sulla spiaggia, Paolo disse: Devo fare un bisogno. E domand: Con cosa mi pulisco?. Saro rispose: Con i sassi. Poi spar. Paolo rimase a rigirarsi sulla sabbia. Quando lo zio torn, Paolo chiese di andare a casa. Uccia lo portava alla stazione, a guardare larrivo dei treni, annunciati da fumosi pennacchi e maestosi concerti. Non gli era permesso, per, andare con altri bambini a piazzare chiodi sulle rotaie per recuperarli, dopo il passaggio del treno, appiattiti e trasformati in spade. Nel ritorno si fermavano a rincorrersi per i viali della villa comunale. Schivandolo Uccia tirava fuori la lingua; a Paolo veniva da afferrarla. Una volta Paolo tir fuori la sua e disse: Facciamo toccare le lingue. Non si pu disse Uccia. Cos si baciano i fidanzati.

La ferita
Il giorno delloperazione la nonna and a Siracusa per assistere la figlia. Al ritorno disse che tutto era andato bene. Un giorno la nonna e la maggiore delle zie portarono Paolo a trovare la madre. Paolo fu orgoglioso della levata mattutina e del viaggio in treno, che la nonna aveva preferito allautobus: il viaggio era pi lungo, ma il biglietto costava meno. Lentusiasmo incoll Paolo ai vetri: inginocchiato sul sedile, ma con un occhio al finestrino del corridoio, per precipitarsi, se avesse offerto un quadro pi interessante. La nonna e la zia parlavano di soldi e malanni e non volevano essere disturbate. Paolo avrebbe avuto tanto da domandare: la differenza fra treno e littorina, i poteri del capostazione, dove finivano i binari, eccetera. Un po per lora, un po per landatura uniforme del treno, un po per i discorsi che ormai sapeva a memoria, Paolo trapass nel sonno. Si svegli poco prima dellarrivo. Un brusco arresto e i sedili li rovesciarono gi. Tutti saffrettarono alluscita come sfuggendo un pericolo. La citt stanc Paolo: il peregrinare dalla stazione allospedale, i palazzi grigi protesi sui passanti, le strade che correvano in tutte le direzioni. Il mare era una fascia celeste che appariva a intermittenza, non quella massa viva e compatta che a costeggiarla dava brividi di piacere. Una volta giunti, ressa davanti al portone e attesa del segnale dingresso. Poi la sirena url di entrare e tutti si lan-

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ciarono, come per accaparrarsi i posti migliori. E poi avanti e indietro per i corridoi, per finire in uno stanzone bianco bianco, con tanti letti allineati, occhi avidi posati su chi arrivava, il tanfo dei medicinali che entrava in gola e quellaria appiccicosa dospedale che fa sentire unti e sporchi, come quando si mancano le pulizie giornaliere. La madre era pallida, svagata. Ogni parte del corpo, per muoversi, sembrava dover vincere una colla che la trattenesse. Paolo cercava in cosa la malattia lavesse cambiata, ma vedeva come una pellicola impercettibile. Prima mantenne la distanza, sopraffatto dai discorsi importanti, poi prese a strusciarsi e domandare. Ma tutto scivolava via o era rotto da raccomandazioni: che non affaticasse la madre, stesse attento a non far cadere il bicchiere dal comodino, non disfacesse il letto. E perch voleva proprio assaggiare le cose messe l per lammalata? Rimasero, come tutti, finch la sirena non li butt fuori, per sfruttare intero lorario di visita. Quando Paolo and via, era come se non avesse nemmeno visto la madre. Dopo pochi giorni la madre usc dallospedale e Paolo torn a casa. La madre stava spesso in vestaglia e si tratteneva a letto. Se si alzava, si muoveva piano per non irritare la ferita. A sera, la madre mangiava pane e pensieri. Solo passando davanti a uno specchio Paolo osava una linguaccia, una smorfia. A volte la madre saugurava che la morte la cogliesse nel sonno e lindomani la trovasse morta. Morta senza manco accorgersene. Paolo protestava. Se viene la morte, la voglio vedere. Una volta che Paolo le faceva domande sulloperazione, lei disse:
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Vieni, ti faccio vedere. Paolo fu accecato dalla vergogna e, quando lei scopr il taglio, lui non vide niente.

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Odore di Germania
Il ronzio dellestate. Unattesa prolungata. La madre, sospesa ogni attivit, piange e si torce le mani. Allimprovviso un tocco, un abbraccio: e un anno di separazione cancellato. Il padre ha un odore sconosciuto. Forse questo lodore della Germania, fatto di scarpe e indumenti nuovi, di cui il padre spiegher uno per uno la provenienza. Questo odore imbarazza Paolo e lo terr a distanza per qualche giorno, finch esso si ritirer nelle vicinanze della valigia e dal corpo del padre emerger, resuscitato dallaria nativa, lantico odore. Poi il padre trae dalla valigia i regali (caramelle appiccicose e tavolette di cioccolato deformate dal caldo) e racconta storie mai udite, che pretendono di essere vere. Colonia una citt, ma pare un mondo. Il padre non lha mai percorsa tutta. Contiene una collina, tanti prati che ospitano pic nic e scampagnate, un fiume dove transitano navi che trasportano merci e turisti. Il padre abita in una strada con pi di cinquecento numeri civici: per spostarsi da una parte allaltra bisogna prendere il tram. Per viaggiare pi veloci ci sono treni che corrono sotto terra. A Colonia ci sono cestini per i rifiuti ben in vista a ogni angolo. Tutti obbediscono ai semafori e aspettano il verde, anche con le strade deserte. I giornali si vendono in cassette per strada: sintroduce la moneta e si preleva il giornale. Forse qualcuno osserva, non visto, da qualche parte, ma non sicuro. Comunque nessuno fa il furbo, per questo la Germania ricca: cento lire tedesche valgono duecentocinquanta lire ita118

liane. Quando si parla di soldi, il padre di Paolo esegue rapidi calcoli: quanto in lire, quanto in marchi. A Colonia c un negozio a ogni porta. Ci sono negozi dove si vende di tutto, chiamati kauf halle. Persino i cani sono tenuti benissimo, ognuno col suo padrone, al guinzaglio, non liberi di fare sporcizie. Certuni sono trattati come persone, coi loro vestiti e il loro cibo speciale. Paolo sbalordisce dei treni che vanno sotto terra e gli scappa da ridere davanti alle persone che non attraversano la strada anche se non c nessuno; per invoca nuove meraviglie. Allora il padre parla di palazzi di vetro che riflettono il cielo e ponti di ferro che reggono macchine e treni. Racconta di porte che si aprono da sole, appena il passante saccosta, con la mano protesa per abitudine. Evoca scale su cui non occorre nessuno sforzo per salire e tappeti dove ti muovi senza camminare. Le notizie fanno il giro dei parenti. Tutte sciocchezze dice la mamma Maria. Non vero niente. Invece vero ribatte il nonno. La Germania ricca. Tra poco ci andr anchio. Dove vuoi andare alla tua et? lo sfida la nonna. Ci andr io promette Saro e non mi vedrete pi. Prima di te andr io corregge il fratello maggiore. E ambedue spariscono prima che la provocazione sia raccolta. Per un mese a casa di Paolo si susseguono le visite, opportunamente ricambiate, dei parenti; i lavori che attendono il padre per essere realizzati; i calcoli di quanto c e quanto manca per portare a termine i progetti; gli andirivieni dal
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mare, che spargono sabbia sui pavimenti e conchiglie sui ripiani dei mobili, come in ogni vacanza che si rispetti. Certi giorni scoppiano litigi furiosi e mutismi improvvisi, di cui Paolo non sa spiegare il perch. Quando il padre riparte, la casa ridiventa vuota come dopo la prima partenza, come se avesse appreso la legge dei cicli e dellalternanza.

Sono queste le imprese?


La madre riprese a star male. Loperazione non riuscita diceva. Sto peggio di prima. E se mi opero unaltra volta, star ancora peggio. E spiegava: Ho pietre nello stomaco. E certe volte: Mi si attorcigliano le budella. Provava medicine diverse, tutte inefficaci. Prendeva anche i cibi come una medicina. Pillole, gocce, tisane erano diventate lappuntamento attorno a cui ruotava il giorno. Mando gi qualcosa diceva prima di mangiare. Se no, non posso prendere la pillola. Dopo il pasto andava avanti e indietro per la casa, tenendosi la pancia, e ruttava. Pareva celare dentro il corpo un pozzo, una riserva inesauribile, che si rigenerava in continuazione. Paolo la seguiva con gli occhi quando lei gli volgeva le spalle; si aspettava gli dicesse qualcosa, quando avanzava verso di lui; ma lei sembrava non vederlo. Paolo restava a guardarla finch gli occhi gli bruciavano per il sonno e lei gli diceva: Vai a dormire. Qualche volta vomitava di notte. Paolo si svegliava assonnato, la madre gli diceva di correre a prendere la bacinella, e poi di vuotarla. A volte la madre salzava dal letto, faceva qualche passo piegata in due, con una mano al fianco, come a sostenerlo. Assumeva pose cos inconsuete, che Paolo pensava a un gioco di trasformismo e quasi le rideva in faccia. Tornava poi a letto,

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si girava a destra e a sinistra, ora raggomitolandosi, ora tendendo le membra e inarcandosi, senza requie. Perch non sta ferma? si domandava Paolo, attribuendo il male alla violenza dei gesti. A un tratto il dolore si calmava e lei simmobilizzava, come se temesse di destarlo. Sembrava aver sostenuto una battaglia. Ho le ossa rotte diceva. Pare che qualcuno mi abbia bastonata. A volte si bloccava e tendeva lorecchio, spiando i passi del male. Solo quando lascolto cessava e il corpo riprendeva i gesti abituali, Paolo tirava un sospiro di sollievo. In una pausa del dolore, domandava a Paolo: Se muoio, cosa fai?. Non muori protestava Paolo. La madre insisteva. Per, se muoio, cosa fai?. Prevenendo la risposta, esclamava: Resterai solo in mezzo a una strada, come un orfano. Paolo non sopportava gli si dicesse che sarebbe rimasto solo in mezzo a una strada, e neppure di essere compatito, perci rispondeva: Vado dal pap. Come? in Germania. Col treno. Per non hai il biglietto. Mi nascondo. Oppure dico che vado da mio padre, cos mi lasciano andare. E in Germania cosa fai? Non sai lindirizzo. Lo so. sulla busta delle lettere. E se non lo trovi, perch a lavorare?. Aspetto davanti alla porta.
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E me, mi lasci qui?. No, lo dico alla mamma Maria e ti portiamo al cimitero. Sai arrivare dalla mamma Maria?. Paolo rispondeva di s e per darne prova spiegava la strada. Allimprovviso la madre diceva: Muoio!. Chiudeva gli occhi e sabbandonava. Paolo protestava. Non vero! Non sei morta!. Prima la scuoteva, infine scoppiava a piangere. A quel punto la madre apriva gli occhi e gli diceva: Sono queste le imprese? questo che fai, se muoio?.

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Come marito e moglie


Un giorno la madre disse a Paolo: Non riesco a alzarmi. Fai tu da mangiare?. Non sono capace si schermiva Paolo. Ti dico come si fa incoraggiava la madre. Da allora, certi giorni la madre gli diceva: Oggi non riesco a alzarmi. A Paolo crollava addosso la casa, con la cucina, le scale, larmadio. Fece brutti sogni. In uno non poteva uscire di casa, perch davanti alla porta sapriva un vuoto che lo separava da tutto. Se savventurava, cadeva senza fine, finch si svegliava. In un altro, aveva paura di entrare in casa, perch mobili e oggetti salzavano in aria e lassalivano. A volte Paolo si distraeva davanti al latte che bollendo si versava, altre grattava con un cucchiaio finch non spariva una piccola incrostazione. A volte gustava comera leggera e confidenziale lacqua sulle mani, comerano vivaci e imprevedibili le bolle di detersivo che si gonfiavano e scoppiavano. Pulendo i mobili per scacciare la polvere dalle pi piccole fessure, gli sembrava di scoprire i segreti del legno; ne imparava la superficie, il calore. Poi si scuoteva e affrettava un lavoro per passare a un altro, e a un altro ancora, ed essere infine libero di tornare ai giochi. Magari cos passava la giornata. Quando la madre non lo vedeva, scivolava rimbalzando col sedere da uno scalino allaltro. O sappendeva allo scalino della rampa superiore e si dondolava nel vuoto. Spesso per, appena si muoveva, sentiva il richiamo della madre.
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Non fare rumore. Ho un chiodo nel cervello gli urlava dal letto. Allora Paolo cambiava gioco. Aveva messo assieme uno sparuto esercito di soldatini di plastica: li disponeva in opposti manipoli. In caso di dubbio, raggiungeva la madre e le mostrava due soldati. Chi vince?. Non lo so. Paolo non le credeva. Covava lidea che le immagini portassero scritto un destino. A volte Paolo diceva: Che bello! Fra poco mangiamo. Oppure: Che bello! Fra poco dormiamo. Al che la madre rispondeva: Per me non c niente di bello, ormai. Oppure: Pensa a tuo padre. Chiss se manger anche lui stasera. Oppure: Povero tuo padre! Chiss dove dormir stasera. La sera Paolo andava a guardare dal terrazzo. Le luci del paese gli mettevano tristezza. Laffascinavano invece le luci che saccendevano sul mare e in montagna. Paolo si fece una ragione del suo stato. A chi gli domandava come stava senza il padre, rispondeva che adesso cera lui al posto del padre e che lui e la madre vivevano come marito e moglie. Non dire cos gli disse Uccia quando lo sent. La gente pu pensare male.
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A scuola
Ore dodici e trenta. Il parlottio per strada avverte che il primo turno di scuola finito. Bisogna prepararsi per il turno pomeridiano. La fretta per arrivare. Lattesa davanti al portone. I primini che scalciano e recalcitrano alla stretta delle madri. Un uomo di marmo custodisce latrio: smorza le voci e introduce alla maest dei corridoi. Poi la maestra, che sulle prime non si capisce se bella o brutta, e lassegnazione dei banchi, dove le scrostature della vernice scoprono la superficie rugosa, i nodi e le nervature del legno, tutta una geografia che nel corso degli anni tante mani caparbie hanno assecondato. Poi, esaurito il via vai delle madri, scrivere finalmente sul quaderno nuovo, copiando dalla lavagna: Primo Ottobre 1960. Oggi il primo giorno di scuola. Si avanzava e si retrocedeva per meriti distinti. I primi e gli ultimi banchi erano i pi ambiti. In mezzo, la palude, da cui muovevano assalti nelle due direzioni. La maestra dirigeva gli spostamenti. Ai primi banchi i pi bravi. Il figlio del dottore. Il figlio dellavvocato. Il figlio del maestro di una classe vicina, che ogni tanto veniva a salutare e faceva un cenno al figlio. Agli ultimi banchi i ripetenti, i pi alti, i pi grandi, quelli venuti a scuola in ritardo di un anno. A ogni sistemazione, una sfilata di madri. Chiedevano un minuto, solo un minuto. Il figlio non vedeva la lavagna, il figlio non riusciva a seguire. La maestra fosse cortese, lo mettesse davanti. I promossi esibivano il privilegio, si giravano
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spavaldi e salutavano i vecchi compagni di banco, come generali di prima linea saluterebbero le retrovie. Negli ultimi posti, invece, tutti erano paghi della loro sorte. Ridevano tra loro e schernivano gli altri, che venivano esclusi dai discorsi sottovoce. La bacchetta della maestra ebbe presto la strada spianata per abbassarsi su di loro: bastava una distrazione, una dimenticanza, un errore. Essi ne approfittavano per apparecchiare prove di forza, restando impassibili sotto le battute e limitandosi a strizzare gli occhi, come se non vedere il gesto attutisse il dolore. Vediamo chi ha la testa pi dura mormoravano. A volte improvvisavano pantomime, sottraendo la mano al colpo gi sferrato, che andava a vuoto sollevando uno scoppio di risa. I non avvezzi invece non si decidevano a esporre le mani, si contorcevano presentendo il male, supplicavano prima di rassegnarsi alla punizione, a cui la classe li spingeva a gran voce. La bacchetta era un rametto ben mondato, resistente e flessibile, che ben esprimeva le qualit dei portatori ed era la misura della rispettabilit della maestra. Quando una bacchetta si rompeva incontrando una testa o la cattedra, la maestra domandava: Chi mi porta una bacchetta nuova?. Soprattutto dagli ultimi banchi tante mani si alzavano e tanti io, io cercavano di emergere. Lindomani una selva di bacchette saffollava attorno alla cattedra come una guardia donore e la maestra ne saggiava la resistenza sulle teste dei donatori. Dettando la maestra sillabava e sillabando camminava. Un corridoio dopo laltro, avanti e indietro. Una sillaba dopo laltra spezzando il senso.
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Eccola di spalle, che ripete per chi non ha ancora scritto. Varie sillabe la separano dalla parete in fondo al corridoio tra i banchi. Arriver, guarder la parete e si girer. Nel frattempo una parte di Paolo abbandona il posto e va incontro agli alberi che sarrampicano sulle finestre; poi un impulso lo spinge con tutto se stesso a congiungere punti diversi dellaula esclusi dallo sguardo della maestra. A volte si sentiva nel silenzio una cantilena provenire da unaltra classe e si sarebbe voluto volare per i corridoi alla ricerca di quel luogo beato. A volte pi maestre facevano circolo davanti allaula, dove cresceva un alberello di scherzi e bisbigli sempre pi coraggiosi. A volte strappava applausi il maestro di una classe vicina, capace di eseguire a mano libera un cerchio alla lavagna, su cui stampava il centro dopo una spettacolare rincorsa. Sempre studi! Sempre studi! esclamava una zia o una vicina. Da grande sar medico diceva la madre. Paolo respingeva in cuor suo lintenzione estranea, la lode, il calcolo. Si rigirava come se sedesse su un cuscino di spine oppure simmobilizzava e soffiava aria alle orecchie in un modo tutto suo, che gli permetteva di non sentire e astrarsi.

ancora giorno
Alluscita di scuola si davano convegno cani e bambini. Accorrevano fratelli maggiori e minori, per prendere parte alla festa: il tuffo nellaria aperta. Uno spiazzo si apriva davanti a loro, la parola mondo rimbalzava da un punto allaltro, lanciata in aria da girotondi e giochi. Gioiosa, scattante, come i corpi che si raccoglievano a terra per sorgere con pi slancio. Tanti si stringevano a un compagno, come api attorno al miele. Sindovinava una distribuzione di dolci, che magari da ore, in tasca, avevano aspettato di prendere aria. Oppure era stata una moneta ad aspettare di raggiungere le compagne nel cassetto di un negozio. Le battaglie erano furibonde dietro una latta promossa a palla. E due montagnole di terra, omaggio di un vicino cantiere, erano scalate per conquistare le cime e fare di se stessi bandiera. Le braccia a protendere le cartelle come scudi. Paolo passa da un gruppo allaltro. Ma allimprovviso il tramonto, che sera distratto, riprende veloce il tragitto, rincorrendo il tempo perduto. Paolo consulta il cielo. Spunta inesorabile qualche stella. Da una parte gi notte, dallaltra sattarda un riverbero. Paolo vorrebbe soffiare su quella brace moribonda perch sfolgori. Presto, a casa, per poter mostrare lultimo riflesso del sole e dire: ancora giorno.

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Laltro Paolo
A scuola cera un bambino che si chiamava Paolo come lui. I due Paoli si cercavano, attirati dal nome in comune. Laltro Paolo aveva avuto la poliomelite e adesso portava alla gamba destra un apparecchio che lo cingeva come unarmatura. Quando poggiava sulla gamba sinistra, il corpo salzava, per abbassarsi quando il peso era trasferito sulla destra. Pareva un birillo del tiro a segno quando sfida il tiratore. Oppure uno scimmione, perch, quando il corpo sabbassava, la mano lo seguiva ad arco, sfiorando la terra in modo scimmiesco. Nella corsa, non voleva essere da meno degli altri; allora era ancora pi comico, perch somigliava a un grosso uccello che tentasse un volo impossibile, sbattendo le scarne ali. N si tirava indietro dallaltro appuntamento: i salti dalla gradinata sul retro della scuola. Tanti, alluscita, gli correvano intorno, imitandolo, a gara. Correvano, se lui correva; si fermavano, se lui si fermava a protestare perch smettessero. Laltro Paolo odorava di bucato. Paolo avrebbe voluto avere un odore cos, ma non riusciva a sentire il proprio, gli sembrava di non averne. Calmo calmo, la prima volta che fecero la strada insieme, laltro Paolo fece domande come: Cosa fa tuo padre? E prima di partire cosa faceva? Ti dispiace ch via? Se fosse qui, cosa gli diresti?. Paolo non sapeva fare domande cos importanti, lunica cosa che riusc a dire fu: E il tuo che fa?. Laltro Paolo era inesauribile. Aveva sempre qualcosa di serio da domandare, come per esempio: Cosa fai a casa? Coshai fatto ieri?.
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Domande che facevano nascere discorsi. La sua casa era bianca di calce e stretta fra le altre sue compagne, comessa piccole e basse. Senza un buco di finestra, prendeva luce da una porta sempre aperta. Dal buio di dentro spuntava la madre, quando laltro Paolo arrivando le lanciava un O ma. Una domanda, un rimbrotto, poi il cruccio della donna si scioglieva e ficcava dei biscotti in mano al figlio e allamico. Si vedeva che amava il figlio e per amor suo insisteva con lamico: che accettasse, non si schernisse. Adesso Paolo aspetta tutti i giorni quella ruvida cortesia. Laria torva della signora non gli d pensiero. Con gli occhi cerca le mani, per una conferma del dono. Certi pomeriggi, quando escono da scuola, il cielo rosso come un fal, e le nuvole, a strati, sono come la cenere che copre le braci. Dai comignoli partono messaggi cifrati. Quella la mia stella dice laltro Paolo. La saluto tutti i giorni. Paolo si vergogna di non possedere una stella. Ne sceglie una in fretta, per vividezza seconda solo a quella dellamico. Teme per che domani non la riconoscer. Il cielo cos grande e lui si orienta cos male. Poi viene linverno, le pozzanghere, i cieli di luce e fango. Un giorno alluscita di scuola un bambino alza orizzontali le braccia fino allaltezza delle spalle e le dispone ad arco; incassa la testa e concentra la sua forza per offrirla allalto, e vortica su se stesso, in un moto che lo isola, esalta. Intanto ritmicamente pesta la pozzanghera pi grande, il cerchio del suo potere. Prima circospezione, passi geometrici. Poi uno stormo in
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fuga, uno sulla scia dellaltro, pestando quello che capita: stinchi, tacchi, stringhe, fango. I piedi che affondano in pozze abili a camuffarsi, i capelli arruffati, il cuore in gola, le suole di fango. Loscurit arriva frettolosa, correndo come loro allimpazzata. Il cielo sventola un gran mantello sulle loro teste. Fuochi saccendono, in cielo e in terra. Lodore della legna bruciata unisce dentro e fuori, anticipa la casa, il ritorno, il rimprovero negli occhi della madre, abili a scorgere schizzi di fango nellunico grembiule. Ci sar da lavarlo, appenderlo a una sedia, sperare che asciughi in tempo, magari intervenendo col ferro da stiro. Mentre dal grembiule salzer vapore al passaggio del ferro, Paolo far la faccia contrita, ma sar tranquillo in cuor suo, perch avr capito che allora giusta il grembiule sar pronto. Con allegria e amicizia corrono intorno allaltro Paolo, studiandosi di riprodurne gesti ed espressioni. Esibiscono la perfezione di una trovata, investigano le possibilit di sviluppo di un movimento. Chi lha trovato, anzich andar dietro al compagno, gli balza davanti perch ammiri il risultato, subito scalzato da chi ha apportato una variazione, una miglioria. Lui non risponde e non guarda nessuno, forse per il buio incombente, forse per lansia di arrivare a casa, forse per paura di cadere. Mentre in processione lo seguono, anche Paolo si fa avanti, vuole prendere parte alla festa comune, accostare lamico, mostrargli che fa come lui. Si stupisce che non risponda ai suoi richiami e si liberi a strattoni. Perch scappi? gli domanda. Ma non ottiene risposta. E perch la madre dellaltro Paolo accorre a scacciarli, per132

ch urla anche contro di lui, bilanciando la mano in segno di minaccia: Anche tu ti ci metti?. Nei giorni seguenti, Paolo spera che la madre dellaltro Paolo lo chiami, ma invano. Dora in poi Paolo camminer sullaltro lato della strada.

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Il libro
A volte, mentre la madre preparava la cena, Paolo, sul tavolo di cucina, si lasciava portare dalla lettura. Avanti e indietro, a assaporare storie gi note e a scoprirne di nuove. Da certe storie si sentiva scoperto. Il libro parlava a lui; sapeva di lui cose chegli ignorava. Avvertiva come un ronzio: la sua voce e unaltra. Attorno cerano i gesti sbilenchi, le parole sbagliate, le risposte arcane, la penuria dei pasti, i vestiti sulle sedie ad asciugare, le scarpe strette, i cappotti sui letti, i bicchieri rotti, i calcoli fino allultima lira. Per nel libro tutto era bello e a posto. Paolo trascriveva le letture pi belle, provando anche lui a inclinare le lettere, a farle sognanti. Allora la madre seclissava, seclissava egli stesso, il corpo svaniva. Dentro di lui, qualcuno parlava; gli guidava le mani, ascoltava il fruscio della matita sulla carta e lo traduceva in parole. La matita una bacchetta magica. Ecco che oscilla. Accorrono uomini e bestie, nuvole e boschi, mari e fuochi. Sono pi uomini e bestie, pi nuvole e boschi, pi mari e fuochi che nella realt. Paolo sta con tutti i pori allerta. Impara paesi e mestieri, risa e pianti, giorni e stagioni. A volte si presenta una parola sconosciuta, allora la magia pi fitta e impenetrabile. Poi il corpo ritorna: le guance ardono, gli occhi prudono, la schiena invoca una nuova posizione. Le mani sfogliano: parte una nuova avventura. Paolo rimpiange che lattesa non duri pi a lungo.
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Come un corredo
La casa della mamma Maria sandava vuotando. Lo zio maggiore era partito soldato, aveva mandato una foto in divisa, pareva unaltra persona. Paolo, quando la nonna gli concedeva la foto perch la baciasse, ne era intimorito. Saro aveva smesso di andare a scuola, lavorava in una segheria: un giorno s, un giorno no. Quel rispetto che il padre vantava fra i suoi pari, frutto di un antico senso dellonore, Saro lo esigeva per s dal datore di lavoro. Come non lotteneva, mal sopportava comandi e rimbrotti e disertava il lavoro. Il padre si sguinzagliava per le periferie del paese, rincorrendo, di voce in voce, le sue tracce. A volte Saro tornava a casa prima che il padre concludesse il giro. La madre lo rifocillava, salmodiando rimproveri e avvertimenti. Intanto stava allerta e, appena sentiva arrivare il marito, spediva il figlio sul soppalco. Saro per non era capace di contenersi: rispondeva per le rime alle parole del padre e saccendeva la zuffa. Sulla carnagione scura, asciutta, i colpi del padre sembravano non far presa. Egli stesso, come una molla, rimbalzava da un angolo allaltro, finch guadagnava luscita e da l, con la fuga spalancata, insolentiva. Un giorno Paolo e la madre capitarono mentre Uccia e la nonna ingozzavano un borsone di biancheria e viveri. Chi lo sentir tuo padre? diceva la nonna. Dove vai? domand Paolo. Con un giovanotto che mi piace. Per sempre?.
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No, ma quando torner abiter in una casa grande con mio marito e non potr pi giocare per strada. Prima delle tue sorelle! riprendeva la nonna. Cosa dir la gente?. Dopo il matrimonio di Uccia la nonna pareva invecchiata. Indicava le porte delle comari, affollate di annunci listati a lutto come di medaglie la pettorina di un generale. Langustiava il pensiero della morte, della cassa, del vestito che avrebbe indossato quel giorno. Avrebbe voluto confezionarlo da s, come un corredo. Lo disegnava mentalmente e annunciava economie per realizzarlo. Non ho bisogno di nessuno diceva. Si domandava chi sarebbe morto prima, lei o il marito, e cercava di definire cosa fosse meglio. A volte il nonno tornava provato da lunghi viaggi. Lei tirava gi dal fuoco una pentola dacqua che pareva aspettare. Singinocchiava davanti a lui, lo liberava dagli scarponi e gli lavava e asciugava i piedi. Lui si lamentava se veniva strofinato con troppo vigore e in risposta lei gli profetizzava un avvenire infelice, nel caso le fosse sopravvissuto. Allora s, avrebbe rimpianto le sue cure. Chi ti accudir? Chi ti servir come me? Nessuno. Lo so. per questo che morir prima io rispondeva lui strizzando locchio, mentre, dove la polvere aveva offeso, leniva il borotalco. Al che lei ribatteva che non era vero: era sfinita e le fatiche lavrebbero presto sopraffatta. Perch non riposi? lui domandava, vedendola carponi ad asciugare le pozze che il lavaggio aveva lasciato sul pavimento.
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Il mio riposo sar al cimitero rispondeva lei. Offeso, lui riattizzava la polemica, rivendicando le glorie della loro convivenza. Era lavvio di un nuovo tema. Mio padre mi teneva come la pupilla degli occhi diceva la nonna. Fratelli e sorelle mi servivano e riverivano, tutti mi trattavano coi guanti. Pareva che il sole mi sciupasse. Ero bianca, fine, le ciglia sottili come quelle delle bambole, la vita stretta come un figurino. Per strada non vedevo nessuno. Camminavo accosto al muro, con gli occhi bassi. Tutti mi guardavano, ma nessuno aveva lardire di parlarmi. Adesso, invece, sono ridotta una schiava. Finisci una cosa, cominciane unaltra. E per giunta insultata. A questo punto il nonno intonava una canzone per farle dispetto. Nta sta strada cci sta na caccarazza, na caccarazza pigghiata ri sonnu, e la so matrazza la va vantannu: Me figghia sa pigghiari n signuruni. Poviru omu ca ti stringi e abbrazza, megghiu abbrazzassi na buffa nda n ciumi. La nonna faceva loffesa e dava a vedere di voler abbandonare il campo, ma il nonno lafferrava e la sollevava senza fatica, dicendo: Sei sempre una piuma!. Lei faceva le viste di dargli dei pugni. Protestava, tuttavia si vedeva che le faceva piacere. Un giorno, a sorpresa, il nonno diede una diversa risposta alla questione di chi dovesse morire prima.
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Non voglio che tu mi sopravviva disse alla moglie. Non voglio che tu rimanga sola. Ecco il tuo bene. Vuoi che io muoia prima ribatt lei, fingendo di equivocare.

Estate e ferie
Vado in Germania. Non posso finire i miei giorni in questa stalla diceva il nonno. Tuo padre ci teneva gli animali e adesso ci abitiamo noi. Almeno mio padre me lha lasciata ribatteva la mamma Maria. Tuo padre non ti ha lasciato nemmeno questa. Mio padre era un signore. E me, mi lasci qui? riprendeva la nonna. Quando mi sistemo, vieni anche tu. Alla mia et? Mi porteresti in mezzo ai tedeschi? Cosa mi tocca sentire! cos che fa un signore?. Allora mi aspetti qui. Quando torno ti compro una casa vera. Partirono prima gli zii, poi il nonno. Il nonno fu il primo a tornare. Disse che quella mala vita non faceva per lui. Ci credo lo rimbeccava la nonna. Dove la trovi in Germania una che ti lavi e tincipri come me?. Dopo un anno di andirivieni tornarono anche gli zii. Tutti intedescati, salutavano guten tag e auf wiedersehen. Paolo chiedeva: Andiamo dalla mamma Maria. Sentiamo cosa dicono della Germania. Cosa cera in Germania? domandava. Saro raccontava che cerano fabbriche con tanti lavoratori. Cerano persone di tutto il mondo: italiani, spagnoli, greci, turchi. Greci e turchi erano tenuti separati, perch non smettevano di punzecchiarsi. Gli jugoslavi erano pochi, ma litigiosi: tiravano fuori il coltello per niente.

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Sempre le stesse storie lo interrompeva la mamma Maria. Sempre liti e coltelli. Non hanno testa scriveva il padre di Paolo. Tanto guadagnano, tanto spendono. Allora perch vengono in Germania?. Lestate del sessantatr port puntuale le ferie e il padre. Un giorno andarono a vedere un sito vicino viale Lido. Lo compriamo dissero. Costruiremo una casa nuova. Paolo non riusciva a crederci. E la vecchia?. Per noi piccola. La venderemo. Paolo pens a tutti gli angoli della casa e gli venne da piangere. Il terrazzo, gli scalini, il sottoscala, persino il marciapiede, la strada, lincrocio dove laspettava un bambino cattivo gli apparvero insostituibili.

Dove mangia una bocca, mangiano due bocche


Quando andavano a letto, per i genitori cominciava unaltra vita: parlavano, ridevano. Paolo tendeva lorecchio; poi salzava e in punta di piedi, facendo pressione sulle orecchie per non sentire i suoi stessi passi, si spingeva al confine della sua camera. Spesso la porta dei genitori era chiusa. Rotolando verso di lui, le parole si perdevano per strada. A star separati, le spese sono troppe diceva una sera il padre. Di questo passo, quanto tempo dovrai stare in Germania? diceva la madre. Ci furono lenzuola smosse, uno sbadiglio. Paolo stette con tutti i pori allerta. Il silenzio premeva. Insieme risparmieremmo su luce e gas riprendeva la madre. E il padre: Dove mangia una bocca, mangiano due bocche. Paolo cap che progettavano di andare tutti in Germania. Colonia suonava bene, non sembrava nemmeno una citt tedesca. Evocava gentilezze e profumi, il seno odoroso delle zie, le specchiere con i preziosi flaconcini. Ma Paolo restava a bocca aperta quando il padre pronunciava qualche parola in tedesco. Ein schwarze katze un gatto nero. Una parolaccia arrabbiata. Un raschio in gola. Uno sputo. Il padre esibiva la stranezza, se ne ornava. A Paolo mancava il terreno su cui poggiare, come nei sogni in cui si cade e non si arriva mai. Se pensava alla Germania, non trovava traccia delle mirabilie narrate dal

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padre. Vedeva un albero con tanto vuoto attorno, un cortile spoglio, un muro grigio. E un percorso obbligato che lo portava l. Chiss come fece Paolo a passare la notte, con dubbi e domande che ingigantivano dentro. Come contenne limpazienza e la voglia di aprire la porta e trovare il giorno. Come si sommarono i minuti, divisi minuziosamente dallattesa. Il giorno dopo investig. vero che dobbiamo andare tutti in Germania?. Come lo sai? disse il padre. Lho sentito. Quando?. Quando parlavate. Hai visto? Capisce tutto disse il padre. Sei stato ad ascoltare. Non si fa disse la madre. Pi tardi Paolo torn a chiedere. In Germania parlano come noi?. Certo che no. Allora anche i libri sono diversi. Sicuro. Io cosa faccio l?. Vai a una scuola tedesca. Per non capisco come parlano. Sei piccolo, imparerai. Se non voglio impararlo?. Stai a casa. Da solo?. Da solo. Quando sarai pi grande, imparerai un lavoro. Non torner pi a scuola?.
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No. E i libri?. Se vuoi, te li puoi portare.

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Chi alleva figli, alleva porci


La mamma Maria continuava a ripetere: Come faccio a tenere il bambino? Dove lo metto? Ho tre uomini in casa, e ognuno fa per quattro. Le femmine lavorano anche loro. Non posso pretendere aiuto da nessuno. Tutti arrivano e vogliono trovare pronto. La zia Dina: No, non posso. Non riesco ad avere bambini per casa. Mi fa male la testa. A vederli e a farli commentava il marito. Il peggio era quando si parlava nelle cerchie con estranei. Quanti anni ha? domandava uno. Otto. Fosse stato un maiale, sarebbe bello grosso. Chi alleva figli, alleva porci diceva un altro. Un padre provvede a dieci figli, ma dieci figli non provvedono a un padre. Qualcuno tirava fuori la storia dello zappatore, quello della canzone. Un contadino fa studiare il figlio a prezzo di sacrifici. Il figlio diventa avvocato, si stabilisce in citt e si sposa allinsaputa del padre, perch se ne vergogna. Il padre lo viene a sapere e irrompe nella festa coi vestiti laceri. Veniva cantata qualche strofa, con gli ampi gesti che accompagnavano le canzoni melodiche. Qualcuno saccostava a Paolo per dargli un buffetto facendo lo sguardo estatico della festa, qualcuno accennava un passo, le mani protese a coinvolgerlo nella danza. La canzone sinterrompeva con la domanda:
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Farai anche tu cos?. Paolo non rispondeva. Avete visto? incalzavano gli altri. Anche la madre domandava: Farai cos? Dillo. Dillo tu ribatteva Paolo. La madre non gli diceva pi: Da grande sarai medico. Guadagnerai tanti soldi. Con quel suo modo strusciando pollice e indice che evocava il frusciare delle banconote. Alla fine sembrava non esserci altra soluzione che andare. Paolo si fingeva distante per abituarsi; poi, quando la puntura del dolore scemava, si studiava di richiamarla, prolungarla. Allineava sui ripiani dei mobili libri e quaderni e passava in rassegna le storie preferite, assaporando ci che avrebbe perso. Avrebbero vinto quelli che dicevano Chi alleva figli, alleva porci. Quelli che sapevano gi cosa sarebbe successo. Ci che andava bene per loro, doveva andare bene per tutti. Paolo sarebbe diventato un altro. Sogni e sentimenti appassivano al pensiero di quello sconosciuto che intravvedeva aspettarlo in un domani imprecisato.

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Istituto Educativo Umberto I


Paolo si present allistituto con una valigia di cartone nuova, la bella copia di quella di suo padre. Sera figurato di essere atteso, invece il direttore non ricordava il suo nome e and a cercarlo in un registro. I baffi neri spiavano Paolo anche mentre il direttore chinava il capo sui fogli. Paolo sperava che qualcosa non andasse, che non si trovasse il suo nome o che non ci fosse pi posto. Invece il direttore scrisse qualcosa e poi disse: Bene, saluta la mamma. Perch piangi? Qui starai bene. Adesso ti faccio parlare con Stefano. Stefano era una giraffa vestita da bambino. I calzoni corti che mettevano in mostra le lunghe gambe aggiungevano slancio alla sua figura di ragazzo di quinta. Aveva il busto inclinato in avanti di chi avvezzo a correre alla bisogna. Questo il bambino nuovo. Digli come si sta qui. Stefano sembr meravigliato di una questione cos semplice e rispose con enfasi. Si sta bene. Anche tu starai bene, vedrai. Qui troverai tanti amici. Le lacrime deformano la vista, ma Paolo tenne gli occhi chiusi. Sentiva le gote in fiamme e le lacrime bordeggiare le labbra. Qualcosa di caldo e liquido scendeva per il naso e lui lo spinse in gola. Il direttore e Stefano parlavano, ma Paolo riprov un certo modo di tendere le orecchie che confondeva le parole e amplificava il pianto. come se si spostasse o si otturasse il canale da cui entra146

no i suoni pens. Il pianto invece dentro. Si scopr a oscillare sul suo asse come un alberello. Tem che fosse visibile e per evitarlo apr gli occhi. Sembrava ci fosse pi luce. I singhiozzi lo scuotevano a intervalli sempre pi radi, come unonda che si allontana. Il direttore disse a Stefano di accompagnare Paolo in classe. Prima di salire ti faccio vedere una cosa annunci Stefano. Apr una porta e disse: Questo il nostro cortile. Che bello! E grande, eh!. Questo il bambino nuovo. Alla presentazione di Stefano, tutti lo guardarono e ripeterono: Il bambino nuovo. Il bambino nuovo. Il maestro stava facendo un dettato. Somigliava al direttore, ma era pi corto e pi largo. Scrivi da dove siamo arrivati disse a Paolo. Non posso cominciare daccapo. Poi andarono in refettorio; poi nel salone; poi in classe a fare i compiti; infine in cortile. Stefano chiam Paolo e gli disse: Vieni, adesso giochiamo. Paolo gli and dietro. Siccome non cera posto in squadra per il nuovo arrivato, Stefano lo rassicur: Aspetta, tra un po entri tu. Paolo stette un tempo imprecisato dove Stefano gli aveva detto. Poi, vedendo che chi non giocava era radunato attorno a un sedile, raggiunse quel gruppo e rimase l fino allora di andare a messa.

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Un chierichetto era Stefano, riconoscibilissimo dalla statura. Dopo messa Paolo corse a dirgli che laveva riconosciuto. Il mio nome Salvatore si present laltro chierichetto. Come il nome del Signore. Gli altri gli fecero il verso: Salvatore come il nome del Signore. Lui minacci: Lo dico al don. Poi radun la sua corte, cui confid i segreti dellaltare. La sera, mentre Paolo ordinava la sua roba, si sparse la voce che aveva tanto zucchero. Vennero a trovarlo in processione, tutti con la mano tesa, per avere una zolletta; e ringraziavano con consigli su come tenerlo, come usarlo. Hai il dentifricio? gli domand uno. Se ce lhai daglielo, perch lui lo mangia. Il primo annuiva, mostrando i denti. Un altro attirava la sua attenzione. Guarda, quei due sono fidanzati. Si baciano sulla bocca. Vuoi provare?. Uno gli disse che aveva raccomandazioni da fargli. Di notte ti muovi? Attento a non muoverti, se no viene il prete e ti scopre. Hai giornalini? gli domand Salvatore. Se ne hai, te li prender padre Costanzo. Li legge per vedere se ci sono cose sporche. Poi te li render. Padre Costanzo dormiva dietro una tenda, che rimaneva illuminata tutta la notte. Sta sveglio a leggere gli dissero. Beato lui! pens Paolo.

Il gigante del mare


Brusco il risveglio, come il batter le mani di padre Costanzo per buttar gi dai letti la camerata. Pronta la mano a rovesciar le coperte, la torsione del corpo, la corsa in bagno per evitare le code, i dispetti, gli urtoni. Gelido il primo contatto col giorno, come lacqua del rubinetto e laria del mattino. Poi dal dormitorio alla chiesa, dal refettorio alla classe, dal refettorio al salone, dalla classe al cortile, dalla chiesa al refettorio, dal salone al dormitorio. Nei corridoi bastava un attimo sovrappensiero, uscendo dallaula per andare in bagno o rincorrendo una fila che aveva svoltato langolo, per non riconoscere i luoghi, tanto erano uguali, fra parete e parete, pavimento e soffitto. La vista del mare non gli dava il sollievo atteso. Adesso chera inverno, la mattina la nebbia gliene negava la visione. La sera, indovinava la demarcazione fra cielo e mare solo da una collana di luci allorizzonte, triste e allegra come una luminaria lontana. Dove le luci finivano, sapeva aprirsi il varco verso il mare aperto, da l saugurava qualcosa di nuovo: forse una nave, forse un astro. Stefano era sempre coi grandi. A volte passavano giornate senza che Paolo lo vedesse. Salvatore era in perenne agitazione. Interrompeva un discorso con un altro, impaziente di tenerne pi duno insieme; parlava al vento, per, con nessuno disposto a dargli udienza; altre volte, invece, cedendo a un suo strano potere, tanti gli saffollavano intorno. Padre Rolando era grande e grosso, con la faccia liscia e rubiconda. Quando scendeva in campo, tutti lo tiravano dalla
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loro parte; ed egli avanzava, gigante tra nani, sollevando le acclamazioni di alcuni e il terrore di altri. Padre Costanzo era piccolo e tozzo, un tronco cresciuto male. Aveva la pelle aspra come una scorza e la testa troppo grossa. Dalla fronte al mento era puntellato di nei di vari colori e dimensioni. Attorno a un sedile raccoglieva chi faticava a inserirsi nei giochi comuni. Fra i fedeli del sedile cera Mario, che tutti chiamavano Papera Cotta. Era basso e tozzo: un padre Costanzo in piccolo. Ma, mentre padre Costanzo era massiccio, Papera Cotta aveva le membra pingui e cadenti, come di gomma. Si muoveva con la misurata lentezza dei grandi e parlava con voce impastata, masticando le parole con la mandibola prominente. Padre Costanzo sbozzava angoli del paradiso, un recinto con qualche nuvola qua e l, eterno come quei pomeriggi, grande e bianco come il cortile. Echi di canti e quadri di chiacchiere, tranquille come le loro. Solo Salvatore le esibiva come un privilegio. Abbiamo parlato del paradiso diceva. Benvenuta loscurit, che cacciandoli dal cortile evitava tristi confronti; il refettorio, che rimescolava i gruppi e assegnava a ciascuno un piatto e un cucchiaio. La sera, dalla grande finestra del salone, Paolo guardava il porto. Su uno dei due bracci di terra che si protendevano sul mare, un gigante roteava una spada luminosa. Quello il faro gli dissero.

Nel cortile
Quella non era casa dove perdersi, abbandonarsi. Se si fermava per capire, le cose fuggivano via. Quando lui arrivava, tutto era deciso, gli altri si disperdevano e lui restava fuori dal gioco. Anche ad arrivare in tempo, spesso non gli restava che guardare. La sua voce ripeteva a chi assegnava le parti: E io? E io?. Ma nessuno lo sentiva. Alcuni ragazzi erano seguiti ovunque andassero: gioco e giocatori gli andavano dietro. Davanti a Paolo invece il cerchio si spostava pi in l. Perch stai qui? Perch non giochi con gli altri? gli domandava padre Costanzo. Gli altri erano una massa compatta, come allasilo. Finiva per rifugiarsi sul sedile ai bordi del campo. Gli interventi in suo soccorso di padre Costanzo non avevano effetti durevoli. N quelli di Stefano, cui il prete diceva: Di che lo facciano giocare. Tutti dicevano di s, anzi domandavano: Perch non gioca?. Per la cosa moriva da s. Se gli dicevano di fare larbitro, Paolo non conosceva le regole. Se lo mettevano in porta, era dimenticato dal gioco e poi, quando arrivava lassalto, era incapace di parare. Se stava in difesa, gli avversari se lo palleggiavano senza che riuscisse a opporsi. In assalto, correva dietro gli altri, ma nessuno gli passava la palla. Una volta si trov la palla tra i piedi e, frastornato dagli incitamenti Tira, tira!, tir senza guardare e sub loffesa dellautogol. Dovette abbandonare il campo per sottrarsi a urla e spintoni.
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Quello un bambino che ha molto sofferto gli disse un giorno padre Costanzo. Gli sono morti tutte due i genitori. Parla con lui. Si chiama Rosario. Rosario era un ragazzo n alto n basso, scuro come tanti. Non fosse stato per la maglietta rossa, si sarebbe confuso tra gli altri. Paolo cominci a cercare il suo sguardo. La posta dur vari giorni. Alla fine labbord per le scale. Mi ha detto padre Costanzo che anche tu non hai i genitori. S. Anche tu?. S. Sono morti?. No, sono in Germania. Allora torneranno. La risposta disarm Paolo, che lasci cadere il discorso. Un po perch la domenica certi ragazzi andavano da parenti e lui no; un po per alcune parole che sentiva, come figlio di nessuno, a Paolo venne in mente che i suoi genitori potevano non essere i suoi genitori e che lui fosse figlio di nessuno. Cerc loccasione e ne parl a Rosario. Sai, i miei genitori non sono i miei genitori. Chi te lha detto?. Lho capito. Come lhai capito?. Perch mi hanno lasciato. Dove sono andati? domand Rosario, forse avendo dimenticato la conversazione precedente. In Germania. Perch?. Dicono per lavorare per me e per farmi una casa.
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E perch ti hanno lasciato?. Per farmi studiare. Allora i tuoi sono bravi genitori rispose Rosario sorridendo. Paolo continuava a pensarci. I suoi gli avevano detto che i bambini si compravano al mercato: tante bancarelle, tanta gente; uno passa e compra. Per: perch proprio lui? Lui o un altro, sarebbe stato lo stesso? Se fosse stato comprato da altri? I suoi genitori sarebbero stati diversi? I genitori che lui conosceva avrebbero avuto un altro bambino? Espose a Rosario il problema. I bambini non si comprano al mercato. Sono stati i tuoi genitori a farti nascere. Come?. Rosario rimase in bilico fra il s e il no. Poi decise per il no. Comunque ti vogliono bene concluse. Ma perch mi hanno fatto nascere? Come sapevano che mi avrebbero voluto bene?. Lo sapevano. Anche prima?. Anche. I pensieri formarono un nodo, che si sciolse in parole solo quando Paolo si trov appartato: Ma come, se non mi conoscevano?.

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Chi sono?
Paolo cercava nello specchio la verit di ci che tanti avevano detto di lui: Somiglia al padre. Oppure: tutto sua madre. Guardava la fronte spaziosa che apriva il viso, la bocca con una certa piega delle labbra e il mento con una fossetta simile a un punto fermo, e gli sembrava che la foto del padre con cui confrontava la sua immagine sanimasse. Se invece metteva a fuoco il naso largo e gli occhi scuri profondi, soprattutto se si distanziava dallo specchio e strizzava gli occhi in modo da confondere i particolari, i lineamenti della madre prevalevano. Cercava di scoprire come davvero era, come appariva agli altri. Avrebbe voluto farle lo sgambetto e immobilizzare la sua figura che scivolava cos agilmente sullo specchio. Si guardava con la coda dellocchio, o con finta indifferenza, o apparendo allimprovviso, prima che gli occhi veri e quelli riflessi stabilissero unintesa. Poi saccorse che il gioco linquietava e cerc di smetterlo. Un po gli piaceva, un po no, che somigliasse alluno o allaltro dei genitori. A volte lo tormentava limpossibilit di una risposta univoca, altre volte la somiglianza linfastidiva come se limbrattasse. Ugualmente ingombranti erano nomi e modi di dire che indicano una grande vicinanza: a esempio famiglia o volere bene. Solo a pensarci, anche quando nessuno lo vedeva, Paolo reagiva con rossori e brividi. Non aveva il
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coraggio di alzare gli occhi. Cercava di confondere le parole, di pensare ad altro. Certe volte si bloccava. Era come essere in nessun luogo. Sottratto al mondo. Una frazione di tempo rubata al tempo. Dimenticava tutto, godeva di esserci, senza legami, senza storia. A momenti la bellezza dellemozione lo sopraffaceva e rabbrividiva; poi la mente riprendeva a pensare e a intavolare diverbi immaginari. A volte sabbandonava ai ricordi. alla fabbrica, festa. Arrivano i nonni, gli zii. Ne avete qui di spazio dice il nonno. Paolo lo segue nellispezione della fabbrica, vuole guardare con gli occhi del nonno. Quando il sole a mezzo del suo giro, il sugo della festa rallegra la tavolata. Dopo pranzo gli uomini fanno circolo ed unabbuffata di progetti, da ruminare fino alla ricorrenza successiva, mentre le donne gustano la digestione elencando i prezzi delle portate. Paolo caracolla intorno, intento a tutto e a niente, incrociandosi con Diana. Poi eccolo su un carro zeppo di parenti. Ha quattro o cinque anni. Il nonno agita allegramente il frustino nellaria frizzante, ora per spronare il cavallo, ora per scansare le fronde degli alberi, curve dambo i lati della strada a formare una caverna ombrosa, che minacciano di sbattere in faccia. Paolo guarda per terra, la strada che fugge sotto i colpi martellanti degli zoccoli. Ha paura che arrivino presto e che lallegria finisca. Poi la sua mente impara a dilatarsi e ad approfittare dei minimi interstizi. Ecco allora che risente il nonno che recita e poi annuncia:
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Questo Dante Alighieri. Oppure: Questo Ludovico Ariosto. Chi sono? domanda Paolo. Il nonno risponde: Sono tutti morti!.

Un piano infallibile
Un gruppo cominci a ruminare proteste. Dalla mattina alla sera ununica fila, sempre su e gi per le scale. Non c uno specchio per ricordare come sei fatto. Quello del bagno rotto da secoli e nessuno pensa a cambiarlo. Nei bagni radunata tutta la cacca del mondo. Solo col fetore tinfetti. Se ci stai troppo, vomiti. E la cucina? Chiss che ci danno da mangiare. Per me risciacquatura di piatti. E il maestro? Invece di spiegare, racconta barzellette. Io ho fatto il dettato tutto giusto e mi ha dato cinque in pagella disse Paolo. Queste cose Paolo le scrisse in una lunga lettera ai genitori. Ho scritto quattro pagine disse ai compagni. Padre Costanzo prese la lettera per visionarla e la tenne pi giorni. Vedrai i segni, le cancellature dicevano a Paolo. Il padre leggeva la lettera di pomeriggio, mentre faceva assistenza quando loro svolgevano i compiti. La leggeva, la rileggeva, faceva segni, prendeva appunti. Alla fine chiam Paolo a s e accenn alla lettera aperta sulla cattedra. Paolo saspettava un complimento, invece il padre disse: Non si pu mandare ai genitori una lettera cos. Allora niente disse Paolo. E si riprese la lettera. Girando in tondo in cortile, Paolo guardava a lungo un certo angolo. Una cassa, dei bidoni della spazzatura e un

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casotto addossati al muro che dava verso lesterno formavano una specie di scala. Io qui non ci resto prese a dire. Papera Cotta si schermiva sorridendo. Io ho un piano infallibile gli disse invece Salvatore. Ma qui non se ne pu parlare. Poi, preso da parte Paolo, gli sussurr: Sabato, quando c meno gente, aspettiamo che tutti dormano e troviamoci nei bagni. Io non ho dove andare gli disse Rosario, quando Paolo lo invit a far parte del piano. Tu dove andrai?. Non lo so rispose Paolo. Limportante andare. La sera Paolo fu soddisfatto del quadro che gli offriva il cortile. Abbagliati da un lampione, gli occhi non riuscivano a spingersi nellangolo che restava buio; e lungo il lato adiacente la parete proiettava una fitta ombra, come un corridoio di sicurezza. La sera dopo la riguard: la stessa ombra si conservava per lui, gli indicava la strada. Sabato, durante le lezioni, un bidello venne ad annunciare che Paolo era atteso nellufficio del direttore. Mentre Paolo passava tra i banchi, Salvatore gli sussurr: Ci hanno scoperti. Non dire niente!. Seduta davanti al gran tavolo del direttore, dando la schiena alla porta, cera la madre di Paolo. Gir appena il capo, ma rimase seduta. Anzich baci e abbracci, sincrociarono domande. Perch sei venuta? domand Paolo. Perch non hai scritto? rispose la madre. Difficile dirlo. Il direttore borbott parole incomprensibili. La seconda domanda fu:
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Perch vai male a scuola?. Anche stavolta Paolo non pot spiegare presente il direttore che il maestro distribuiva i voti a caso, assegnando i voti migliori ai pi cattivi per tenerli buoni. A un tratto Paolo rimpianse che la madre non fosse rimasta in Germania. Sullautobus verso casa la madre sembr guardarlo per la prima volta. Come sei magro! Hai mangiato lucertole?. Un attimo dopo la bilancia del cuore la inclinava a un altro argomento. In Germania si lavora a cento allora. Cosa credi?. Cosa facciamo adesso? investig Paolo. Adesso andiamo a casa e poi vieni con me in Germania. La voce della madre era fioca, forse stanca per il viaggio. Lassenza laveva non sfigurata, ma impallidita e affinata. Passato e presente combaciarono quando sciorin la sua via crucis tedesca.

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In Germania
In Germania bisognava alzarsi quando era pi bello stare sotto le coperte. Fuori cera un gelo tagliente che penetrava nelle ossa. La madre di Paolo non cera avvezza e non sapeva da che parte girarsi. Si faceva piccola piccola, per confortarsi da sola le spalle contratte, la schiena a gobba, le mani ridotte a un pezzo di ghiaccio. Certi momenti tratteneva il respiro, le sembrava dinghiottire veleno. Al lavoro, era una schiava. Puzzi frau di qua, puzzi frau di l. Tutti si facevano capi. Le pi esperte sbraitavano che facevano tutto loro, spostando la stessa cosa da l a qua, da qua a l. La madre di Paolo, che era auslenderin, parlava poco e faticava tanto. Tutto il giorno con la schiena piegata, mandando gi polvere e consumando i gomiti. Arrivata lora di mangiare, non sapeva dove nascondersi. Essen, essen smaniavano le altre. E come lei tardava a tirar fuori le cibarie, per tema di non essere capite, quelle con la mano agitavano laria davanti alla bocca. Sembrava volessero imboccarla a forza. Fai la dieta? le domandavano. Perch lei portava da casa due fette spalmate di margarina, separate da una fetta sottile di salame. Altro che dieta! Le avrebbe sbranate, dalla fame. Era un cancro, ma aveva una fame da leone. Invece rispondeva che non aveva bisogno di fare la dieta, perch era abbastanza schlanke. Certi giorni le altre sciamavano nelle rosticcerie vicine, allora si stava un po in pace. Certi altri, prima della pausa, due a turno giravano, armati di carta e penna, con la domanda:
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Und du? Und du?. Allinizio lo domandavano anche a lei, poi avevano capito che era meglio stare alla larga. Gut, sempre gut, dicevano. Gut!, quando dovevano vantare un cibo perch lei lo assaggiasse. Gut?, per sapere se qualcosa le piaceva. E se lei rifiutava e stava per conto suo, dicevano lo stesso: Gut, andava bene lo stesso. Arrivavano con vassoi colmi di confezioni fumanti e allestivano un banchetto, come se si fossero radunate per un festino e non per lavoro. Come se non bastasse, due volte al giorno facevano caf-pause: tutti mettevano soldi nelle macchinette del caff e le donne fumavano come uomini. Finch poteva, la madre di Paolo stava in disparte; se la chiamavano, era obbligata ad avvicinarsi, per non parere sdegnosa, se no poi brigavano perch a lei toccassero i servizi che nessuno voleva. Contuttoci, gliene facevano lo stesso di tutti i colori. Di faccia, danke schn e bitte schn, di dietro chaisse e schwein. Lonnipotente Dio o un personaggio misterioso, il destino, erano invocati a volte come testimoni, a volte come accusati. Certe maledizioni scuotevano la casa. Paolo presentiva il loro approssimarsi. Procedendo, il discorso della madre cresceva su se stesso, si gonfiava. Paolo chiudeva gli occhi, sirrigidiva aspettando la fine. Oltre al lavoro, continuava la madre, cera la spesa, la casa, la cena. Alle sette ascoltavano il programma italiano a una radio avuta in regalo da gente che se ne doveva disfare. Mezzora: qualche notizia, qualche canzone. Poi a lavare i piatti e a letto. La domenica, chi aveva la forza di uscire? Per uscire, ci
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volevano soldi. In Germania, appena ti muovi, spendi. Devi avere un portafoglio a mantice. Al massimo, facevano quattro passi attorno allisolato, per non soffocare, sempre al chiuso. Oppure si spingevano a piedi fino a Venloerstrasse. Cera gente a ogni angolo, file davanti ai chioschi e alle birrerie, odore di wrstel ovunque. Lei si tratteneva a guardare i negozi; il marito la tirava via, dicendo: Che guardi, visto che non possiamo comprare niente?. Finiva che litigavano e rientravano bisticciati. Andavano a letto senza parlare. A volte il padre lavorava anche la domenica e il luned cominciava la settimana pi stanco di come laveva finita. Paolo non riconosceva il padre in quel ritratto. Che ne sai tu? diceva la madre. Non sai com diventato coi soldi. La madre concludeva ricordando come fossero stati in pensiero per Paolo, bramando due righe che non arrivavano mai.

Un quaderno bianco e una biglia nera


La partenza, la vigilia. Valigie, pellegrinaggi domestici, doni votivi. Vestiti con targhette recanti nome e cognome cucite prima che Paolo andasse in collegio, perch gli indumenti non finissero persi. Cosa portare? I libri di lettura, un quaderno bianco e una biglia nera; le foto dei compleanni disposte in ordine cronologico; i disegni dei giorni di solitudine. Sattendeva nuove solitudini, ma lo presentiva confusamente. Le solitudini sono tutte diverse. Poi combatt lultima battaglia coi soldatini di plastica. Volle scoprire cosa nascondesse la superficie. Deluso, decise di combattere una battaglia vera. Tronc a questo un braccio, a quello una gamba. Amareggiato di aver compromesso lequilibrio gi precario dei modellini, prosegu lopera, non salvando nessuno. Poi i saluti, il giro dei parenti. Per strada, poche persone, ombre che strisciavano lungo i muri. Le porte, chiuse. Poche le luci, fioche come lumini. Davanti a una casa, un carro abbandonava le stanghe per terra come braccia in disarmo. Paolo saffidava alla mano della madre che lo guidava, non calcolava come altre volte quanta strada avessero percorso, quanta rimaneva da percorrere. Non lo inorgogliva ricordare lindovinello del padre: Ravanti saccurza, rarreri sallonga. Cos?. La risposta la strada non gli solleticava il palato. A casa della mamma Maria, lei e il nonno. Le figlie, sposa-

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te, spesso erano da loro in visita coi mariti, ma quella sera non cerano. Saro era uscito; il figlio maggiore, in Germania. La nonna riponeva gli avanzi della cena, il nonno sbucciava unarancia. Ve ne andate tutti sospir la mamma Maria. Il nonno gli offr met arancia, Paolo scosse il capo. Il nonno accost le due met e rifece il gesto, Paolo rifiut. Lasciami stare. Perch quel broncio? domand il nonno. Paolo tacque. Non vuole partire rispose la madre. Vuole stare qui. Qui dove?. La madre fece un gesto espressivo: non lo sapeva. In collegio non ha scritto una riga. Come facciamo, io e suo padre, a lasciarlo?. La risposta non venne, la madre riprese. Viene con noi e, quando sar ora, lavorer anche lui. Le parole mossero Paolo al pianto. Non vuoi lavorare? disse il nonno. Credi che il lavoro sia un disonore? Alla tua et gi lavoravo. Vuole andare a scuola spieg la madre. I suoi amici sono i libri. Il nonno abbass il capo, celando i fremiti che lo scuotevano. Ci lascia gli occhi, sui libri continuava la madre. E scrive, poi, inventa storie. Le spalle del nonno sussultavano. Paolo non capiva. La lampada di basso voltaggio lasciava grandi ombre. Anche tu piangi? fece la mamma Maria. Tieni!. Un fazzoletto bianco vol a nascondere gli occhi. Sembrava che al nonno mancasse il respiro. Preparagli il letto disse come di corsa. Dove? disse la nonna.
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Il nonno indic il soppalco alle sue spalle, silenzioso come una nave lontana. Ci hanno dormito in sette, ce la faranno in due. Poi si rivolse alla figlia. Vai da tuo marito. Tu, la tua vita. Tuo figlio, la sua. E strizz locchio al nipote. Sar la tua reggia.

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EPILOGO

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La piula
Tutto il giorno Paolo aspetta la telefonata del padre, che la sera arriva. Oggi compi quarantanni. Ti stai facendo vecchio anche tu. Anche tu ti stai facendo pi vecchio pensa Paolo. Ogni tanto Paolo pensa alleventualit della loro morte e ha un senso di spaesamento. Pensa che si sentirebbe come una pianta strappata dalle sue radici e buttata nel vasto mondo, dove, ovunque capiti, mai potr attecchire. Nulla, pensa, gli giungerebbe ugualmente irrimediabile. Nulla lo farebbe sentire tanto solo. Si spezzerebbe il legame con la fantasia dellorigine e del ritorno. Paolo ricorda quando, a ogni ritorno da Milano, vedeva suo padre pi piccolo. Rimpicciolivano un po alla volta, lui e la madre, come quelleroe greco che divenne una cicala. Ripensa ai suoi ritorni in Sicilia. Ogni volta andava via ripetendo Mai pi. Ogni volta ritornava con rinnovate speranze. Nel mezzo era intervenuta limmagine di una risata che sciogliesse incomprensioni e controversie. A volte era la madre in lacrime col capo appoggiato al tavolo di cucina a stringergli il cuore. A volte era pi penoso lasciare i luoghi. I luoghi gli sembravano lanima buona delle cose. In essi si erano sedimentati gli affetti e le storie, svincolati dallaltalena delle vicende umane. Ed essi li porgevano, puri, indifesi, disponibili.

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Paolo ricorda il tempo in cui la morte non era una nera signora, ma una civetta bianca, il cui richiamo collocava in lontananza, oltre lo spiazzo della fabbrica, che funzionava da cintura di sicurezza. Quando lo sentiva vicino, la sua immaginazione saltava le vie intermedie: non cerano dubbi, era sulla casa, minaccioso, incombente. Qualcosa riscuote Paolo dai ricordi. Un uccello notturno inatteso col suo richiamo il solito fa dei tetti di Milano una campagna. la piula! Come ha fatto a trovarmi?.

Ringraziamenti
Questopera non nata adulta. Alcuni amici lhanno accolta e incoraggiata prima che vedesse la luce. Mi fa piacere riunirli idealmente in questa pagina: si tratta di Maria Grazia Almasio, Riccardo Annoni, Ernestina Bresciani, Mariacristina Camisa, Maria Castagnino, Gabriella Dighera, Daniela Gaddi, Paolo Giussani, Paola Guidetti, Francesco Marotta, Raffaella Molena, Giulia Niccolai, Laura Pariani, Vincenzo Piccione, Marco Punzi, Gilberto Re Depaolini, Alberto Sabbadini, Nicoletta Vallorani. Alcuni amici poi mi sono stati vicini sin dai primi passi e hanno seguito le varie fasi del lavoro: essi sono Rino Bernasconi, Livia Candiani, Giancarlo Consonni, Franco Loi, Orazio Parisi, Marilena Salvarezza, Antonio Satta. Un grazie particolare va ai miei primissimi lettori: mia moglie Nives, i miei figli Mattia ed Erica, mio fratello Walter.
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Indice
MOSCA CIECA CON IL SOLE 9 12 15 17 21 24 28 31 34 37 40 43 47 50 52 54 58 61 63 67 71 74 76 79 81 84 87 Il padre Case Allo specchio La fabbrica I soldi Due anni Il nonno, il cavallo, la stalla Mamma Maria Il mare La pioggia Le preghiere Le attese Lo spirito della festa Doppu Natali, friddu e fami Le citt di Paolo Primavera Estate Autunno Inverno Il segreto Domande Sei grande! La corsa La febbre I grandi magazzini Babele La partenza

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LA TORTA DI SABBIA 97 100 102 105 108 110 112 115 118 121 124 126 129 130 134 135 139 141 144 146 149 151 154 157 160 163 Lo chiamavano Joseph Ape, erba, imbuto Le visite Sul terrazzo La bambina brava Allasilo Come si baciano i fidanzati La ferita Odore di Germania Sono queste le imprese? Come marito e moglie A scuola ancora giorno Laltro Paolo Il libro Come un corredo Estate e ferie Dove mangia una bocca, mangiano due bocche Chi alleva figli, alleva porci Istituto Educativo Umberto I Il gigante del mare Nel cortile Chi sono? Un piano infallibile In Germania Un quaderno bianco e una biglia nera EPILOGO 169 La piula

Stampato presso Piero Manni s.r.l. - San Cesario di Lecce nel gennaio 2005

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