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FRANZ KAFKA

DER PROZESS (IL PROCESSO)


1914/1917
1) Arresto

Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché un mattino, senza che avesse fatto niente di male, venne arrestato.
La cuoca della signora Grubach, la sua affittacamere, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, questa
volta non venne. Ciò non era mai successo. K. aspettò ancora un poco, dal suo cuscino contemplò l’anziana signora
che abitava di fronte a lui e che lo osservava con una curiosità per lei del tutto inusuale, infine, disorientato e
affamato al tempo stesso, suonò il campanello. Subito qualcuno bussò, ed entrò un uomo che non aveva mai visto in
questa casa. Era snello e tuttavia ben piantato, indossava un vestito nero attillato provvisto, come i vestiti da viaggio,
di diverse pieghe, tasche, fibbie, bottoni e di una cintura, e che perciò, senza che ne fosse ben chiaro il motivo,
sembrava particolarmente pratico. "Chi è lei?" domandò K. e subito si mise a sedere sul letto. Ma l’uomo trascurò la
domanda, come se la sua comparsa dovesse essere accettata di per sé, e da parte sua disse soltanto: "Ha suonato?"
"Anna deve portarmi la colazione", disse K. e cercò come prima cosa di stabilire in silenzio, con attenzione e
riflessione, chi fosse in realtà l’uomo. Ma costui non si offrì troppo a lungo ai suoi sguardi, si voltò verso la porta
aprendola un poco e disse a qualcuno che evidentemente era in piedi subito dietro la porta: "Vuole che Anna gli porti
la colazione." Ne seguì in anticamera una risatina, a giudicare dal suono non era chiaro se vi partecipasse più di una
persona. Evidentemente l’estraneo non poteva averne ricavato nuove informazioni, tuttavia col tono di voce di un
annuncio formale disse a K.: "Ciò è impossibile". "Questa sarebbe una novità", disse K., saltò giù dal letto e si infilò
velocemente i pantaloni. "Voglio proprio vedere che razza di gente c’è nell’altra stanza, e come si giustificherà davanti
a me la signora Grubach per questa intrusione". Gli venne subito in mente che sarebbe stato meglio non dire questo
ad alta voce e che, così facendo, riconosceva in certa misura all’estraneo un diritto di sorveglianza, ma per il
momento la cosa gli parve priva di importanza. L’estraneo invece sembrò intenderla proprio in questo modo, perché
disse: "Non preferisce piuttosto rimanere qui?" "Io non intendo né rimanere qui né che lei mi rivolga la parola senza
neppure essersi presentato." "Non avevo cattive intenzioni", disse l’estraneo, e aprì spontaneamente la porta. Nella
stanza accanto, dove K. entrò più lentamente di quanto avrebbe voluto, tutto sembrava a prima vista esattamente
come la sera prima. Era il soggiorno della signora Grubach, e forse in questa stanza strapiena di mobili, tovaglie,
porcellane e fotografie c’era oggi un po’ più spazio del solito, ma non lo si notava subito, tanto più che la novità
principale consisteva nella presenza di un uomo seduto presso la finestra aperta con un libro, dal quale alzò gli occhi
proprio in quel momento. "Lei avrebbe dovuto rimanere nella sua stanza! Non glielo ha detto Franz?" "Sì, che cosa
vuole lei?" disse K., e con lo sguardo passò da questa nuova conoscenza all’uomo chiamato Franz, che era rimasto
sulla soglia della porta, e quindi di nuovo al suo interlocutore. Di nuovo dalla finestra aperta si poteva vedere la
vecchia signora, che con curiosità veramente senile era ora passata alla finestra di fronte a questa stanza, per
continuare a vedere la scena. "Ora però voglio la signora Grubach, per...", disse K., e fece un movimento come per
andarsene strappandosi dai due uomini, che però stavano a distanza da lui. "No", disse l’uomo vicino alla finestra,
gettò il libro su un tavolino e si alzò in piedi. "Lei non può andarsene, è in arresto." "Così sembra", disse K., poi
aggiunse: "E perché?" "Questo non siamo autorizzati a dirglielo. Vada nella sua stanza e aspetti. Il procedimento è
stato avviato, e lei saprà tutto a tempo debito. Vado già al di là dei miei compiti parlando così amichevolmente. Ma
spero che ci sia solo Franz ad ascoltare, e anche lui, contro ogni regola, si è già comportato con amicizia nei suoi
confronti. Lei potrà stare tranquillo se solo continua ad avere la fortuna che ha avuto nella designazione dei suoi
sorveglianti." K. voleva sedersi, ma si accorse che non c’era posto se non sulla sedia vicino alla finestra. "Se ne
accorgerà, come sia vero tutto ciò", disse Franz, e gli si avvicinò, contemporaneamente al suo compagno. Soprattutto
quest’ultimo era molto più alto di K., e gli dava dei colpetti sulla spalla. Entrambi esaminarono la camicia da notte di
K., dicendo che d’ora in poi avrebbe dovuto indossarne una molto più scadente, ma che loro avrebbero custodito
questa come tutto il resto della sua biancheria, e gli avrebbero restituito tutto quando la cosa fosse andata a buon
fine. "Le conviene dare le cose a noi anziché al deposito", dissero, "perché al deposito spesso qualcosa viene rubato,
e poi dopo un certo tempo tutto viene venduto, senza considerare se il relativo procedimento sia finito oppure no. E
poi, specialmente negli ultimi tempi, quanto sono lunghi questi processi! Certo, alla fine lei otterrebbe dal deposito
un qualche ricavo, ma prima di tutto questo ricavo è già piccolo di per sé, dato che al momento della vendita conta
non tanto l’entità dell’offerta quanto quella della relativa corruzione; e in secondo luogo tali ricavi, come si sa,
diminuiscono progressivamente passando di mano in mano e di anno in anno." K. prestava scarsa attenzione a
questo discorso, il diritto di proprietà sulle sue cose, diritto che forse aveva ancora, gli stava a cuore meno dell’avere
chiarezza sulla sua posizione; ma in presenza di questa gente non poteva neppure riflettere, la pancia del secondo
sorvegliante - poiché solo di sorveglianti poteva trattarsi - urtava in continuazione contro di lui, come per
manifestare amicizia, ma se K. alzava gli occhi vedeva, in contrasto con questo corpo massiccio, una faccia asciutta e
ossuta, con un grosso naso storto da un lato, che all’insaputa di K. faceva cenni all’altro sorvegliante. Che razza di
uomini erano? Di che cosa parlavano? A quali autorità ubbidivano? Eppure K. viveva in uno stato di diritto, ovunque
regnava la pace, tutte le leggi erano in vigore, chi poteva osare di piombare così in casa sua? Aveva sempre avuto la
tendenza a prender tutto il più possibile alla leggera, a credere al peggio solo quando si presentava, a non farsi
preoccupazioni per il futuro, neppure quando le minacce erano grandi. Ma tutto ciò ora non sembrava adeguato alla
situazione, il tutto sembrava piuttosto uno scherzo, uno scherzo di cattivo gusto che per ragioni ignote, forse perché
oggi era il suo trentesimo compleanno, gli era stato preparato dai suoi colleghi della banca, naturalmente era una cosa
possibile, forse sarebbe bastato in qualche modo ridere in faccia ai sorveglianti, e loro avrebbero riso insieme con lui,
forse erano solo uscieri presi all’angolo della strada, e ne avevano anche l’aspetto - ciononostante, fin dalla prima
apparizione del sorvegliante Franz era assolutamente deciso a non rinunciare al minimo vantaggio che forse poteva
avere nei confronti di questa gente. Se in seguito si fosse detto che non aveva capito lo scherzo, questo sembrava a K.
un pericolo trascurabile, in compenso ricordava bene - anche se non era sua abitudine imparare dall’esperienza -
alcuni casi insignificanti di per sé, nei quali, a differenza dei suoi amici, si era comportato scientemente in maniera
imprudente, senza alcuna sensibilità per le possibili conseguenze, e alla fine il risultato lo aveva punito. Questo non
doveva più accadere, per lo meno non questa volta, e se tutto era una commedia, ebbene, avrebbe recitato la sua
parte.

Per il momento era ancora libero. "Con permesso", disse e passando fra i due sorveglianti rientrò in fretta nella sua
stanza. "Sembra che sia ragionevole", sentì dire dietro di sé. Nella sua stanza spalancò subito i cassetti della scrivania,
dove tutto era in perfetto ordine, ma nella sua agitazione non gli riuscì di trovare subito proprio i documenti di
identità che cercava. Alla fine trovò la sua patente di ciclista e con quella stava già per tornare dai sorveglianti, ma poi
il documento gli sembrò troppo insignificante e continuò a cercare finché trovò il certificato di nascita. Quando
tornò nella stanza attigua, si aprì la porta che stava proprio di fronte e la signora Grubach fece l’atto di entrare. La si
vide solo un momento, perché K. ebbe appena il tempo di riconoscerla che la donna, in evidente imbarazzo, chiese
scusa, scomparve alla vista e chiuse la porta con la massima cautela. "Entri pure", avrebbe ancora potuto dire K. Ora
però si trovava in mezzo alla stanza con i suoi documenti in mano, guardò ancora la porta, che non si riaprì più, e fu
infine scosso da un richiamo dei sorveglianti, che erano seduti al tavolino vicino alla finestra aperta e che, come solo
ora K. notò, stavano consumando la sua colazione. "Perché non è entrata?" chiese K. "Non può farlo", disse quello
grosso, "lei è in arresto." "Ma come è possibile che io sia in arresto? E in questo modo poi?" "Ora lei ricomincia",
disse il guardiano immergendo un panino imburrato nel barattolo del miele. "A domande del genere non diamo
risposta." "Voi dovrete dare una risposta", disse K. "Ecco i miei documenti di identità, ora mostratemi i vostri, e
soprattutto il mandato di arresto." "Santo cielo!" disse il guardiano, "lei non vuol proprio adattarsi alla sua situazione,
e sembra essersi messo d’impegno a infastidire inutilmente noi, che in questo momento siamo forse in tutta l’umanità
quelli che le sono più vicini." "E’ proprio così, creda", disse Franz, senza portare alla bocca la tazza di tè che teneva
in mano e anzi osservando K. con un lungo sguardo evidentemente pieno di significato, eppure incomprensibile. K.,
senza volerlo, cedette allo scambio di sguardi con Franz, ma poi colpì con la mano le sue carte e disse: "Ecco i miei
documenti di identità." "E che ce ne importa?" esclamò allora il guardiano grosso, "lei si comporta peggio di un
bambino. Ma che cosa pretende? Pensa forse di condurre a termine alla svelta il suo stramaledetto processo solo
discutendo con noi sorveglianti di documenti e mandati d’arresto? Noi siamo dipendenti di basso livello, non ci
intendiamo di documenti e abbiamo a che fare con lei solo perché dobbiamo sorvegliarla per dieci ore al giorno,
compito per il quale siamo pagati. Questo è tutto quel che siamo, però siamo in grado di capire che le alte autorità
sotto cui lavoriamo prima di disporre un simile arresto si informano molto bene sui motivi dell’arresto stesso e sulla
persona dell’arrestato. In ciò non vi è alcun errore. La nostra autorità, per quel che la conosco, e io conosco solo i
gradi più modesti, non si mette a cercare la colpa nella gente ma, come recita la legge, viene attirata dalla colpa e deve
mandare noi sorveglianti. Questa è la legge. Che errore potrebbe esserci?" "Io non conosco una simile legge", disse
K. "Tanto peggio per lei", disse il sorvegliante. "Il fatto è che sta solo nelle vostre teste", disse K., voleva in qualche
modo insinuarsi nei pensieri dei sorveglianti per volgerli a suo vantaggio o per abituarsi ad essi. Ma il sorvegliante
disse solo, con distacco: "Se ne accorgerà." Franz si intromise e disse: "Ti sei accorto, Willem? Ammette di non
conoscere la legge e al tempo stesso pretende di essere innocente." "Hai ragione, ma non gli si può far capire niente",
disse l’altro. K. non rispondeva più; forse che devo, pensava, lasciarmi confondere ancor più dalle chiacchiere di
questi dipendenti così infimi, come loro stessi riconoscono di essere? In ogni caso parlano di cose che non
comprendono neppure. La loro sicurezza è resa possibile solo dalla loro stupidità. Due parole scambiate con un mio
pari renderanno tutto incomparabilmente più chiaro che i lunghi discorsi con costoro. K. camminò un po’ su e giù
nello spazio libero della stanza, lassù vide la vecchia signora che ora aveva trascinato alla finestra anche un signore
canuto ancor più vecchio di lei, che la teneva abbracciata; K. doveva porre fine a questa rappresentazione.
"Conducetemi dal vostro superiore", disse. "Quando lo vorrà lui; e non prima" disse il guardiano che era stato
chiamato con il nome di Willem. "E ora le consiglio", aggiunse, "di andare nella sua stanza, restarsene calmo e
aspettare quel che si deciderà su di lei. Il nostro consiglio è di non distrarsi in pensieri inutili, ma piuttosto di
raccogliersi, poiché si richiederà molto da lei. Lei non ci ha trattati come la nostra condiscendenza avrebbe meritato,
lei ha dimenticato che, qualunque cosa noi siamo, come minimo però ora davanti a lei noi siamo uomini liberi, e
questo non è un piccolo vantaggio. Nonostante ciò, se lei ha denaro, siamo disposti a portarle su dal caffè una
piccola colazione."

Senza rispondere a questa offerta, K. rimase silenzioso per un poco. Forse, se avesse aperto la porta della stanza
accanto o anche quella del corridoio i due non avrebbero osato fermarlo, forse spingere la cosa agli estremi sarebbe
stata la soluzione più semplice di tutto. Ma forse però lo avrebbero afferrato, e se veniva immobilizzato perdeva
anche tutta la superiorità che da un certo punto di vista conservava ancora su di loro. Perciò preferì la sicurezza della
soluzione che sarebbe stata portata dal naturale corso degli eventi e se ne tornò nella sua stanza, senza che si
pronunciasse un’altra parola da parte sua o da parte dei guardiani.

Si gettò sul letto e prese dal comodino una bella mela che si era preparato la sera prima per la colazione. Ora
rappresentava tutta la sua colazione e in ogni caso, come si accertò fin dal primo grosso morso, era una colazione
ben migliore di quella che avrebbe potuto ricevere dallo sporco caffè notturno, grazie al servizio dei sorveglianti. Si
sentiva bene e pieno di sicurezza, certo stamattina in banca avrebbe ritardato al lavoro, ma data la posizione
relativamente alta che occupava ciò sarebbe stato facilmente perdonato. Doveva, per giustificarsi, dire la verità?
Intendeva farlo. E se non gli avessero creduto, cosa ben comprensibile in questo caso, avrebbe potuto addurre a
testimone la signora Grubach o anche i due vecchi della casa di fronte che ora, s’intende, erano in marcia diretti alla
finestra di fronte a lui. K. si meravigliò, almeno dal punto di vista dei sorveglianti, che lo avessero mandato nella
stanza lasciandolo solo, in modo che ora disponeva di dieci modi diversi di uccidersi. Al tempo stesso però si chiese,
questa volta dal suo punto di vista, quali ragioni potesse avere per farlo. Forse perché quei due sedevano di là e gli
avevano mangiato la colazione? Uccidersi sarebbe stato così insensato che, anche se ne avesse avuto l’intenzione, non
avrebbe potuto farlo proprio per tale insensatezza. Se la limitatezza spirituale dei sorveglianti non fosse stata così
evidente, si sarebbe potuto pensare che non considerassero pericoloso il lasciarlo solo proprio sulla base di una
simile convinzione. Se volevano potevano ora osservare come si avvicinasse a un armadietto a muro, nel quale
custodiva un buon liquore, come se ne vuotasse un primo bicchierino in sostituzione della colazione, e poi un
secondo con l’intento di procurarsi coraggio, quest’ultimo solo per prudenza, nel caso improbabile che ce ne fosse
bisogno.

In quel momento un richiamo dall’altra stanza lo spaventò talmente, che batté con i denti sul vetro. "L’ispettore la sta
chiamando" si sentì. Ciò che lo aveva spaventato era solamente il grido, questa specie di grido militare, breve e
scandito, di cui non avrebbe ritenuto capace il sorvegliante Franz. L’ordine in sé era benvenuto, "finalmente" esclamò
in risposta, chiuse a chiave l’armadietto e si affrettò subito nell’altra stanza. I due sorveglianti lo cacciarono subito
indietro nella sua stanza, come se fosse una cosa ovvia, ed esclamarono: "Cosa le salta in mente? Vuole comparire
davanti all’ispettore in camicia da notte? La farebbe bastonare, e noi insieme con lei!" "Lasciatemi, andate al diavolo",
gridò K., che era già stato respinto fino all’armadio degli abiti, "se mi si viene a cercare a letto, non ci si può aspettare
di trovarmi in abito da sera." "Questo non significa niente", dissero i sorveglianti, che sempre, quando K. cominciava
a gridare, diventavano calmi e quasi tristi, e in tal modo lo confondevano o, in certa misura, lo facevano tornare in
possesso dei propri nervi. "Quante cerimonie!" brontolò alla fine, tuttavia prese dalla sedia una giacca e per un poco
la tenne con le due mani, come per esporla al giudizio dei sorveglianti. Questi scossero la testa. "Deve essere una
giacca nera", dissero. Allora K. gettò la giacca per terra e disse - senza tuttavia sapere bene lui stesso che cosa
intendeva: "Non è mica il dibattimento principale." I sorveglianti sorrisero, ma ripeterono il loro ritornello: "Deve
essere una giacca nera." "Se così facendo accelero questa storia, mi dovrò adattare", disse K., aprì lui stesso l’armadio,
cercò a lungo fra i molti abiti, scelse il suo miglior abito nero, un abito a giacca che per la sua fattura aveva fatto quasi
sensazione presso i suoi conoscenti, prese anche un’altra camicia e cominciò a vestirsi con accuratezza. Dentro di sé
pensava di fare più presto grazie al fatto che i sorveglianti avevano dimenticato di costringerlo a lavarsi. Li osservò
per vedere se se ne ricordavano, ma naturalmente questo non venne loro in mente, invece Willem non dimenticò di
mandare Franz dall’ispettore con l’annuncio che K. si stava vestendo.
Quando ebbe finito di vestirsi, seguito da vicino da Willem, dovette attraverso la stanza attigua passare nella stanza
successiva, la cui porta era già stata spalancata. Come K. ben sapeva, questa stanza era da poco abitata da una certa
signorina Bürstner, una dattilografa che era solita andare al lavoro molto presto la mattina, tornare a casa tardi e con
la quale K. aveva scambiato a malapena qualche parola di saluto. Ora il piccolo comodino era stato spostato dal suo
letto nel mezzo della stanza come tavolo da lavoro, e l’ispettore era seduto dietro di esso. Costui teneva le gambe
accavallate, e appoggiava un braccio sulla spalliera della sedia. In un angolo della stanza c’erano tre giovani, intenti a
guardare le fotografie della signorina Bürstner, che erano infisse su un telino appeso alla parete. Alla maniglia della
finestra aperta era appesa una camicetta bianca. Alla finestra di fronte c’erano di nuovo i due vecchi, ma la loro
compagnia era aumentata, perché dietro di loro, molto più alto, c’era un uomo con la camicia aperta sul petto, che si
schiacciava e torceva con le dita un pizzetto rossiccio.

"Josef K.?" chiese l’ispettore, forse solo per attirare su di sé lo sguardo distratto di K. K. fece cenno di sì. "Quel che
è successo stamane è stato per lei una grossa sorpresa?" chiese l’ispettore, e intanto spostava con entrambe le mani i
pochi oggetti sul comodino, la candela con i fiammiferi, un libro e un portaspilli, come se fossero oggetti utili al
procedimento. "Certamente", disse K., pervaso dalla piacevole sensazione di trovarsi finalmente davanti a una
persona ragionevole e di poter parlare con lui dei propri affari. "Certamente è stata una sorpresa, ma non una grossa
sorpresa." "Non una grossa sorpresa?" chiese l’ispettore, e mise la candela in mezzo alla superficie del comodino,
mentre raggruppava intorno ad essa gli altri oggetti. "Forse lei non mi comprende", si affrettò a osservare K. "Voglio
dire che..." Qui K. si interruppe, cercando intorno una sedia con lo sguardo. "Posso sedermi?" domandò. "Non è
abitudine", rispose l’ispettore. "Voglio dire", disse K. senza ulteriori pause, "che certo è stata una grossa sorpresa, ma
quando si è al mondo da trent’anni e ci si è fatta strada da soli come nel mio caso si è induriti contro le sorprese, e
non si attribuisce loro eccessiva importanza. Soprattutto poi nel caso odierno." "Perché soprattutto nel caso
odierno?" "Non voglio dire che sia uno scherzo, tutto l’allestimento mi sembra eccessivo per considerarlo tale.
Dovrebbero prendervi parte tutti i pensionanti della casa, e anche lei, questo andrebbe al di là dei limiti di uno
scherzo." "Ciò è del tutto giusto", disse l’ispettore e considerò quanti fiammiferi ci fossero nella scatola. "D’altronde
però", continuò K. voltandosi verso gli altri, e si sarebbe volentieri rivolto anche ai tre che guardavano le fotografie,
"d’altronde però la situazione non può neppure avere una eccessiva importanza. Lo deduco dal fatto che vengo
accusato senza che io riesca a trovare la più piccola colpa della quale mi si possa accusare. Ma anche questo è
collaterale, la vera domanda è: da chi vengo accusato? Quale autorità gestisce il procedimento? E voi, siete impiegati?
Nessuno indossa una uniforme, a meno che non si voglia definire tale il suo vestito" - e dicendo così si rivolgeva a
Franz - "ma direi che sembra piuttosto un abito da viaggio. Su tali questioni io esigo chiarezza, e sono convinto che
dopo questo chiarimento potremo congedarci nella massima cordialità." L’ispettore sbatté sul tavolo la scatola di
fiammiferi. "Lei si trova in un grave errore", disse. "I signori qui e io stesso siamo del tutto secondari in rapporto alla
sua questione, e anzi non ne sappiamo quasi nulla. Potremmo indossare le più regolari uniformi, e il suo affare non
andrebbe per nulla peggio. Non posso neanche dirle se lei è accusato, o meglio non lo so neppure. Lei è in arresto,
questo è vero, ma non so niente di più. Forse i sorveglianti hanno parlato a vanvera di qualcos’altro, ma si tratta per
l’appunto di chiacchiere. Perciò, se pure non posso rispondere alle sue domande, tuttavia posso consigliarle di
pensare meno a noi o a quello che le succederà; pensi piuttosto a se stesso. E non la faccia tanto lunga con i suoi
sentimenti di innocenza, questo disturba l’impressione non del tutto negativa che lei risveglia per il resto. E poi, in
generale, lei dovrebbe essere più riservato nel parlare, quasi tutto ciò che lei ha detto finora lo si sarebbe potuto
dedurre dal suo comportamento anche se lei avesse detto solo due parole, e oltretutto non era niente che le fosse
particolarmente favorevole."

K. guardò fisso l’ispettore. Doveva star qui a sentire la lezione da un uomo forse più giovane di lui? In compenso
della sua franchezza doveva ricevere simili ammonizioni, e non venire a sapere niente sui motivi e i mandanti del suo
arresto? Entrò in una certa agitazione, cominciò a camminare su e giù, cosa che nessuno gli impedì di fare, si tirò
indietro i polsini, si tastò il petto, si lisciò i capelli con la mano, passò accanto ai tre signori, disse: "E’ una cosa
insensata", alle quali parole i signori si voltarono verso di lui guardandolo concilianti ma con serietà, e si fermò infine
di nuovo davanti al tavolo dell’ispettore. "Il pubblico ministero Hasterer è un mio buon amico", disse, "posso
telefonargli?" "Certamente", disse l’ispettore, "ma non so quale senso possa avere, a meno che lei non debba parlargli
di qualche affare privato." "Quale senso?" esclamò K. più stupito che arrabbiato. "Ma chi è lei? Pretende un senso e
intanto mette in scena questa, che è la cosa più insensata del mondo? Non è una scena da far pietà? Questi signori
prima mi hanno aggredito, e ora se ne stanno seduti o in piedi qua e là e mi lasciano davanti a lei a fare acrobazie. Mi
chiede quale senso può avere telefonare a un pubblico ministero quando, come sembra, sono stato arrestato? Bene,
allora non telefonerò." "Ma no", disse l’ispettore, e allungò una mano in direzione dell’anticamera, dove si trovava il
telefono, "la prego, telefoni pure." "No, adesso non voglio più", disse K., e andò verso la finestra. Dall’altra parte la
compagnia era ancora affacciata, e solo ora che K. si era avvicinato alla finestra sembravano un po’ disturbati nel loro
placido godimento dello spettacolo. I vecchi volevano alzarsi, ma l’uomo dietro di loro li tranquillizzò. "E poi
abbiamo anche questi spettatori", esclamò a gran voce K. rivolto all’ispettore, mostrando fuori con l’indice. "Via da
lì", gridò poi dall’altra parte. Subito i tre indietreggiarono di qualche passo, i due vecchi finirono addirittura dietro
l’uomo, il quale li copriva con la sua massa corpulenta e, a giudicare dai movimenti della bocca, diceva in lontananza
qualcosa di incomprensibile. Non scomparvero però del tutto, ma anzi sembravano aspettare il momento giusto per
avvicinarsi di nuovo alla finestra senza farsi notare. "Gente invadente e sfacciata!" disse K., voltandosi di nuovo verso
la stanza. Sembrava che l’ispettore fosse d’accordo con lui, come K. poté notare con uno sguardo di sfuggita. Ma era
anche possibile che non fosse neppure stato a sentire, perché teneva una mano schiacciata sul tavolino e sembrava
che volesse confrontare la lunghezza delle dita. I sorveglianti stavano seduti su una valigia coperta da un panno
decorato e si strofinavano le ginocchia. I tre giovani tenevano le mani sui fianchi e si guardavano intorno senza
fissare lo sguardo su nulla. Regnava un silenzio come in un ufficio dimenticato. "Allora, signori", esclamò K., per un
momento ebbe la sensazione di portare tutti sulle proprie spalle, "a giudicare dal vostro aspetto, si direbbe che il mio
affare sia giunto a conclusione. Sono dell’opinione che la cosa migliore sia non pensare più se il vostro
comportamento fosse autorizzato oppure no, ma concludere amichevolmente la cosa con una reciproca stretta di
mano. Se anche lei è della mia opinione, allora la prego..." e così dicendo si avvicinò al tavolo dell’ispettore
tendendogli la mano. L’ispettore alzò gli occhi, si morse le labbra e guardò la mano tesa di K., e K. credeva ancora
che l’ispettore l’avrebbe stretta. Costui invece si alzò in piedi, prese dal letto della signorina Bürstner un cappello
duro e rotondo e con entrambe le mani, con cautela, se lo mise in testa, come si fa quando si prova un cappello
nuovo. "Come le sembra tutto facile!" disse intanto a K. "Lei crede che dovremmo concludere amichevolmente la
cosa? No, no, non va davvero. Con questo non voglio affatto dire che lei debba disperarsi. No, perché dovrebbe? Lei
è solo in arresto, nient’altro. Questo dovevo comunicarle, ora l’ho fatto e ho anche visto come lei ha preso la cosa.
Per oggi basta e possiamo anche salutarci, sia pure per breve tempo. Ora forse lei vuole andare in banca?" "In
banca?" domandò K. "Pensavo di essere in arresto." K. faceva domande con un certo tono di sfida, perché, anche se
la sua stretta di mano non era stata accettata, si sentiva sempre più indipendente da questa gente, specialmente da
quando l’ispettore si era alzato in piedi. Era come un gioco che faceva con loro. Se se ne fossero andati, aveva
l’intenzione di seguirli fino al portone per offrigli di arrestarlo. Per questo motivo ripeté ancora: "Come posso andare
in banca, dato che sono in arresto?" "Ecco", disse l’ispettore, già sulla porta, "lei non mi ha capito. Certo che lei è in
arresto, tuttavia questo non deve impedirla nella sua professione. E lei neppure deve essere disturbato nel suo
abituale modo di vivere." "Allora questo modo di essere arrestati non è poi così cattivo", disse K., e si avvicinò
all’ispettore. "Non ho mai detto che lo fosse", rispose questi. "Ma allora anche la comunicazione dell’arresto non
sembra molto necessaria", disse K. avvicinandosi ancor di più. Anche gli altri si erano avvicinati. Ora si trovavano
tutti in uno spazio ristretto davanti alla porta. "Era mio dovere", disse l’ispettore. "Un dovere stupido", disse K.
ostinato. "Può darsi", rispose l’ispettore, "ma non vorremo davvero perdere il nostro tempo in simili discorsi. Avevo
supposto che lei volesse andare in banca. Siccome lei sta a pesare ogni parola, allora aggiungo: io non la obbligo ad
andare in banca, avevo solo pensato che lei volesse andarci. E per renderle ciò ancor più facile e rendere il suo arrivo
in banca il più possibile inosservato, ho tenuto qui a sua disposizione questi tre signori, che sono suoi colleghi."
"Cosa?" esclamò K., e guardò i tre stupefatto. Questi giovani esangui e così insignificanti, che erano finora nella sua
memoria solo come gruppo davanti alle fotografie, erano effettivamente impiegati della sua banca, non colleghi,
questo era eccessivo e dimostrava una lacuna nell’onniscienza dell’ispettore, ma impiegati subordinati della banca lo
erano senz’altro. Come aveva potuto K. non accorgersene? Evidentemente la sua attenzione era tutta assorbita
dall’ispettore e dai sorveglianti per non riconoscere questi tre. Il rigido Rabensteiner, con le braccia sempre in
movimento, il biondo Kullich dagli occhi infossati e Kaminer, il cui sorriso insopportabile era dovuto a una
contrattura cronica dei muscoli facciali. "Buon giorno!" disse K. dopo un po’ e tese la mano ai signori, che si
piegarono come da regolamento in un inchino. "Non vi avevo neppure riconosciuti. Allora adesso ce ne andremo al
lavoro, d’accordo?" Ridendo i signori fecero cenno di sì, e come se per tutto il tempo avessero aspettato solo questo,
come se a K. mancasse solo il suo cappello, che era rimasto nella sua stanza, corsero zelanti tutti insieme a prenderlo,
l’uno dopo l’altro, il che faceva comunque pensare a un certo imbarazzo. K. rimase in piedi silenzioso e li seguì con
lo sguardo attraverso le due porte aperte, per ultimo arrivò naturalmente l’indifferente Rabensteiner, che si era
limitato a un elegante trotterellare. Kaminer gli passò il cappello, e K. dovette espressamente dire a se stesso, come
già spesso in precedenza in banca, che il sorriso di Kaminer non era intenzionale, ma che anzi costui, in generale,
non era in grado di sorridere con intenzione. In anticamera la signora Grubach, che non aveva l’aria di sentirsi molto
colpevole, aprì la porta di casa all’intera compagnia, e K. notò, come già spesso in passato, che i legacci del suo
grembiule affondavano senza necessità nel suo corpo massiccio. Sotto casa K., con l’orologio in mano, decise di
prendere un’automobile, per non aumentare senza motivo il suo ritardo, che era già di mezz’ora. Kaminer corse
dietro l’angolo per prendere l’auto, gli altri due cercavano evidentemente di distrarre K., quando improvvisamente
Kullich additò il portone di fronte nel quale era appena comparso l’uomo con il pizzetto biondo e che sul momento,
imbarazzato di mostrarsi in tutta la sua altezza, indietreggiò verso la parete appoggiandovisi. I vecchi erano
evidentemente ancora sulle scale. K. si irritò che Kullich avesse mostrato l’uomo, che lui stesso aveva già notato
prima e che anzi aveva aspettato. "Non stia a guardare", esclamò senza pensare quanto era strano un tale modo di
parlare nei confronti di persone indipendenti. Ma non ci fu bisogno di spiegazioni, perché proprio allora arrivò
l’automobile, ci si sedette e si partì. Allora K. si ricordò di non aver notato quando se ne fossero andati l’ispettore e i
sorveglianti, prima l’ispettore gli aveva coperto i tre impiegati, e ora gli impiegati l’ispettore. Ciò non dimostrava una
gran presenza di spirito, e K. si prefisse di stare più in guardia da questo lato. Tuttavia, senza volerlo si voltò e si
piegò sul retro della macchina per vedere ancora, se possibile, l’ispettore e i sorveglianti. Ma subito ritornò nella sua
posizione senza aver fatto neppure il tentativo di cercare qualcuno, e comodamente si appoggiò in un angolo
dell’automobile. Malgrado le apparenze, proprio ora avrebbe avuto bisogno che qualcuno gli parlasse, ma adesso i
signori sembravano stanchi, Rabensteiner guardava a destra fuori dell’automobile, Kullych guardava a sinistra e solo
Kaminer era lì disponibile con il suo ghigno, sul quale purtroppo i sentimenti di umanità proibivano di scherzare.
2) Dialogo con la signora Grubach - Poi la signorina Bürstner

Quella primavera K. aveva l’abitudine di trascorrere le serate in modo tale che, quando fosse ancora possibile - dato
che per lo più rimaneva in ufficio fino alle nove - faceva una breve passeggiata da solo o con conoscenti, dopo di che
se ne andava in una birreria dove, di solito fino alle undici, sedeva a un tavolo con altri clienti abituali, per la maggior
parte più anziani di lui. A questa abitudine c’erano però anche delle eccezioni, quando per esempio K. veniva invitato
dal direttore della banca, che apprezzava molto la sua laboriosità e la sua affidabilità, a una gita in automobile o a una
cena nella sua villa. Inoltre, una volta alla settimana, K. andava a trovare una signorina di nome Elsa, che lavorava di
notte fino al tardo mattino come cameriera in un’osteria, e durante il giorno riceveva visite solo dal suo letto.

Quella sera però - il giorno era trascorso veloce fra il duro lavoro e i molti auguri di compleanno, rispettosi e
amichevoli - K. voleva tornare subito a casa. Ci aveva pensato in tutte le piccole pause del lavoro quotidiano; senza
un’idea precisa, gli sembrava che gli eventi della mattina avessero causato un gran disordine in tutta la casa della
signora Grubach, e che solo la sua presenza potesse restaurare l’ordine. Quando un tale ordine fosse ripristinato, ogni
traccia di quegli eventi sarebbe scomparsa e tutto avrebbe ripreso il suo corso ordinario. In particolare non c’era da
temere per i tre impiegati, questi erano di nuovo scomparsi nel grande mare degli impiegati della banca, in loro non si
poteva osservare il minimo cambiamento. Più volte K. li aveva chiamati, uno per uno e insieme, nel suo ufficio, senza
altro scopo che quello di osservarli; e sempre aveva potuto congedarli soddisfatto.

Quando alle nove e mezzo di sera arrivò davanti alla casa dove abitava, trovò sul portone un giovanotto che se ne
stava là a gambe larghe fumando una pipa. "Chi è lei", domandò subito K., e avvicinò il viso al giovanotto, dato che
nella semioscurità dell’androne non si vedeva quasi nulla. "Sono il figlio del portinaio, signore", rispose il giovanotto,
tolse la pipa di bocca e si fece da parte. "Il figlio del portinaio?" chiese K., e impaziente batté con il bastone per terra.
"Il signore desidera qualcosa? Devo chiamare mio padre?" "No, no" disse K., c’era nella sua voce come una specie di
condiscendenza, come se il giovanotto avesse fatto qualcosa di male e tuttavia K. lo perdonasse. "Va tutto bene",
disse poi proseguendo, ma prima di salire le scale si voltò ancora una volta.

Avrebbe potuto andarsene dritto nella sua stanza, ma siccome voleva parlare con la signora Grubach bussò subito
alla sua porta. La signora era seduta con un lavoro a calza presso un tavolo, sul quale vi era un altro mucchio di
vecchie calze. K. si scusò per l’ora tarda, ma la signora Grubach fu molto amichevole e non volle sentir parlare di
scuse; K. poteva parlarle in ogni momento, lui sapeva bene di essere il suo pensionante migliore e più affezionato. K.
si guardò intorno nella stanza, tutto era esattamente a posto come prima, anche le stoviglie della prima colazione, che
si trovavano sul tavolino presso la finestra, erano state sparecchiate. Le mani femminili sbrigano in silenzio molte
cose, pensò, lui avrebbe potuto mandare i piatti in frantumi sul posto, ma certo non avrebbe saputo portare via tutto.
Guardò la signora Grubach con una certa gratitudine. "Perché lavora così fino a tardi", le domandò. Ora entrambi
sedevano al tavolo, e K. immergeva ogni tanto una mano nelle calze. "C’è tanto lavoro", disse, "durante il giorno
appartengo tutta ai miei pensionanti; se voglio mettere in ordine le mie cose non mi resta che la sera." "E io oggi le
ho procurato un lavoro straordinario." "Cosa intende dire?" chiese con maggiore attenzione, mentre posava il lavoro
in grembo. "Mi riferisco agli uomini che sono stati qui stamani presto." "Ah, ecco" disse, ritornando tranquilla, "non
è stato un gran lavoro." In silenzio K. osservò come la signora Grubach riprendeva a lavorare la calza. "Sembra
stupita che io ne parli", pensò, "non le sembra giusto che io ne parli. E’ tanto più importante che io lo faccia. Solo
con una vecchia signora posso parlarne." "Eppure le ha causato lavoro certamente", disse poi, "ma non succederà
mai più." "No, non può succedere più", disse lei come per conferma, e rivolse a K. un sorriso quasi malinconico. "Lo
pensa seriamente?" chiese K. "Certo", disse più piano la signora Grubach, "ma soprattutto lei non deve prendersela
troppo. Con quello che succede nel mondo! Dato che lei, signor K., mi parla così in confidenza, posso confessarle di
avere un po’ origliato dietro la porta, e anche che i due sorveglianti mi hanno raccontato qualcosa. Si tratta in fondo
della sua felicità, che mi sta davvero a cuore, forse ancor più di quanto mi spetti, dato che sono solo la sua
affittacamere. Dunque, ho sentito qualcosa, ma non posso dire che fosse qualcosa di brutto. No. Certo lei è in
arresto, ma non come potrebbe esserlo un ladro. Quando si viene arrestati come ladri allora è un guaio, ma questo
arresto... Mi sembra come qualcosa di erudito, mi perdoni se dico qualcosa di sciocco, come qualcosa di erudito, che
io certo non capisco, ma che neppure c’è vera necessità di capire."

"Non è affatto sciocco quello che ha detto, signora Grubach, o per lo meno sono in parte anch’io della sua opinione,
solo il mio giudizio complessivo è ancor più reciso del suo e questo affare mi sembra non qualcosa di erudito, ma un
niente addirittura. Sono stato preso all’improvviso, ecco tutto. Se appena sveglio, senza lasciarmi confondere
dall’assenza di Anna, mi fossi subito alzato, e incurante di chi trovavo sulla mia strada fossi venuto da lei, se per
questa volta, in via eccezionale, avessi fatto colazione in cucina, mi fossi fatto prendere da lei i vestiti nella mia stanza,
insomma, se mi fossi comportato con ragionevolezza, non sarebbe successo nient’altro, tutto ciò che voleva
succedere sarebbe stato soffocato sul nascere. Ma siamo così poco preparati. In banca, per esempio, sono preparato,
lì una cosa del genere non avrebbe potuto capitarmi, lì ho un mio usciere personale, davanti a me sul tavolo ho il
telefono esterno e il telefono d’ufficio, vengono in continuazione persone, parti in causa e impiegati; ma soprattutto
poi lì sono sempre in rapporto con il lavoro, e perciò in continua presenza di spirito, essere messo di fronte a una
cosa del genere lì sarebbe per me soltanto un piacere. Ora è tutto passato e nemmeno volevo parlarne più, solo
volevo sentire il suo giudizio, il giudizio di una donna ragionevole, e sono contento che siamo d’accordo. Ora lei mi
deve dare la mano, un simile accordo deve essere confermato da una stretta di mano."

Mi darà la mano? L’ispettore la mano non me l’ha data, pensò, e guardò la donna con occhi diversi da prima,
esaminandola. Lei si alzò perché si era alzato lui, era un po’ in imbarazzo, perché non tutto quello che K. aveva detto
le era risultato comprensibile. A causa di questo imbarazzo tuttavia disse qualcosa che non voleva, e che non
c’entrava neppure: "Non se la prenda tanto, signor K.", disse, aveva la voce lacrimosa e naturalmente si dimenticò di
stringere la mano. "Non sapevo di prendermela tanto", disse K. improvvisamente stanco, rendendosi conto di
quanto poco valesse qualunque consenso di questa donna.

Sulla porta chiese ancora: "La signorina Bürstner è in casa?" "No", disse la signora Grubach, e con tardiva,
ragionevole partecipazione sorrise a questa secca informazione. "E’ a teatro. Voleva qualcosa da lei? Devo riferire
qualcosa?" "Ah, volevo solo scambiare con lei due parole." "Purtroppo non so quando ritorna; di solito, quando va a
teatro, torna tardi." "E’ del tutto indifferente", disse K. e voltava già il capo chino alla porta per andarsene, "volevo
solo scusarmi con lei per il disordine che le ho causato oggi nella sua stanza." "Non è necessario, signor K., lei ha
troppi riguardi, naturalmente la signorina non ne sa niente, era fuori casa fin dal primo mattino, e poi è tutto di
nuovo in ordine, può guardare lei stesso." E così dicendo aprì la porta che dava nella stanza della signorina Bürstner.
"Grazie, ci credo" disse K., ma poi si avvicinò alla porta aperta. La luna splendeva silenziosa nella stanza buia. Per
quel che si poteva vedere era davvero tutto al suo posto, anche la camicetta non era più appesa alla maniglia della
finestra. I cuscini del letto sembravano stranamente alti, ed erano parzialmente illuminati dalla luna. "La signorina
rientra spesso tardi", disse K. e guardò la signora Grubach come se ne avesse colpa lei. "Si sa come sono i giovani!"
disse comprensiva la signora Grubach. "Certo, certo", disse K., "ma la cosa può andare troppo in là." "Certo che
può", disse la signora Grubach, "quanto ha ragione lei, signor K., e forse persino in questo caso. Certo non voglio
calunniare la signorina Bürstner, è una brava cara ragazza, cordiale, ordinata, puntuale, laboriosa, apprezzo molto
tutto ciò, ma una cosa è certa, dovrebbe essere più fiera di se stessa, più riservata. In questo mese l’ho già vista due
volte in strade fuori mano, e sempre con un uomo diverso. E’ una gran pena per me, com’è vero Dio lo racconto
solo a lei, signor K., ma prima o poi non potrò fare a meno di parlarne anche con la signorina in persona. E poi non
è neppure l’unica cosa che mi fa nascere sospetti sul suo conto." "Lei è su una falsa strada", disse K., furioso e quasi
incapace di nasconderlo, "d’altronde, lei evidentemente ha equivocato la mia osservazione sulla signorina, non
intendevo questo. Anzi, in tutta sincerità devo diffidarla dal dire alcunché alla signorina, lei è completamente in
errore, io conosco la signorina molto bene e in ciò che lei ha detto non c’è nulla di vero. D’altra parte forse mi spingo
troppo oltre, non voglio ostacolarla, dica pure alla signorina quello che vuole. Buona notte." "Signor K.", disse
implorante la signora Grubach e gli corse dietro fino alla sua porta, che K. aveva già aperto, "di certo non parlerò
ancora con la signorina, naturalmente prima voglio osservarla ancora, solo a lei ho confidato quel che sapevo. In fin
dei conti è una preoccupazione di tutti gli affittacamere che vogliono mantenere pulita la loro pensione, e i miei
sforzi vanno solo in questa direzione." "Pulizia!" esclamò ancora K. attraverso la fessura della porta, "se lei vuole
mantenere pulita la pensione, deve per prima cosa congedare me." E detto ciò chiuse la porta, senza prestare più
attenzione al lieve bussare che seguì.

Invece decise, poiché non aveva alcuna voglia di dormire, di rimanere ancora sveglio e stabilire così in questa
occasione a che ora la signorina Bürstner sarebbe tornata. Forse sarebbe stato anche possibile, per quanto
inopportuno, scambiare due parole con lei. Appoggiato alla finestra e premendosi gli occhi stanchi, per un momento
pensò addirittura di punire la signora Grubach e di convincere la signorina Bürstner a lasciare la camera insieme con
lui. Subito però il progetto gli parve assurdamente esagerato, e gli venne addirittura il sospetto contro se stesso di
voler cambiare l’appartamento a motivo di ciò che era successo quella mattina. Niente sarebbe stato più insensato e
soprattutto più inutile e meschino.

Quando si fu stancato di guardare fuori nella strada deserta si mise sul divano, dopo aver aperto un poco la porta che
dava in anticamera, in modo da poter vedere subito dal divano chiunque entrasse in casa. Fin verso le undici rimase
tranquillo sul divano, fumando un sigaro. Da quell’ora in poi però non riuscì più a trattenersi, ma andava un poco in
anticamera, come se potesse così facendo accelerare il ritorno della signorina Bürstner. Non aveva un particolare
bisogno di lei, e anzi non riusciva neppure a ricordarsi bene che aspetto avesse, ma ormai voleva parlare con lei e lo
irritava che con il suo ritorno tardivo portasse, anche al termine di questo giorno, inquietudine e disordine. Era colpa
sua anche che stasera K. non avesse cenato e che avesse tralasciato la visita da Elsa, prevista per oggi. D’altronde era
ancora in tempo a fare entrambe le cose, andando nell’osteria dove lavorava Elsa; e aveva ancora intenzione di farlo,
dopo il colloquio con la signorina Bürstner.

Erano le undici e mezza passate quando si udì qualcuno nel vano delle scale. K., che, intento ai suoi pensieri,
passeggiava rumorosamente su e giù nell’anticamera come se fosse la sua stanza, fuggì dietro la sua porta. Era la
signorina Bürstner che era tornata. Chiudendo la porta, si strinse con un brivido uno scialle di seta intorno alle spalle
sottili. Subito dopo sarebbe entrata nella sua stanza, dove certamente K. non avrebbe potuto intromettersi a quell’ora
vicina a mezzanotte; doveva quindi rivolgerle la parola ora, ma, poiché sfortunatamente aveva dimenticato di
accendere la luce elettrica nella sua stanza, ora la sua comparsa dal buio della stanza avrebbe avuto l’aspetto di
un’aggressione e quanto meno avrebbe causato un grosso spavento. Incerto sul da farsi, e poiché non c’era tempo da
perdere, sussurrò attraverso la fessura della porta: "Signorina Bürstner." Suonava come un’implorazione, non come
una chiamata. "C’è qualcuno qui?" chiese la signorina Bürstner guardandosi intorno con gli occhi spalancati. "Sono
io", disse K. facendosi avanti. "Ah, signor K.!" disse la signorina Bürstner sorridendo, "buona sera" e gli porse la
mano. "Volevo dirle due parole, me lo consente ora?" "Ora?" chiese la signorina Bürstner, "dobbiamo proprio ora?
E’ un po’ strano, non le pare?" "E’ dalle nove che la aspetto." "Ah sì, ero a teatro, ma non sapevo di lei." "Il motivo
per cui intendo parlarle si è realizzato solo oggi." "Beh, non ho propriamente nulla in contrario, salvo il fatto che
sono stanca morta. Venga allora un paio di minuti nella mia stanza. Qui non possiamo trattenerci in nessun caso,
svegliamo tutti e questo sarebbe per me più spiacevole per noi che non per la gente. Aspetti qui finché non ho acceso
la luce nella mia stanza, poi la spenga lei qui." K. ubbidì, ma aspettò ancora finché la signorina Bürstner a bassa voce
lo invitò ancora una volta dalla sua stanza a entrare. "Si sieda", disse indicando l’ottomana, lei invece rimase in piedi
vicino al letto, nonostante la stanchezza di cui aveva parlato; non si tolse neppure il cappello, piccolo ma adorno di
una moltitudine di fiori. "Cosa voleva dunque? Sono davvero curiosa." Incrociò leggermente le gambe. "Forse lei
dirà", cominciò K., "che la questione non era tanto urgente da essere discussa ora, ma..." "Le introduzioni le salto
sempre", disse la signorina Bürstner. "Ciò mi facilita il compito", disse K. "Stamani presto, in un certo senso per
colpa mia, la sua stanza è stata messa un po’ in disordine, è successo ad opera di estranei e contro la mia volontà,
tuttavia, come ho detto, per colpa mia; e di questo volevo chiederle scusa." "La mia stanza?" chiese la signorina
Bürstner, e invece della stanza guardò con aria indagatrice K. "Proprio così", disse K., e ora per la prima volta si
guardarono entrambi negli occhi, "il modo e la maniera in cui ciò è successo non sono di per sé degni di menzione."
"Ma è proprio quello l’interessante", disse la signorina Bürstner. "No", disse K. "Ebbene", disse la signorina
Bürstner, "non voglio intromettermi in cose segrete, se lei insiste a dire che non è una cosa interessante non mi
opporrò. Le sue scuse le accetto volentieri, soprattutto perché non riesco a trovare alcuna traccia di disordine." Con
le mani aperte distese sui fianchi fece un giro attraverso la stanza. Davanti al telino delle fotografie improvvisamente
si arrestò. "Guardi!", esclamò, "Le mie fotografie sono davvero in disordine. Ciò è veramente sgradevole. Allora
davvero qualcuno è stato nella mia stanza a mia insaputa." K. fece un cenno con il capo, maledicendo fra sé
l’impiegato Kaminer, che non riusciva mai a controllare la propria squallida e insensata vivacità. "E’ strano", disse la
signorina Bürstner, che io sia costretta a proibirle ciò che lei dovrebbe proibirsi da sé, e cioè di entrare nella mia
stanza in mia assenza." "Ma signorina, come le ho già spiegato", disse K. avvicinandosi anch’egli alle fotografie, "non
sono stato io a manomettere le fotografie; ma dato che non mi crede devo ammettere che la commissione di
indagine aveva portato con sé tre impiegati di banca, uno dei quali, che caccerò dalla banca appena possibile, ha
evidentemente preso in mano le fotografie." "Sì, c’è stata qui una commissione di indagine", aggiunse K., dato che la
signorina lo guardava con aria interrogativa. "Per causa sua?" chiese la signorina. "Sì", rispose K. "No", esclamò la
signorina ridendo. "Eppure è così", disse K. "ma lei, mi crede innocente?" "Beh, innocente...", disse la signorina,
"non voglio emettere così, su due piedi, un giudizio forse carico di conseguenze, e poi io non la conosco, pure mi
sembra che debba essere un gran malfattore quello al quale si spedisce subito così, alle calcagna, una commissione di
indagine. Ma siccome lei è libero - o per lo meno deduco dalla sua tranquillità che lei non è appena evaso dal carcere
- evidentemente non può aver commesso un crimine tanto grave." "Sì", disse K., "ma può anche darsi che la
commissione di indagine si sia resa conto che io sono innocente, o per lo meno non tanto colpevole quanto si
pensava." "Certo, è possibile" disse con grande attenzione la signorina Bürstner. "Vede", disse K., "lei non ha molta
esperienza in affari di tribunale." "E’ vero, non ne ho", disse la signorina Bürstner, "ed è una cosa che mi è sempre
dispiaciuta, perché mi piacerebbe sapere tutto, e soprattutto le questioni di tribunale mi interessano
straordinariamente. Il tribunale ha una attrattiva tutta sua, non è vero? Ma di certo perfezionerò le mie conoscenze in
questo campo, perché il mese prossimo entrerò come addetta di cancelleria in uno studio di avvocato." "Questa è
un’ottima cosa", disse K. "in tal caso potrà aiutarmi un po’ nel mio processo." "Può darsi", disse la signorina
Bürstner, "perché no? Mi piace fare uso di quel che so." "Guardi che parlo sul serio", disse K., "o almeno con quella
mezza serietà che è anche nelle sue parole. La questione è troppo meschina per attirare un avvocato, ma di un
consigliere potrei ben servirmi." "Sì, però se devo essere un consigliere dovrei conoscere di che si tratta", disse la
signorina Bürstner. "Proprio questo è il guaio", disse K., "non lo so neanch’io." "Allora lei si è preso gioco di me",
disse la signorina Bürstner oltremodo delusa, "e per questo non c’era proprio bisogno di scegliere quest’ora della
notte." E si allontanò dalle fotografie, dove erano stati così a lungo uniti. "Ma no, signorina", disse K., "non sto
scherzando. Perché non mi vuole credere? Quello che so glielo ho già detto. E forse anche più di quello che so,
perché non era una commissione di indagine, sono io che la chiamo così perché non saprei definirla altrimenti. Non
c’è stata in realtà nessuna indagine, io sono stato solo arrestato, però da una commissione." La signorina Bürstner
sedette sull’ottomana e rise di nuovo: "Com’è andata allora?" domandò. "In modo terribile", disse K. ma senza
pensare affatto a quel che diceva, tutto preso dalla vista della signorina Bürstner che appoggiava la testa su una mano
- il gomito su un cuscino dell’ottomana - mentre con l’altra mano si accarezzava lentamente il fianco. "E’ troppo
generico", disse la signorina Bürstner. "Cosa è troppo generico?" domandò K. Poi si ricordò, e chiese: "Vuole che le
mostri come è andata?" Voleva fare un po’ di movimento, e non andarsene. "Sono stanca ormai", disse la signorina
Bürstner. "E’ tornata così tardi", disse K. "Ora va a finire che mi tocca prendere dei rimproveri! D’altra parte sarebbe
anche giusto, a quest’ora non avrei dovuto farla entrare. Non c’era neppure bisogno, come si è visto." "C’era bisogno
invece, e lo vedrà ora", disse K. "Posso spostare dal suo letto il tavolino da notte?" "Cosa le salta in mente?" disse la
signorina Bürstner. "Naturale che non può!" "Allora non posso mostrarle nulla" disse K. irritato, come se da ciò
ricevesse un danno smisurato. "Va bene, se ne ha bisogno per la sua rappresentazione, sposti pure tranquillamente il
tavolino", disse la signorina Bürstner, e dopo un poco aggiunse con voce più debole: "Sono talmente stanca che
permetto più di quanto sarebbe opportuno." K. mise il tavolino in mezzo alla stanza e ci si sedette dietro. "Lei deve
immaginare con precisione la posizione dei personaggi, è molto interessante. Io sono l’ispettore, lì sulla valigia
siedono due sorveglianti, vicino alle fotografie stanno in piedi tre giovani. Alla maniglia della finestra, lo dico di
sfuggita, è appesa una camicetta bianca. E ora la cosa ha inizio. Ah, dimenticavo, la persona più importante, cioè io,
sono qui davanti al tavolino. L’ispettore sta seduto secondo i suoi comodi, le gambe accavallate, il braccio qui
penzolante dallo schienale, un villano senza pari. E ora comincia per davvero. L’ispettore mi chiama come se dovesse
svegliarmi, e grida proprio, per farle capire devo purtroppo gridare anch’io, e ciò che grida è d’altra parte solo il mio
nome." La signorina Bürstner, che ascoltava ridendo, mise l’indice alle labbra per impedire che K. gridasse, ma era
troppo tardi, K. era troppo immedesimato nella parte e lentamente gridò: "Josef K.!", non proprio così forte come
aveva minacciato, ma abbastanza forte perché il nome, una volta formulato così all’improvviso, sembrasse poi
diffondersi a poco a poco nella stanza.

In quel momento si udì bussare più volte alla porta della stanza attigua, con suono forte, breve e regolare. La
signorina Bürstner impallidì e mise la mano sul cuore. Lo spavento di K. fu tanto maggiore perché per un attimo fu
del tutto incapace di pensare a qualcosa di diverso dagli eventi della mattina e dalla ragazza cui li stava raccontando.
Appena si riprese, si precipitò dalla signorina Bürstner e le prese la mano. "Non abbia paura", sussurrò, "metterò
tutto in ordine. Ma chi può essere? Qui accanto c’è solo il soggiorno, dove non dorme nessuno." "Non è così",
sussurrò la signorina Bürstner all’orecchio di K., "da ieri dorme qui un nipote della signora Grubach, un capitano.
Non ci sono altre stanze libere. Anch’io lo avevo dimenticato. Doveva proprio urlare così? Sono proprio infelice."
"Non ce n’è motivo", disse K. e mentre la signorina si sprofondava sul cuscino le baciò la fronte. "Via, via", disse lei
alzandosi di nuovo in fretta. "Se ne vada, se ne vada. Cosa vuole da me, quello origlia alla porta, sente tutto. Come mi
tormenta!" "Non me ne andrò prima che lei si sia calmata un poco", disse K., "venga nell’altro angolo della stanza,
laggiù non può sentirci." La signorina si lasciò portare. "Lei forse non ha riflettuto", disse K., "che per lei si tratta
senz’altro di una sconvenienza, ma certamente non di un pericolo. Lei sa quanto la signora Grubach - in questo caso
la persona decisiva, soprattutto perché il capitano è suo nipote - ha rispetto di me, e crede ciecamente a tutto quel
che dico. Anche per altri motivi poi dipende da me, perché le ho prestato una discreta somma di denaro. Mi
proponga una qualsiasi scusa, purché appena verosimile, per il nostro convegno di stasera e io l’accetto, e mi
impegno a far sì che la signora Grubach la creda non solo formalmente, ma anche realmente e sinceramente. A tal
proposito non abbia riguardi nei miei confronti. Se vuole che si dica che io l’ho aggredita, la signora Grubach verrà
informata in questo senso e ci crederà, senza per questo perdere la fiducia in me, tanto grande è la sua dipendenza
nei miei confronti." La signorina Bürstner guardava davanti a sé sul pavimento, silenziosa e un po’ abbattuta. "Perché
la signora Grubach non dovrebbe credere che io l’ho aggredita?", aggiunse K. Guardava davanti a sé i capelli di lei,
capelli rossicci con la scriminatura, appena gonfiati, saldamente intrecciati. Credeva che avrebbe alzato lo sguardo,
invece rimanendo nella stessa posizione la signorina Bürstner disse: "Mi scusi, ma sono stata spaventata più dai colpi
improvvisi che dalle conseguenze che potrebbe avere la presenza del capitano. C’era un tale silenzio dopo il suo
grido, e proprio allora hanno bussato, e poi io ero seduta vicino alla porta, mi hanno bussato proprio a un passo. Per
la sua proposta la ringrazio, ma non posso accettarla. Io posso assumermi la responsabilità di tutto quel che succede
nella mia camera, e di fronte a chiunque. Mi meraviglio che lei non si accorga di come la sua proposta sia offensiva
per me, a parte naturalmente le buone intenzioni, che riconosco di certo. Ma ora vada, mi lasci sola, ora ne ho più
bisogno di prima. I due minuti che lei aveva chiesto sono diventati mezz’ora e più." K. le prese prima la mano, poi il
polso e disse: "Non è arrabbiata con me?" Lei sottrasse la mano e rispose: "No, no, io non mi arrabbio mai con
nessuno." Lui le riprese di nuovo il polso, questa volta lei lo permise e in quel modo lo condusse verso la porta. K.
aveva la ferma intenzione di andarsene. Ma davanti alla porta, come se non si fosse aspettato di trovare una porta
proprio in quel punto, si arrestò, la signorina Bürstner approfittò di quell’istante per sciogliersi da lui, aprire la porta,
scivolare in anticamera e da lì dire piano a K.: "Ma ora venga, la prego. Vede" - e mostrò la porta del capitano, sotto
la quale si vedeva una luce - "ha acceso e si sta occupando di noi." "Vengo subito", disse K., corse in avanti, la
afferrò, la baciò sulla bocca e poi su tutto il viso, come una belva assetata che si avventa con la lingua sull’acqua di
sorgente finalmente trovata. Alla fine la baciò sul collo, dalla parte della gola, e lì posò a lungo le labbra. Un rumore
dalla stanza del capitano gli fece alzare lo sguardo. "Ora me ne vado", disse, avrebbe voluto chiamare la signorina
Bürstner con il nome di battesimo, ma non lo sapeva. Lei, stanca, fece cenno con il capo, già mezza voltata gli porse
la mano da baciare, come se non se ne accorgesse neppure, e curva se ne tornò nella sua stanza. Dopo poco K. era
nel suo letto. Si addormentò molto alla svelta, prima di assopirsi ripensò ancora un poco al suo comportamento e ne
fu soddisfatto, solo si meravigliò di non esserlo ancora di più; a motivo del capitano, era seriamente preoccupato per
la signorina Bürstner.
3) Primo interrogatorio

K. era stato informato telefonicamente che la prossima domenica avrebbe avuto luogo un piccolo interrogatorio
sulla sua questione. Gli fecero notare che in futuro ci sarebbero stati con regolarità altri simili interrogatori,
abbastanza spesso anche se non ogni settimana. Era interesse di tutti portare a termine il processo il più alla svelta
possibile, d’altra parte però gli interrogatori dovevano essere esaurienti sotto ogni punto di vista, e tuttavia non
durare mai troppo a lungo, per via della tensione che comportavano. Per tali motivi era stata scelta questa procedura
di interrogatori frequenti, ma di breve durata. La scelta della domenica come giorno di interrogatorio aveva il
significato di non disturbare K. nella sua professione. Si presupponeva che fosse d’accordo, ma nel caso che
preferisse un altro giorno gli si sarebbe venuto incontro nel miglior modo possibile. Gli interrogatori, ad esempio,
erano possibili anche la notte, ma naturalmente in tal caso K. non sarebbe stato abbastanza riposato. In ogni caso, se
K. non si fosse fatto vivo con qualcosa in contrario, l’interrogatorio restava inteso per domenica. Andava da sé che
K. sarebbe certamente venuto, non c’era sicuramente bisogno di sottolinearlo proprio ora. Gli fu comunicato
l’indirizzo in cui doveva presentarsi, era una casa in una remota strada di periferia dove K. non era mai stato.

Ricevuta questa comunicazione, K. riappese il telefono senza rispondere; aveva deciso subito che domenica sarebbe
andato, era certo necessario, il processo stava partendo e lui doveva opporvisi, questo primo interrogatorio doveva
anche essere l’ultimo. Sostò un poco, pensieroso, vicino all’apparecchio, quando sentì dietro di sé la voce del
vicedirettore che voleva telefonare ma ne era impedito dalla presenza di K. "Cattive notizie?" chiese di sfuggita il
vicedirettore, non per sapere qualcosa ma per far spostare K. "No, no", disse K., si spostò di lato, ma non se ne
andò. Il vicedirettore prese il telefono, e mentre aspettava la comunicazione disse al di sopra della cornetta: "Posso
farle una domanda, signor K.? Che ne direbbe, domenica prossima sul presto, di fare una gita con me sulla mia barca
a vela? Sarebbe un piacere. Saremmo in compagnia, certamente verranno anche dei suoi conoscenti. Fra gli altri
anche il pubblico ministero Hasterer. Vuol venire? Ma sì, venga!" K. si sforzava di prestare attenzione a ciò che il
vicedirettore stava dicendo. Non era per lui cosa di scarsa importanza, perché questo invito da parte del vicedirettore,
con il quale non era mai stato in buoni rapporti, suonava come un tentativo di riconciliazione e dimostrava come K.
stesse diventando importante all’interno della banca e come la sua amicizia, o per lo meno la sua imparzialità, avesse
acquisito valore agli occhi del dipendente che, nella banca, era il secondo per importanza. Un tale invito era
un’umiliazione per il vicedirettore, anche se era stato proferito sulla cornetta, aspettando un collegamento telefonico.
Ma K. doveva far seguire a questa una seconda umiliazione, e disse: "Molte grazie! Ma purtroppo domenica non ho
tempo, ho già un impegno." "Peccato", disse il vicedirettore, e si rivolse all’interlocutore telefonico che si era
collegato proprio in quel momento. Non fu una telefonata breve, ma K., nella sua distrazione, rimase per tutto il
tempo vicino all’apparecchio. Solo quando il vicedirettore finì K. si spaventò e, per farsi perdonare almeno un po’
quella sua inutile sosta in piedi, disse: "Mi hanno appena telefonato di andare in un certo posto, ma hanno
dimenticato di dirmi a che ora." "Beh, allora li richiami", disse il vicedirettore. "Non è così importante", disse K.,
anche se con questo la sua scusa, già poco credibile, diventava ancor più inverosimile. Nell’atto di andarsene il
vicedirettore parlò ancora di altre cose cui K. si costrinse a rispondere, anche se era impegnato a riflettere che la cosa
migliore sarebbe stata arrivare domenica alle nove di mattina, perché era quella l’ora in cui, nei giorni feriali, tutti i
tribunali cominciavano a lavorare.

La domenica il tempo era cattivo, K. era molto stanco perché la sera prima, per una festa degli avventori abituali, si
era trattenuto in birreria fino a notte tarda e quasi non aveva dormito. In tutta fretta, senza avere il tempo di riflettere
e coordinare i diversi piani che aveva pensato durante la settimana, si vestì e senza fare colazione corse nel luogo in
periferia che gli avevano indicato. Stranamente, benché avesse poco tempo per guardarsi intorno, si imbatté nei tre
impiegati che erano al corrente della sua vicenda, Rabensteiner, Kullych e Kaminer. I primi due erano su un tram che
attraversava la strada di K., Kaminer invece era seduto sulla terrazza di un caffè, e fece un inchino proprio mentre K.
passava, piegandosi curioso sulla ringhiera. Tutti lo seguirono con lo sguardo meravigliandosi che il loro principale se
ne andasse così di corsa; per una specie di puntiglio K. non aveva voluto andare con qualche mezzo, in questa sua
faccenda provava ripugnanza a ricevere aiuto, anche il più piccolo, da chicchessia, inoltre non voleva coinvolgere
nessuno, anche per non rendere nessuno partecipe della questione, sia pure alla lontana; e infine non aveva nessuna
voglia di umiliarsi davanti alla commissione di indagine con una eccessiva puntualità. Comunque ora correva per
arrivare se possibile alle nove, anche se non era stato neppure convocato per un’ora precisa.

Aveva creduto di poter riconoscere già da lontano l’edificio per una qualche insegna, che non si era immaginato con
precisione, o per un particolare movimento di persone davanti all’ingresso. Ma la Juliusstraße, che era la strada in
questione e al cui inizio K. si fermò per un istante, era formata da ambo i lati da case tutte uguali, case alte e grigie
abitate in affitto da povera gente. Oggi, che era domenica mattina, la maggior parte delle finestre era occupata da
uomini in maniche di camicia che si sporgevano e fumavano, o tenevano bambini piccoli sul davanzale, con
attenzione e tenerezza. Altre finestre erano colme di lenzuola e materassi, sui quali, per un attimo, compariva la testa
spettinata di una donna. Ci si chiamava da un lato all’altro della stradina, e un tale rumore aveva su K. l’effetto di una
gran risata. Nella lunga strada, a intervalli regolari, si trovavano piccoli negozi, posti sotto il livello della strada e
raggiungibili con qualche gradino, che vendevano diversi generi alimentari. Donne ne entravano e uscivano, oppure
sostavano sui gradini a chiacchierare. Un verduraio, che esaltava le sue merci in direzione delle finestre, distratto
quanto K., stava quasi per investirlo con il suo carretto. Un micidiale grammofono, che aveva lavorato in quartieri
migliori, cominciò proprio allora a suonare.

K. procedette lentamente nel vicolo, come se ora avesse tempo o come se il giudice istruttore lo vedesse da qualche
finestra e sapesse perciò che ormai K. era arrivato. Erano da poco passate le nove. L’edificio era veramente largo,
esteso in modo quasi inusuale, soprattutto il portone d’ingresso era alto e largo. Evidentemente era destinato ai
carichi pesanti appartenenti ai diversi magazzini che, in quel momento sbarrati, circondavano il grande cortile e
portavano le insegne delle loro ditte, alcune delle quali K. conosceva dal suo lavoro in banca. Occupato, contro ogni
sua abitudine, a considerare meglio tutti questi particolari, rimase fermo per un poco all’ingresso del cortile. Vicino a
lui, su una cassa, sedeva un uomo a piedi nudi leggendo una rivista. Due giovani si dondolavano su un carretto a
mano. Una ragazza in giacca da notte, debole e giovane, stava davanti a una pompa e attingendo acqua nella sua
brocca guardava in direzione di K. In un angolo del cortile era tesa fra due finestre una corda su cui certi capi di
biancheria erano già stesi ad asciugare. Sotto stava un uomo e con alcune grida dirigeva il lavoro.

K. si diresse alla scala per raggiungere la sala delle udienze, ma subito in silenzio si fermò, perché oltre a questa scala
vide nel cortile tre altre rampe di scale e oltre a ciò un piccolo sottopassaggio in fondo al cortile sembrava introdurre
in un secondo cortile. K. si incollerì che non gli avessero specificato meglio la sede della sala, veniva trattato dunque
con particolare negligenza o quanto meno indifferenza, e aveva intenzione di dirlo chiaro e tondo. Alla fine tuttavia
salì la prima scala, ripensando dentro di sé all’affermazione del sorvegliante Willem secondo cui il tribunale era
attratto dalla colpa, dal che si doveva dedurre che la sala delle udienze doveva trovarsi sulla rampa che K. avesse
scelto a caso.

Salendo disturbò parecchi bambini che giocavano sulle scale e che, quando K. passò in mezzo a loro, lo guardarono
con collera. "Se dovrò rifare questa strada", si disse, "dovrò portare con me dei dolciumi per conquistarmeli, oppure
il bastone per picchiarli." Poco prima di arrivare al primo piano dovette persino aspettare un attimo finché una palla
finisse il suo volo, due ragazzini con aria bizzarra e adulta da furfanti lo trattenevano intanto ai pantaloni; se avesse
voluto liberarsene avrebbe dovuto far loro del male, e aveva paura delle loro grida.

Al primo piano cominciò la ricerca vera e propria. Non potendo chiedere esplicitamente della commissione di
indagine, si inventò un falegname Lanz - gli venne in mente questo nome perché così si chiamava il capitano, il
nipote della signora Grubach - e intendeva chiedere in tutte le abitazioni se abitava lì il falegname Lanz, in modo da
poter sbirciare all’interno. Risultò tuttavia che ciò era possibile nella maggior parte dei casi anche senza espedienti,
perché quasi tutte le porte erano aperte e bambini entravano e uscivano. Di regola erano piccole stanze con una sola
finestra, nelle quali si faceva anche cucina. Alcune donne tenevano in braccio dei lattanti e con la mano libera
lavoravano al focolare. Qua e là correvano con grande zelo delle ragazzine, apparentemente vestite solo di un
grembiule. In tutte le stanze i letti erano ancora occupati, o da malati, o da gente che dormiva, o ancora da persone
che vi si erano distese vestite. K. bussò alle abitazioni con la porta chiusa e chiese se abitava lì un certo falegname
Lanz. Per lo più veniva ad aprire una donna, ascoltava la domanda e si volgeva nella stanza in direzione di qualcuno,
che si alzava da letto. "Il signore chiede se abita qui un certo falegname Lanz." "Falegname Lanz?" chiedeva quello
dal letto. "Sì", diceva allora K., anche se non c’era più dubbio che la commissione di indagine non era qui e dunque il
suo compito era terminato. Molti credevano che a K. stesse molto a cuore trovare questo falegname Lanz, pensavano
a lungo, nominavano un falegname, che però non si chiamava Lanz, oppure facevano un nome che aveva con Lanz
un somiglianza assai lontana, oppure chiedevano ai vicini, o ancora accompagnavano K. a una porta lontana dove a
loro giudizio una tale persona poteva magari abitare in subaffitto, o dove c’era qualcuno che poteva dare
informazioni migliori delle loro. Alla fine K. non aveva quasi più bisogno di chiedere, ma veniva in questo modo
trascinato di piano in piano. Si pentì del suo espediente, che in un primo tempo gli era sembrato così pratico. Prima
del quinto piano decise di abbandonare la ricerca, si accomiatò da un operaio giovane e gentile che voleva condurlo
ancor più in alto e cominciò a scendere. Poi però l’inutilità di tutta questa impresa lo infastidì, tornò ancora indietro e
bussò alla prima porta del quinto piano. La prima cosa che vide nella piccola stanza fu un grande orologio da parete,
che segnava già le dieci. "Abita qui un certo falegname Lanz?", chiese. "Prego", disse una giovane donna con occhi
neri e lucenti che proprio in quel momento stava lavando biancheria da bambino in un secchio, e con la mano
bagnata indicò la porta aperta della stanza accanto.

K. credette di entrare in una assemblea. Una folla costituita dalle persone più diverse - nessuno si curò di lui che
entrava - riempiva una stanza a due finestre, di media grandezza, che vicino al soffitto era circondata da una galleria,
la quale era a sua volta completamente occupata da persone che dovevano stare curve, con la testa e le spalle
schiacciate contro il soffitto. K., oppresso dall’aria viziata, uscì di nuovo, e chiese alla giovane donna, che
evidentemente non lo aveva capito bene: "Guardi che ho chiesto se abita qui un falegname, un certo Lanz." "Sì",
disse la donna, "la prego, entri pure." K. forse non le avrebbe dato retta, se la donna non gli si fosse avvicinata, e non
avesse preso la maniglia dicendo: "Dopo di lei devo chiudere, non può entrare più nessuno." "Molto ragionevole",
disse K. "ma già ora è troppo pieno." Ma poi entrò di nuovo.

Passando fra due uomini che si intrattenevano proprio accanto alla porta - uno, con entrambe le mani distese, faceva
il gesto di contare del denaro, l’altro lo guardava dritto negli occhi - spuntò una mano e afferrò K. Era un giovane
piccolo e dalle guance rosse. "Venga, venga", disse. K. si lasciò condurre, e risultò che nella folla caotica c’era tuttavia
una strada sottile libera, che probabilmente divideva due fazioni; a favore di questa ipotesi stava anche il fatto che
nelle prime file a destra e a sinistra K. non poté vedere quasi nessuno rivolto verso di lui, ma solo le spalle di persone
che con parole e gesti si rivolgevano soltanto agli appartenenti alla propria fazione. La maggior parte era vestita di
nero, con vecchie giacche da festa che pendevano lunghe e larghe. Solo questo abbigliamento disorientava K., per il
resto avrebbe giudicato il tutto come la riunione di un circolo politico.

All’altro estremo della sala dove K. fu condotto, su una specie di podio molto basso ma ugualmente stracolmo si
trovava un piccolo tavolo disposto di traverso, e dietro di esso, quasi sull’orlo del podio, sedeva un ometto grasso e
sbuffante, che fra grandi risate stava chiacchierando con un uomo in piedi dietro di lui; quest’ultimo aveva
appoggiato un gomito sullo schienale della sedia e teneva le gambe incrociate. Più volte l’ometto agitava in aria il
braccio, come se stesse facendo la caricatura di qualcuno. Il giovane che conduceva K. fece fatica ad annunciare quel
che doveva dire. Già per due volte, sulla punta dei piedi, aveva tentato di parlare, ma l’uomo lassù non lo aveva
notato. Solo quando una delle persone sul podio richiamò l’attenzione sul giovane l’uomo si voltò verso di lui e,
chinandosi, ascoltò il messaggio che gli veniva sussurrato. Poi estrasse il suo orologio e veloce rivolse lo sguardo a K.
"Lei avrebbe dovuto comparire un’ora e cinque minuti fa", disse. K. avrebbe voluto rispondere qualcosa, ma non ne
ebbe il tempo, perché appena l’uomo ebbe finito di parlare dalla parte destra della sala si alzò un mormorio generale.
"Lei avrebbe dovuto comparire un’ora e cinque minuti fa", ripeté allora l’uomo a voce più alta e subito guardò giù
nella sala. Subito anche il mormorio divenne più forte, e poiché l’uomo non aggiunse altro si spense gradualmente.
Ora in sala c’era molto più silenzio di quando K. era entrato. Solo la gente in galleria non cessava di fare
osservazioni. Per quanto consentivano di vedere la penombra, il vapore e la polvere, quelli lassù erano vestiti peggio
degli altri. Alcuni si erano anche portati dei cuscini, che mettevano fra la testa e il soffitto per non ferirsi.

K. aveva deciso di osservare più che parlare, e perciò, rinunciando a difendersi per un suo supposto ritardo, disse
soltanto: "In ritardo o no, ora sono qui." Dalla parte destra della sala, si udì ancora un applauso di approvazione. "E’
gente facile da conquistare", pensò K., disturbato ora dal silenzio nella metà sinistra della sala, che si trovava proprio
dietro di lui e dalla quale si erano alzati solo alcuni battimani isolati. Pensò a cosa poteva dire per conquistarsi tutti in
una volta oppure, se ciò fosse stato impossibile, guadagnare almeno temporaneamente anche l’approvazione degli
altri.

"Sì", disse l’uomo, "ma io non sono più tenuto a concederle udienza" - di nuovo ci fu il mormorio, questa volta di
dubbio significato, perché facendo con la mano un cenno alla folla l’uomo continuò - "tuttavia, in via eccezionale,
per oggi la concederò. Un tale ritardo però non deve più ripetersi. E ora venga avanti!" Qualcuno saltò giù dal podio,
sicché per K. si liberò un posto sul quale poté salire. Era in piedi, premuto stretto contro il tavolo, la folla dietro di lui
era tanto grande che K. doveva opporle resistenza per non far cadere giù dal podio il tavolo del giudice istruttore, e,
forse, il giudice stesso.

Il giudice istruttore non se ne curò, ma rimase comodo sulla sua sedia e, dopo aver detto una parola conclusiva
all’uomo dietro di sé, afferrò un piccolo quaderno di appunti, che era il solo oggetto sul tavolo. Aveva un’aria
scolastica, ed era vecchio, sformato da una lunga consultazione. "Allora", disse il giudice istruttore, sfogliò il
quaderno e con il tono di una constatazione si rivolse a K.: "Lei è un decoratore di pareti?" "No", disse K. "sono il
primo procuratore di una grande banca." A questa risposta, nella parte destra di sotto della sala, seguì una risata tanto
cordiale, che anche K. finì per mettersi a ridere. La gente si appoggiava con le mani sulle ginocchia ed era scossa
come da un grave attacco di tosse. Persino qualcuno in galleria rideva. Il giudice istruttore, che si era ormai incollerito
e che forse non aveva potere sulle persone di sotto, cercò di rifarsi sulla galleria, saltò in piedi, fece verso la galleria
un gesto di minaccia e le sue sopracciglia, che altrimenti erano insignificanti, aggrottandosi enormi sugli occhi
parvero folte e nere.

La metà sinistra della sala, invece, era ancora silenziosa, lì le persone se ne stavano in fila, rivolte verso il podio, e
ascoltavano ciò che si diceva lassù con la stessa calma con cui prendevano il chiasso dell’altra fazione; permettevano
addirittura che qualcuno delle loro file qua e là si comportasse come la gente dell’altra parte. Quelli di sinistra, tra
l’altro inferiori di numero, erano fondamentalmente insignificanti come quelli di destra, ma la calma del loro
comportamento faceva sì che sembrassero più importanti. Cominciando ora a parlare, K. era convinto di esprimersi
secondo il loro modo di vedere.

"Signor giudice istruttore, la domanda stessa che lei mi ha rivolto, se cioè io sia un decoratore di pareti - e più che
rivolgere, lei me l’ha fatta cadere in testa - questa domanda è tipica di tutto il modo di procedere nei miei confronti.
Lei può obiettare che non si tratta di un procedimento, e avrebbe ragione, è un procedimento soltanto se io lo
riconosco come tale. Ma è solo momentaneamente che io lo riconosco, in un certo senso per compassione. La
compassione è l’unico sentimento con cui lo si può considerare; se pure si vuole, in generale, considerarlo. Io non
dico che sia un procedimento da carogne, ma vorrei offrirle questa definizione perché lei stesso possa riconoscerlo
come tale."

K. si interruppe e guardò giù nella sala. Ciò che aveva detto era pungente, forse anche più pungente di quanto avesse
avuto intenzione, tuttavia era esatto. Avrebbe meritato approvazione in qualche punto, ma tutti erano silenziosi,
evidentemente aspettavano tesi ciò che sarebbe seguito, forse si preparavano in silenzio a un’esplosione che ponesse
fine a tutto. Fu un disturbo che in quel momento si aprisse la porta in fondo alla sala, facendo entrare la giovane
lavandaia che evidentemente aveva finito il suo lavoro e che, nonostante tutta la cautela che impiegò, attirò su di sé gli
sguardi di alcuni. Solo il giudice istruttore diede a K. una gioia diretta, perché sembrò subito colpito dalle parole di K.
Finora aveva ascoltato in piedi, perché era stato sorpreso dal discorso di K. mentre si era alzato per minacciare la
galleria. Ora, in quella pausa, si sedette lentamente, come se nessuno dovesse accorgersene. Forse per ridare calma al
suo aspetto prese di nuovo il quaderno.

"Non serve a niente", continuò K., "anche il suo quaderno, signor giudice istruttore, conferma quel che dico."
Contento di udire solo le proprie parole tranquille in quella riunione di estranei, K. osò persino portar via il quaderno
al giudice istruttore e sollevarlo in alto per un foglio centrale, come se ne avesse ribrezzo, sicché le pagine fitte di
scrittura, macchiate e bordate di giallo, pendevano in basso da un lato e dall’altro. "Ecco gli atti del giudice
istruttore", disse, lasciando cadere sul tavolo il quaderno. "Ci legga pure dentro con calma, signor giudice istruttore,
non ho davvero paura di questa lista delle colpe, anche se mi è inaccessibile, dato che posso prenderla solo con la
punta di due dita." Poteva essere solo un segno di profonda umiliazione, o almeno così doveva intendersi, il fatto che
il giudice istruttore afferrò il quaderno non appena caduto sul tavolo, cercò di metterlo un po’ in ordine e lo riprese
per leggerlo.

I volti delle persone nelle prime file erano rivolti a K. con tanta tensione, che questi per un poco guardo giù verso di
loro. Erano generalmente uomini anziani, alcuni con la barba bianca. Che fossero loro gli elementi decisivi, quelli che
potevano influenzare tutta l’assemblea? Questa non si era lasciata scuotere neppure in virtù dell’umiliazione del
giudice istruttore dall’inerzia in cui era sprofondata quando K. aveva cominciato a parlare.

"Ciò che è avvenuto a me", continuò K. più piano di prima, indagando sempre i volti della prima fila, il che dava al
suo discorso un’aria distratta, "ciò che è avvenuto a me è solo un caso singolo e quindi in sé di poca importanza, e
non lo prendo molto sul serio. Esso è però il segno di come si procede nei confronti di molte persone. E’ per questi
che io sono qui, non per me."

Involontariamente aveva alzato la voce. Da qualche parte qualcuno applaudì con le mani alzate gridando: "Bravo! E
perché no? Bravo! E ancora bravo!" Qui e là, nelle prime file, qualcuno si carezzava la barba, nessuno si voltò per
quel grido. Nemmeno K. gli attribuì importanza, ma ne fu incoraggiato; ora non gli sembrava neanche più necessario
che tutti applaudissero convinti, bastava che in generale si cominciasse a riflettere sulla cosa e che ogni tanto il
discorso convincesse qualcuno.

"Non cerco un successo da oratore", disse K. sull’onda di queste riflessioni, "né d’altra parte sarei capace di
ottenerlo. Il signor giudice istruttore parla senz’altro meglio di me, in fondo è il suo mestiere. Quel che voglio è solo
l’aperta discussione di una evidente ingiustizia. Ascoltate: dieci giorni fa sono stato arrestato, dell’arresto in sé me ne
infischio, ma questo non c’entra adesso. Sono stato assalito a letto la mattina presto, forse - dopo ciò che ha detto il
giudice istruttore non è più escluso - l’ordine era di arrestare un decoratore di pareti altrettanto innocente quanto me,
comunque hanno scelto me. La stanza accanto era occupata da due sorveglianti grossolani. Se fossi un brigante
pericoloso le precauzioni non avrebbero potuto essere più adeguate. E poi questi sorveglianti erano plebaglia
scostumata, mi hanno riempito le orecchie di chiacchiere, intendevano farsi corrompere, volevano sottrarmi con
l’inganno abiti e biancheria, volevano denaro per portarmi la colazione dopo avermela mangiata tutta sotto gli occhi
senza alcun pudore. E non basta. Sono stato portato in un terza stanza davanti all’ispettore. Questa era la stanza di
una signorina di cui ho grande stima, e ho dovuto assistere a come, per mia causa ma senza mia colpa, questa stanza
venisse in certo modo sporcata dalla presenza dei sorveglianti e dell’ispettore. Non era facile rimanere calmi. Tuttavia
ci sono riuscito, e ho chiesto all’ispettore del tutto tranquillamente - se fosse qui dovrebbe confermarlo - quale fosse
la causa del mio arresto. E quale fu la risposta di questo ispettore, che ho ancora davanti agli occhi mentre se ne sta
sulla sedia della suddetta signorina come immagine della più stupida presunzione? Signori, non mi ha risposto
fondamentalmente nulla, forse non sapeva nulla per davvero, mi aveva arrestato e questo gli bastava. E ha fatto anche
di più, nella stanza di quella signorina ha portato tre impiegati di basso rango della mia banca, che non si sono fatti
scrupolo di toccare e mettere in disordine delle fotografie di proprietà della signorina. La presenza di questi impiegati
aveva naturalmente anche un altro scopo, al pari della mia affittacamere e della sua donna di servizio dovevano
diffondere la notizia del mio arresto, danneggiare la mia reputazione e soprattutto mettere a repentaglio la mia
posizione in banca. Niente però di tutto questo è minimamente riuscito, anche la mia affittacamere, persona assai
sempliciotta - voglio citarla qui a suo onore, si chiama signora Grubach - persino la signora Grubach è stata
abbastanza intelligente da capire che un tale arresto non ha un significato molto maggiore della molestia che può
capitare di subire per strada ad opera di ragazzi insufficientemente sorvegliati. Ripeto, tutto ciò mi ha procurato solo
fastidi e una collera momentanea, ma non potevano forse esserci conseguenze peggiori?"

Quando K., a questo punto, si interruppe e volse lo sguardo al silenzioso giudice istruttore, credette di accorgersi che
costui con lo sguardo faceva un cenno a qualcuno nella folla. K. sorrise e disse: "Proprio ora il signor giudice
istruttore, davanti a me, fa a qualcuno di voi dei segnali segreti. Così fra di voi ci sono persone che vengono
manovrate da quassù. Non so se questi segnali debbano dare il via a fischi o applausi, e del tutto coscientemente, per
il fatto stesso di tradire la cosa anzitempo, rinuncio a sapere il significato dei segnali. Mi è del tutto indifferente, e
autorizzo apertamente il signor giudice istruttore a dare ordini ai suoi dipendenti prezzolati laggiù non con segnali
segreti, ma ad alta voce, dicendo ad esempio una volta: ora fischiate, e la volta dopo: ora applaudite."

Il giudice istruttore, per imbarazzo o impazienza, si voltava da una parte e dall’altra della sedia. L’uomo dietro di lui,
con cui già prima si era intrattenuto a parlare, si chinò di nuovo verso di lui per fargli coraggio in generale, o forse
anche per dargli qualche particolare consiglio. Sotto, la folla chiacchierava a bassa voce ma con vivacità. Le due
fazioni, che prima sembravano avere opinioni tanto opposte, si erano mescolate, singole persone mostravano con il
dito K., altre il giudice istruttore. Il vapore simile a nebbia diffuso nella stanza era oltremodo opprimente, e impediva
persino di distinguere con precisione chi stava più lontano. In particolare doveva essere fastidioso per chi stava in
galleria, e costoro, sia pure rivolgendo timidi sguardi in direzione del giudice istruttore, erano costretti a fare
domande a bassa voce a chi partecipava all’assemblea per sapere meglio cosa stava succedendo. Altrettanto a bassa
voce veniva loro risposto, tenendo le mani davanti alla bocca come per difesa.
"Sono subito alla fine", disse K., e in mancanza di una campanella colpì il tavolo con un pugno, e per lo spavento le
teste del giudice istruttore e del suo consigliere si separarono istantaneamente: "Io sono al di fuori di tutta la
questione e perciò la giudico con tranquillità, e nel caso che vi importi qualcosa di questo sedicente tribunale avrete
un gran vantaggio dallo starmi a sentire. Vi prego di rimandare a dopo le vostre reciproche esternazioni su quel che
dico, perché non ho tempo e presto me ne andrò."

Subito si fece silenzio, tanto era il dominio di K. sull’assemblea. Non si gridava più dappertutto come all’inizio,
neppure si applaudiva più, ma sembrava che tutti fossero ormai convinti o sulla strada per esserlo.

"Non c’è dubbio", disse K. a voce molto bassa, perché provava piacere per l’attenzione tesa di tutta l’assemblea, in
questo silenzio si levò un brusio che era ancor più incoraggiante dell’approvazione più esaltata, "non c’è dubbio che
dietro tutte le manifestazioni di questo tribunale, e quindi nel mio caso dietro l’arresto e l’interrogatorio odierno, si
nasconde una grande organizzazione. Una organizzazione che impiega non solo sorveglianti corrotti, ispettori
imbecilli e giudici istruttori, che è nel migliore dei casi gente limitata; ma anche oltre a ciò, in ogni caso, una casta di
giudici di grado alto e supremo, con l’inevitabile, innumerevole seguito di fattorini, scrivani, gendarmi e altre forze
ausiliarie, forse persino carnefici, non mi tiro indietro davanti a questa parola. E dov’è, signori, il senso di tutta questa
organizzazione? Consiste in questo, nell’arrestare persone innocenti e mettere in moto contro di loro un
procedimento insensato e per lo più, come nel mio caso, privo di risultati. In questa insensatezza del tutto, come si
potrebbe evitare la peggiore corruzione degli impiegati? E’ una cosa impossibile, non ne verrebbe a capo per se
stesso neppure il giudice di grado più alto. E’ per questo che i sorveglianti cercano di rubare i vestiti di dosso agli
arrestati, è per questo che gli ispettori piombano nelle abitazioni altrui, è per questo che persone innocenti, anziché
essere interrogate, devono subire un’umiliazione di fronte a un’intera assemblea. I sorveglianti mi hanno raccontato
di depositi dove si portano le proprietà degli arrestati, mi piacerebbe vedere una buona volta questi depositi dove le
sudate proprietà degli arrestati marciscono, se pure non vengono rubate da disonesti impiegati dell’ufficio."

K. fu interrotto da uno stridio in fondo alla sala, si riparò gli occhi per vedere, perché la torbida luce del giorno
rendeva biancastro e accecante il vapore. Si trattava della lavandaia, che K. aveva riconosciuto subito come un
importante fattore di disturbo quando era entrata. Ora non si poteva stabilire se fosse colpa sua oppure no. K. vide
soltanto che un uomo l’aveva attirata in un angolo presso la porta, e lì si premeva contro di lei. Non era stata lei però
a lanciare quel suono stridulo, ma l’uomo, che aveva la bocca contratta e guardava verso il soffitto. Intorno ai due si
era formato un piccolo cerchio, quelli sulla galleria vicina sembravano entusiasti che la serietà indotta nell’assemblea
da K. fosse in tal modo interrotta. Sotto la prima impressione, K. avrebbe voluto correre laggiù, inoltre pensava che
sarebbe stato interesse di tutti ristabilire laggiù l’ordine e per lo meno espellere i due dall’aula, ma le prime file davanti
a lui rimasero saldamente immobili, nessuno si spostò e nessuno lo lasciò passare. Al contrario gli fu impedito,
uomini anziani tenevano il braccio davanti a sé e la mano di qualcuno - non ebbe il tempo di girarsi - lo afferrò da
dietro per il colletto, K. non pensava più alla coppia, gli sembrò che la sua libertà venisse limitata e che ora l’arresto
diventasse una cosa seria, così saltò giù dal podio senza tanti riguardi. Ora si trovava faccia a faccia davanti alla folla.
Forse non aveva giudicato bene la gente? Aveva attribuito troppa efficacia al proprio discorso? Avevano forse
simulato finché parlava e ora che era giunto alle conclusioni erano stufi di simulare? Che facce intorno a lui! Con
piccoli occhi neri ammiccavano qua e là, le guance cascanti come negli ubriachi, le lunghe barbe rigide e spelacchiate
nelle quali affondavano le mani come se volessero non accarezzarle, ma affilarsi gli artigli. Sotto le barbe però, e
questa fu la vera scoperta, brillavano sul risvolto della giacca dei distintivi di grandezza e colore diversi. Tutti, per quel
che poteva vedere, avevano tali distintivi. Tutti appartenevano allo stesso gruppo, le fazioni, di destra e di sinistra,
erano apparenti, e quando K. improvvisamente si voltò vide gli stessi distintivi sul colletto del giudice istruttore, che,
le mani in grembo, guardava giù tranquillo. "Allora è così!" esclamò K. spalancando le braccia, questa improvvisa
scoperta esigeva spazio, - "a quel che vedo siete tutti impiegati, siete proprio voi la banda corrotta contro cui parlavo,
vi siete ammassati qui come spettatori e ficcanasi, avete fatto finta di formare delle fazioni e per mettermi alla prova
uno ha anche applaudito, volevate imparare come si seducono le persone innocenti! Ma non siete venuti qui per
niente, almeno spero, perché delle due l’una, o vi siete divertiti a vedere qualcuno che si aspettava da voi la difesa
dell’innocenza, oppure... lasciami o te le suono", gridò K. a un vecchio tremante che gli si era troppo avvicinato -
"oppure avete davvero imparato qualcosa. E con questo vi auguro buona fortuna nelle vostre faccende." Prese alla
svelta il suo cappello che si trovava sull’orlo del tavolo, e nel silenzio generale, certo il silenzio della più assoluta
sorpresa, si affrettò all’uscita. Il giudice istruttore era però, a quanto pareva, ancor più veloce di K., perché lo
aspettava vicino alla porta. "Un momento", disse, K. si arrestò, senza però guardare il giudice istruttore ma la
maniglia della porta, che aveva già preso in mano. "Volevo solo farle notare", disse il giudice istruttore, "nel caso non
se ne fosse ancora reso conto, che lei oggi si è privato del vantaggio che una udienza in ogni caso significa per un
arrestato." K. rise in direzione della porta. "Straccioni", esclamò. "Tutte queste udienze io ve le regalo", aprì la porta
e si affrettò giù per la scala. Dietro di lui si alzò il rumore dell’assemblea tornata vivace, che evidentemente, come
fanno gli studiosi, discuteva l’accaduto.
4) Nella sala delle udienze vuota. Lo studente. Le cancellerie

Durante la settimana successiva, K. aspettava giorno dopo giorno una nuova convocazione, non poteva credere che
si fosse presa alla lettera la sua rinuncia alle udienze, e quando, il sabato sera, l’attesa convocazione non era ancora
arrivata, diede per inteso di essere tacitamente invitato per la stessa ora nello stesso posto. La domenica perciò vi si
recò di nuovo, questa volta tirando dritto per scale e corridoi, qualcuno che si ricordava di lui lo salutò dalla porta,
ma non ebbe bisogno di fare domande e arrivò alla svelta davanti alla porta giusta. Al suo bussare la porta si aprì
subito, e senza curarsi della solita donna, che era rimasta in piedi vicino alla porta, K. voleva avviarsi subito alla
stanza accanto. "Oggi non c’è seduta", disse la donna. "E perché non dovrebbe esserci?", chiese K., e non voleva
crederci. Ma la donna lo convinse aprendo la porta della stanza accanto. Era vuota davvero, e così sembrava ancor
più squallida che la domenica precedente. Sul tavolo, che era nella stessa posizione sul podio, si trovavano alcuni libri.
"Posso dare un’occhiata ai libri?", chiese K., non per una curiosità particolare, ma per non essere venuto inutilmente.
"No," disse la donna richiudendo la porta, "non è permesso. I libri sono proprietà del giudice istruttore." "Ah, ecco",
disse K. facendo un cenno con il capo, "i libri sono certo dei codici, ed è tipico di questo genere di tribunali
condannare chi non solo è innocente, ma anche ignaro della legge." "Sarà anche così", disse la donna, che non lo
aveva capito bene. "Beh, allora me ne vado", disse K. "Devo riferire qualcosa al giudice istruttore?" chiese la donna.
"Lei lo conosce?" chiese K. "Naturalmente", disse la donna, "mio marito è usciere del tribunale." Solo ora K. si
accorse che la stanza, nella quale l’ultima volta si trovava solo una tinozza per lavare, era ora diventata una stanza
d’appartamento completamente arredata. La donna si accorse del suo stupore e disse: "Sì, noi abbiamo diritto ad
abitare qui, ma nei giorni di seduta dobbiamo sgomberare la stanza. Il posto di mio marito ha diversi svantaggi."
"Non mi meraviglio tanto della stanza", disse K. guardandola male, "quanto piuttosto del fatto stesso che lei sia
sposata." "Forse lei si riferisce a quel che è successo nell’ultima seduta, quando ho disturbato il suo discorso", disse la
donna. "Naturalmente", disse K., "oggi è acqua passata e quasi non me ne ricordo più, ma lì per lì la cosa mi ha reso
furioso. E ora poi lei mi dice di essere sposata." "Non è stato un male per lei che il suo discorso sia stato interrotto.
Dopo hanno parlato molto male di lei." "Può essere", disse K. con un gesto di disinteresse, "ma questa non è una
scusa per lei." "Io non ho bisogno di scuse per tutti quelli che mi conoscono", disse la donna, "quello che allora mi
ha abbracciato mi tormenta già da parecchio tempo. Anche se in generale io non sono attraente, per lui tuttavia lo
sono. Non c’è difesa possibile, e anche mio marito se n’è fatta una ragione; se vuole mantenere il suo posto deve
sopportarlo, perché quell’uomo è uno studente e si prevede che diventerà molto potente. Mi sta sempre alle calcagna,
anche ora, poco prima che lei arrivasse, se n’era appena andato." "Tutto torna", disse K., "la cosa non mi sorprende."
"Lei qui vorrebbe cambiare le cose in meglio?" chiese la donna lentamente e con aria interrogativa, come se dicesse
qualcosa di altrettanto pericoloso per lei e per K. "L’ho capito già dal suo discorso che, sia detto a titolo personale,
mi è piaciuto molto. E’ vero che ne ho sentita solo una parte, ho perso l’inizio e alla fine ero per terra con lo
studente." "E’ così ripugnante qui", disse poi dopo una pausa, e prese la mano di K. "Crede che riuscirà a migliorare
le cose?" K. sorrise, e per un poco voltò la mano nelle soffici mani di lei. "A dire il vero", disse, "non è compito mio
migliorare qui le cose, come lei si esprime, e se per esempio lei dicesse questo al giudice istruttore, la prenderebbero
in giro o la punirebbero. In effetti, se fosse dipeso da me, non mi sarei immischiato in queste cose e la necessità di
migliorare questo tipo di tribunali non mi avrebbe mai tenuto sveglio la notte. Ma per il fatto di essere stato, come
sembra, arrestato - sono in arresto, difatti - mi hanno costretto a intervenire, e certo solo per tutelare il mio interesse.
Ma se così facendo posso essere utile in qualche modo anche a lei, lo farò naturalmente assai volentieri. E non solo
per amore del prossimo, ma anche perché lei stessa può essermi d’aiuto." "E come potei farlo?", chiese la donna. "Ad
esempio facendomi vedere ora i libri che sono sul tavolo." "Ma sicuro", esclamò la donna tirandolo in fretta dentro
dietro di sé. Si trattava di libri vecchi e consunti, in uno di essi la copertina era quasi distrutta al centro, i pezzi erano
tenuti insieme con dei pezzi di spago. "Come è tutto sporco qui", disse K. scuotendo il capo, e la donna con il
grembiule spolverò almeno in superficie i libri prima che K. potesse prenderli. K. aprì il libro che stava in cima, e
apparì un’illustrazione sconcia. Un uomo e una donna sedevano nudi su un divano, l’intenzione volgare del
disegnatore era chiara, ma la sua imperizia era tale che alla fine si potevano intravedere solo un uomo e una donna
che risaltavano fin troppo realisticamente dalla figura, seduti in modo assurdamente verticale e che, per la prospettiva
sbagliata, si voltavano a fatica l’uno verso l’altra. K. non continuò a sfogliare, ma si limitò ad aprire la copertina del
secondo libro, era un romanzo dal titolo: "I tormenti che ebbe a subire Grete da suo marito Hans." "Ecco quali
codici si studiano qui", disse K. "E devono essere uomini del genere a giudicarmi." "Io la aiuterò," disse la donna, "lo
vuole?" "Purché lei possa farlo senza mettersi in pericolo, lei stessa ha detto poco fa che suo marito è molto
dipendente dai suoi superiori." "Ciononostante voglio aiutarla", disse la donna. "Venga, dobbiamo parlarne. Non
parli più del mio pericolo, io ho paura del pericolo solo quando voglio averne. Venga." Indicò il podio e gli chiese di
salire con lei il gradino. "Lei ha dei begli occhi scuri" disse la donna dopo che si furono seduti, guardando in volto K.
dal basso, "si dice che anch’io abbia dei begli occhi, ma i suoi sono molto più belli. D’altronde li ho notati subito la
prima volta che lei è entrato qui. I suoi occhi sono anche stati il motivo per cui dopo sono entrata qui nella sala
d’assemblea, cosa che altrimenti non faccio mai e che in un certo senso mi è anche proibita." "E’ tutto qui, allora"
pensò K. "Mi si sta offrendo, è corrotta come tutti in questo posto, si è stancata degli impiegati del tribunale, cosa
ben comprensibile, e perciò dà il benvenuto al primo estraneo che passa con un complimento sui suoi occhi." E in
silenzio K. si alzò, come se avesse pensato a voce alta e con questo avesse chiarito alla donna il suo comportamento.
"Non credo che lei possa essermi d’aiuto", disse, "per aiutarmi davvero bisognerebbe essere in relazione con
impiegati di alto livello. Lei invece conosce certo solo i dipendenti di basso rango che si accalcano qui a frotte.
Costoro li conosce di sicuro molto bene e da loro potrebbe anche ottenere qualcosa, di questo non ne dubito, ma
anche il massimo che potrebbero dare sarebbe sempre del tutto indifferente per l’esito finale del processo. Lei invece
con ciò si sarebbe rovinate alcune amicizie, e io non lo voglio. Continui pure a intrattenere con questa gente le sue
relazioni, in effetti mi sembra che tutto ciò le sia indispensabile. E lo dico non senza dispiacermene, perché, se devo
ricambiare in qualche modo il suo complimento, anche lei mi piace, specialmente quando come ora mi guarda con
tanta tristezza; tristezza che è d’altra parte senza fondamento per quanto la riguarda. Lei appartiene alla società che io
devo combattere, però ci si trova bene, lei ama persino lo studente, e anche se non lo ama, tuttavia lo preferisce a suo
marito. Lo si potrebbe facilmente capire dalle sue parole." "No", esclamò la donna, rimase seduta e si limitò ad
afferrare la mano di K., che questi non fece in tempo a tirare indietro, "non può andarsene ora, non può andarsene
con un giudizio sbagliato su di me. Davvero vorrebbe andarsene ora? Valgo davvero tanto poco che lei non mi
farebbe il piacere di rimanere qui ancora un momento?" "Lei mi ha capito male", disse K. e si sedette, "se davvero ci
tiene che io rimanga qui, rimango volentieri, ho tempo, ma sono venuto qui credendo che ci sarebbe stata
un’udienza. Con ciò che ho detto prima volevo solo pregarla di non prendere iniziative per me nel mio processo. Ma
anche questo non deve tormentarla, se lei riflette a quanto poco io mi curi dell’esito del processo e a come io mi farò
beffe di una condanna. Ammesso poi che si arrivi in generale a una vera conclusione del processo, cosa di cui dubito.
Mi sembra più probabile che, per la pigrizia o la negligenza o forse addirittura per la paura degli impiegati, il
procedimento si sia già interrotto, o che verrà interrotto fra poco. Ma è anche possibile che si faccia finta di portare
avanti il processo nella speranza di farsi corrompere con una cifra più alta; speranza del tutto inutile, come posso dire
fin da oggi, perché io non corrompo nessuno. Anzi lei mi farebbe proprio un piacere se riferisse al giudice istruttore,
o comunque a qualcuno che diffonda con piacere le notizie, che mai e con nessuno degli artifici di cui lorsignori
sono esperti io potrò mai essere piegato a corrompere qualcuno. Non c’è speranza, può dirglielo apertamente.
D’altronde lo avranno forse già notato da sé, e se non fosse così non mi importa certo che se ne accorgano ora. Con
questo forse i signori risparmiano a se stessi della fatica e a me dei fastidi; fastidi che d’altra parte accetto volentieri se
so che ognuno di essi è anche un colpo per gli altri. E che sia così, me ne voglio occupare io. Davvero lei conosce il
giudice istruttore?" "Naturalmente", disse la donna, "è a lui per primo che ho pensato quando le ho offerto il mio
aiuto. Non sapevo che fosse un impiegato di basso rango, ma se lo dice lei sarà anche così. Tuttavia io credo che il
rapporto che farà alle autorità superiori avrà sempre un certo influsso. E lui scrive tanti di quei rapporti. Lei dice che
gli impiegati sono pigri, ma certo non lo sono tutti, e in particolare non lo è questo giudice istruttore, che scrive
talmente tanto. Domenica scorsa, per esempio, la seduta è durata fino a sera. Tutti se n’erano andati, il giudice
istruttore invece era rimasto nella sala, ho dovuto portargli una lampada, avevo solo una piccola lampada da cucina,
ma a lui andava bene, e ha cominciato subito a scrivere. Intanto era arrivato anche mio marito, che proprio quella
domenica aveva un giorno di riposo, abbiamo preso i mobili e riarredato la stanza, poi sono anche venuti dei vicini,
abbiamo chiacchierato a lume di candela, insomma ci siamo dimenticati il giudice istruttore e siamo andati a dormire.
A un tratto nella notte, e doveva essere notte inoltrata, mi sveglio, vicino al letto c’è il giudice istruttore che ripara la
lampada con la mano, in modo che la luce non cada su mio marito, precauzione inutile, perché mio marito ha un
sonno tale che neppure la luce lo avrebbe svegliato. Mi spaventai talmente che stavo per gridare, ma il giudice
istruttore fu molto cordiale, mi raccomandò prudenza, mi sussurrò che era stato a scrivere fino a quel momento, che
ora mi riportava la lampada e che non avrebbe mai dimenticato come mi aveva visto nel sonno. Con questo volevo
dirle soltanto che il giudice istruttore in effetti scrive molti rapporti, e soprattutto su di lei; perché la sua deposizione
è stata certo uno degli eventi più importanti della seduta di domenica. Rapporti tanto lunghi non possono certo
essere del tutto privi di significato. Oltre a ciò, da quel che le ho raccontato le può capire che il giudice istruttore si
interessa a me, e che, dato che solo ora deve essersi accorto di me, in questi primi tempi posso avere su di lui un
grande influsso. E che io gli stia molto a cuore lo dimostrano anche altre cose. Ieri mi ha mandato in regalo delle
calze di seta attraverso lo studente, in cui ripone molta fiducia e che è il suo collaboratore, con la motivazione che
dovevo sgomberare la sala della seduta, ma questa è solo una scusa perché tale lavoro è un mio dovere, e mio marito
viene pagato per questo. Sono delle belle calze, guardi" - allungò le gambe, sollevò la gonna fino al ginocchio e
guardò lei stessa le calze - "sono belle calze, ma a dire il vero troppo fini e non adatte a me."

Improvvisamente si interruppe, posò la sua mano su quella di K. come per tranquillizzarlo e sussurrò: "Zitto, Bertold
ci sta guardando!" K. alzò lentamente lo sguardo. Sulla soglia della sala delle udienze stava in piedi un giovane, di
bassa statura, con le gambe un po’ storte, e cercava di darsi una dignità con una barba corta, rada e rossiccia nella
quale girava in continuazione le dita. K. lo guardò con curiosità, in fondo era il primo studente di quella sconosciuta
giurisprudenza che incontrava in un modo per così dire umano, una persona che probabilmente un giorno avrebbe
potuto raggiungere gli incarichi più alti. Lo studente invece non sembrava curarsi affatto di K., ma si limitò a estrarre
per un momento un dito dalla barba, a fare un cenno alla donna e avviarsi alla finestra; la donna si piegò verso K. e
gli sussurrò: "Non me ne abbia a male, la prego, e non pensi male di me, ora devo andare da lui, da questo individuo
ripugnante, guardi solo le sue gambe storte. Però torno subito e poi verrò con lei, se lei mi prenderà con sé io verrò
dove lei vorrà, lei può fare di me quel che vuole, io sarò felice di andarmene di qua per il tempo più lungo possibile, e
magari per sempre." Accarezzò ancora una volta la mano di K., poi si alzò di scatto e corse alla finestra. Senza
volerlo, K. cercò di afferrare nel vuoto la mano di lei. La donna lo attraeva veramente e per quanto ci pensasse non
riusciva a trovare un buon motivo per resistere all’attrazione. Senza fatica mise da parte l’idea che la donna volesse
catturarlo per il tribunale. In che maniera poteva catturarlo? Non rimaneva forse tanto libero da poter frantumare in
un colpo l’intero tribunale, almeno per quel che lo riguardava? Non poteva forse nutrire verso se stesso questa
minima fiducia? E poi la sua offerta di aiuto sembrava sincera e poteva darsi che non fosse priva di valore. E forse
non c’era miglior vendetta sul giudice istruttore e il suo seguito che sottrargli questa donna prendendola con sé.
Poteva darsi il caso che un giorno il giudice istruttore, dopo il faticoso lavoro di compilare rapporti menzogneri su
K., avrebbe trovato vuoto, in piena notte, il letto della donna. E lo avrebbe trovato vuoto perché lei apparteneva a
K., perché questa donna alla finestra, questo corpo fiorente, agile e caldo nell’abito scuro di stoffa grossolana e
pesante, apparteneva interamente e solamente a K.

Dopo aver così messo da parte ogni pensiero ostile verso la donna, si stancò del colloquio che si svolgeva fra i due, a
bassa voce, presso la finestra e prima con le nocche delle dita, poi anche con il pugno si mise a battere sul podio. Lo
studente per un attimo guardò verso K. da sopra le spalle della donna, ma non se ne diede per inteso e anzi le si
strinse ancor più stretto, abbracciandola. Lei abbassò profondamente il capo, come per ascoltarlo con attenzione, lui
la baciò forte sul collo senza realmente interrompere il suo discorso. K. vide in questo la tirannia che lo studente
esercitava sulla donna e di cui lei si era lamentata, si alzò e cominciò ad andare su e giù nella stanza. Guardando di
lato di tanto in tanto verso lo studente, rifletteva su come avrebbe potuto liberarsene il più presto possibile, e non gli
fu quindi sgradito quando, evidentemente disturbato dai passi di K., che nel frattempo si erano trasformati in una
specie di trotto, lo studente osservò: "Se lei è impaziente, può anche andarsene. Avrebbe potuto andarsene anche
prima, nessuno avrebbe sentito la sua mancanza. Anzi, lei avrebbe dovuto farlo, e già quando io sono entrato, e
anche il più alla svelta possibile." In questa osservazione si esprimeva la più grande collera, ma c’era dentro anche la
superbia del futuro impiegato del tribunale che si rivolgeva a un imputato sgradito. K. rimase in piedi vicino a lui e
disse sorridendo: "E’ vero che sono impaziente, ma il modo più semplice di risolvere la mia impazienza è che lei ci
lasci. Ma se lei è venuto qui per studiare - mi dicono che lei è studente - allora sarò io a sgombrare volentieri il campo
e me ne andrò con la signora. D’altronde lei deve studiare ancora parecchio prima di diventare giudice. Non conosco
ancora bene i principi del vostro tribunale, ma suppongo che non bastino le stupide chiacchiere di cui lei è così
spudoratamente esperto." "Non si doveva lasciarlo andare in giro libero così", disse lo studente, come per dare alla
donna una spiegazione del discorso offensivo di K., "è stato un errore. Io l’ho detto al giudice istruttore. Fra
un’udienza e l’altra bisognava come minimo confinarlo nella sua stanza. A volte il giudice istruttore si comporta in
modo incomprensibile." "Chiacchiere inutili", disse K. e allungò la mano verso la donna. "Venga." "Ah, è così", disse
lo studente, "no, no, lei non l’avrà", e con un’energia imprevedibile la prese in braccio, e con la schiena curva,
guardandola con tenerezza, corse verso la porta. Non si poteva negare che ci fosse in lui una certa paura nei
confronti di K., eppure ebbe ancora il coraggio di provocare K. accarezzando e stringendo il braccio della donna con
la mano che aveva ancora libera. K. gli corse dietro ancora per qualche passo, pronto ad afferrarlo e se necessario a
strangolarlo, quando la donna disse: "E’ inutile, il giudice istruttore mi manda a prendere, io non posso venire con lei,
questo piccolo mostro", e così dicendo passò la mano sul viso dello studente, "questo piccolo mostro non mi molla"
"E lei nemmeno vuole essere liberata", gridò K. mettendo la mano sulla spalla dello studente, il quale tentò di
azzannarla con i denti. "No", gridò la donna, respingendo K. con entrambe le mani, "no, no, questo no davvero, cosa
le salta in mente! Sarebbe la mia rovina. Lo lasci stare, per favore, lo lasci stare. Non fa altro che eseguire l’ordine del
giudice istruttore e mi sta portando da lui." "Se ne vada dove gli pare, allora, e quanto a lei non voglio più vederla",
disse K. furioso per la delusione, e diede un colpo sulla spalla dello studente tanto da farlo inciampare per un attimo,
ma questi poi, per la soddisfazione di non essere caduto, se ne andava subito dopo di corsa portando ancor più alto il
suo carico. K. li seguì rallentando il passo, si rese conto che era la prima indubbia sconfitta che subiva davanti a
questa gente. Naturalmente non c’era alcun motivo di angosciarsene, era stato sconfitto solo perché era andato a
cercarsi la lotta. Rimanendo a casa e continuando la sua solita vita era mille volte superiore a ciascuno di costoro, e
poteva con la punta del piede spazzar via chiunque dalla propria strada. E si immaginò che sarebbe stata la scena più
ridicola del mondo se per esempio questo miserabile studente, questo pallone gonfiato, quest’individuo storto e
barbuto si fosse inginocchiato davanti al letto di Elsa implorando pietà. Questa fantasia piacque tanto a K. che si
propose, qualora se ne fosse presentata una qualche occasione, di portare lo studente con sé da Elsa, una volta o
l’altra.

Per curiosità K. si avvicinò veloce alla porta, voleva vedere dove veniva portata la donna, lo studente non poteva
certo portarsela in braccio da una strada all’altra. Risultò che la strada era molto più corta. Subito di fronte alla porta
dell’abitazione una stretta scala di legno portava verosimilmente alla soffitta, siccome faceva una curva non se ne
vedeva la fine. Lo studente portò la donna su per questa scala, molto lentamente ormai e ansimando, perché la corsa
fin lì lo aveva indebolito. La donna con la mano salutò in basso verso K., e scrollando su e giù le spalle cercava di
mostrare che lei era innocente di quel rapimento, ma nel gesto che faceva non si poteva vedere molto dispiacere. K.
la guardò inespressivo, come se si trattasse di un’estranea, non voleva tradire la propria delusione, ma nemmeno far
intendere che avrebbe potuto superarla facilmente.

I due erano ormai scomparsi, ma K. era ancora sulla soglia. Doveva concludere che non solo la donna lo aveva
ingannato, ma che gli aveva anche mentito dicendo che veniva condotta dal giudice istruttore. Certamente il giudice
istruttore non poteva star seduto in soffitta ad aspettare. Per quanto la si guardasse, la scala di legno non poteva
spiegare nulla. In quel momento K. notò un fogliettino vicino alla scala, si avvicinò e lesse, in una scrittura infantile e
inesperta: "Scala per le cancellerie del tribunale." E così, le cancellerie del tribunale erano nella soffitta di questa casa
in affitto? Non era una sede che potesse ispirare molto rispetto, ed era tranquillizzante per un imputato pensare
quanto fossero limitate le risorse di un simile tribunale che teneva le proprie cancellerie dove gli affittuari, che già di
per sé appartenevano allo strato più povero, buttavano le cianfrusaglie ormai inutili. Non era poi escluso che il
denaro fosse sufficiente, ma che gli impiegati ci si avventassero sopra prima che venisse speso per gli scopi del
tribunale. In base alle passate esperienze di K. questo era addirittura assai verosimile, e allora una simile corruzione
del tribunale era per l’imputato certo degradante, però da un altro punto di vista ancor più tranquillizzante di quanto
lo sarebbe stata la sua povertà. Ora K. capiva anche perché ci si vergognasse di convocare l’imputato per il primo
interrogatorio nella soffitta, e perché si preferisse molestarlo nel suo proprio appartamento. Che differenza fra la
posizione del giudice istruttore qui in soffitta e quella di K., che aveva in banca una grande stanza con anticamera, e
che attraverso una enorme finestra a vetri poteva guardare giù nell’animazione della piazza principale! Era vero che
non disponeva di entrate accessorie derivanti da corruzione o appropriazione indebita, e non poteva farsi portare in
braccio in ufficio una donna dall’usciere. Ma, almeno in questo vita, K. ci rinunciava volentieri.

K. era ancora davanti al fogliettino quando un uomo salì la scala, guardò dalla porta aperta che dava
nell’appartamento e oltre la quale si poteva sbirciare anche nella sala delle udienze, e infine chiese a K. se poco prima
non avesse visto lì una donna. "Lei è l’usciere del tribunale, non è vero?" chiese K. "Sì", disse l’uomo, "ah, ma lei è
l’imputato K., ora la riconosco, lei è il benvenuto." E tese la mano a K., che non se l’aspettava. "Oggi però non
hanno annunciato sedute", disse allora l’usciere, dato che K. taceva. "Lo so", disse K. contemplando l’abito borghese
dell’usciere, che come unico distintivo del suo servizio presentava, vicino ad alcuni bottoni normali, anche due
bottoni dorati, che sembravano presi da un vecchio mantello da ufficiale. "Ho parlato poco fa con sua moglie. Non è
più qui. Lo studente l’ha portata dal giudice istruttore." "Vede", disse l’usciere, "me la portano sempre via. Oggi è
domenica e io non sono obbligato a nulla, ma pur di allontanarmi mi mandano a portare qualche messaggio
comunque insignificante. E non mi mandano neppure molto lontano, sicché ho la speranza che, facendo molto alla
svelta, potrò tornare in tempo. Così faccio una corsa più veloce che posso, all’impiegato cui mi hanno mandato grido
il mio messaggio attraverso la fessura della porta, così sfiatato però che lo si sarà appena capito, torno indietro di
corsa, ma lo studente ha fatto ancor più in fretta di me, e d’altronde aveva una strada più breve, doveva solo scendere
la scala della soffitta. Se non fossi così dipendente, già da un pezzo avrei sfracellato lo studente contro il muro.
Proprio qui, vicino al bigliettino. Me lo sogno continuamente. Qui, schiacciato e sollevato poco sopra il pavimento, le
braccia distese, le dita spalancate, le gambe storte curvate a cerchio e tutt’intorno schizzi di sangue. Ma finora è solo
un sogno." "E non ci sono altri rimedi?" chiese K. sorridendo. "Non saprei trovarne nemmeno uno", disse l’usciere.
"E ora va anche peggio, finora se l’era portata via solo per sé, ora, come mi aspettavo da un pezzo, la porta anche al
giudice istruttore." "Ma sua moglie non ha colpe in tutto ciò?", domandò K., facendo la domanda dovette
controllarsi, tanto sentiva anche lui ora la gelosia. "Ma certo", disse l’usciere, "anzi, lei ha la colpa maggiore. E’ lei che
gli si è messa addosso. Per quanto riguarda lui, corre dietro a tutte le donne. Solo in questo edificio, è già stato
buttato fuori da cinque appartamenti nei quali si era insinuato. E poi mia moglie è la più bella in tutto l’edificio, e io
non mi posso difendere." "Se le cose stanno così, allora davvero non c’è rimedio", disse K. "Perché no", chiese
l’usciere. "Lo studente è un vigliacco, e bisognerebbe, una delle volte che vuole toccare mia moglie, dargli tante
bastonate in modo che non si azzardi più. Ma io non posso farlo, e gli altri non vogliono farmi questo favore, perché
temono il suo potere. Solo un uomo come lei potrebbe farlo." "E perché proprio io?" chiese K. stupito. "Lei è un
imputato", disse l’usciere. "Sì", disse K., "ma questo dovrebbe essere un motivo per avere ancor più timore, perché
anche se costui non ha influsso sull’esito del processo, è però verosimile che ne abbia sull’istruttoria preliminare." "Sì,
certo", disse l’usciere, come se l’opinione di K. fosse altrettanto giusta quanto la sua, "ma di regola da noi non si
trattano processi senza prospettive." "Non sono del suo parere", disse K., "ma questo non mi impedirà, all’occasione,
di fare un bel trattamento allo studente." "Gliene sarei molto riconoscente", disse l’usciere con una certa formalità,
sembrava proprio che non prestasse fede alla realizzabilità del suo massimo desiderio. "Forse", continuò K., "anche
altri dei suoi impiegati, e forse tutti, meriterebbero lo stesso." "Sì, sì", disse l’usciere come se si trattasse di una cosa
ovvia. Poi guardò K. con un’occhiata fiduciosa, come ancora non aveva fatto malgrado tutta la sua cordialità, e
aggiunse: "Siamo pur sempre dei ribelli." Sembrava però che il discorso gli fosse divenuto un po’ spiacevole, perché
lo interruppe dicendo: "Ora devo annunciarmi nelle cancellerie. Vuole venire con me?" "Non ho niente da fare
laggiù", disse K. "Potrebbe vedere le cancellerie. Nessuno si preoccuperebbe di lei." "Vale la pena vederle?" chiese K.
esitante, ma con una gran voglia di andare. "Beh", disse l’usciere, "pensavo che la interessassero." "Va bene",
concluse K., "vengo anch’io" e, più veloce dell’usciere, cominciò a salire le scale.

Entrando stava per cadere, perché dietro la porta c’era ancora uno scalino. "Non ci si cura molto del pubblico", disse.
"Non ci si cura in genere", disse l’usciere, "guardi qui la sala d’aspetto." Era un lungo corridoio, dal quale porte
rudimentali conducevano nelle singole sezioni della soffitta. Malgrado l’assenza di aperture dirette per la luce non era
del tutto buio, perché alcune sezioni nella parte rivolta verso il corridoio avevano, anziché pareti compatte di tavole,
delle semplici grate di legno che arrivavano fino al soffitto, attraverso le quali passava un po’ di luce e che lasciavano
anche vedere singoli impiegati seduti al tavolo a scrivere, o in piedi vicino alla grata, a osservare attraverso le fessure
la gente nel corridoio. Forse perché era domenica, nel corridoio c’erano poche persone. Costoro avevano un’aria
assai modesta. A distanze quasi regolari l’uno dall’altro, sedevano sulle due file di lunghe panche di legno disposte sui
due lati del corridoio. Tutti erano vestiti in maniera trascurata, anche se la maggior parte di loro, a giudicare
dall’espressione del viso, dal portamento, dal taglio della barba e da molti particolari appena percepibili,
appartenevano alle classi più elevate. Siccome non c’erano attaccapanni, avevano messo il cappello sotto le panche,
forse seguendo l’uno l’esempio dell’altro. Quando videro entrare K. e l’usciere, quelli seduti più vicino alla porta si
alzarono in segno di saluto; vedendo ciò anche gli altri pensarono di dover salutare, sicché tutti, al passaggio dei due,
si alzavano in piedi. Non si alzavano mai completamente, la schiena era curva, le ginocchia piegate, stavano lì come
mendicanti di strada. K. aspettò l’usciere che camminava poco dietro di lui e disse: "Come devono essere umiliati!"
"Sì", disse l’usciere, "sono degli imputati, tutti quelli che lei vede qui sono imputati." "Davvero?" disse K. "Allora
sono miei colleghi." E si voltò verso il più vicino, un uomo alto e snello, dai capelli ormai quasi grigi. "Cosa aspetta
qui?" chiese K. con gentilezza. Questa domanda inattesa però confuse l’uomo, e questo era tanto più penoso in
quanto si trattava evidentemente di un uomo di mondo, che certamente da un’altra parte avrebbe saputo dominarsi e
che non avrebbe rinunciato tanto facilmente alla superiorità che si era guadagnato su tante persone. Qui invece non
seppe rispondere a una domanda tanto semplice, e rivolse lo sguardo agli altri come se questi fossero tenuti ad
aiutarlo e come se, in assenza di un tale aiuto, nessuno potesse aspettarsi da lui una risposta. Allora intervenne
l’usciere e, per calmare e incoraggiare l’uomo, disse: "Il signore qui chiede soltanto cosa aspetta lei qui. Gli risponda
dunque." La voce dell’usciere, che gli era evidentemente nota, ebbe un migliore effetto, e così l’uomo cominciò:
"Aspetto..." e si fermò. Evidentemente aveva scelto questo inizio per rispondere precisamente alla domanda, ma ora
non sapeva come continuare. Alcuni di quelli in attesa si erano avvicinati e circondavano il gruppo, ma l’usciere disse
loro: "Via, via, liberate il corridoio." Si ritrassero un po’, ma non fino al posto di prima. Nel frattempo l’uomo che
era stato interrogato si era ripreso e rispose, persino con un lieve sorriso: "Un mese fa ho presentato alcune istanze
di prova per la mia questione e aspetto che siano sbrigate." "Lei sembra darsi molto da fare", disse K. "Sì", disse
l’uomo, "è la mia questione." "Non tutti la pensano come lei", disse K., "ad esempio anch’io sono imputato, ma per
l’anima mia non ho presentato alcuna istanza di prova, né ho iniziato nulla del genere. Lei lo ritiene necessario?"
"Non lo so con precisione", disse l’uomo, di nuovo in preda alla completa incertezza; evidentemente credeva che K.
lo stesse prendendo in giro, perciò, per non fare qualche altro errore, avrebbe preferito ripetere la sua risposta di
prima, ma di fronte allo sguardo impaziente di K. disse solo: "per quanto mi riguarda, io ho presentato delle istanze
di prova". "Certo lei non crede che io sia imputato", chiese K. "Oh, ma sicuro", disse l’uomo facendosi un po’ di
lato, ma nella sua risposta c’era più paura che convinzione. "Allora non mi crede?" chiese K. afferrandolo per un
braccio, spinto inconsciamente a questo dall’aspetto dimesso dell’uomo, come se volesse costringerlo a credergli. Ma
non intendeva fargli male, e lo aveva afferrato molto piano; tuttavia l’uomo lanciò un grido, come se K. non lo avesse
preso con due dita, ma con una tenaglia rovente. Questo grido ridicolo finì di renderlo insopportabile a K.; se non gli
si credeva che era imputato, tanto meglio; forse quello lo aveva preso addirittura per un giudice. E ora, nel lasciarlo,
lo strinse veramente più forte, lo respinse sulla panca e proseguì. "Quasi tutti gli imputati sono così sensibili", disse
l’usciere. Dietro di loro adesso quasi tutti quelli che aspettavano si erano raccolti intorno all’uomo che aveva ormai
smesso di gridare, e sembravano interrogarlo con precisione sull’accaduto. Ora veniva incontro a K. un sorvegliante,
riconoscibile soprattutto per la sua sciabola in una guaina che, almeno dal colore, era di alluminio. K. se ne stupì e
tese anche la mano per prenderla. Il sorvegliante, che era venuto in seguito al grido, chiese cosa fosse successo.
L’usciere cercò di calmarlo con qualche parola, ma il sorvegliante dichiarò che avrebbe comunque dovuto vedere di
persona, fece il saluto e proseguì con passi molto frettolosi ma anche molto brevi, forse impediti dalla gotta.

K. non si occupò a lungo di lui e del gruppetto nel corridoio, soprattutto perché circa a metà del corridoio vide la
possibilità di voltare a destra in un’apertura priva di porta. Si informò dall’usciere se quella fosse la via giusta, l’usciere
fece un cenno con il capo e K. curvando prese allora quella strada. Gli era fastidioso di dover camminare sempre uno
o due passi davanti all’usciere, avrebbe potuto sembrare, almeno in quel posto, che lo conducessero in arresto. Così
ogni tanto aspettava l’usciere, ma questi, subito, rimaneva sempre indietro. Alla fine, per porre termine al suo fastidio,
K. disse: "Bene, ho visto che aspetto ha, ora voglio andarmene." "Lei ancora non ha visto tutto", disse, in modo del
tutto innocuo, l’usciere. "Neppure voglio vedere tutto", disse K., che tra l’altro si sentiva veramente stanco, "voglio
andarmene, come si arriva all’uscita?" "Non si sarà mica perso", disse l’usciere stupito, "deve andare in questa
direzione fino all’angolo, e poi a destra giù per il corridoio, dritto fino alla porta." "Venga anche lei", disse K. "Mi
mostri la strada, altrimenti la sbaglierò, ci sono tante strade qui." "C’è una strada sola", disse l’usciere, ora con un
tono di rimprovero, "non posso tornare indietro con lei, devo pur portare la mia ambasciata, e lei mi ha già fatto
perdere molto tempo." "Venga anche lei", ripeté K. ora con tono più acuto, come se avesse infine colto l’usciere a
dire una menzogna. "Non gridi così", sussurrò l’usciere, "ci sono uffici dappertutto. Se non vuole tornare da solo,
venga ancora un poco con me, oppure aspetti qui finché io abbia sbrigato la mia commissione, dopodiché tornerò
volentieri insieme con lei." "No, no", disse K., "io non aspetterò e lei deve tornare ora con me." K. non si era ancora
neppure guardato intorno per vedere in che posto si trovava, e solo ora che una delle molte porte di legno intorno si
aprì vi diresse lo sguardo. Una ragazza, evidentemente spinta dal chiasso della voce di K., apparve e disse: "Cosa
desidera il signore?" Dietro di lei, lontano nella penombra, si vide un uomo che si avvicinava. K. guardò l’usciere.
Questi aveva detto che nessuno si sarebbe preoccupato di K., ed ecco che ora venivano in due, era bastato poco per
attrarre su di lui l’attenzione degli impiegati, e ora avrebbero preteso una spiegazione per la sua presenza in quel
posto. L’unica spiegazione comprensibile e accettabile era che lui era un imputato e voleva sapere la data della
prossima udienza, ma proprio questa era la spiegazione che non voleva dare, soprattutto perché non era vera, K. era
venuto solo per curiosità, oppure - spiegazione ancor meno possibile a darsi - per il desiderio di accertare che
l’interno di questo tribunale era altrettanto ripugnante quanto l’esterno. E sembrava anche che questa sua ipotesi
corrispondesse al vero, non voleva addentrarsi oltre, era oppresso abbastanza da ciò che aveva visto finora, proprio
in questo momento non era nelle condizioni di affrontare un alto impiegato, che avrebbe potuto spuntare dietro ogni
porta, voleva andarsene, con l’usciere o anche senza, se proprio non poteva far diversamente.

Il suo rimanere lì, in piedi, silenzioso, doveva però attrarre l’attenzione, e la ragazza e l’usciere lo guardarono
esattamente come se fosse sul punto di subire da un momento all’altro una grande metamorfosi, che i due non si
volevano perdere. E sulla soglia si trovava l’uomo che K. aveva visto prima in lontananza, si teneva all’architrave della
bassa porta e dondolava un po’ sulla punta dei piedi, come uno spettatore impaziente. La ragazza però riconobbe per
prima che la ragione del comportamento di K. era un lieve malessere, portò una sedia e chiese: "Non si vuole
sedere?" K. si sedette subito e per appoggiarsi meglio posò i gomiti sulla spalliera. "Le gira un po’ la testa, non è
vero?" gli domandò la ragazza. K. aveva ora il suo volto proprio davanti, aveva quell’espressione severa che hanno
alcune donne nel momento più bello della loro giovinezza. "Non se ne preoccupi", disse la ragazza, "qui non è una
cosa strana, quasi tutti si sentono male allo stesso modo quando vengono per la prima volta. E’ la prima volta che
viene qui? E allora, non è niente di strano. Il sole batte proprio qui sul tetto, e il legno, scaldandosi, rende l’aria così
umida e pesante. Per quanti altri vantaggi offra, il posto non è quindi molto adatto ad uso ufficio. Ma per quanto
riguarda l’aria, nei giorni di gran traffico delle parti in causa - e quasi ogni giorno è così - l’aria non è quasi più
respirabile. Se poi pensa che oltre a ciò c’è qui anche molta biancheria stesa ad asciugare - non lo si può proibire del
tutto agli inquilini del palazzo - allora non si stupirà più di essersi sentito un po’ male. Ma alla fine, ci si abitua molto
bene all’aria. Se lei tornerà una seconda o una terza volta, non si accorgerà nemmeno più di quest’aria opprimente. Si
sente già un po’ meglio, ora?" K. non rispose, gli risultava penoso essere qui nelle mani di questa gente per la sua
improvvisa debolezza, e poi ora che sapeva le cause del suo malessere non stava affatto meglio, ma anzi un po’
peggio. La ragazza se ne accorse subito, per dare ristoro a K. prese un bastone uncinato che era appoggiato al muro e
con quello aprì un piccolo oblò situato proprio sopra K. e che dava all’esterno. Ma ne cadde tanta fuliggine, che la
ragazza fu costretta a richiudere subito l’oblò e pulire la mano di K. dalla fuliggine con il proprio fazzoletto, dato che
K. era troppo stanco per farlo da sé. Avrebbe preferito rimanere seduto qui tranquillo finché si fosse ripreso
abbastanza per andarsene, ma questo sarebbe successo tanto prima, quanto meno si fossero occupati di lui. Ora però
la ragazza aggiunse: "Lei non può rimanere qui, disturbiamo il traffico" - K. chiese con lo sguardo a quale traffico si
riferisse - "Se vuole, la porterò in infermeria. Mi aiuti, la prego" disse poi rivolta all’uomo sulla porta, che si avvicinò
subito. Ma K. non voleva andare in infermeria, quel che voleva evitare era proprio di essere condotto più avanti, più
avanzava e peggio si sarebbe sentito. "Ora posso andare", disse perciò e si alzò in piedi tremando, abituato com’era
alla comodità della sedia. Ma poi non riuscì a mantenersi in piedi. "Non va", disse scuotendo la testa, e con un
sospiro si rimise a sedere. Si ricordò dell’usciere, che avrebbe potuto malgrado tutto portarlo facilmente fuori, ma
quello sembrava essersene andato da un pezzo, K. guardò attraverso la ragazza e l’uomo che stavano davanti a lui, ma
l’usciere non riuscì a trovarlo.

"Io credo", disse l’uomo, che per il resto era vestito con eleganza e soprattutto colpiva l’attenzione per un gilè grigio
che finiva con due lunghe punte tagliate ad angolo acuto, "io credo che il malessere del signore sia dovuto
all’atmosfera di qui, e che perciò la cosa migliore, e anche quella a lui preferita, sarebbe non di portarlo in infermeria,
ma in generale fuori delle cancellerie." "E’ proprio così", esclamò K., quasi interrompendo l’uomo per la gioia, "mi
sentirò subito meglio, e poi io non sono affatto così debole, ho solo bisogno di un po’ di appoggio sotto le braccia,
non vi darò molto fastidio, e poi non è una strada lunga, portatemi solo fino alla porta, lì mi siederò un po’ sullo
scalino e starò subito meglio, in effetti non vado soggetto a simili attacchi, ne sono stupito io stesso. Anch’io sono
impiegato e abituato all’aria degli uffici, ma qui è troppo dura, lo dite voi stessi. Quindi fatemi la cortesia di guidarmi
un po’, difatti mi gira la testa e mi sento male a stare in piedi da solo." E alzò le spalle per facilitare ai due il compito
di afferrarlo sotto le braccia.

Ma l’uomo non seguì l’invito, invece tenne tranquillo le mani in tasca e rise forte. "Vede", disse, rivolto alla ragazza,
"ci avevo indovinato. E’ solo in questo posto che il signore sta male, non in generale." Anche la ragazza sorrise, ma
diede all’uomo un colpetto sul braccio con la punta delle dita, come per rimproverarlo di essersi permesso uno
scherzo troppo pesante nei confronti di K. "Ma cosa le viene in mente", disse l’uomo mentre rideva ancora,
"naturalmente porterò fuori il signore." "Allora va bene", disse la ragazza, piegando per un attimo il capo grazioso.
"Non dia troppa importanza a queste risate", disse la ragazza a K., che, ritornato triste, guardava fisso davanti a sé e
non sembrava aver bisogno di spiegazioni, "questo signore - posso presentarla?" (il signore, con un movimento della
mano, ne diede il permesso) "- questo signore dunque è l’addetto alle informazioni. Dà alle parti in attesa tutte le
informazioni di cui hanno bisogno, e siccome la nostra giustizia non è molto conosciuta dalla gente, le informazioni
necessarie sono molte. Per ogni domanda ha una risposta, lei stesso può sperimentarlo se gliene viene la voglia. Ma
questo non è il suo unico pregio, il suo secondo è l’abbigliamento elegante. Noi, e cioè gli impiegati, abbiamo
pensato un tempo che l’addetto alle informazioni, che è sempre in contatto con le parti in causa e ha con loro il
primo contatto, dovesse essere vestito con eleganza, perché è importante che la prima impressione sia dignitosa.
Come lei può vedere anche in me, noi altri siamo purtroppo vestiti assai male e all’antica; d’altra parte non ha
neppure molto senso spendere per l’abbigliamento, dato che stiamo nelle cancellerie quasi senza interruzione, e ci
dormiamo anche. Ma per quanto riguarda l’addetto alle informazioni, abbiamo ritenuto che un buon vestito fosse
opportuno. Siccome però non lo si poteva acquistare tramite la nostra amministrazione, che da questo punto di vista
è un po’ strana, abbiamo fatto una colletta - cui hanno partecipato anche le parti in causa - e gli abbiamo comprato
questo bel vestito, e anche altri. Ora tutto sarebbe a posto per fare una buona impressione, ma con le sue risate lui
rovina di nuovo ogni cosa, e spaventa la gente." "E’ così", disse l’uomo sarcastico, "ma non capisco proprio,
signorina, perché racconta tutte le nostre cose intime a questo signore, o per dir meglio gliele impone, dato che certo
non gli importa di conoscerle. Guardi come se ne sta lì seduto, evidentemente alle prese con gli affari suoi." K. non
aveva neppure voglia di rispondere, l’opinione della ragazza poteva anche passare per buona, forse aveva lo scopo di
distrarlo o dargli la possibilità di riprendersi, ma l’espediente era fallito. "Dovevo spiegargli perché lei ride", disse la
ragazza. "Era proprio offensivo." "Ritengo che perdonerebbe offese anche peggiori se finalmente mi decidessi a
portarlo fuori." K. non disse nulla, non alzò neppure lo sguardo, sopportò che i due parlassero di lui come di una
cosa inanimata, e anzi era ciò che preferiva. Ma ad un tratto sentì sotto un braccio la mano dell’addetto alle
informazioni e sotto l’altro la mano della ragazza. "Allora, forza, deboluccio!", disse l’addetto alle informazioni. "Vi
ringrazio molto tutti e due", disse K. piacevolmente sorpreso, si alzò lentamente e portò lui stesso le mani estranee
nei punti dove aveva bisogno di maggior appoggio. "Potrebbe sembrare", disse piano la ragazza nell’orecchio di K.
mentre si avvicinavano al corridoio, "che mi stia particolarmente a cuore mettere in buona luce l’addetto alle
informazioni, ma, mi creda, io voglio solo dire la verità. Non ha un cuore cattivo. Non è tenuto ad accompagnare
fuori le parti in causa quando si sentono male, e tuttavia, come lei vede, lo fa. Forse nessuno di noi è cattivo, forse
tutti noi daremmo volentieri una mano, ma in quanto impiegati del tribunale diamo facilmente l’impressione di avere
un cuore duro. E questo a me dispiace proprio." "Non vuole sedersi un po’ qui", chiese l’addetto alle informazioni,
erano già nel corridoio, e proprio davanti all’imputato cui prima K. aveva rivolto la parola. Davanti a lui K. provò
quasi vergogna, prima stava così dritto davanti a lui e ora dovevano sorreggerlo in due, l’addetto alle informazioni
dondolava il cappello di K. sulle dita divaricate, i capelli erano spettinati e gli ricadevano sulla fronte sudata. Ma
l’imputato non sembrò accorgersi di nulla, stava umile in piedi davanti all’addetto alle informazioni che passò con lo
sguardo oltre di lui, e cercava soltanto di far perdonare la propria presenza. "Lo so", disse, "che oggi non è ancora
possibile che la mia pratica sia stata sbrigata, ma sono venuto lo stesso, ho pensato che potrei aspettare qui, è
domenica, ho tempo e qui non do noia a nessuno." "Lei non deve scusarsi tanto", disse l’addetto alle informazioni,
"il suo zelo è certo degno di lode, è vero che lei qui occupa posto inutilmente, ma ciononostante, finché la cosa non
mi dà fastidio, non voglio impedirle di seguire con scrupolo il corso della sua questione. Quando si è conosciuta
gente che trascura il proprio dovere in modo scandaloso si impara ad avere pazienza con gente come lei. Si sieda
pure." "Com’è in gamba a parlare con le parti", sussurrò la ragazza. K. fece un cenno con il capo, ma trasalì subito
quando l’addetto alle informazioni gli chiese di nuovo: "Non vuole sedersi qui?" "No", disse K., "non voglio
riposarmi." Disse questo con la massima determinazione, ma in realtà sedersi gli avrebbe fatto molto bene; aveva
come il mal di mare. Gli sembrava di essere su una nave che viaggiasse fra le onde alte. Era come se l’acqua si
scagliasse contro le pareti di legno, come se dal fondo del corridoio venisse un brusio di acque sconvolte, il corridoio
si dondolasse obliquamente e i partiti in attesa si alzassero e si abbassassero ai due lati. Tanto più incomprensibile era
la calma della ragazza e dell’uomo che lo conducevano. Era nelle loro mani, se lo avessero lasciato sarebbe certo
cascato come un asse di legno. Dai loro piccoli occhi lanciavano qua e là sguardi taglienti; K. percepiva i loro passi
monotoni senza poterli assecondare, perché veniva quasi trascinato di passo in passo. Alla fine si rese conto che gli
stavano parlando, ma non li capiva, sentiva solo un rumore che copriva ogni cosa e attraverso questo sembrava
risuonare un suono acuto e uniforme come quello di una sirena. "Più forte", sussurrò a capo chino, e provò
vergogna, perché sapeva che avevano parlato abbastanza forte, anche se in modo per lui incomprensibile. Allora
finalmente, come se la parete davanti a lui si fosse squarciata, gli venne incontro un soffio d’aria fresca e sentì dire
vicino a sé: "Prima se ne vuole andare, poi, per quanto gli si dica cento volte che questa è l’uscita, non si muove." K.
si rese conto di trovarsi davanti alla porta d’uscita, che la ragazza aveva aperto. Gli sembrò che tutte le sue forze gli
tornassero in un attimo, e per avere un anticipo di libertà passò subito su un gradino della scala e da lì salutò i suoi
accompagnatori, che gli fecero un inchino. "Molte grazie", ripeté, strinse ripetutamente a entrambi la mano e smise
solo quando gli parve di vedere che i due, abituati all’aria delle cancellerie, sopportavano male l’aria relativamente
fresca che veniva dalla scala. Risposero appena, e forse la ragazza sarebbe venuta meno se K. non avesse richiuso la
porta il più rapidamente possibile. K. allora rimase in silenzio ancora un attimo, si risistemò i capelli con l’aiuto di
uno specchietto da tasca, tirò su il suo cappello che si trovava su un pianerottolo della scala - evidentemente l’addetto
alle informazioni lo aveva lanciato via - e scese di corsa le scale con tanta scioltezza e a salti così lunghi che lui stesso
quasi si spaventò di un cambiamento tanto improvviso. La sua salute, per il resto così salda, non gli aveva mai dato
simili sorprese. Forse che il suo corpo voleva fare la rivoluzione e preparargli un processo nuovo per il fatto che
sosteneva così agevolmente quello vecchio? Non scartò del tutto il pensiero di andare alla prima occasione da un
medico, ma in ogni caso - e qui poteva curarsi da solo - intendeva trascorrere tutte le prossime mattine della
domenica in modo migliore di come aveva trascorso questa.
5) Il bastonatore

Una delle sere successive, attraversando il corridoio che divideva il suo ufficio dalla scalinata principale - quella sera
era quasi l’ultimo a tornare a casa, solo nell’ufficio spedizioni due fattorini lavoravano ancora nel piccolo cerchio di
luce di una lampadina - da una porta dietro cui, senza mai aver controllato di persona, aveva sempre ipotizzato un
ripostiglio, K. udì provenire dei lamenti. Si fermò stupefatto e rimase ancora ad ascoltare per esser certo di non aver
sbagliato, - per un attimo ci fu silenzio, ma poi di nuovo si udirono dei lamenti. - In un primo momento intendeva
andare a prendere uno dei fattorini per il caso che ci fosse bisogno di testimoni, ma poi lo prese una curiosità così
incontrollabile che spalancò letteralmente la porta. Era, come aveva giustamente supposto, un ripostiglio. Dietro la
soglia c’erano vecchie stampe inutilizzabili, e, alla rinfusa, vecchie bottiglie d’inchiostro vuote di argilla. Ma nello
stesso stanzino c’erano tre uomini, curvi in quello spazio così basso, mentre una candela fissata su uno scaffale li
illuminava. "Cosa combinate qui?" chiese K. precipitoso per l’agitazione, ma senza alzare la voce. Uno degli uomini,
che evidentemente dominava gli altri e attirava per primo lo sguardo, indossava una specie di abito di cuoio, che
lasciava nudi il collo fin giù sul petto e, interamente, le braccia. Costui non rispose. Ma gli altri due gridarono:
"Signore! Dobbiamo essere bastonati perché tu ti sei lamentato di noi con il giudice istruttore." E solo ora K. si
accorse che si trattava veramente dei due sorveglianti Franz e Willem, e che il terzo teneva in mano una verga per
bastonarli. "Beh", disse K. guardandoli fisso, "non è che mi sono lamentato, ho solo detto quel che è successo nel
mio appartamento. E non si può certo dire che vi siate comportati in modo irreprensibile." "Signore", disse Willem
mentre Franz cercava evidentemente di nascondersi dietro di lui per proteggersi dal terzo, "se voi sapeste come
siamo pagati male ci giudichereste meglio. Io devo mandare avanti una famiglia e Franz qui voleva sposarsi, si cerca
di far soldi come si può, con il solo lavoro, per quanto diligente, non ci si riesce, la vostra bella biancheria mi aveva
attirato, naturalmente non è permesso ai sorveglianti comportarsi così, non era corretto farlo, ma è tradizione che la
biancheria appartenga ai sorveglianti, è sempre stato così, credetemi; e poi si capisce anche che sia così, cosa possono
significare cose del genere per chi ha tanta sfortuna da essere arrestato. Ma se questi ne parla apertamente, allora ne
segue la punizione." "Non sapevo quel che dite ora, e neppure volevo in alcun modo che foste puniti, ciò che mi
preme è il principio." "Franz" si rivolse Willem all’altro sorvegliante, "non te lo dicevo io che il signore non voleva
che fossimo puniti? Ora lo senti tu stesso, non sapeva neppure che saremmo stati puniti." "Non lasciarti
commuovere da questi discorsi", disse a K. il terzo, "la punizione è tanto giusta quanto inevitabile." "Non dargli
retta", disse Willem, interrompendosi per portare veloce alla bocca la mano su cui aveva ricevuto un colpo di verga,
"noi veniamo puniti solo perché tu ci hai denunciati. Altrimenti non ci sarebbe successo nulla, neppure se si fosse
saputo quel che abbiamo fatto. Si può chiamare giustizia, questa? Noi due, ma soprattutto io, ci siamo comportati
bene a lungo come custodi - tu stesso devi riconoscere che dal punto di vista delle autorità abbiamo sorvegliato a
dovere - avevamo la prospettiva di far carriera, e presto saremmo anche diventati bastonatori come lui, che ha avuto
solo la fortuna di non essere mai stato denunciato da nessuno, perché in effetti una simile denuncia si ha solo molto
di rado. E ora, signore, tutto è perduto, la nostra carriera è finita, dovremo adattarci a lavori ancor più umili della
sorveglianza, e per di più ci tocca questa bastonatura terribilmente dolorosa." "Possibile che la verga faccia tanto
male", chiese K. ed esaminò la verga che il bastonatore gli agitava davanti. "Dovremo di sicuro spogliarci
completamente", disse Willem. "Ah, ecco", disse K. e guardò meglio il bastonatore, che era abbronzato scuro come
un marinaio e aveva un’espressione fresca e selvaggia. "Non ci sarebbe una possibilità di risparmiare il bastone a
questi due?" gli chiese. "No", disse il bastonatore, scuotendo il capo con un sorriso. "Spogliatevi", ordinò ai
sorveglianti. Rivolto poi a K. gli disse: "Non devi credere a tutto quel che dicono. Per la paura del bastone, sono già
diventati un po’ deboli di testa. Quel che ha raccontato costui, per esempio" - e accennò a Willem - "delle sue
possibilità di carriera, è del tutto ridicolo. Guardalo, quanto è grasso, - i primi colpi di verga si perderanno, in genere,
nel grasso. - E lo sai perché è tanto grasso? Perché ha l’abitudine di sbafare la colazione a tutti gli arrestati. Non ha
sbafato anche la tua? Ecco, te lo avevo detto. Ma un uomo con una pancia del genere non potrà mai diventare
bastonatore, è una cosa del tutto esclusa." "Invece ci sono anche bastonatori così", affermò Willem, che si era appena
sciolto la cintura dei pantaloni. "No!" disse il bastonatore e con la verga lo colpì tanto forte sul collo da fargli fare un
salto. "Tu non devi stare a sentire, ma spogliarti." "Ti ricompenserei bene se tu li lasciassi andare", disse K. e senza
guardare oltre il bastonatore - simili affari è meglio concluderli a occhi bassi da entrambe le parti - estrasse il
portafoglio. "Così poi denunceresti anche me", disse il bastonatore, "e faresti bastonare anche me. No, no!" "Sii
ragionevole", disse K., "se avessi voluto che questi due venissero puniti non vorrei ora pagare per liberarli. Potrei
semplicemente chiudere qui la porta, rifiutarmi di vedere e sentire altro e tornarmene a casa. Invece non lo faccio, ma
anzi liberarli mi sta seriamente a cuore; se avessi immaginato che la loro punizione sarebbe stata una conseguenza
inevitabile o anche solo possibile, non avrei mai fatto il loro nome. Di fatto non li ritengo neppure responsabili,
responsabile è l’organizzazione, responsabili sono gli alti funzionari." "E’ così", gridarono i sorveglianti, e ricevettero
subito una bastonata sulle spalle già nude. "Se qui, sotto i colpi della tua verga, tu avessi un giudice di alto grado",
disse K. abbassando con la mano, mentre parlava, la verga che già stava per alzarsi di nuovo, "non solo non ti
impedirei di colpire, ma anzi ti darei del denaro perché tu faccia con energia quest’opera buona." "Ciò che dici
sembra credibile", disse il bastonatore, "ma io non mi lascio corrompere. Sono pagato per bastonare, e dunque
bastono." Il sorvegliante Franz, il quale, forse sperando in un buon esito dell’intervento di K., si era finora tenuto
indietro, si avvicinò ora alla porta vestito dei soli pantaloni, si aggrappò in ginocchio al braccio di K. e sussurrò: "Se
non puoi ottenere grazia per entrambi, cerca almeno di liberare me. Willem è più vecchio di me, è meno sensibile
sotto ogni punto di vista, e poi già un’altra volta, un paio di anni fa, ha ricevuto una leggera bastonatura, io invece
non sono ancora disonorato e mi sono comportato così spinto da Willem, che nel bene e nel male è quello che mi ha
insegnato tutto. Giù all’uscita, davanti alla banca, mi aspetta la mia povera fidanzata, mi vergogno talmente." Con la
giacca di K. si asciugò il viso inondato di lacrime. "Non aspetto più", disse il bastonatore, prese la verga con
entrambe le mani e colpì Franz, mentre Willem stava accucciato in un angolo e guardava di nascosto, senza avere il
coraggio di voltare la testa. Allora si alzò il grido lanciato da Franz, continuo e immutabile, sembrava non il grido di
un uomo, ma di qualche strumento martoriato, l’intero corridoio ne risuonò, tutto l’edificio doveva per forza sentirlo.
"Non gridare", esclamò K. senza potersi trattenere, e mentre guardava teso nella direzione da cui dovevano venire i
fattorini, diede una spinta a Franz, non forte e tuttavia abbastanza forte perché quello, privo di sensi, cadesse giù,
cercando in un crampo il pavimento con le mani; ciò nonostante non sfuggì ai colpi, la verga lo trovò anche per
terra, e mentre Franz si rotolava sotto di essa la sua punta si alzava e si abbassava con regolarità. E già, in lontananza,
compariva un fattorino, e qualche passo dietro di lui un altro. K. aveva chiuso velocemente la porta, si era avvicinato
a una finestra che dava sul cortile e l’aveva aperta. L’urlo era completamente cessato. Per non far avvicinare i fattorini
gridò: "Sono io." "Buona sera, signor procuratore" gli gridarono in risposta. "E’ successo qualcosa?" "No, no",
rispose K., "è solo un cane che abbaia in cortile." Siccome i fattorini non si muovevano, aggiunse: "Potete tornare al
vostro lavoro." Per non doversi mettere a parlare con i fattorini, si affacciò alla finestra. Quando, dopo un attimo,
guardò di nuovo nel corridoio, se n’erano già andati. K. però rimase ancora un po’ alla finestra, non aveva il coraggio
di tornare nel ripostiglio e a casa non aveva voglia di tornare. Ciò che poteva vedere giù era un piccolo cortile
quadrato, tutt’intorno erano disposti gli uffici, in quel momento tutte le finestre erano già buie, solo quelle ai piani
più alti cominciavano a riflettere il chiarore della luna. K. cercò faticosamente di distinguere qualcosa nel buio di un
angolo del cortile, dove alcuni carretti a mano erano ammucchiati uno sull’altro. Si tormentava per non essere
riuscito a impedire la bastonatura, ma se aveva fallito non era colpa sua, se Franz non avesse gridato - certo doveva
aver sentito male, ma in un momento decisivo bisogna dominarsi - se non avesse gridato K., almeno con ogni
probabilità, avrebbe trovato una strada per convincere il bastonatore. Se tutti gli impiegati di grado inferiore erano
gentaglia, perché proprio il bastonatore, che di tutti i compiti aveva quello più disumano, doveva fare eccezione? K.
aveva ben notato come gli luccicassero gli occhi alla vista della banconota, evidentemente faceva mostra di bastonare
sul serio solo per alzare ancora un po’ il prezzo. E K. non avrebbe fatto economia, liberare i sorveglianti gli stava
veramente a cuore: dato che aveva intrapreso a combattere le storture di questo tribunale, era naturale che si desse da
fare anche da questo lato. Ma nel momento in cui Franz aveva cominciato a gridare, tutto naturalmente era finito. K.
non poteva permettere che arrivassero i fattorini e forse chissà chi altri e lo sorprendessero in trattative con quella
gente nel ripostiglio. Un sacrificio del genere da lui non poteva certo pretenderlo nessuno. Se avesse avuto intenzione
di fare una cosa del genere, allora tanto valeva che si fosse spogliato lui stesso e si fosse offerto al bastonatore al
posto dei sorveglianti. E poi, il bastonatore non avrebbe certo accettato un simile scambio, perché in tal modo, senza
ricavarne alcun vantaggio, avrebbe tuttavia gravemente mancato al suo dovere, e anzi forse mancato doppiamente,
perché K., finché durava il procedimento, doveva certo essere intoccabile per tutti i dipendenti del tribunale. E’ vero
che forse, su questo, valevano delle clausole speciali. In ogni caso K. non aveva potuto far altro che chiudere la porta,
anche se con questo neppure per lui ogni pericolo era ancora superato. Inoltre si dispiaceva di aver dato, alla fine, una
spinta a Franz, cosa giustificabile solo per la sua agitazione.

Udì in lontananza i passi dei fattorini; per non dare nell’occhio chiuse la finestra e si avviò verso la scalinata
principale. Passando dalla porta del ripostiglio si arrestò un poco e si mise ad ascoltare. Tutto era in perfetto silenzio.
L’uomo magari poteva aver ammazzato i sorveglianti a forza di bastonate, erano stati abbandonati completamente al
suo potere. K. aveva già allungato la mano verso la maniglia, ma poi la tirò indietro. Non poteva più aiutare nessuno,
e i fattorini potevano venire da un momento all’altro; si ripromise però di discutere ancora la cosa e, per quanto era
in suo potere, di punire come meritavano i veri colpevoli, gli alti funzionari, nessuno dei quali aveva ancora avuto il
coraggio di mostrarglisi apertamente. Scesa la gradinata della banca osservò con attenzione tutti i passanti, ma lì nei
dintorni, e anche un po’ più lontano, non c’era nessuna ragazza che aspettasse qualcuno. L’affermazione di Franz
secondo cui la fidanzata lo stava aspettando si dimostrò una bugia, tuttavia perdonabile, che aveva lo scopo di
risvegliare una maggior compassione.

Anche per tutto il giorno successivo i sorveglianti non gli volevano uscire dalla mente; lavorava distratto e, per venire
a capo del lavoro, dovette trattenersi in ufficio per un tempo ancor maggiore che il giorno prima. Quando,
tornandosene a casa, ripassò davanti al ripostiglio, lo aprì come per abitudine. Si aspettava di vedere il buio; davanti a
ciò che invece vide non seppe mantenere la calma. Tutto era immutato, esattamente come lo aveva trovato il giorno
prima quando aveva aperto la porta. Subito dietro la porta gli stampati e le bottiglie di inchiostro, il bastonatore con
la verga, i sorveglianti ancora completamente vestiti, la candela sullo scaffale, e i sorveglianti che cominciarono a
lamentarsi e gridarono: "Signore!" Subito K. sbatté la porta e ci picchiò anche sopra con i pugni, come se in tal modo
fosse meglio serrata. Quasi piangendo corse dai fattorini, che lavoravano tranquilli alla macchina copiatrice e che
interruppero sbalorditi il loro lavoro. "Quando vi deciderete a sgomberare il ripostiglio?", gridò. "Qui si affonda nella
sporcizia." I fattorini erano disposti a farlo il giorno dopo, K. accennò con il capo, a quest’ora di sera non poteva più
costringerli a fare quel lavoro, come davvero aveva avuto l’intenzione. Per trattenere i fattorini nelle vicinanze per
qualche istante, si sedette un poco, sfogliò alcune delle copie in modo da dare l’impressione, credeva, di controllarle,
poi, quando si rese conto che i fattorini non avrebbero osato andarsene insieme con lui si avviò verso casa, stanco e
come privo di pensieri.
6) Lo zio. Leni

Un pomeriggio, mentre K. era molto occupato, appena prima che chiudesse la posta, passando attraverso due
inservienti che stavano portando dei documenti scritti si infilò nella stanza lo zio di K., Karl, un piccolo proprietario
terriero di campagna. Vedendolo, K. si spaventò meno di quanto si era spaventato un po’ di tempo prima, quando se
ne era immaginato l’arrivo; che lo zio dovesse arrivare K. lo sapeva già di sicuro da circa un mese. Già allora gli
sembrava di vederlo, un po’ curvo, con il cappello di panama schiacciato nella mano sinistra e mentre gli agitava
incontro, già da lontano, la destra, tendendogliela sopra la scrivania con fretta priva di riguardi, rovesciando tutto quel
che c’era in mezzo. Lo zio aveva sempre fretta, perché era perseguitato dall’infelice idea che durante la sua
permanenza nella capitale, che non durava mai più di un giorno, avrebbe potuto sbrigare tutto quello che si era
proposto, senza per di più tralasciare nessun dialogo, o affare, o piacere di cui si offrisse l’occasione. K., che aveva
verso di lui, un tempo il suo tutore, degli obblighi particolari, gli doveva essere d’aiuto in ogni modo possibile, e
inoltre doveva dargli ospitalità per la notte; K. era solito far riferimento allo zio come al "fantasma che viene dalla
campagna".

Subito dopo i saluti - per sedersi in poltrona, come lo invitava a fare K., non aveva tempo - lo zio gli chiese un breve
colloquio a quattr’occhi. "E’ necessario", disse, inghiottendo a fatica, "per la mia tranquillità è necessario." K. mandò
subito via dalla stanza i fattorini con l’ordine di non fare entrare nessuno. "Cosa ho sentito dire in giro, Josef ?"
esclamò lo zio quando furono soli, si sedette sul tavolo e per meglio sedere si mise sotto, senza nemmeno guardarle,
diverse carte. K. tacque, sapeva cosa stava per arrivare, ma, dopo questa improvvisa interruzione della tensione del
lavoro, si abbandonò in un primo tempo a una piacevole stanchezza, e guardò dalla finestra l’altro lato della strada.
Dal punto in cui sedeva poteva vederne solo un pezzetto triangolare, un frammento di muro vuoto fra due vetrine di
negozio. "Stai a guardare dalla finestra", esclamò lo zio alzando le mani, "per l’amor del cielo, Josef, rispondimi. E’
vero, può forse essere vero?" "Mio caro zio", disse K. strappandosi alla sua distrazione, "non so proprio cosa tu mi
chieda." "Josef", disse lo zio col tono di una ammonizione, "per quanto ne so hai sempre detto la verità. Devo
prendere queste tue ultime parole come un cattivo segno?" "Mi immagino a cosa ti riferisci", disse K. docilmente,
"forse hai sentito parlare del mio processo." "Proprio così", rispose lo zio, facendo lentamente un cenno con la testa,
"ho sentito parlare del tuo processo." "E da chi?" chiese K. "Me ne ha scritto Erna", disse lo zio, "è vero che non ha
rapporti con te, purtroppo tu non ti curi molto di lei, ciononostante lei lo ha saputo. Oggi ho ricevuto la lettera, e
naturalmente sono partito subito. Non c’erano altri motivi, ma direi che questo è un motivo sufficiente. Posso
leggerti il passo della lettera che ti riguarda." Estrasse la lettera dal portafoglio. "Eccolo. Scrive così: "Josef non lo
vedo da molto tempo, la settimana scorsa sono stata una volta in banca, ma Josef era tanto occupato che non mi
hanno fatta entrare; ho aspettato per quasi un’ora, ma poi ho dovuto tornare a casa perché avevo lezione di
pianoforte. Avrei parlato volentieri con lui, ma forse ne avremo presto occasione. Per il mio onomastico mi ha
mandato una grande scatola di cioccolata, è stato molto caro e premuroso. Avevo dimenticato di scriverlo allora, solo
adesso che me lo chiedete mi torna in mente. Come saprete, in una pensione la cioccolata sparisce subito, si fa
appena in tempo a rendersi conto che ci hanno regalato della cioccolata che è già sparita. Ma per quanto riguarda
Josef, volevo dirVi anche un’altra cosa: come ho detto, in banca non mi hanno fatta entrare, perché in quel momento
stava trattando con un signore. Dopo che avevo aspettato tranquilla per un po’, ho chiesto a un fattorino se
quell’affare sarebbe durato ancora a lungo. Quello mi disse che poteva ben essere, perché probabilmente stavano
trattando del processo che è stato intentato contro il signor procuratore. Chiesi di che processo si trattava e se forse
non si stava sbagliando, ma lui disse che non sbagliava affatto, che era un processo e anche un processo pesante,
tuttavia non sapeva altro. Lui stesso avrebbe voluto essere d’aiuto al signor procuratore, perché era un signore buono
e giusto, ma non sapeva come fare e poteva solo sperare che persone influenti se ne sarebbero occupate. Cosa che si
sarebbe realizzata senz’altro, e tutto avrebbe avuto un lieto fine, per il momento però, come si poteva dedurre
dall’umore del signor procuratore, le cose non andavano affatto bene. Naturalmente non ho dato molto peso a questi
discorsi, ho anche cercato di tranquillizzare quel fattorino sempliciotto, gli ho proibito di parlarne ad altri e considero
il tutto come un insieme di chiacchiere. Tuttavia sarebbe forse una buona cosa se tu, caro papà, volessi occuparti
della cosa quando verrai la prossima volta, sarà facile per te saperne di più e, se fosse veramente necessario,
intervenire con le tue conoscenze importanti e influenti. Ma se questo non fosse necessario, il che è la cosa più
probabile, sarà se non altro un’occasione per tua figlia di abbracciarti, cosa che la renderà felice." Una brava ragazza",
disse lo zio quando ebbe finito di leggere, asciugandosi qualche lacrima dagli occhi. K. fece un cenno con il capo, per
i diversi fastidi degli ultimi tempi si era completamente dimenticato di Erna, si era scordato persino del suo
compleanno e la storia della cioccolata era stata inventata, evidentemente, solo allo scopo di difenderlo di fronte allo
zio e alla zia. Era una cosa assai commovente, e per compensarla non sarebbero certo bastati i biglietti di teatro che
d’ora in poi aveva intenzione di mandarle; tuttavia, in questo momento, non se la sentiva proprio di passare il tempo
facendo visite in un pensionato a chiacchierare con una piccola ginnasiale di diciassette anni. "E ora cosa dici?"
chiese lo zio, che leggendo aveva dimenticato tutta la sua fretta e la sua agitazione, e sembrava essersi messo a leggere
una seconda volta. "Sì, zio", disse K., "è vero." "Vero?" esclamò lo zio. "Cosa è vero? Come può essere vero? Che
razza di processo? Non sarà un processo penale?" "E’ un processo penale", rispose K. "E tu te ne stai lì tranquillo,
con un processo penale sul collo?" esclamò lo zio, a voce sempre più alta. "Quanto più resto calmo, tanto meglio sarà
per l’esito finale", disse K., stanco. "Non aver paura di nulla." "Questi discorsi non mi possono calmare", esclamò lo
zio, "Josef, caro Josef, pensa a te stesso, ai tuoi parenti, al nostro buon nome. Fino a oggi sei stato il nostro orgoglio,
non puoi diventare la nostra vergogna. Il tuo comportamento", e guardò K. con il capo inclinato di traverso, "non mi
piace, nessun imputato innocente che sia ancora in forze si comporta così. Dimmi alla svelta di che si tratta, in modo
che io ti possa aiutare. Naturalmente riguarda la banca?" "No", disse K. alzandosi, "ma tu, caro zio, parli a voce
troppo alta, è probabile che il fattorino sia lì dietro la porta a origliare. Questo mi dà fastidio. E’ meglio se usciamo,
poi risponderò nel modo migliore a tutte le domande. So bene di dove rendere conto alla famiglia." "Giusto", gridò
lo zio, "molto giusto. Solo fai alla svelta, Josef, fai alla svelta." "Devo solo dare qualche incarico", disse K. e al
telefono chiamò il suo rappresentante, che entrò dopo pochi istanti. Nella sua eccitazione lo zio gli accennò con il
dito che era stato K. a chiamarlo, cosa su cui non ci poteva essere dubbio. K., in piedi davanti alla sua scrivania,
spiegò a voce bassa e con l’aiuto di diversi fogli scritti al giovane, che ascoltava freddo ma attento, ciò che oggi, in sua
assenza, doveva ancora essere sbrigato. Lo zio dava fastidio già rimanendo lì con gli occhi spalancati e mordendosi
nervosamente le labbra, senza d’altronde stare a sentire, ma la semplice apparenza che lo facesse dava già fastidio
abbastanza. Poi cominciò a camminare su e giù nella stanza, fermandosi qua e là davanti alla finestra o a un quadro, e
dando continuamente in diverse esclamazioni del tipo: "Mi è del tutto incomprensibile!" oppure "Ditemi ora come
andrà a finire!" Il giovane fece finta di non accorgersi di nulla, ascoltò tranquillo fino alla fine gli incarichi di K., si
annotò anche qualcosa e se ne andò, dopo un inchino a K. e allo zio, il quale però proprio allora gli voltava le spalle e
guardando fuori dalla finestra stropicciava le tende con le mani tese. Non appena la porta si chiuse lo zio esclamò:
"Finalmente quel burattino se n’è andato, ora possiamo andarcene anche noi. Finalmente!" Purtroppo non ci fu
modo di impedire allo zio di fare domande sul processo neppure nell’atrio, dove giravano impiegati e fattorini e
proprio in quel momento passava anche il vicedirettore. "Allora, Josef", cominciò lo zio, rispondendo con un cenno
agli inchini dei presenti, "ora dimmi chiaro che razza di processo è." K. fece qualche osservazione insignificante, rise
anche un po’, e solo sulla scalinata spiegò allo zio di non aver voluto parlare apertamente davanti alla gente. "Giusto",
disse lo zio, "ora però parla." Lo stava a sentire a capo chino, fumando un sigaro con gesti brevi e veloci. "Prima di
tutto, zio", disse K., "non si tratta di un processo della giustizia ordinaria." "Questo è un male", disse lo zio. "Come
sarebbe a dire?" disse K. alzando lo sguardo su di lui. "Voglio dire che questo è un male", ripeté lo zio. Erano sulla
scalinata esterna che portava alla strada; siccome il portiere aveva l’aria di stare a sentire, K. portò lo zio più in basso;
li accolse il vivace traffico della strada. Lo zio, che aveva preso K. a braccetto, non faceva più domande tanto
insistenti sul processo, e anzi per un po’ di tempo camminarono in silenzio. "Ma come è successo?" chiese alla fine lo
zio, fermandosi tanto all’improvviso che le persone dietro di lui si scansarono spaventate. "Cose del genere non
arrivano tutt’a un tratto, si preparano a lungo, devono esserci stati dei preavvisi, perché non me ne hai scritto? Lo sai
che farei tutto per te, in un certo senso sono ancora il tuo tutore e fino a oggi ne sono andato fiero. Naturalmente
anche adesso ti aiuterò, solo che è molto difficile, ora che il processo è già in moto. In ogni caso la cosa migliore
sarebbe che tu ora ti prendessi una breve vacanza e venissi da noi in campagna. Sei anche un po’ smagrito, me ne
accorgo ora. In campagna tornerai in forze, sarà una cosa buona perché certamente ti aspettano dei momenti difficili.
Inoltre, in un certo senso, sarai con questo sottratto al tribunale. Qui dispongono di tutti i possibili strumenti di
potere, che usano contro di te necessariamente, e anche automaticamente; in campagna invece dovrebbero delegare
degli organi dipendenti o cercare di agire su di te per lettera, telefono o telegrafo. Naturalmente questo indebolisce
l’effetto, certo non ti libera, ma ti dà un po’ di respiro." "Ma potrebbero impedirmi di partire", disse K., che il
discorso dello zio aveva un po’ attirato nella sua logica. "Non credo che lo faranno", disse pensoso lo zio, "la perdita
di potere che subiscono con la tua partenza non è così grande." "Pensavo", disse K. afferrando sotto il braccio lo zio
per impedirgli di arrestarsi, "che tu avresti attribuito al tutto ancor meno importanza di me, e invece la stai
prendendo tanto sul serio." "Josef", esclamò lo zio, e voleva voltarsi verso di lui per fermarsi, ma K. non lo permise,
"tu sei cambiato, hai sempre avuto un senso delle cose tanto preciso, e ora lo hai perduto? Vuoi davvero perdere il
processo? Lo sai cosa significa questo? Significa essere semplicemente cancellati. E che tutta la tua parentela viene
trascinata via con te, o quanto meno umiliata fino alla polvere. Josef, cerca di raccogliere le idee. La tua indifferenza
mi fa perdere la testa. A guardarti si potrebbe credere a quel modo di dire: ‘Avere un tale processo è come averlo già
perso’." "Caro zio", disse K., "agitarsi è del tutto inutile, lo è da parte tua e lo sarebbe anche da parte mia. I processi
non si vincono con l’agitazione, cerca di dar retta un po’ anche alle mie esperienze pratiche, come io ho sempre
rispettato e anche ora rispetto le tue, anche quando mi sorprendono. Se dici che anche la famiglia viene umiliata dal
processo - cosa che da parte mia non riesco a capire, ma questo non conta - allora voglio darti retta in tutto. Ma
proprio dal tuo punto di vista il soggiorno in campagna non mi sembra vantaggioso, perché avrebbe il significato di
una fuga e di una coscienza di colpa. E poi è vero che qui sono più perseguitato, ma posso anche seguire meglio la
faccenda in prima persona." "Questo è vero", disse lo zio come se finalmente ora cominciassero a intendersi, "ho
fatto la proposta solo perché vedevo la cosa messa in pericolo dalla tua indifferenza se tu rimanevi qui, e pensavo
fosse meglio se lavoravo io al posto tuo. Ma se tu intendi impegnarti in prima persona con tutte le tue forze, è
naturalmente molto meglio." "Così su questo saremmo d’accordo", disse K. "E adesso hai da farmi una proposta, su
quale dovrebbe essere il mio primo passo?" "Naturalmente devo ancora pensarci", disse lo zio, "devi riflettere che io
sto in campagna quasi ininterrottamente ormai da vent’anni, e il fiuto per ciò che riguarda queste faccende viene
meno. Diversi rapporti importanti con persone che di queste cose forse si intendono meglio si sono allentati da sé. In
campagna sono un po’ abbandonato, lo sai; ci se ne accorge veramente solo in occasioni del genere. E poi questa tua
cosa mi è giunta in parte inaspettata, anche se, cosa sorprendente, già presentivo qualcosa del genere dopo la lettera
di Erna e, vedendoti, ne ho avuto quasi la certezza. Ma tutto ciò è indifferente, ora la cosa più importante è non
perdere tempo." Già mentre parlava, stando sulla punta dei piedi aveva fatto cenno a un’automobile e ora, gridando
all’autista un indirizzo, contemporaneamente si tirava dietro nell’auto K. "Andiamo ora dall’avvocato Huld", disse,
"era mio compagno di scuola. Certamente di nome lo conosci. No? Strano, però. E’ molto conosciuto come
difensore e avvocato dei poveri. Ma soprattutto io ho grande fiducia in lui come uomo." "Tutto ciò che fai mi va
bene", disse K., anche se provava disagio per questo modo frettoloso e urgente con cui lo zio affrontava la cosa. Non
era molto piacevole andare come imputato da un avvocato dei poveri. "Non sapevo", disse, "che in una faccenda del
genere si potesse tirare in ballo anche un avvocato." "Ma naturale che si può", disse lo zio, "è una cosa ovvia. Perché
no? Ma ora raccontami tutto quello che è successo finora, perché io sia ben informato della questione." K. cominciò
subito a raccontare senza tacere nulla, la sua completa sincerità era l’unica protesta che si potesse permettere contro
l’opinione dello zio, secondo la quale il processo era una grande vergogna. Solo una volta, e di sfuggita, fece il nome
della signorina Bürstner, ma questo non comprometteva in alcun modo la sua sincerità, perché la signorina Bürstner
non aveva con il processo alcun rapporto. Raccontando guardava dal finestrino, e osservò che si stavano avvicinando
proprio a quella periferia dove si trovavano le cancellerie; lo fece notare allo zio, il quale però non trovò
particolarmente interessante quella coincidenza. L’automobile si fermò davanti a una casa scura. Appena sul
pianerottolo, lo zio suonò alla prima porta; mentre aspettavano, digrignò in un sorriso i suoi grossi denti e sussurrò:
"Le otto, un orario inconsueto per ricevere le parti. Ma Huld non me ne vorrà." Allo sportellino della porta
comparvero due grandi occhi neri, che guardarono per un attimo i due ospiti e scomparvero; ma la porta non si aprì.
Lo zio e K. si confermarono a vicenda di avere effettivamente visto i due occhi. "Una nuova domestica, che si
spaventa davanti agli estranei", disse lo zio, e bussò di nuovo. Gli occhi riapparvero, ora sembravano avere
un’espressione triste, ma forse era un’apparenza dovuta alla lampada a gas aperta che poco sopra le loro teste
bruciava stridendo forte, senza fare molta luce. "Apra", gridò lo zio picchiando con il pugno contro la porta, "siamo
amici del signor avvocato." "Il signor avvocato è malato", sussurrò qualcuno dietro di loro. Su una porta all’estremo
opposto del piccolo corridoio c’era un signore in vestaglia che fece questa comunicazione a voce estremamente
bassa. Lo zio, già furioso per la lunga attesa, si voltò di scatto e gridò: "Malato? Lei dice che è malato?" e quasi
minaccioso gli si avvicinò come se quel signore fosse la malattia in persona. "Hanno già aperto", disse il signore,
indicò la porta dell’avvocato, si strinse nella vestaglia e scomparve. La porta era stata aperta davvero, una giovane
ragazza - K. riconobbe gli occhi di prima, scuri e un po’ sporgenti - stava in anticamera in un lungo grembiule bianco
e teneva in mano una candela. "La prossima volta apra più alla svelta", disse lo zio a mo’ di saluto, mentre la ragazza
faceva una piccola riverenza. "Vieni, Josef", disse poi lo zio a K., che scivolò lentamente accanto alla ragazza. "Il
signor avvocato è malato", disse la ragazza, poiché lo zio, senza trattenersi, stava già affrettandosi verso una porta. K.
guardò di nuovo la ragazza con stupore mentre questa si era già voltata per richiudere la porta; aveva il volto rotondo
come quello di una bambola, a essere arrotondate erano non solo le guance pallide e il mento, ma anche le tempie e i
limiti della fronte. "Josef", esclamò di nuovo lo zio, e chiese alla ragazza: "E’ il mal di cuore?" "Credo di sì", disse lei,
aveva trovato il tempo di avvicinarsi con la candela e di aprire la porta della stanza. In un angolo, dove la luce della
candela ancora non arrivava, si sollevò dal letto un volto con la barba lunga. "Leni, chi è che viene?", domandò
l’avvocato, che, accecato dalla candela, non aveva ancora riconosciuto gli ospiti. "Sono Albert, il tuo vecchio amico",
disse lo zio. "Ah, Albert", disse l’avvocato lasciandosi ricadere sui cuscini, come se per questa visita non avesse
bisogno di dissimulare. "Siamo davvero messi così male?" chiese lo zio sedendosi sul bordo del letto. "Non ci credo.
E’ uno dei tuoi attacchi di cuore e passerà come i precedenti." "Può darsi", disse piano l’avvocato, "ma è il peggiore
di tutti. Respiro male, non dormo affatto e perdo forze giorno dopo giorno." "Beh", disse lo zio calcandosi sul
ginocchio il cappello di panama con la sua grossa mano, "queste sono cattive notizie. Ma poi, sei curato a dovere?
Qui è così triste, così buio. E’ passato molto tempo da quando sono venuto l’ultima volta, allora mi sembrava più
accogliente. Anche la tua piccola signorina qui non mi sembra tanto allegra, a meno che non sia una posa." La
ragazza stava ancora sulla soglia con la candela in mano, per quanto si poteva giudicare dal suo sguardo indefinito
sembrava guardare più K. che lo zio, anche quando quest’ultimo parlava di lei. K. stava appoggiato a una sedia che
aveva spinto vicino alla signorina. "Quando si è malati come me si ha bisogno di tranquillità", disse l’avvocato, "a me
non sembra triste." Dopo una piccola pausa aggiunse: "E Leni ha cura di me, è una brava ragazza." Questo però non
poteva convincere lo zio che evidentemente aveva dei pregiudizi contro l’infermiera, e anche se ora non contraddisse
il malato tuttavia la seguì con uno sguardo severo mentre si avvicinava al letto, posava la candela sul comodino, si
chinava sul malato e gli sussurrava qualcosa accomodando i cuscini. Quasi dimenticò il rispetto verso il malato, si
alzò, cominciò a camminare su e giù dietro l’infermiera e K. non si sarebbe stupito se lo zio l’avesse afferrata dietro
per la gonna e l’avesse trascinata via dal letto. K. poi guardava tutto con calma, la malattia dell’avvocato non gli era
neppure del tutto sgradita; non aveva potuto opporsi alla premura che lo zio mostrava per la sua questione, ma
accettava volentieri la dilazione che questa premura, senza il suo intervento, doveva ora subire. Forse solo per
offendere l’infermiera, lo zio disse: "Signorina, la prego, voglia lasciarci un po’ soli, devo discutere con il mio amico
di una questione personale." L’infermiera era ancora china sul malato e proprio allora stava spianando il lenzuolo
contro il muro; volse appena il capo e disse con grande calma, in stridente contrasto con la voce dello zio, prima
interrotta dalla rabbia e poi di nuovo precipitosa: "Lo vede anche lei, il signore è tanto malato, non è in grado di
discutere questioni di sorta." Probabilmente aveva ripetuto le parole dello zio solo per comodità, ad ogni modo
anche una persona imparziale avrebbe inteso la risposta come sarcastica; lo zio naturalmente saltò su come punto sul
vivo. "Maledetta" disse, con parole rese ancora del tutto incomprensibili dal primo balbettio della collera. K. si
spaventò, anche se si era aspettato qualcosa del genere, e corse verso lo zio con la determinata intenzione di
chiudergli la bocca con entrambe le mani. Per fortuna però dietro la ragazza si sollevò il malato, lo zio fece una faccia
scura come se inghiottisse qualcosa di ripugnante e poi, più calmo, disse: "Naturalmente non abbiamo ancora perso il
cervello; se ciò che chiedo non fosse una cosa possibile non l’avrei neppure chiesto. E ora per favore se ne vada."
L’infermiera stava dritta vicino al letto, completamente rivolta verso lo zio, e con una mano, come K. credette di
vedere, accarezzava la mano dell’avvocato. "Davanti a Leni puoi parlare liberamente", disse il malato, in un tono che
era senz’altro quello di una ardente richiesta. "Non è una cosa che riguarda me", disse lo zio, "non è un segreto mio."
E si voltò come se non volesse più farne nulla, ma concedesse ancora un po’ di tempo per riflettere. "E allora chi
riguarda?" chiese l’avvocato con la voce che si spegneva, sdraiandosi di nuovo. "Mio nipote", disse lo zio, "l’ho anche
portato con me." E lo presentò: "Il procuratore Josef K." "Oh", disse il malato, molto più vivace, e tese la mano a
K., "mi perdoni, non l’avevo neppure notata. Vai pure, Leni", disse poi all’infermiera, che non si oppose più, e le
diede la mano come se si accomiatasse per un lungo tempo. "Allora", disse infine allo zio, che a sua volta,
riconciliato, si era avvicinato, "non sei venuto a far visita a un malato, ma vieni per affari." Era come se l’idea della
visita a un malato lo avesse finora impacciato tanto sembrava ora più in forze, stava continuamente appoggiato su un
gomito, il che doveva essere particolarmente impegnativo, e continuava a tirare una ciocca nel mezzo della barba.
"Hai un’aria molto più sana", disse lo zio, "da quando quella strega è fuori." Si interruppe, e sussurrò: "Scommetto
che sta origliando" e corse alla porta. Ma dietro la porta non c’era nessuno, lo zio tornò indietro non deluso, ma
amareggiato, perché il fatto che la ragazza non origliasse gli sembrava una malvagità ancor peggiore. "La giudichi
male", disse l’avvocato, senza difendere oltre l’infermiera; forse con questo voleva far capire che non aveva bisogno
di difesa. Ma con un tono molto più partecipato continuò: "Per ciò che riguarda la faccenda di tuo nipote, mi riterrei
comunque felice se le mie energie potessero bastare per questo compito di estrema difficoltà; ho una gran paura che
non siano sufficienti, in ogni caso non voglio lasciare nulla di intentato; se io non dovessi bastare si potrà certo
coinvolgere qualcun altro. Per essere sincero, la cosa mi interessa troppo perché io possa convincermi a rinunciare del
tutto. Se il mio cuore non ce la fa, almeno troverà qui una degna occasione per fermarsi del tutto." K. credette di non
capire nulla in tutto questo discorso, guardò lo zio per ricavarne una spiegazione, ma quello se ne stava seduto con la
candela in mano sopra il comodino, dal quale era già rotolata sul tappeto una bottiglietta di medicinale, faceva cenno
con il capo a tutto ciò che l’avvocato diceva, era d’accordo su tutto e ogni tanto guardava K. per invitarlo a un
analogo consenso. Forse lo zio aveva già parlato del processo all’avvocato, ma questo era impossibile, tutto ciò che
era successo prima andava contro questa ipotesi. Disse perciò: "Io non capisco..." "Sì, forse l’ho capita male?" chiese
l’avvocato, altrettanto stupito e imbarazzato quanto K. "Forse ho avuto troppa fretta. Di cosa voleva parlare con me?
Pensavo che si trattasse del suo processo, no?" "Naturalmente", disse lo zio, e poi chiese a K.: "Allora, cosa vuoi?"
"Sì, ma come fa lei a sapere qualcosa di me e del mio processo?" chiese K. "Ah, ecco", disse l’avvocato sorridendo,
"in fin dei conti io sono avvocato, giro nei circoli dei tribunali, si parla di diversi processi e quelli più clamorosi,
specie se riguardano il nipote di un amico, restano nella memoria. Non c’è niente di strano." "Allora, cosa vuoi?"
chiese di nuovo lo zio a K., "sei così inquieto." "Lei frequenta questi circoli del tribunale?" chiese K. "Sì", disse
l’avvocato. "Fai domande come un bambino", disse lo zio. "Chi dovrei frequentare se non gente del mio ramo?"
aggiunse l’avvocato. Sembrava una cosa tanto incontestabile che K. non rispose neppure. Avrebbe voluto dire: "Ma
lei lavora nel tribunale al palazzo di giustizia, non in quello nella soffitta", ma non ebbe la forza di costringersi a dirlo
davvero. "Lei deve pensare", continuò l’avvocato come se chiarisse qualcosa di ovvio, di superfluo e secondario, "lei
deve pensare che da queste frequentazioni io traggo anche grandi vantaggi per i miei clienti, e sotto molti punti di
vista, di cui non è il caso di parlare. Naturalmente ora per la mia malattia sono un po’ impedito, ma ciononostante
ricevo sempre la visita di qualche buon amico del tribunale e così vengo a sapere qualcosa. E forse vengo a sapere di
più di qualcun altro in buona salute, che passa giornate intere in tribunale. Così, ad esempio, proprio ora ho qui una
gradita visita." E indicò un angolo buio della stanza. "Ma dove?" chiese K., quasi scortese per l’improvviso stupore.
Incerto, si guardò intorno; la luce della piccola candela era di gran lunga troppo scarsa per raggiungere la parete
opposta. E veramente, là nell’angolo, qualcosa cominciò a muoversi. Alla luce della candela che ora lo zio aveva
sollevato, si vide laggiù un uomo anziano seduto a un piccolo tavolino. Si sarebbe detto che avesse trattenuto il
respiro per rimanere inosservato tanto a lungo. Ora si alzò con aria cerimoniosa, evidentemente scontento che si
fosse attirata l’attenzione su di lui. Sembrava che con le mani, che agitava come se fossero piccole ali, respingesse
ogni presentazione e ogni saluto, come se non volesse in alcun modo disturbare gli altri con la sua presenza e
chiedesse subito di essere rimesso al buio, e che ci si dimenticasse della sua presenza. Ma ormai questo non si poteva
più concederlo. "In effetti voi ci avete colto di sorpresa", disse l’avvocato a mo’ di spiegazione e fece all’uomo un
cenno di incoraggiamento per farlo avvicinare, cosa che quello fece lentamente, guardandosi intorno esitante e
tuttavia con una certa dignità, "il signor direttore delle cancellerie - ah, scusate, non ho fatto le presentazioni, questo
è il mio amico Albert K., questo è suo nipote il procuratore Josef K. e questo è il signor direttore delle cancellerie - il
signor direttore delle cancellerie è stato tanto gentile da venirmi a trovare. Il valore di una tale visita può apprezzarlo
veramente solo uno dell’ambiente, che sa quanto il signor direttore delle cancellerie sia oberato di lavoro. Ma
ciononostante è venuto, abbiamo chiacchierato in pace per quanto lo permetteva la mia debolezza, certo non
avevamo proibito a Leni di far passare visite, dato che non ne aspettavo, ma la nostra intenzione era di rimanere soli,
poi però, Albert, ci sono stati i tuoi pugni sulla porta, il signor direttore delle cancellerie è scivolato nell’angolo con la
sedia e il tavolo; ora però è evidente che forse, voglio dire se lo si desidera, abbiamo da discutere una questione in
comune, e sarebbe quindi un’ottima cosa riavvicinarsi. Signor direttore delle cancellerie", disse chinando il capo e con
un sorriso sottomesso, mentre indicava una poltrona vicino al letto. "Purtroppo posso rimanere solo pochi minuti",
disse cordiale il direttore delle cancellerie, si accomodò per bene nella poltrona e guardò l’orologio, "gli affari mi
chiamano. Comunque non voglio perdere l’occasione di conoscere l’amico di un mio amico." Chinò leggermente il
capo verso lo zio, che sembrava molto soddisfatto della nuova conoscenza, ma che per sua natura non riusciva a
esprimere sentimenti di sottomesso rispetto e accompagnò le parole del direttore delle cancellerie con una risata
imbarazzata ma sonora. Uno spettacolo sgradevole! K. poteva osservare tutto con calma perché nessuno si occupava
di lui, il direttore delle cancellerie, come sembrava sua abitudine, poiché ormai era stato coinvolto prese su di sé la
conduzione del discorso, l’avvocato, la cui iniziale debolezza aveva forse avuto la funzione di mandar via quella
nuova visita, ascoltava con attenzione, la mano all’orecchio; lo zio, che faceva da portacandela - si dondolava la
candela sulla coscia e l’avvocato ogni tanto lo guardava preoccupato - si era liberato alla svelta del suo imbarazzo e
ormai era solo affascinato dal modo di parlare del direttore delle cancellerie e dai movimenti morbidi e ondulati della
mano con cui quello accompagnava il discorso. K., appoggiato agli stipiti del letto, era, forse intenzionalmente, del
tutto ignorato dal direttore delle cancellerie e serviva al vecchio signore solo come spettatore. D’altronde non sapeva
quasi nulla di ciò di cui quello parlava e pensava all’infermiera e al cattivo trattamento che aveva ricevuto dallo zio,
oppure si chiedeva se lui stesso non aveva già visto in precedenza il direttore delle cancellerie, magari nel corso della
riunione al primo interrogatorio. Anche se forse si ingannava, comunque il direttore delle cancellerie sarebbe stato
benissimo fra i partecipanti alla riunione in prima fila, i vecchi signori con la barba rada.

In quel momento un rumore dall’anticamera come di porcellana rotta fece rimanere tutti in ascolto. "Voglio andare a
vedere che cosa è successo", disse K. e uscì lentamente, come per dare agli altri ancora una possibilità di trattenerlo.
Appena fu in anticamera, mentre cercava di orientarsi nel buio, sulla mano con cui ancora teneva la porta si posò una
piccola mano, molto più piccola della mano di K., e chiuse piano la porta. Era l’infermiera, che aveva aspettato qui.
"Non è successo nulla", sussurrò, "ho solo tirato un piatto contro il muro per farla uscire." Nel suo imbarazzo K.
disse: "Anch’io ho pensato a lei." "Tanto meglio", disse l’infermiera. "Venga." Dopo qualche passo arrivarono a una
porta di vetro opaco, che l’infermiera aprì davanti a K. "Entri pure", disse. Era certo lo studio dell’avvocato; per
quanto si poteva vedere alla luce della luna, che ora rischiarava forte solo un piccolo quadrato di pavimento da
ognuna delle due grandi finestre, esso era arredato con vecchi mobili pesanti. "Qui", disse l’infermiera e indicò una
cassapanca scura con uno schienale di legno intagliato. Quando si fu seduto K. si guardò intorno nella stanza, era una
stanza grande e alta, in un luogo così la clientela di un avvocato dei poveri si sentiva certo sperduta. K. credette di
vedere i piccoli passi con cui i visitatori si avvicinavano alla possente scrivania. Ma poi non ci pensò più e aveva occhi
solo per l’infermiera, che sedeva attaccata a lui e quasi lo schiacciava contro il bracciolo. "Pensavo", disse lei, "che
sarebbe uscito da me senza che io la dovessi prima chiamare. E’ proprio una cosa strana. Prima mi guarda fin da
quando entra, ininterrottamente, e poi mi fa aspettare. Tra l’altro, mi chiami Leni", aggiunse poi veloce e immediata,
come se, nel dirlo, non dovesse perdere neppure un istante. "Volentieri", disse K. "Ma per quel che riguarda la
stranezza, Leni, si spiega facilmente. Prima di tutto dovevo stare a sentire le chiacchiere del vecchio e non potevo
svignarmela senza motivo, e poi io non sono spavaldo, ma anzi piuttosto timido, e a dire il vero lei stessa, Leni, non
aveva l’aria di potersi conquistare in un baleno." "Le cose non stanno così", disse Leni, appoggiò il braccio sullo
schienale e guardò K., "invece io non le piacevo e forse non le piaccio neppure ora." "Piacere non sarebbe una gran
cosa", disse K. evasivo. "Oh!" disse lei sorridendo, acquisendo una certa superiorità per l’osservazione di K. e per la
propria piccola esclamazione. K., quindi, tacque un attimo. Adesso, ormai abituato al buio della stanza, poteva
distinguere parecchi dettagli dell’arredamento. Soprattutto gli piaceva un grande quadro appeso a destra della porta, e
si chinò per osservarlo meglio. Rappresentava un uomo in toga da giudice; era seduto su un alto seggio, la cui
doratura spiccava in diversi punti. La cosa straordinaria era che questo giudice non se ne stava seduto calmo e
dignitoso, ma premeva il braccio sinistro contro lo schienale e il bracciolo, mentre il braccio destro era del tutto
libero e afferrava il bracciolo solo con la mano destra, come se fosse sul punto di saltar su con un movimento
violento e forse collerico per dire qualcosa di decisivo, o forse addirittura per annunciare il verdetto. L’imputato lo si
poteva ben immaginare ai piedi della scala i cui gradini più alti, coperti da un tappeto giallo, erano ancora visibili.
"Forse è questo il mio giudice" disse K. indicando il quadro con un dito. "Lo conosco", disse Leni, guardando anche
lei il quadro, "viene spesso qui. Il quadro è stato fatto quando era giovane, ma non è possibile che sia mai stato simile
a come è rappresentato, perché è piccolo e quasi striminzito. Ciononostante nel quadro si è fatto così ingrandire
perché è vanitoso in modo insensato, come tutti qui. Anch’io però sono vanitosa e molto scontenta di non piacerle
per nulla." K. rispose a quest’ultima osservazione semplicemente abbracciando Leni e tirandola a sé, lei appoggiò
silenziosa il capo sulla sua spalla. Per il resto invece disse: "Che grado ha?" "E’ giudice istruttore", disse lei, e prese la
mano con cui K. la teneva abbracciata cominciando a giocare con le sue dita. "Sempre giudici istruttori", disse K.
deluso, "gli alti funzionari si nascondono. Però sta seduto su un seggio." "E’ tutta un’invenzione", disse Leni,
chinando il viso sulla mano di K., "in realtà sta seduto su una sedia da cucina con sopra, piegata, una vecchia coperta
da cavalli. Ma lei, deve proprio pensare sempre al suo processo?" aggiunse lentamente. "Ma no, niente affatto", disse
K., "anzi, forse ci penso troppo poco." "Non è questo il suo errore", disse Leni, "invece ho sentito dire che lei è
troppo inflessibile." "Chi lo ha detto?" chiese K., sentiva il corpo di lei contro il suo petto e guardava in basso i suoi
folti capelli neri, stretti nella pettinatura. "Tradirei troppe cose, se lo dicessi", rispose Leni. "La prego, non mi chieda
dei nomi, piuttosto corregga il suo errore, non sia più così inflessibile, contro questo tribunale non si può opporre
resistenza, bisogna confessare. Alla prima occasione, confessi. Solo allora c’è la possibilità di farla franca, solo allora.
E tuttavia anche questo non è possibile senza un aiuto esterno, ma per questo aiuto lei non si deve preoccupare,
glielo darò io stessa." "Lei è un’esperta di questo tribunale e degli inganni che qui sono necessari", disse K., e siccome
lei si premeva troppo forte contro di lui, la sollevò sulle sue ginocchia. "Ora va bene", disse Leni e si raddrizzò sulle
ginocchia di K., stirandosi la gonna e aggiustandosi la camicetta. Poi si aggrappò al suo collo con entrambe le mani,
si appoggiò all’indietro e lo guardò a lungo. "E se io non confesso, lei non potrà aiutarmi?" chiese K. facendo un
tentativo. Mi sto cercando delle aiutanti, pensò quasi meravigliato, prima la signorina Bürstner, poi la moglie del
portiere del tribunale, e infine questa piccola infermiera, che sembra avere un incomprensibile bisogno di me. Come
se ne sta seduta sulle mie ginocchia, quasi che fosse l’unico posto giusto per lei! "No", rispose Leni scuotendo
lentamente il capo, "in tal caso non la potrei aiutare. Ma lei non vuole affatto il mio aiuto, non gliene importa nulla,
lei è ostinato e non si lascia convincere." Dopo una pausa chiese: "Lei ha un’innamorata?" "No", rispose K. "Ma no",
disse lei. "Sì, è vero", disse K., "pensi, l’ho lasciata e ciononostante mi porto dietro la sua fotografia." Su richiesta di
Leni le mostrò una fotografia di Elsa, curva sulle sue ginocchia studiò la figura. Era un’istantanea, Elsa era stata
ritratta dopo un giro di danza di quelli che faceva volentieri nell’osteria, la gonna era ancora in aria intorno a lei
nell’impeto della giravolta, aveva le mani sui fianchi e rideva tendendo il collo di lato; dalla foto non si riusciva a
vedere chi fosse il destinatario della sua risata. "E’ tutta stretta dai lacci in vita", disse Leni mostrando il punto dove,
secondo lei, questo era più visibile. "Non mi piace, è goffa e volgare. Ma forse nei suoi confronti è tenera e gentile,
dalla foto si potrebbe trarre questa conclusione. Spesso queste ragazze grosse e forti non sanno essere altro che
tenere e gentili. Ma sarebbe disposta a sacrificarsi per lei?" "No", disse K., "non è tenera né cordiale, e non sarebbe
disposta a sacrificarsi per me. Né finora le ho chiesto l’una o l’altra cosa. Anzi non ho neppure guardato la foto con
tanta attenzione quanto lei." "Allora non le importa molto di lei", disse Leni, "allora non è la sua innamorata." "Lo
è", disse K. "Non mi rimangio la parola." "Però anche se ora è la sua fidanzata", disse Leni, "lei non ne sentirebbe
tanto la mancanza se la perdesse, o se la scambiasse con qualcun’altra, ad esempio con me." "Certo", disse K. con un
sorriso, "ci si potrebbe pensare, tuttavia ha un grande vantaggio nei suoi confronti, non sa niente del mio processo, e
anche se ne sapesse qualcosa non ci penserebbe. Non cercherebbe di convincermi a essere flessibile." "Questo non è
un vantaggio", disse Leni. "Se non ha altri vantaggi, non mi perdo d’animo. Ha difetti fisici?" "Difetti fisici?" chiese
K. "Sì", disse Leni, "in effetti io ne ho uno piccolo, guardi." Allargò il medio e l’anulare della mano destra, fra i quali
la pelle di collegamento raggiungeva quasi l’ultima falange delle piccole dita. Nel buio K. non capì subito cosa lei gli
volesse mostrare, così Leni gli guidò la mano sul punto perché lo potesse tastare. "Uno scherzo di natura", disse K., e
quando vide l’intera mano aggiunse: "Che grazioso artiglio!" Con una specie di orgoglio Leni osservò come K.
stupito continuava ad allargare e riavvicinare le due dita, finché alla fine le baciò di sfuggita e le lasciò. "Oh!" esclamò
però lei subito, "lei mi ha baciata!" In fretta e con la bocca aperta si arrampicò con le ginocchia su di lui, K. la guardò
quasi sconvolto, ora che gli era così vicina saliva da lei un odore amaro ed eccitante come di pepe, lei strinse a sé la
sua testa, si piegò su di lui, mordendolo e baciandolo sul collo, e mordendo anche i suoi capelli. "Ha fatto cambio
con me", esclamava ogni tanto, "ecco, ora lei ha fatto cambio con me!" In quel momento il ginocchio le scivolò, con
un gridolino cadde quasi sul tappeto, K. la afferrò per trattenerla e fu trascinato giù da lei. "Ora mi appartieni", disse
lei.

"Tieni la chiave di casa, vieni quando vuoi", furono le sue ultime parole e anche mentre se ne andava un bacio senza
meta lo raggiunse sulla schiena. Quando uscì dal portone cadeva una leggera pioggia, K. voleva andare in mezzo alla
strada per poter forse vedere ancora Leni alla finestra; in quel momento, da un’automobile che aspettava davanti alla
casa e che K., nella sua distrazione, non aveva notato, balzò fuori lo zio, lo afferrò per un braccio e lo schiacciò
contro il portone, come se volesse inchiodarvelo. "Ragazzo", gridò, "come hai potuto fare una cosa del genere! Hai
procurato un danno terribile alla tua causa, che si era messa su una buona strada. Strisci via con una piccola sporca
sgualdrina, che oltre tutto è evidentemente l’amante dell’avvocato, e te ne stai via per ore. Non cerchi nemmeno una
scusa, non nascondi niente, no, fai tutto apertamente, corri da lei e da lei rimani. E nel frattempo noi siamo lì seduti
insieme, lo zio che si dà da fare per te, l’avvocato che deve essere guadagnato alla tua causa, e soprattutto il direttore
delle cancellerie, questo gran signore, che sulla tua causa, nel suo stadio attuale, ha potere assoluto. Vogliamo
consigliarci come venirti in aiuto, io devo trattare con cautela l’avvocato e questi a sua volta il direttore delle
cancellerie, e dunque tu avresti ogni motivo per lo meno di sostenermi. Invece te ne stai fuori. Alla fine la cosa non
può più essere dissimulata, certo sono uomini cortesi e di mondo, non fanno commenti, mi risparmiano, alla fine
però anche loro non possono più contenersi, e siccome non possono parlare della questione tacciono. Siamo stati lì
seduti per minuti interi in silenzio, ad ascoltare se alla fine saresti venuto. Tutto inutile. Infine il direttore delle
cancellerie, che si è trattenuto assai più a lungo di quanto intendeva all’inizio, si alza, si congeda, visibilmente mi
compatisce senza potermi aiutare, con incomprensibile amabilità aspetta ancora un po’ sulla porta, poi se ne va.
Naturalmente io ero contento che se ne fosse andato, ormai non avevo più aria per respirare. Il tutto ha avuto un
effetto ancor peggiore sull’avvocato, il brav’uomo non poteva neppure parlare quando mi sono congedato da lui. E’
probabile che tu abbia contribuito alla sua definitiva rovina, e acceleri così la morte di un uomo che è il tuo unico
aiuto. E me, tuo zio, mi lasci qui sotto la pioggia - sentimi, sono tutto bagnato - ad aspettare per ore e ore."
7) Avvocato. Direttore di fabbrica. Pittore

Un mattino d’inverno - fuori, nella luce torbida, cadeva la neve - K. sedeva nel suo ufficio, già stanchissimo, benché
fosse così presto. Per difendersi almeno dagli impiegati di grado inferiore, aveva ordinato al portiere di non far
entrare nessuno perché era occupato con un lavoro più impegnativo del solito; ma invece di lavorare si rigirava sulla
sedia, spostava lentamente alcuni oggetti sul tavolo e poi, senza accorgersene, abbandonava sulla scrivania il braccio
disteso e rimaneva seduto immobile, con il capo chino.

Il pensiero del processo non lo abbandonava più. Già diverse volte si era chiesto se non sarebbe stato bene elaborare
un memoriale di difesa e consegnarlo al tribunale. Nel memoriale voleva presentare una breve esposizione della sua
vita, chiarendo, per ogni evento che fosse in qualche modo più importante, per quali motivi si era comportato così,
se tale condotta, in base al suo giudizio attuale, era censurabile o giustificata e quali motivazioni poteva addurre per
questo o per quello. Non c’era dubbio che un tale memoriale presentasse dei vantaggi rispetto alla semplice difesa ad
opera dell’avvocato, il quale tra l’altro non era neppure lui un individuo senza macchia. K. non sapeva nulla delle
iniziative dell’avvocato; comunque non erano gran cosa, già da un mese non si faceva più vivo e d’altronde in
nessuno dei colloqui precedenti K. aveva ricevuto l’impressione che quest’uomo potesse ottenere molto per lui.
Prima di tutto, non lo aveva quasi interrogato; e qui c’erano invece tante domande da fare, le domande erano la cosa
principale. K. aveva l’impressione che lui stesso sarebbe stato in grado di porre tutte le domande adeguate al caso.
L’avvocato invece, anziché domandare, si metteva lui a raccontare, oppure gli sedeva davanti in silenzio, si chinava un
po’ sulla scrivania, probabilmente perché debole di orecchio, poi si tirava una ciocca della barba e abbassava lo
sguardo sul tappeto, forse proprio sul punto dove K. era stato con Leni. Ogni tanto dava a K. qualche vuoto
ammonimento, come se ne danno ai bambini. Erano chiacchiere tanto inutili quanto noiose, per le quali K. si
riprometteva di non pagare neppure un centesimo al conto finale. Quando l’avvocato riteneva di averlo umiliato
abbastanza, di solito ricominciava a incoraggiarlo un po’. Allora raccontava di avere già vinto, in tutto o in parte,
molti processi del genere, processi che, anche se in realtà non erano difficili come il suo, tuttavia sembravano
esteriormente ancor più disperati. Qui nel cassetto aveva una lista di questi processi - e così dicendo bussava su un
qualche cassetto della scrivania - ma purtroppo non poteva fargli vedere le carte perché si trattava di segreti
professionali. Tuttavia ora, naturalmente, la grande esperienza che si era procurato in tutti questi processi tornava a
vantaggio di K. Naturalmente aveva cominciato a lavorare subito, e ormai il primo ricorso era quasi pronto. Questo
era molto importante, perché spesso la prima impressione della difesa definiva tutta la direzione del procedimento.
Purtroppo, e questo doveva comunque farlo notare a K., spesso avveniva che in tribunale i primi ricorsi non fossero
neppure letti. Venivano semplicemente allegati agli atti, affermando che per il momento l’interrogatorio e la
sorveglianza dell’imputato erano più importanti di ogni documento scritto. Se il ricorrente metteva fretta, si
aggiungeva che prima della decisione, una volta raccolto tutto il materiale, naturalmente tutti gli atti, e dunque anche
questo primo ricorso, sarebbero stati vagliati. Purtroppo nella maggior parte dei casi neppure questo era giusto, il
primo ricorso di solito andava in un posto sbagliato oppure veniva perso del tutto, e anche se si conservava fino alla
fine veniva letto a malapena, cosa questa che però l’avvocato aveva appreso solo da voci che giravano. Tutto ciò era
spiacevole, ma non del tutto ingiustificato, K. non poteva trascurare il fatto che il procedimento non era pubblico,
avrebbe potuto diventarlo qualora il tribunale lo ritenesse necessario, ma la legge non lo prescriveva. In conseguenza
di ciò anche i documenti del tribunale, e soprattutto l’atto di accusa, erano inaccessibili all’imputato e alla sua difesa,
quindi in generale non si sapeva, per lo meno non si sapeva di preciso, contro cosa indirizzare il primo ricorso, e così
a dire il vero solo per caso questo poteva contenere qualcosa che avesse significato per la questione. Ricorsi
veramente idonei e documentati si potevano elaborare solo in un secondo momento, quando nel corso degli
interrogatori dell’imputato i singoli punti d’accusa e le relative motivazioni diventassero più chiari o potessero essere
indovinati. In queste condizioni, naturalmente, la difesa era in una posizione molto sfavorevole e difficile. Ma anche
questo era intenzionale. In effetti secondo la legge la difesa non era ad esser precisi consentita, ma solo tollerata, e
anche su questo, se cioè il relativo passo della legge ammettesse almeno questa tolleranza, le opinioni erano divise. A
rigor di termini quindi non c’erano avvocati riconosciuti dal tribunale, ma tutti quelli che si presentavano davanti a
questo tribunale come avvocati erano in fondo solo degli azzeccagarbugli. Naturalmente ciò influiva in maniera
degradante sull’intera categoria, e se in futuro K. fosse andato un giorno nelle cancellerie del tribunale avrebbe
potuto dare un’occhiata, tanto per vedere anche questo, alla stanza degli avvocati. Era da supporre che, davanti a una
simile combriccola, si sarebbe spaventato. Già la stanzetta stretta e bassa a loro riservata dimostrava il disprezzo che
il tribunale nutriva per questa gente. La stanzetta era illuminata da un piccolo oblò messo tanto in alto che se
qualcuno voleva guardar fuori, doveva prima cercarsi un collega che lo prendesse sulla schiena, e d’altronde nel far
ciò il fumo di un camino messo proprio lì davanti gli sarebbe entrato nel naso e gli avrebbe tinto di nero la faccia.
Nel pavimento di questa stanzetta - tanto per fare un esempio delle condizioni in cui versava - già da più di un anno
c’era un buco, non tanto grande da far passare un uomo, ma abbastanza grande da farci entrar dentro una gamba
intera. La stanza degli avvocati era sulla seconda soffitta, così se uno cascava nel buco la sua gamba avrebbe
spenzolato sulla prima soffitta, e proprio sul corridoio dove le parti in causa erano in attesa. Fra gli avvocati questa
situazione era definita a dir poco scandalosa. Le lamentele all’amministrazione non avevano il minimo esito, e anzi
era severamente vietato agli avvocati cambiare alcunché nella stanza, sia pure a proprie spese. Ma anche questo modo
di trattare gli avvocati aveva la sua giustificazione. Si intendeva scoraggiare il più possibile la difesa, tutto doveva
essere messo nelle mani dell’imputato in prima persona. Questo, in fin dei conti, non era un punto di vista sbagliato,
ma niente sarebbe stato più erroneo che concluderne che gli avvocati erano inutili all’imputato. Al contrario, in
nessun altro tribunale erano tanto necessari quanto in questo. Infatti, in generale, il procedimento era segreto non
solo per l’opinione pubblica, ma anche per l’imputato; naturalmente solo in quanto ciò fosse possibile, ma lo era in
larghissima parte. L’imputato infatti non aveva accesso ai documenti giudiziari, e trarre conclusioni dagli interrogatori
sui documenti che ne stavano alla base era una cosa assai difficile, soprattutto per l’imputato, che era pur sempre
parte in causa ed era distratto da ogni genere di preoccupazione. Proprio qui interveniva la difesa. In generale, i
difensori non potevano assistere agli interrogatori, e dovevano perciò far domande in proposito all’imputato dopo
l’interrogatorio stesso, e per quanto possibile già alla porta della sala delle udienze; e da queste informazioni già
molto sbiadite dovevano trarre gli elementi idonei alla difesa. Ma non era questa la cosa più importante, dato che in
questo modo non era possibile venire a sapere granché, anche se naturalmente qui come ovunque le persone in
gamba venivano a sapere più degli altri. La cosa più importante rimaneva però la rete di conoscenze personali
dell’avvocato, in queste risiedeva il maggior valore della difesa. Ora, K. si era certo già reso conto dalle proprie
esperienze che l’organizzazione più bassa del tribunale non era del tutto perfetta, ma comprendeva dipendenti
negligenti o corrotti, per cui c’erano in qualche modo dei buchi nella severa reticenza del tribunale. La maggior parte
degli avvocati si affollava proprio qui, qui si corrompeva e si origliava, almeno in passato si erano persino dati casi di
furto degli atti. Non si poteva negare che in tal modo si potessero raggiungere, momentaneamente, alcuni risultati
addirittura sorprendenti, e con tali risultati questi avvocatucoli se ne andavano in giro orgogliosi attirandosi nuovi
clienti, ma per il seguito del processo ciò non significava nulla, o nulla di buono. Un valore reale lo avevano solo le
sincere relazioni personali, e in particolare con gli alti funzionari, intendendo con questo naturalmente gli alti
funzionari di grado più basso. Solo in questo modo era possibile influenzare il corso del processo, in maniera
dapprima appena percettibile, poi però in modo sempre più evidente. Questo era nelle possibilità di pochi avvocati, e
a questo proposito la scelta di K. era stata molto azzeccata. Solo uno o due avvocati, forse, potevano vantare
relazioni simili a quelle del dottor Huld. Costoro non si occupavano della combriccola che frequentava la stanza degli
avvocati, e non avevano con quelli niente in comune. Invece, tanto più stretta era la relazione con i funzionari del
tribunale. Non era neppure sempre necessario che il dottor Huld andasse in tribunale, aspettasse in anticamera il
passaggio casuale dei giudici istruttori e, a seconda del loro umore, ottenesse qualche successo, per lo più apparente,
o magari neppure questo. No, ma, come K. aveva già potuto vedere, i funzionari, e fra questi anche alcuni di alto
grado, venivano da sé, gli davano volentieri le informazioni, apertamente o per lo meno in forma comprensibile,
discutevano la prosecuzione dei processi, anzi in alcuni casi si lasciavano convincere e prendevano volentieri in
considerazione l’opinione altrui. A dire il vero, proprio su quest’ultimo punto non ci si poteva fidare molto di loro;
per quanto esprimessero con chiarezza la loro nuova opinione, favorevole alla difesa, magari se ne andavano dritti in
cancelleria ed emettevano il giorno dopo una sentenza che conteneva esattamente il contrario, e magari era ancor più
severa nei confronti dell’imputato di quanto non fosse la loro prima intenzione, intenzione che dicevano di avere
completamente abbandonato. Naturalmente contro cose del genere non c’era difesa, perché ciò che dicevano a
quattr’occhi era, per l’appunto, solo detto a quattr’occhi e non consentiva alcuna iniziativa alla luce del sole, anche se
la difesa non avesse comunque avuto tutto l’interesse a mantenersi il favore dei signori. D’altra parte, era anche vero
che i signori si mettevano in contatto con la difesa - naturalmente con una difesa ragionevole - non solo per umanità
o per sentimenti di amicizia, ma assai più perché, da un certo punto di vista, questa era la loro unica risorsa. Qui
entrava in gioco lo svantaggio di una organizzazione giudiziaria che imponeva la segretezza del tribunale fin dai suoi
inizi. Ai funzionari mancava il rapporto con la popolazione, per i soliti processi di medio calibro erano ben preparati,
un tale processo scivolava sul suo binario quasi da sé e aveva bisogno solo ogni tanto di una piccola spinta, mentre
erano spesso disorientati di fronte ai casi semplicissimi e di fronte ai casi particolarmente difficili, e siccome erano
rinchiusi giorno e notte nella loro legge non avevano il senso dei rapporti umani, cosa di cui in tali casi sentivano
molto la mancanza. Allora venivano per consiglio dall’avvocato, e dietro di loro un fattorino portava gli atti,
altrimenti così segreti. Qualcuno di questi signori, qualcuno di quelli da cui meno lo si poteva aspettare, lo si sarebbe
potuto trovare vicino a questa finestra, a guardare giù nella strada, del tutto smarrito, mentre l’avvocato alla scrivania
studiava gli atti per poter dare un buon consiglio. D’altra parte era proprio in simili occasioni che si poteva osservare
come i signori prendessero straordinariamente sul serio il loro mestiere, e come gli ostacoli che non potevano, per
loro natura, superare li gettassero in una grande disperazione. Ma anche a prescindere da questo la loro posizione
non era facile, non gli si poteva fare l’ingiustizia di considerare facile la loro posizione. La gerarchia e la disposizione
per gradi del tribunale erano infinite, e non potevano essere percepite a pieno neppure dagli iniziati. Il procedimento
davanti alle corti di giustizia era nel suo complesso segreto anche per i funzionari più bassi, e perciò era raro che
potessero seguire pienamente il percorso della pratica che stavano svolgendo fino ai suoi esiti più lontani, la vicenda
giudiziaria quindi compariva spesso dentro il loro angolo visuale senza che essi sapessero da dove veniva e
proseguiva oltre senza che ne conoscessero la destinazione. Perciò a questi funzionari sfuggiva l’insegnamento che si
poteva trarre dallo studio dei singoli stadi del processo, della decisione finale e delle sue motivazioni. Potevano
occuparsi solo di quella parte di processo ritagliata per loro dalla legge, mentre del seguito, e cioè dei risultati del loro
stesso lavoro, ne sapevano di solito meno della difesa, la quale invece, di regola, restava in contatto con l’imputato fin
quasi alla conclusione del processo. Anche in questo senso, dunque, potevano apprendere dalla difesa qualcosa di
importante. Tenendo presente tutto ciò, forse che K. poteva ancora stupirsi che i funzionari fossero nervosi, tanto
che a volte - tutti facevano questa esperienza - si comportavano in maniera offensiva verso gli imputati? Tutti i
funzionari erano nervosi, anche quando sembravano calmi. Naturalmente erano soprattutto i piccoli avvocati a
risentirne di più. Per esempio, si raccontava il seguente aneddoto, che aveva tutta l’apparenza della verità. Un vecchio
funzionario, un signore buono e tranquillo, aveva studiato per un giorno e una notte interi - questi funzionari sono
infatti diligenti come nessun altro - una pratica difficile, resa complicata proprio dai ricorsi dell’avvocato. Verso il
mattino, dopo un lavoro verosimilmente non molto proficuo di ventiquattr’ore filate, si avviò all’ingresso, vi si
nascose dietro e buttava giù dalle scale tutti gli avvocati che volevano entrare. Gli avvocati si riunirono al pianerottolo
sottostante e si consigliarono sul da farsi; da un lato non avevano alcun vero diritto a essere ammessi, e dunque non
potevano prendere delle iniziative contro il funzionario, senza contare che come già detto, dovevano anche stare
attenti a non attirarsi l’ostilità dei funzionari. D’altra parte però ogni giorno passato lontano dal tribunale era per loro
perduto, e quindi avevano molto interesse a riuscire a entrare. Alla fine furono d’accordo che avrebbero preso il
vecchio signore per stanchezza. Ogni momento mandavano un avvocato, che saliva di corsa le scale e, dopo una
resistenza il più possibile passiva, si lasciava scaraventare di sotto, dove veniva raccolto dai colleghi. Questo durò
all’incirca un’ora, dopo di che il vecchio signore, che era già stremato dal lavoro notturno, si stancò realmente e se ne
tornò nella cancelleria. Dapprima quelli di sotto non ci volevano credere, e cominciarono con il mandare uno che
doveva guardare dietro la porta per accertarsi se davvero non c’era nessuno. Solo dopo di ciò passarono gli altri, ed è
probabile che non si azzardarono nemmeno a brontolare. Perché gli avvocati - e anche il più insignificante di loro
poteva, almeno in parte, capire come stanno le cose - non avevano alcun interesse a introdurre un qualsiasi
miglioramento nel tribunale o a farsi valere per forza, mentre - e questo era molto significativo - quasi ogni imputato,
e anche la persona più ingenua, appena iniziato il processo, cominciava subito a pensare a proposte di miglioramento,
perdendo così tempo ed energia che avrebbero potuto essere utilizzate molto meglio. L’unica cosa giusta era adattarsi
alle condizioni esistenti. Anche se fosse stato possibile migliorare singoli dettagli - ma questa era un’assurda
superstizione - nel migliore dei casi si sarebbe ottenuto qualcosa per i prossimi casi, ma nel frattempo si sarebbe fatto
un danno smisurato a se stessi, risvegliando le attenzioni particolari dei funzionari, sempre vendicativi. Come prima
cosa, non attirare su di sé l’attenzione! Rimanere calmi, anche se ti succedono le cose più insensate! Bisognava
cercare di capire che questa grande organizzazione giudiziaria era in un certo senso sempre a mezz’aria, e che
cambiando di propria iniziativa qualcosa là dove ci si trovava ci si sottraeva da soli il terreno sotto i piedi e si poteva
precipitare, mentre la grande organizzazione, appena disturbata, trovava un compenso altrove - tutto, infatti, era
collegato - e rimaneva immutata, oppure, cosa verosimile, diventava ancor più chiusa, ancor più guardinga, ancor più
severa, ancor più malvagia. Quindi era meglio lasciar lavorare gli avvocati, anziché disturbarli. I rimproveri non erano
molto utili, specialmente se era impossibile renderne comprensibili, in tutta la loro estensione, le motivazioni, pure
bisognava dire quanto K. avesse nuociuto alla propria causa comportandosi come si era comportato nei confronti del
direttore delle cancellerie. Quest’uomo influente era ormai quasi da cancellare dalla lista delle persone presso le quali
si poteva prendere qualche iniziativa a favore di K. Chiaramente con intenzione, faceva finta di non sentire quando si
accennava, anche di sfuggita, al processo. In alcune cose, i funzionari erano come dei bambini. Bastavano spesso
delle sciocchezze - non si poteva però purtroppo definire così il comportamento di K. - per offenderli tanto che
smettevano di parlare anche con i vecchi amici, si voltavano quando li incontravano e agivano in ogni modo possibile
contro di loro. Poi però, a sorpresa e senza motivi particolari, si riusciva a farli ridere con un piccolo scherzo, che ci si
permetteva solo perché tutto sembrava perduto, ed ecco che erano riconciliati. I rapporti con loro erano facili e
difficili al tempo stesso, e quasi non c’erano regole. A volte c’era da stupirsi che una singola vita di media durata
potesse bastare per imparare tanto da poter lavorare in questo campo con un certo successo. Ma poi, come capita a
tutti, venivano momenti difficili in cui si riteneva di non avere raggiunto nulla, e si ha l’impressione che i processi
andati a buon fine erano destinati a questo fin dall’inizio e sarebbero finiti così anche senza alcun aiuto, mentre tutti
gli altri sono stati perduti nonostante tutte le corse, le fatiche e gli apparenti successi, dei quali ci si era tanto rallegrati.
Allora sembrava che non ci fosse più niente di sicuro e su domanda precisa uno non avrebbe avuto neppure il
coraggio di negare che anche alcuni processi per loro natura destinati a buon fine erano finiti fuori strada proprio per
colpa dell’assistenza legale. Certo anche questa era una forma di fiducia in se stessi, ma in questi casi era l’unica che
rimanesse. A queste crisi - perché naturalmente sono solo crisi - gli avvocati erano esposti soprattutto quando
improvvisamente viene tolto loro di mano un processo che avevano guidato abbastanza a lungo e in maniera
soddisfacente. Questa era certo la cosa peggiore che potesse capitare a un avvocato. Non che il processo potesse
essergli sottratto dall’imputato, questo certo non accadeva mai, una volta che si è scelto un dato avvocato un
imputato deve rimanere con lui succeda quel che succeda. Del resto com’era possibile, una volta che si era preteso
aiuto, sopportare ancora da soli? Perciò questo non succedeva, invece a volte succedeva che il processo prendesse
una direzione che l’avvocato non poteva più seguire. Il processo, l’imputato e tutto il resto venivano semplicemente
sottratti all’avvocato; in tali casi non servivano più neppure le più influenti relazioni con i funzionari, perché neppure
loro sapevano nulla. Il processo era entrato in uno stadio in cui nessun aiuto era più possibile, in cui veniva
esaminato da corti inaccessibili, dove neppure l’imputato era più raggiungibile da parte dell’avvocato. Allora
succedeva di tornare un giorno a casa e trovare sul proprio tavolo tutti i molti ricorsi compilati in quella causa con la
massima diligenza e con le migliori speranze; rispediti al mittente perché non trasferibili a questa nuova fase del
processo, scartafacci senza valore. Non che con questo il processo fosse perduto, niente affatto, o per lo meno non
c’erano indizi decisivi che lo facessero pensare, soltanto non si sapeva più niente del processo, né se ne sarebbe
saputo più niente in seguito. Per fortuna questi casi erano eccezioni, e anche se il processo di K. fosse stato un caso
del genere era per il momento ancora lontano da un tale stadio. Qui perciò c’erano ancora molte possibilità di
intervento da parte di un avvocato e K. poteva star sicuro che sarebbero state sfruttate. Come detto, il ricorso non
era ancora stato consegnato, ma neppure c’era fretta, erano molto più importanti i colloqui introduttivi con i
funzionari competenti, e questi avevano già avuto luogo. Con esito variabile, bisognava confessarlo. Per il momento
era molto meglio non rivelare dettagli che avrebbero solo potuto influenzare negativamente K. rendendolo troppo
speranzoso o troppo ansioso, conveniva dire solo che singoli funzionari si erano espressi molto favorevolmente e si
erano anche mostrati molto disponibili, mentre altri si erano espressi meno favorevolmente, ma tuttavia non avevano
in alcun modo rifiutato la propria collaborazione. Nel complesso perciò ci si poteva rallegrare molto del risultato,
solo non se ne dovevano trarre particolari conclusioni, perché tutti i preliminari cominciavano sempre nello stesso
modo ed era solo lo sviluppo ulteriore che mostrava il valore dei preliminari. In ogni caso niente era ancora perduto
e se si riusciva, malgrado tutto, a conquistarsi il favore del direttore delle cancellerie - diverse iniziative erano state
avviate a tal fine - allora il tutto, come dicevano i chirurghi, sarebbe stato una ferita pulita, e si poteva aspettare con
fiducia ciò che sarebbe seguito.

In questi e simili discorsi l’avvocato era inesauribile. Si ripetevano a ogni visita. Ogni volta c’erano dei progressi, ma
la natura di questi progressi non poteva mai essere comunicata. Si lavorava sempre al primo ricorso, ma questo non
era mai pronto, cosa che, all’incontro successivo, si rivelava sempre come un grande vantaggio, perché il momento,
cosa che non era prevedibile, sarebbe stato molto sfavorevole alla consegna. Se a volte K., esausto dei discorsi,
osservava che anche considerando tutte le difficoltà la cosa procedeva molto lentamente, si sentiva rispondere che
ciò non era affatto vero, ma che si sarebbe molto più avanti se K. si fosse rivolto all’avvocato al momento giusto.
Purtroppo aveva trascurato di farlo e questo ritardo avrebbe portato anche altri svantaggi, e non solo legati al tempo
necessario.

L’unica benefica interruzione di questi incontri era Leni, che sapeva sempre organizzare le cose in modo da portare il
tè all’avvocato in presenza di K. Allora stava in piedi alle spalle di K., faceva finta di guardare come l’avvocato,
profondamente chino sulla tazza, si versava con una specie di golosità il tè e lo beveva; e intanto di nascosto lasciava
che K. le prendesse la mano. Regnava allora un assoluto silenzio. L’avvocato beveva, K. stringeva la mano di Leni, e
Leni a volte si azzardava ad accarezzare dolcemente i capelli di K. "Sei ancora qui?" chiedeva l’avvocato quando
aveva finito. "Volevo portar via la tazza", diceva Leni, stringeva la mano di K. per l’ultima volta, l’avvocato si puliva la
bocca e cominciava, con energia rinnovata, a coprire K. di discorsi.
Era conforto o disperazione ciò che l’avvocato voleva ottenere? K. non lo sapeva, ma presto diede per certo che la
sua difesa non era in buone mani. Tutto ciò che l’avvocato diceva poteva essere vero, anche se era facile capire che
cercava di mettersi il più possibile in evidenza e che forse non aveva mai avuto per le mani un processo così
importante come era, a suo giudizio, quello di K. Tuttavia rimanevano sospette le relazioni personali con i funzionari,
che l’avvocato tirava fuori continuamente. Possibile che fossero sfruttate esclusivamente a vantaggio di K.?
L’avvocato non dimenticava mai di sottolineare che si trattava solo di funzionari di basso grado, quindi in una
posizione di grande dipendenza, per la cui carriera certe svolte del processo potevano forse essere significative. Forse
usavano l’avvocato per realizzare svolte del genere, che naturalmente erano sempre sfavorevoli all’imputato? Forse
non facevano così in tutti i processi, certo non era verosimile, magari c’erano poi dei processi dove procuravano
vantaggi all’avvocato in cambio dei suoi servizi, dato che in fondo ci tenevano anche a mantenere alta la sua
reputazione. Se davvero si comportavano così, in che modo sarebbero intervenuti nel processo di K., che come
aveva detto l’avvocato era un processo molto difficile e quindi importante e che fin dall’inizio aveva risvegliato una
grande attenzione da parte del tribunale? Non potevano esserci molti dubbi su ciò che avrebbero fatto. Un segno di
ciò lo si poteva vedere già nel fatto che il primo ricorso non era ancora stato inviato, nonostante che il processo fosse
iniziato già da mesi, e nel fatto che tutto secondo l’opinione dell’avvocato si trovava ancora agli inizi, cosa che era
naturalmente molto utile a intorpidire l’imputato e mantenerlo privo di mezzi, per poi sorprenderlo improvvisamente
con la decisione, o quanto meno con l’informazione che l’istruttoria, conclusasi a suo sfavore, era stata trasferita alle
autorità superiori.

Era assolutamente necessario che K. intervenisse di persona. Proprio quando era in condizioni di grande stanchezza,
come in questo mattino d’inverno in cui tutto gli passava svogliatamente per la testa, questa convinzione era
ineliminabile. Il disprezzo che prima aveva nutrito per il processo era adesso scomparso. Se fosse stato solo al
mondo, avrebbe potuto facilmente disprezzare questo processo, anche se a dire il vero era sicuro che in tal caso esso
non sarebbe neppure iniziato. Ma ora lo zio lo aveva già trascinato dall’avvocato, erano intervenuti i riguardi nei
confronti della famiglia; la sua posizione non era più del tutto indipendente dal corso del processo, lui stesso,
imprudentemente, aveva menzionato il processo davanti a conoscenti con una certa inspiegabile soddisfazione, altri
per via ignota ne erano venuti a conoscenza, la relazione con la signorina Bürstner sembrava barcollare insieme al
processo - insomma, non aveva quasi più la scelta fra accettare o rifiutare il processo, ci si trovava in mezzo e doveva
difendersi. Se poi era stanco, tanto peggio.

Per il momento comunque non c’era motivo di preoccuparsi esageratamente. In un tempo relativamente breve era
stato in grado di innalzarsi, in banca, fino alla sua attuale posizione elevata, e mantenervisi con il riconoscimento di
tutti; ora bastava volgere un po’ sul processo le capacità che avevano reso questo possibile, e non c’era dubbio che
tutto sarebbe andato per il meglio. Soprattutto, se si voleva ottenere qualcosa, era necessario fin dal principio
eliminare ogni idea di una possibile colpa. Non c’era alcuna colpa. Il processo non era altro che un grande affare,
come già ne aveva conclusi molti vantaggiosamente per la banca, un affare in cui, come di regola, si nascondevano
diversi pericoli che dovevano appunto essere sventati. A questo scopo bisognava evitare di rimuginare con il pensiero
su una qualche colpa, ma per quanto possibile fissare invece il pensiero a quello che era il proprio vantaggio. Da
questo punto di vista era anche inevitabile sottrarre all’avvocato la sua delega il più presto possibile, meglio di tutto
quella sera stessa. Secondo le chiacchiere dell’avvocato stesso questa era una cosa inaudita e magari molto offensiva,
ma K. non poteva tollerare che i suoi sforzi nel processo trovassero ostacoli che magari erano provocati dal suo
stesso avvocato. Invece, una volta eliminato l’avvocato, il ricorso sarebbe stato immediatamente consegnato e se
possibile ogni giorno si sarebbe insistito perché venisse esaminato. A questo scopo naturalmente non sarebbe stato
sufficiente che K. sedesse come gli altri nel corridoio mettendo il cappello sotto la panca. Lui stesso o le donne o
altri messaggeri dovevano assillare i funzionari giorno dopo giorno e costringerli, anziché guardare nel corridoio
attraverso la grata, a sedersi alla loro scrivania per studiare il ricorso di K. Simili sforzi non sarebbero mai stati
interrotti, tutto doveva essere organizzato e sorvegliato, il tribunale doveva una buona volta imbattersi in un
imputato che sapeva come far valere i propri diritti.

Ma anche se K. pensava di saper portare a termine tutto ciò, restava insormontabile la difficoltà di compilare il
ricorso. Prima, anche solo una settimana fa, avrebbe provato un senso di vergogna all’idea di essere costretto a fare
proprio lui un simile ricorso; che poi potesse anche essere un compito difficile non lo aveva nemmeno pensato. Si
ricordava ancora come un mattino, proprio mentre era sommerso dal lavoro, aveva a un tratto spinto tutto da parte e
aveva tirato fuori un blocchetto di appunti per buttare giù lo schema di un tale ricorso, con l’idea di metterlo poi
magari a disposizione del suo tardo avvocato; e come proprio in quel momento la porta della direzione si aprì e
apparve, con una gran risata, il vicedirettore. Era stato molto penoso per K., anche se naturalmente il vicedirettore
non rideva per il ricorso, di cui non sapeva nulla, ma per una storiella che aveva appena sentito, per comprendere la
quale era necessario un disegno che il vicedirettore, piegandosi sulla scrivania di K. e togliendogli di mano la matita,
disegnò proprio sul blocchetto di appunti destinato al ricorso.

Oggi K. non pensava più alla vergogna, il ricorso andava fatto. Se non ne trovava il tempo in ufficio, cosa assai
probabile, doveva scriverlo a casa, nelle notti seguenti. E se le notti non fossero bastate, doveva prendersi una
vacanza. L’importante era non rimanere a metà strada, questa era la cosa più insensata non solo negli affari, ma
sempre e ovunque. Certo, il ricorso significava un lavoro quasi infinito. Non ci voleva un carattere molto ansioso per
arrivare alla conclusione che sarebbe stato impossibile portare a termine il ricorso. E questo non per pigrizia o per
astuzia, cose che avrebbero potuto essere un ostacolo alla compilazione solo per l’avvocato, ma perché, non
conoscendo l’accusa attuale né tantomeno i suoi eventuali sviluppi, bisognava riportare alla memoria, esporre e
soppesare da ogni lato la vita intera, ogni azione e ogni avvenimento, per quanto piccoli. E poi, come era triste un
simile lavoro. Forse era adatto, dopo la pensione, per occupare uno spirito ormai rimbambito, e aiutarlo a passare
così le lunghe giornate. Ma adesso che K. aveva bisogno di tutti i suoi pensieri per il lavoro, e ogni ora passava
velocissima, mentre era ancora in salita e rappresentava già una minaccia per il vicedirettore, adesso che, da giovane,
voleva godersi le sue brevi serate e le sue notti, proprio adesso doveva mettersi a redigere questo ricorso. Di nuovo, i
suoi pensieri si trasformavano in lamenti. Quasi senza volere, solo per farla finita, cercò con il dito il campanello
elettrico che dava in anticamera. Premendolo alzò gli occhi verso l’orologio. Erano le undici, aveva passato due ore,
un lasso di tempo lungo e prezioso, in fantasticherie, e naturalmente adesso era ancor più stanco di prima. Ad ogni
modo non era tempo perso, aveva preso delle decisioni che potevano rivelarsi valide. Il portiere consegnò, insieme a
diversa posta, due biglietti da visita di signori che stavano aspettando K. già da diverso tempo. Erano clienti molto
importanti della banca, che davvero non avrebbe dovuto lasciar aspettare in nessun caso. Perché venivano in un
momento così poco opportuno? E perché, sembrava che chiedessero a loro volta i signori dietro la porta chiusa, il
diligente K. sprecava per faccende private le migliori ore di lavoro? Stanco per quel che era successo e aspettando
stanco quel che sarebbe seguito, K. si alzò per ricevere il primo.

Era un ometto vivace, un direttore di fabbrica ben noto a K. Si dispiacque di aver disturbato K. in un lavoro
importante, e K. a sua volta si rammaricò di aver fatto tanto aspettare il direttore di fabbrica. Già questo rammarico
però fu espresso in un tono tanto meccanico e quasi falso che il direttore di fabbrica, se non fosse stato tanto preso
dal suo affare, avrebbe dovuto notarlo. Invece tirò fuori in fretta da tutte le tasche conti e tabelle, li dispose davanti a
K., spiegò diverse partite, corresse un piccolo errore di calcolo che aveva notato anche in uno sguardo così veloce,
ricordò a K. un affare simile che aveva concluso con lui circa un anno prima, disse di sfuggita che stavolta un’altra
banca, con i più grandi sacrifici, si era proposta per quell’affare, e infine tacque per conoscere l’opinione di K. In
effetti, all’inizio, K. aveva seguito il discorso del direttore di fabbrica, anche lui era stato coinvolto dall’idea di quel
grosso affare, purtroppo però non era durato a lungo, presto aveva smesso di stare a sentire, per un poco ancora
aveva accennato con il capo alle più sonore esclamazioni del direttore di fabbrica, infine aveva smesso anche questo e
si limitava a contemplare la testa calva, china sulle carte, e a chiedersi quando il direttore di fabbrica si sarebbe
finalmente accorto che tutto quel parlare era inutile. Quando quello tacque, K. dapprima credette veramente che
fosse per dargli l’occasione di confessare la propria incapacità a seguire il discorso. Fu solo con dispiacere che si
accorse dallo sguardo teso del direttore di fabbrica, evidentemente pronto a ogni replica, che la discussione d’affari
andava continuata. Piegò quindi il capo come davanti a un ordine e cominciò a passare con la matita lentamente su e
giù sulle carte, ogni tanto si interrompeva e guardava fisso una cifra. Il direttore di fabbrica immaginò che ci fossero
delle obiezioni, forse le cifre veramente non erano sicure, o forse non erano loro l’argomento decisivo, fatto sta che il
direttore di fabbrica coprì le carte con la mano e ricominciò, avvicinandosi stretto a K., a esporre l’affare in generale.
"E’ difficile", disse K., piegò le labbra e, siccome le carte, l’unica cosa che potesse afferrare, erano coperte, si lasciò
andare sul bracciolo della sedia. Addirittura si limitò ad alzare debolmente lo sguardo quando si aprì la porta della
direzione e apparve il vicedirettore, non con chiarezza ma come dietro un velo di garza. K. non rifletté oltre sulla
cosa, ma osservò solo l’effetto immediato di quella apparizione, effetto che fu per lui un grande sollievo. Infatti il
direttore di fabbrica saltò subito su dalla sedia andando velocemente incontro al vicedirettore, ma K. lo avrebbe
voluto dieci volte più veloce, perché temeva che il vicedirettore potesse scomparire di nuovo. Era un timore
infondato, i signori si incontrarono, si tesero la mano e si avvicinarono entrambi alla scrivania di K. Il direttore di
fabbrica si lamentò dello scarso interesse che il procuratore mostrava per il suo affare, e indicò K., il quale sotto lo
sguardo del vicedirettore si curvò di nuovo sulle carte. Quando poi i due si chinarono sulla scrivania e il direttore di
fabbrica si accinse a guadagnare alla sua causa il vicedirettore, K. ebbe l’impressione che due uomini, che si
immaginava di grandezza esagerata, trattassero della sua sorte al di sopra della sua testa. Lentamente, volgendo in alto
gli occhi lentamente e con prudenza, cercò di capire cosa succedeva lassù, senza guardare prese dalla scrivania un
documento, lo mise sulla mano aperta e piano piano, mentre egli stesso si alzava in piedi, lo passò ai due signori.
Facendo questo non pensava a niente di preciso, ma si muoveva in uno stato d’animo come se intendesse
comportarsi così quando avesse completato il grande ricorso che doveva scagionarlo completamente. Il vicedirettore,
tutto intento alla conversazione, guardò il documento solo di sfuggita, non lesse neppure ciò che conteneva, dato che
ciò che era importante per il procuratore era per lui insignificante, lo tolse di mano a K. e disse: "Grazie, so già
tutto", riponendolo tranquillo sul tavolo. K. lo guardò di sbieco, amareggiato. Il vicedirettore però non se ne accorse
neppure e, se se ne accorse, ne fu solo rallegrato, ogni tanto esplodeva in una forte risata, a un certo momento con
una replica fulminante mise chiaramente in imbarazzo il direttore di fabbrica, ma da quell’imbarazzo lo liberò anche
subito trovando lui stesso una giustificazione, e infine lo invitò a passare nel suo ufficio dove avrebbero potuto
concludere la faccenda. "E’ una questione molto importante", disse il vicedirettore al direttore di fabbrica, "lo
capisco perfettamente. E il signor procuratore" - anche dicendo questo si rivolgeva in verità solo al direttore di
fabbrica - "sarà certo contento se lo solleviamo da questo affare. La cosa richiede una tranquilla riflessione. Oggi
invece lui sembra sovraccarico di lavoro, e poi ci sono di là in anticamera delle persone che lo attendono da ore." K.
ebbe ancora abbastanza autocontrollo per voltarsi dal vicedirettore e dirigere solo al direttore di fabbrica il suo
amichevole ma rigido sorriso, ma non fece altro, si appoggiò con le due mani sulla scrivania un po’ chino in avanti,
come un commesso dietro il banco, e rimase a vedere come i due signori continuando a parlare prendessero i
documenti dal tavolo e scomparissero nella stanza della direzione. Sulla soglia il direttore di fabbrica si voltò, disse
che ancora non si congedava da K. ma che naturalmente gli avrebbe riferito sul successo del colloquio, e che inoltre
doveva ancora comunicargli una piccola cosa.

Finalmente K. era solo. Non pensò neppure a far passare qualche altro visitatore, e solo indistintamente si rendeva
conto di quanto fosse piacevole che la gente fuori credesse che era ancora in trattative con il direttore di fabbrica e
che quindi nessuno, neppure il portiere, potesse entrare nella sua stanza. Andò alla finestra, si sedette sul davanzale
tenendosi alla maniglia e guardò fuori sulla piazza. La neve stava ancora cadendo, non si era neppure fatto chiaro.

Sedette così a lungo, senza sapere bene che cosa lo preoccupasse, solo ogni tanto si guardava spaventato dietro le
spalle verso la porta dell’anticamera, dove, sbagliando, credeva di aver sentito un rumore. Ma siccome non venne
nessuno, si calmò, andò al lavandino, si lavò con acqua fredda e con la testa più libera tornò al suo posto vicino alla
finestra. La decisione di prendere personalmente in mano la propria difesa gli sembrava ora più grave di quanto
avesse pensato in un primo tempo. Finché aveva delegato all’avvocato la difesa, lui stesso era comunque stato, nella
sostanza, poco colpito dal processo, lo aveva osservato da lontano e quasi non poteva esserne raggiunto senza
intermediazioni, ogni volta che voleva gli era possibile andare a vedere a che punto fosse la sua questione, ma ogni
volta aveva potuto anche tirare indietro la testa. Invece ora che avrebbe condotto da sé la propria difesa doveva
almeno per il momento esporsi completamente al tribunale, se ci riusciva certo avrebbe ottenuto in seguito la sua
assoluzione completa e definitiva, ma in ogni caso temporaneamente si sarebbe trovato in un pericolo molto
maggiore di quello che aveva corso finora. Se ancora ne avesse dubitato, la riunione odierna con il vicedirettore e il
direttore di fabbrica avrebbe potuto convincerlo a sufficienza del contrario. Com’è che era rimasto lì seduto, tutto
preso già dalla sola decisione di difendersi da solo? E come sarebbe diventata la cosa in seguito? Quali giornate gli
stavano davanti! Avrebbe trovato la strada che portava, attraverso tutto questo, a un lieto fine? Non significava forse
una difesa accurata - e tutto il resto non aveva senso - non significava forse una difesa accurata che per quanto
possibile ci si doveva separare da tutto il resto? E sarebbe riuscito a sopportare felicemente tutto ciò? E come
sarebbe riuscito a farlo rimanendo in banca? Non si trattava solo del ricorso, per il quale sarebbe forse bastata una
vacanza, anche se chiedere proprio ora una vacanza sarebbe stata una grossa audacia; no, si trattava di un intero
processo, la cui durata era imprevedibile. Quale ostacolo avevano improvvisamente gettato sulla carriera di K.!

E ora doveva lavorare per la banca? - Guardò la scrivania. - Ora doveva lasciar entrare la gente e trattare con loro?
Mentre il suo processo avanzava, mentre lassù nella soffitta gli impiegati del tribunale stavano seduti a studiare i
documenti di questo processo, lui doveva curare gli affari della banca? Non aveva forse l’apparenza di una tortura,
che, riconosciuta dal tribunale, era in rapporto con il processo e ne accompagnava lo svolgimento? E in banca, nel
valutare il suo lavoro, si sarebbe tenuto conto della sua situazione? Nessuno lo avrebbe fatto, e in nessun momento.
Il suo processo non era certo del tutto sconosciuto, anche se non era ancora ben chiaro chi ne fosse a conoscenza, e
in che misura. Evidentemente però la voce non era ancora arrivata al vicedirettore, altrimenti si sarebbe visto
chiaramente come costui, senza alcun senso di colleganza o di umanità, l’avrebbe sfruttata contro di lui. E il
direttore? Certamente era ben disposto verso K., e forse, venendo a sapere del processo, avrebbe inteso facilitare in
qualche modo K. per quanto era nelle sue possibilità, ma certo non sarebbe arrivato in fondo, perché in questo
periodo, con l’indebolirsi del contrappeso finora rappresentato da K., soggiaceva sempre più all’influsso del
vicedirettore, il quale oltre tutto sfruttava anche il cattivo stato di salute del direttore per rafforzare il proprio potere.
E dunque, cosa poteva sperare K.? Forse con queste riflessioni indeboliva la propria resistenza, eppure era anche
necessario evitare di illudersi e vedere ogni cosa nel modo più chiaro che fosse al momento possibile.

Senza un particolare motivo, solo per non dover tornare per ora alla scrivania, aprì la finestra. Si fece aprire con
difficoltà, e K. dovette girare la maniglia con due mani. Attraverso la finestra, in tutta la sua altezza e larghezza, la
nebbia mista a fumo entrò nella stanza, riempiendola di un lieve odore di bruciato. Volarono dentro anche alcuni
fiocchi di neve. "Un brutto autunno", disse dietro di lui il direttore di fabbrica, che uscendo dal vicedirettore era
entrato inosservato nella stanza. K. fece un cenno con il capo, guardando inquieto la cartella del direttore di fabbrica,
dalla quale certo costui avrebbe ora estratto i documenti per informare K. dei risultati del colloquio con il
vicedirettore. Ma il direttore di fabbrica seguì lo sguardo di K., diede un colpetto sulla cartella e senza aprirla disse:
"Lei vuole sapere come è andata. Abbastanza bene. Ho quasi in tasca la conclusione dell’affare. E’ un uomo
stimolante, il vostro vicedirettore, ma niente affatto scevro di pericoli." Rise e strinse la mano di K., e voleva indurre
anche lui al riso. Ma ora a K. sembrò di nuovo sospetto che il direttore di fabbrica non volesse mostrargli le carte e
non trovò niente da ridere nella sua osservazione. "Signor procuratore", disse il direttore di fabbrica, "lei è sensibile al
tempo. Ha un’aria così oppressa oggi." "Sì", disse K. premendosi la mano sulla tempia, "mal di testa, preoccupazioni
familiari." "Giustissimo", disse il direttore di fabbrica, che era un uomo frettoloso e non poteva stare a sentire
nessuno con calma, "abbiamo tutti la nostra croce." Senza volere K. aveva fatto un passo in direzione della porta,
come se volesse accompagnare fuori il direttore di fabbrica, ma questi disse: "Signor procuratore, avrei ancora da
farle una piccola comunicazione. Ho una gran paura che facendogliela proprio oggi forse le do una seccatura, ma
ultimamente sono già stato due volte da lei e ogni volta me ne sono dimenticato. Se la rimando ancora, è probabile
che perda del tutto il suo significato. Questo però sarebbe un peccato, perché in fondo la mia comunicazione non è
forse priva di valore." Prima che K. avesse il tempo di rispondere, il direttore di fabbrica gli si avvicinò, con la falange
del dito lo picchiettò sul petto e gli disse piano: "Lei ha un processo non è vero?" K. fece un passo indietro ed
esclamò subito: "Questo glielo ha detto il vicedirettore." "Ma no", disse il direttore di fabbrica, "come farebbe a
saperlo?" "E lei come fa?" chiese K., già più padrone di se stesso. "Ogni tanto vengo a sapere qualcosa del tribunale",
disse il direttore di fabbrica. "La comunicazione che volevo farle riguarda proprio questo." "Sono dunque così tante
le persone collegate al tribunale!" disse K. a capo chino e condusse il direttore di fabbrica alla scrivania. Si sedettero
come prima e il direttore di fabbrica disse: "Purtroppo ciò che posso comunicarle non è gran cosa. In casi del genere
però è bene non tralasciare nessuna piccolezza. Inoltre ci tengo ad aiutarla in qualche modo, per quanto modesto
possa essere il mio aiuto. Finora siamo stati buoni amici di affari, non è vero? E allora." K. voleva scusarsi per il suo
comportamento durante il colloquio precedente, ma il direttore di fabbrica non tollerò alcuna interruzione, si tirò su
sotto il braccio la cartella per mostrare che aveva fretta e continuò: "Ho saputo del suo processo da un certo Titorelli.
E’ un pittore, Titorelli è il suo nome d’arte, il suo vero nome non lo conosco neppure. Già da anni ogni tanto viene
nel mio ufficio e si porta dietro dei quadretti, per i quali - è più o meno un mendicante - gli do sempre una specie di
elemosina. D’altronde sono quadri graziosi, paesaggi di brughiera e roba del genere. Questi acquisti, cui ci eravamo
entrambi abituati, andavano avanti senza problemi. A un certo punto però queste visite si ripetevano troppo spesso,
io gli feci qualche rimprovero, cominciammo a chiacchierare, mi interessava sapere come potesse mantenersi con la
sola pittura, e con mio stupore appresi che la sua principale fonte di guadagno erano i ritratti. Lavorava per il
tribunale, disse. Per quale tribunale, gli domandai. E allora mi raccontò del tribunale. Lei può ben immaginarsi il mio
stupore a questi racconti. Da allora, ogni volta che mi fa visita, vengo a sapere qualche novità dal tribunale e così
acquisisco pian piano una certa competenza in materia. A dire il vero Titorelli è un chiacchierone e spesso devo
interromperlo, non solo perché certamente dice anche menzogne, ma soprattutto perché un uomo d’affari come me,
quasi schiacciato dalle sue preoccupazioni professionali, non può oltretutto occuparsi molto di faccende altrui. Ma
questo sia detto di sfuggita. Forse - è questo che mi è venuto in mente ora - Titorelli può darle un po’ di aiuto,
conosce molti giudici e anche se lui stesso non può avere grande influenza, tuttavia potrebbe darle consigli su come
arrivare a diverse persone influenti. E anche se questi consigli in sé e per sé non fossero decisivi, tuttavia in mano sua
potranno avere un grande rilievo. Lei è quasi un avvocato. Lo dico sempre io: il procuratore K. è quasi un avvocato.
Oh, per il suo processo non ho preoccupazioni. Ma perché non va da Titorelli? Su mia raccomandazione farà
certamente tutto quel che gli è possibile. Penso davvero che lei ci dovrebbe andare. Naturalmente non c’è bisogno
che lei ci vada oggi, quando capita, quando ha occasione. D’altra parte - le dico anche questo - per il fatto che le do
questo consiglio lei non è minimamente tenuto ad andare realmente da Titorelli. No, se lei ritiene di poter fare a
meno di Titorelli è certamente meglio lasciarlo perdere. Forse lei ha già un piano ben preciso, e Titorelli potrebbe
disturbarlo. No, naturalmente in tal caso non ci vada in nessun caso. Certo bisogna anche superare un po’ di
resistenza a farsi dare dei consigli da un simile furfante. Beh, come crede. Questa è la lettera di raccomandazione e
questo è l’indirizzo."

Deluso, K. prese la lettera e la infilò in tasca. Anche nel migliore dei casi il vantaggio che gli poteva venire dalla
raccomandazione era incomparabilmente minore del danno che risiedeva nel fatto che il direttore di fabbrica sapesse
del suo processo e che il pittore continuasse a divulgare la notizia. Riuscì appena, con uno sforzo, a ringraziare con
qualche parola il direttore di fabbrica che era già diretto alla porta. "Ci andrò", disse, congedandosi sulla porta dal
direttore di fabbrica, "oppure, dato che ora sono molto impegnato, gli scriverò di venire un giorno da me in ufficio."
"Sapevo che lei avrebbe trovato la soluzione migliore", disse il direttore di fabbrica, "solo pensavo che lei avrebbe
preferito evitare di invitare in banca gente come questo Titorelli per parlare con lui del processo. E poi, non è
nemmeno sempre vantaggioso mandare in giro lettere indirizzate a persone del genere. Ma certo lei ha pensato a
ogni cosa e sa quello che può fare." K. accennò con il capo e accompagnò il direttore di fabbrica fin attraverso
l’anticamera. Ma, nonostante la calma esteriore, era molto spaventato di se stesso. Che avrebbe scritto a Titorelli
veramente lo aveva detto solo per mostrare in qualche modo al direttore di fabbrica che apprezzava la sua
raccomandazione e che valutava subito le possibilità di incontrarsi con Titorelli, ma se avesse considerato utile
l’appoggio di Titorelli non avrebbe in realtà esitato a scrivergli davvero. E solo all’osservazione del direttore di
fabbrica si era reso conto dei pericoli che ciò avrebbe comportato. Davvero poteva fidarsi così poco del proprio
cervello? Se era possibile che invitasse in banca con una lettera esplicita una persona equivoca per chiedergli consigli
sul suo processo, a distanza di una sola porta dal vicedirettore, non era anche possibile e addirittura molto probabile
che non si accorgesse di altri pericoli o che ci corresse incontro? Non capitava sempre che ci fosse qualcuno vicino a
lui per ammonirlo. E proprio ora che doveva intervenire con tutte le sue forze gli venivano simili dubbi, fino ad
allora sconosciuti, sulla propria capacità di rimanere all’erta. Forse che quelle difficoltà che sentiva nel lavoro d’ufficio
cominciavano ora anche in rapporto al processo? Comunque ora non riusciva più a capire come gli fosse potuto
venire in mente di scrivere a Titorelli e invitarlo in banca.

Pensando a questo stava ancora scuotendo la testa, quando il portiere gli si affiancò facendogli notare i tre signori
seduti qui su una panca in anticamera. Già da molto tempo stavano aspettando di essere ammessi da K.; ora che il
portiere stava parlando con K. si erano alzati in piedi e ciascuno voleva sfruttare la buona occasione per accostare K.
prima degli altri. Se la banca aveva così poco riguardi nei loro confronti da lasciarli qui in sala d’attesa a perdere
tempo, anche loro avrebbero smesso di avere riguardi. "Signor procuratore", diceva già uno di loro. Ma K. si era fatto
portare il cappotto dal portiere e mentre con l’aiuto di quello lo indossava disse a tutti e tre: "Scusatemi, signori,
purtroppo al momento non ho il tempo di ricevervi. Vi chiedo veramente scusa, ma ho un affare urgente da sbrigare
e devo uscire subito. Avete visto voi stessi quanto a lungo sono stato trattenuto finora. Potreste essere così gentili da
ritornare domani, o in un altro momento qualsiasi? O forse vogliamo discutere la cosa telefonicamente? O magari, se
volete, potete forse dirmi ora in breve di che si tratta, e io vi darò poi una risposta scritta per esteso. La cosa migliore
però sarebbe che ritornaste un’altra volta." Queste proposte di K. ai signori, la cui attesa sembrava essere stata
completamente inutile, li portò a un tale grado di stupore che si guardarono l’un l’altro ammutoliti. "Siamo d’accordo
allora?" disse K. che si era voltato verso il portiere, il quale gli aveva portato ora anche il cappello. Attraverso la porta
aperta della stanza di K. si poteva vedere che fuori la neve cadeva ora molto più forte. K. perciò si tirò su il collo del
cappotto e lo abbottonò fino al collo.

Proprio in quel momento dalla stanza accanto uscì il vicedirettore, con un sorriso guardò K. mentre parlava in
cappotto con i signori e disse: "Se ne sta andando, signor procuratore?" "Sì", disse K. raddrizzandosi, "devo uscire
per una questione di affari." Ma il vicedirettore si era già rivolto ai signori. "E i signori?" domandò. "Credo che stiano
aspettando da parecchio." "Ci siamo già messi d’accordo", disse K. Ma ora i signori non si trattennero più,
circondarono K. dichiarando che non avrebbero aspettato per delle ore se le loro questioni non fossero state
importanti, e non dovessero essere discusse ora, per esteso e a quattr’occhi. Il vicedirettore rimase un poco ad
ascoltarli, guardò K., che teneva il cappello in mano e lo puliva qua e là dalla polvere, e poi disse: "Signori, c’è una
soluzione molto semplice. Se vi contentate di me, mi occuperò volentieri io di trattare al posto del signor
procuratore. Naturalmente le vostre questione devono essere discusse subito. Siamo anche noi uomini d’affari e
sappiamo quanto vale il tempo di gente come noi. Volete favorire?" E aprì la porta che portava all’anticamera del suo
ufficio.

Com’era in gamba il vicedirettore ad appropriarsi di tutto ciò che ora K. era obbligato a cedere! Non stava cedendo
K. più di quanto fosse assolutamente necessario? Mentre correva da un pittore con speranze indefinite e, come
doveva confessare a se stesso, alquanto misere, qui la sua reputazione subiva un danno irreparabile. Forse sarebbe
stato molto meglio rispogliarsi del cappotto e riconquistarsi almeno i due signori che dovevano ancora aspettare lì
accanto. K. ci avrebbe forse anche provato, se non avesse ora visto nella sua stanza il vicedirettore che cercava
qualcosa sullo scaffale, come se fosse il suo. Quando K., in collera, si avvicinò alla porta, quello esclamò: "Ah, non è
ancora andato via." Voltò verso di lui il viso, dove le molte rughe tese sembravano testimoniare non vecchiaia, ma
energia, e ricominciò subito a cercare. "Cerco una copia di contratto", disse, "che secondo il rappresentante della
ditta dev’essere qui da lei. Le dispiace aiutarmi a cercarla?" K. avanzò di un passo, ma il vicedirettore disse: "Grazie,
l’ho già trovata" e con un gran pacco di documenti, che di certo non conteneva solo la copia del contratto ma anche
molte altre cose, se ne tornò nella sua stanza.

"Ancora non posso competere con lui", si disse K., "ma quando le mie difficoltà personali saranno superate lui sarà il
primo ad accorgersene, e sarà un boccone molto amaro." Calmandosi con questo pensiero, diede al portiere, che già
da un pezzo gli teneva aperta la porta che dava sul corridoio, l’incarico di riferire eventualmente al direttore che era
uscito per un affare di lavoro e, quasi felice di potere per un po’ di tempo dedicarsi più completamente alla sua
questione, lasciò la banca.

Andò subito dal pittore, che abitava in una periferia all’estremo opposto di quella dove si trovavano le cancellerie del
tribunale. Era una zona ancor più povera; le case erano ancor più buie, i vicoli pieni di sporcizia che lentamente si
spargeva all’intorno galleggiando sulla neve sciolta. Nell’edificio dove abitava il pittore solo un’ala del grande portone
era aperta, mentre nell’altra, in basso vicino al muro, c’era un buco dal quale, proprio mentre K. si avvicinava, si
riversò un liquido fumante, giallo e ripugnante, dal quale un topo scappò rifugiandosi nel vicino canale. Giù sulla
scala un bambino piccolo stava per terra a pancia in giù e piangeva, ma quasi non lo si sentiva a causa di una fabbrica
di stagno dall’altra parte dell’atrio, il cui rumore copriva ogni cosa. La porta della fabbrica era aperta, tre aiutanti
stavano in semicerchio intorno a un qualche oggetto su cui lavoravano colpendolo con dei martelli. Un grande
lamiera di latta appesa alla parete gettava una pallida luce che si insinuava fra due aiutanti e rischiarava i volti e le tute
da lavoro. K. dedicò a tutto questo uno sguardo fuggevole, voleva sbrigarsi qui il più presto possibile, limitarsi a
interrogare con qualche parola il pittore e tornarsene subito in banca. Se avesse ottenuto qui anche il più piccolo
successo, sul suo lavoro di oggi in banca ciò avrebbe ancora potuto avere un buon effetto. Al terzo piano dovette
moderare il passo, era completamente senza fiato, le scale e i pianerottoli erano oltremodo alti e il pittore
evidentemente abitava lassù in un sottotetto. Anche l’aria era assai opprimente, non c’era una tromba delle scale ma
gli stretti gradini erano chiusi dal muro su entrambi i lati, e solo qua e là sul muro, molto in alto, c’erano delle piccole
finestre. Proprio mentre K. si era fermato un attimo, alcune ragazzine corsero fuori da una abitazione, e ridendo si
precipitarono, superandolo, su per le scale. K. le seguì lentamente, raggiunse una delle ragazze che era inciampata ed
era rimasta indietro e mentre salivano insieme le domandò: "Abita qui un certo pittore Titorelli?" La ragazza, che
avrà avuto tredici anni ed era un po’ gobba, a queste parole lo colpì con il gomito guardandolo di sbieco. Né la sua
età precoce, né il suo difetto fisico avevano potuto impedire che fosse già del tutto corrotta. Non sorrise neppure,
ma guardò seria K., con uno sguardo acuto e invitante. K. fece finta di non accorgersene, e domandò: "Conosci il
pittore Titorelli?" La ragazza fece un cenno con il capo e chiese a sua volta: "Cosa vuole da lui?" A K. sembrò utile
informarsi ancora un po’, alla svelta, a proposito di Titorelli: "Voglio che mi faccia un ritratto", disse. "Un ritratto?"
domandò la ragazza, aprì esageratamente la bocca, colpì leggermente K. con la mano, come se avesse detto qualcosa
di straordinariamente sorprendente o inopportuno, con entrambe le mani si sollevò la gonna, che era già corta per
conto suo, e corse il più veloce che poteva dietro le altre ragazze, le cui grida si perdevano già, indistinte, lassù in alto.
Alla successiva svolta della scala però K. le ritrovò tutte insieme. Evidentemente erano state informate
dell’intenzione di K. dalla loro compagna gobba, e lo aspettavano. Stavano ai due lati della scala, schiacciandosi
contro il muro perché K. potesse passare comodamente in mezzo a loro, e con la mano si stiravano i grembiuli. Le
loro facce, così come questo mettersi in fila, esprimevano un misto di infanzia e di perversione. In cima alla fila delle
ragazze, che ora dopo il passaggio di K. tornavano fra le risa a riunirsi, c’era la gobbetta, che aveva assunto la
posizione di guida. Fu grazie a lei che K. trovò subito la strada giusta. Infatti aveva intenzione di proseguire dritto la
sua salita, ma lei gli accennò che per arrivare da Titorelli doveva prendere una deviazione della scala. La scala per
arrivare dal pittore era particolarmente stretta, molto lunga, senza curve, la si poteva vedere in tutta la sua lunghezza
ed era chiusa in alto dalla porta di Titorelli. Questa era, al contrario della rimanente scala, relativamente ben
illuminata da un lucernario posto obliquo sopra di essa, e consisteva di travi non lavorate, su cui con inchiostro rosso,
a larghe pennellate, era dipinto il nome di Titorelli. K. con il suo seguito non era ancora arrivato a metà di questa
scala quando lassù, evidentemente a motivo del rumore di tutti quei passi, la porta si aprì un poco e nella fessura
comparve un uomo che sembrava vestito della sola camicia da notte. "Oh!" esclamò vedendo arrivare quella folla, e
scomparve. La gobbetta batté le mani per la gioia, e le altre ragazze si ammucchiarono dietro K. per spingerlo avanti
più veloce.

Ancora però non erano arrivati in cima, che lassù il pittore spalancò del tutto la porta e con un profondo inchino
invitò K. a entrare. Le ragazze invece le spinse fuori, e a nessuna permise di entrare per quanto pregassero e per
quanto tentassero di intrufolarsi contro la sua volontà, dato che con il suo permesso era impossibile. Solo la gobbetta
riuscì a sfuggirgli sotto il braccio disteso, ma il pittore la inseguì, la afferrò per la gonna, la fece roteare intorno a sé e
poi la mise davanti alla porta vicino alle sue compagne, le quali non avevano avuto il coraggio, mentre il pittore aveva
lasciato il suo posto, di varcare la soglia. K. non sapeva come giudicare tutto ciò, sembrava infatti che il tutto
avvenisse come d’amore e d’accordo. Le ragazze sulla porta, una dopo l’altra, allungarono il collo verso l’alto,
gridarono al pittore alcune parole scherzose che K. non capì, e anche il pittore si mise a ridere, mentre la gobbetta
che teneva in mano quasi volava per aria. Poi chiuse la porta, si inchinò nuovamente verso K., gli porse la mano e
presentandosi disse: "Titorelli, artista." K. indicò la porta dietro la quale si sentiva il sussurrio delle ragazze, e disse:
"Sembra che in questa casa lei sia molto benvoluto." "Ah, quelle birbanti!" disse il pittore, e cercava inutilmente di
abbottonarsi al collo la camicia da notte. Per il resto era a piedi nudi, e portava solamente un paio di pantaloni larghi
di tela, giallastri, tenuti fermi da una cintura la cui lunga estremità sbatacchiava liberamente di qua e di là. "Queste
birbanti sono un vero peso per me", continuò, lasciando perdere la camicia da notte il cui ultimo bottone alla fine si
era strappato, quindi prese una sedia e costrinse K. a sedersi. "Una volta ho fatto il ritratto a una di loro - una che
oggi non c’è neppure - e da allora mi perseguitano tutte. Quando ci sono io entrano solo su mio permesso, ma
quando esco qui ce n’è sempre almeno una. Si sono fatte fare una chiave della mia porta, e se la prestano a vicenda.
E’ difficile anche solo immaginarsi quanto ciò possa essere fastidioso. Per esempio, vengo a casa con una signora cui
devo fare il ritratto, apro la porta con la mia chiave e trovo ad esempio la gobbetta là vicino al tavolino che con il
pennello si dipinge le labbra di rosso, mentre i suoi fratellini, che lei dovrebbe sorvegliare, girano di qua e di là
sporcando ogni angolo della stanza. Oppure, come mi è successo solo ieri sera, torno a casa tardi la sera - anzi
considerando ciò voglia scusare il mio stato e il disordine della stanza - dunque torno tardi la sera e voglio
andarmene a letto, quando sento un pizzicotto alla gamba, guardo sotto il letto e ne tiro fuori di nuovo una di quelle
marmocchie. Perché ce l’abbiano tanto con me non lo so, lei stesso avrà notato che non sono io a cercare di attirarle.
Naturalmente mi disturbano anche nel mio lavoro. Se questo atelier non mi fosse stato messo a disposizione gratis,
avrei già traslocato da un pezzo." Proprio in quel momento, si udì una vocina dietro la porta gridare, tenera e ansiosa:
"Titorelli, possiamo venire ora?" "No", rispose il pittore. "Nemmeno io da sola?" "Nemmeno", disse il pittore, andò
alla porta e la chiuse a chiave.

K. nel frattempo si era guardato intorno nella stanza, lui non sarebbe mai arrivato all’idea che si potesse chiamare
atelier questa stanzetta miserabile. Per lungo e per largo non si potevano fare più di due lunghi passi. Tutto,
pavimento, pareti e soffitto, era di legno, e fra le assi si potevano vedere delle sottili fessure. Di fronte a K. si trovava,
appoggiato al muro, il letto, sommerso da lenzuola di diversi colori. Nel mezzo della stanza, su un cavalletto, c’era un
quadro coperto da una camicia le cui maniche dondolavano sul pavimento. Dietro K. c’era la finestra, attraverso la
quale, nella nebbia, lo sguardo non andava oltre il tetto della casa vicina, coperto di neve.

Il rumore della chiave nella serratura ricordò a K. che aveva l’intenzione di andarsene alla svelta. Estrasse perciò dalla
tasca la lettera del direttore di fabbrica, la porse al pittore e disse: "Attraverso questo signore, che è un suo
conoscente, ho saputo di lei, e su suo consiglio sono venuto qui." Il pittore diede una scorsa alla lettera e la gettò sul
letto. Se il direttore di fabbrica non avesse parlato nei termini più precisi di Titorelli come di un suo conoscente e
come di un poveretto che viveva delle sue elemosine, si sarebbe ora potuto credere per davvero che Titorelli non lo
conoscesse affatto o per lo meno che non riuscisse a ricordarsene. Inoltre ora il pittore gli chiese: "Lei vuole
comprare un quadro o farsi fare un ritratto?" K. guardò il pittore stupefatto. Cosa c’era scritto allora di preciso nella
lettera? K. aveva dato per scontato che nella lettera il direttore di fabbrica avesse informato il pittore che K. non
voleva altro che avere qui notizie del suo processo. Dunque, si era precipitato qui troppo alla svelta e senza riflettere!
Ora però doveva pur dare una risposta al pittore, e dando uno sguardo al cavalletto disse: "In questo momento sta
lavorando a un quadro?" "Sì", disse il pittore e gettò sul letto, al seguito della lettera, la camicia che pendeva sul
cavalletto. "E’ un ritratto. Un buon lavoro, ma non è ancora completamente pronto." Il caso era favorevole a K., gli
veniva offerta su un piatto l’occasione di parlare del tribunale, perché si trattava evidentemente del ritratto di un
giudice. D’altronde era notevolmente simile al quadro nello studio dell’avvocato. Certo si trattava qui di un giudice
del tutto diverso, un uomo corpulento con una barba nera e folta che raggiungeva sui lati tutta l’ampiezza delle
guance, inoltre il quadro dell’avvocato era un ritratto a olio, mentre questo era eseguito a pastello, con tratti deboli e
indistinti. In tutto il resto però era simile, perché anche qui il giudice, con aria minacciosa, intendeva alzarsi dal suo
seggio, di cui teneva stretti i braccioli. "E’ di sicuro un giudice", avrebbe voluto dire subito K., ma poi per il
momento si trattenne ancora e si avvicinò al quadro, come se volesse studiarlo nei dettagli. Non riusciva a chiarirsi
una grande figura che stava in piedi nel mezzo, dietro lo schienale del seggio, e ne chiese al pittore. "Deve essere
ancora un po’ ritoccata", rispose il pittore, prese un pastello da un tavolino e con quello ripassò un poco i contorni
della figura, senza con questo renderla più chiara agli occhi di K. "E’ la giustizia", disse infine il pittore. "Ora la
riconosco", disse K., "qui c’è la benda intorno agli occhi, e qui la bilancia. Ma mi sembra che abbia anche le ali ai
calcagni e che stia correndo." "Sì", disse il pittore, "mi hanno incaricato di dipingerla così, a rigor di termini è la
giustizia e contemporaneamente anche la dea della vittoria." "Non è una buona associazione", disse K. con un
sorriso, "la giustizia deve stare calma, altrimenti la bilancia vacilla e ogni giudizio diventa impossibile." "In questo mi
adatto agli ordini ricevuti", disse il pittore. "Certo, certo", disse K., che non voleva offendere nessuno con la sua
osservazione. "Lei ha dipinto la figura come sta realmente sul seggio." "No", disse il pittore, "io non ho visto né la
figura né il seggio, è tutta un’invenzione, ma mi hanno detto che cosa dovevo dipingere." "Come?" chiese K.,
intenzionalmente faceva finta di non capire del tutto il pittore, "si tratta comunque di un giudice, seduto sul suo
seggio di giudice." "Sì", disse il pittore, "ma non è un giudice di alto grado, e non ha mai seduto su un simile seggio."
"E ciononostante si fa ritrarre in una posizione così solenne? Se ne sta seduto lì come un presidente di tribunale."
"Sì, i signori sono vanitosi", disse il pittore. "Però per farsi dipingere così hanno l’autorizzazione dei superiori. Ad
ognuno è prescritto nei dettagli come può farsi dipingere. Purtroppo proprio in questo quadro non si possono
valutare bene i dettagli del costume e della sedia, i pastelli non sono adatti a queste raffigurazioni." "Sì", disse K., "è
strano che sia dipinto a pastello." "Lo ha voluto il giudice", disse il pittore, "è destinato a una signora." Sembrava che
guardando il quadro gli fosse venuta voglia di lavorare, si rimboccò le maniche e prese in mano alcuni pastelli, e K.
poté vedere come dopo qualche tratto vibrante di pastello subito accanto alla testa del giudice si venisse formando
un’ombra rossastra, che in forma di raggi si attenuava verso i bordi del quadro. Gradualmente questo gioco d’ombre
circondava la testa come un ornamento o un’alta distinzione. Intorno alla giustizia invece rimaneva chiaro fino a una
sfumatura impercettibile, e in questo chiarore la figura sembrava risaltare particolarmente, non ricordava quasi più la
dea della giustizia, nemmeno però quella della vittoria, ora sembrava molto di più e in tutti i dettagli la dea della
caccia. Il lavoro del pittore attirava K. più di quanto volesse; alla fine però si fece dei rimproveri per essere rimasto
qui tanto tempo senza avere fatto niente di sostanziale per la sua causa. "Come si chiama questo giudice?" chiese a un
tratto. "Non posso dirlo", rispose il pittore, si era piegato profondamente sul quadro e chiaramente trascurava il suo
ospite, che pure in un primo momento aveva ricevuto con tanti riguardi. K. lo considerò un capriccio, e ne fu irritato,
perché gli faceva perdere tempo. "Lei dunque è un uomo di fiducia del tribunale?" domandò. Subito il pittore mise da
parte i pastelli, si raddrizzò, si strofinò le mani e guardò K. con un sorriso. "E’ meglio tirar fuori subito la verità",
disse, "lei vuole sapere qualcosa del tribunale, come d’altronde dice anche la sua lettera di raccomandazione, e ha
cominciato a farmi domande sui miei quadri per guadagnarsi la mia benevolenza. Ma io non me ne ho a male, lei non
poteva certo sapere che da me questo è inopportuno. Oh, la prego!" disse con un deciso gesto di rifiuto, dato che K.
voleva opporre qualcosa. Poi continuò: "Del resto la sua osservazione è del tutto giusta, io sono un uomo di fiducia
del tribunale." Fece una pausa, come se volesse lasciare a K. il tempo di digerire questo dato di fatto. Ora dietro la
porta si udivano di nuovo le ragazze. Sembrava che si affollassero dietro il buco della serratura, forse si poteva
sbirciare nella stanza anche attraverso le fessure. K. tralasciò di scusarsi in qualche modo perché non voleva portare il
pittore fuori tema, ma non voleva neppure che il pittore si innalzasse troppo, rendendosi così in certo modo
irraggiungibile, e perciò chiese: "La sua è una posizione riconosciuta esplicitamente?" "No", disse in breve il pittore,
come se con questo gli fosse impedito ogni ulteriore discorso. Ma K. non voleva che smettesse di parlare, e disse:
"Beh, spesso queste posizioni non riconosciute sono più influenti di quelle riconosciute" "Ed è proprio il mio caso",
disse il pittore e con la fronte aggrottata fece un cenno con il capo. "Ieri parlavo del suo caso con il direttore di
fabbrica, mi chiedeva se non avrei voluto aiutarla, io ho risposto: "Costui può ben venire da me una volta o l’altra", e
ora mi rallegro di vederla qui così alla svelta. Sembra che la cosa le stia molto a cuore, e naturalmente questo non mi
stupisce. Non vuole prima di tutto togliersi la giacca?" Anche se K. intendeva trattenersi pochissimo, questo invito
del pittore gli giunse assai gradito. L’aria della stanza lo opprimeva sempre di più, di tanto in tanto aveva guardato
con stupore nell’angolo una piccola stufa che era senza dubbio spenta; l’afa della stanza era inspiegabile. Mentre si
toglieva il cappotto e si sbottonava anche la giacca, il pittore disse scusandosi: "Io ho bisogno di calore. Si sta bene
qui, non è vero? Da questo punto di vista la stanza è ben disposta." A queste parole K. non rispose, ma a dire il vero
non era il caldo che lo metteva a disagio quanto piuttosto l’aria umida che quasi impediva di respirare, di sicuro nella
stanza non si cambiava l’aria da un pezzo. Questa spiacevole sensazione fu rafforzata per il fatto che il pittore lo
invitò a sedersi sul letto, mentre lui stesso si sedette sull’unica sedia della stanza, davanti al cavalletto. Inoltre il pittore
sembrò non capire perché K. rimanesse sul bordo del letto, ma si mise a insistere che K. poteva mettersi comodo, e
poiché lo vide esitante, gli si avvicinò e lo spinse giù fra materassi e cuscini. Poi tornò alla sua sedia e infine gli pose
la prima domanda concreta, che fece dimenticare a K. tutto il resto. "Lei è innocente?" "Sì", disse K. La risposta a
questa domanda gli diede una vera gioia, soprattutto perché veniva data a un privato, e quindi senza alcuna
responsabilità. Nessuno finora lo aveva interrogato così esplicitamente. Per gustarsi questa felicità, aggiunse ancora:
"Sono completamente innocente." "Ecco", disse il pittore chinando il capo, e sembrava che riflettesse.
Improvvisamente lo rialzò e disse: "Se lei è innocente, la questione è molto semplice." Lo sguardo di K. si oscurò,
questo uomo di fiducia del tribunale parlava ingenuamente come un bambino. "La mia innocenza non semplifica
niente" disse K. Malgrado tutto dovette sorridere, scuotendo lentamente il capo. "Tutto dipende invece da molte
sottigliezze nelle quali il tribunale si perde. Alla fine, da qualche parte dove inizialmente non c’era nulla, tira fuori una
grande colpa." "Sì, sì, certo", disse il pittore, come se K. disturbasse inutilmente il suo ragionamento. "Lei però è
innocente?" "Certo", disse K. "Questa è la cosa principale", disse il pittore. Non c’era modo di intervenire con delle
obiezioni, solo malgrado il suo tono deciso non era chiaro se parlasse così per convinzione o solo per indifferenza.
Prima di tutto K. voleva stabilire questo, e perciò disse: "Certamente lei conosce il tribunale molto meglio di me, io
non ne so molto di più di quello che ho sentito in giro, e oltre tutto dalle persone più diverse. Su un punto però sono
tutti d’accordo, e cioè che le accuse non vengono formulate alla leggera e che il tribunale, quando accusa, è
fermamente convinto della colpa dell’imputato, ed è molto difficile dissuaderlo da questa convinzione." "Difficile?"
chiese il pittore lanciando una mano verso l’alto. "Il tribunale non viene mai dissuaso. Se io dipingessi qui su una tela
tutti i giudici uno in fila all’altro e lei si difendesse davanti alla tela, avrebbe più successo che davanti al vero
tribunale." "Sì", disse K. fra sé e sé, dimenticando che aveva voluto solo scrutare le intenzioni del pittore.

Di nuovo una ragazza cominciò a chiedere dietro la porta: "Titorelli, quello non se ne va ancora?" "Zitte", gridò il
pittore verso la porta, "non vedete che sto avendo un colloquio con questo signore?" Ma questo non bastò alla
ragazza, che chiese: "Gli farai il ritratto?" E siccome il pittore non rispondeva disse ancora: "Per favore non glielo
fare, è un uomo così brutto." Ci fu un susseguirsi incomprensibile di approvazioni. Il pittore fece un balzo verso la
porta, aprì una fessura - si videro le mani tese delle ragazze, congiunte in segno di preghiera - e disse: "Se non state
zitte vi butto giù dalle scale tutte quante. Sedetevi qui sugli scalini e state buone." Probabilmente non ubbidirono
subito, sicché dovette dare un ordine. "Giù sugli scalini!" Solo allora ci fu silenzio.

"Scusi", disse il pittore tornando da K. K. si era appena voltato verso la porta, aveva lasciato al solo pittore la
decisione se e come difenderlo. Anche ora fece appena un movimento quando il pittore si chinò verso di lui e, per
non essere sentito da fuori, gli sussurrò all’orecchio: "Anche queste ragazze appartengono al tribunale." "Come?"
chiese K., si scostò di lato con la testa e guardò il pittore. Questi però si sedette di nuovo sulla sedia e un po’ per
scherzo un po’ per spiegazione disse: "Si sa, tutto appartiene al tribunale." "Questo non lo avevo ancora notato",
disse brevemente K., l’osservazione generica del pittore toglieva ogni aspetto inquietante alla precedente
affermazione sulle ragazze. Ciononostante K. guardò ancora per un po’ la porta dietro la quale stavano sedute sugli
scalini le ragazze, ora silenziose. Solo una di loro aveva infilato una pagliuzza in una fessura fra le travi e la spostava
lentamente su e giù.

"Si direbbe che lei non ha ancora una visione d’insieme del tribunale", disse il pittore, aveva allargato le gambe e con
la punta dei piedi dava dei colpetti sul pavimento. "Ma siccome è innocente non ne avrà neppure bisogno. Io da solo
la tirerò fuori." "E come intende farlo?" chiese K. "Lei stesso ha detto poco fa che il tribunale è del tutto
inaccessibile alle prove documentarie." "Solo per quelle che vengono portate davanti al tribunale", disse il pittore
alzando l’indice, come se K. non avesse afferrato una sottile distinzione. "Le cose stanno altrimenti con i tentativi a
questo proposito fatti dietro le quinte del tribunale ufficiale, e cioè nelle camere di consiglio, nei corridoi o ad
esempio anche qui nell’atelier." Ciò che il pittore stava dicendo non sembrava più ora a K. tanto incredibile, ma anzi
era in perfetto accordo con ciò che K. aveva sentito dire anche da altre persone. Sì, ed era una cosa che riempiva
addirittura di speranza. Se davvero i giudici potevano essere influenzati tanto facilmente dalle relazioni personali,
secondo l’immagine che ne aveva dato l’avvocato, allora i rapporti del pittore con quei giudici vanitosi erano
particolarmente importanti e comunque non andavano in alcun modo sottovalutati. Così il pittore si inseriva molto
bene in quel cerchio di aiutanti che K. stava a poco a poco raccogliendo intorno a sé. Un tempo in banca si era
elogiato il suo talento organizzativo; qui, dove poteva contare solo su se stesso, si presentava una buona occasione di
metterlo alla prova nel modo più estremo. Il pittore osservò l’effetto che la sua dichiarazione aveva fatto su K. e disse
poi con una certa ansietà: "Non si accorge che parlo quasi come un uomo di legge? E’ perché sono influenzato dai
miei rapporti ininterrotti con i signori del tribunale. Naturalmente ne traggo grandi vantaggi, ma l’impeto artistico va
in gran parte perduto." "Ma come è venuto per la prima volta in relazione con i giudici?" chiese K., voleva anzitutto
guadagnarsi la fiducia del pittore prima di prenderlo direttamente al suo servizio. "E’ stato molto semplice", disse il
pittore, "è una relazione che ho ereditato. Già mio padre era pittore del tribunale. Questa è una posizione che si
eredita sempre. Per un compito del genere non si possono usare persone nuove. Infatti per ritrarre i diversi gradi di
funzionario ci sono regole tanto diverse, molteplici e soprattutto segrete che in generale non vengono conosciute al
di fuori di certe famiglie. Lì nel cassetto per esempio ho gli appunti di mio padre, che non mostro a nessuno. Ma solo
chi li conosce è autorizzato a ritrarre i giudici. Tuttavia, anche se li perdessi, mi restano ancora così tante regole che
solo io ho in testa, che nessuno potrebbe mettere in discussione il mio posto. Ogni giudice vuole essere dipinto come
lo furono i grandi giudici del passato, e questo posso farlo solo io." "E’ una cosa da fare invidia", disse K. pensando
al proprio posto in banca, "quindi il suo posto è inamovibile?" "Sì, inamovibile", disse il pittore alzando le spalle con
orgoglio. "E’ per questo che ogni tanto posso anche permettermi di aiutare un poveretto che ha un processo." "E
come lo fa?" chiese K. come se non fosse lui quello che il pittore aveva appena definito un poveretto. Ma il pittore
non si lasciò distrarre, e disse: "Nel suo caso ad esempio, dato che è completamente innocente, farò in questo
modo." Questo ripetere continuamente la sua innocenza dava ormai fastidio a K. A volte gli sembrava che il pittore
con questo ponesse come condizione per il suo aiuto un buon esito del processo, esito che naturalmente avrebbe
reso inutile l’aiuto stesso. Malgrado questo dubbio K. si dominò e non interruppe il pittore. Non voleva rinunciare
all’aiuto del pittore, a questo era deciso, e poi tale aiuto non gli sembrava affatto più discutibile di quello
dell’avvocato. K. anzi lo preferiva addirittura, perché veniva offerto in modo più innocuo ed esplicito.

Il pittore si era tirato la sedia più vicino al letto e a voce smorzata continuò: "Ho dimenticato di chiederle per prima
cosa che tipo di assoluzione desidera. Ci sono tre possibilità, e cioè l’assoluzione vera, l’assoluzione apparente e il
rinvio indeterminato. Naturalmente la migliore è l’assoluzione vera, ma su questo tipo di conclusione io non ho il
minimo influsso. A mio giudizio non c’è assolutamente nessuno che abbia influsso sull’assoluzione vera. E’
verosimile che per questa possibilità sia decisiva solo l’innocenza dell’imputato. Poiché lei è innocente sarebbe
realmente possibile che lei si affidasse unicamente alla sua innocenza. In tal caso però lei non ha bisogno di me né di
alcun altro aiuto."

All’inizio questa esposizione ordinata sorprese K., poi però disse, a bassa voce come il pittore: "Credo che lei si
contraddica." "E in che modo?" chiese paziente il pittore, appoggiandosi con un sorriso alla sedia. Questo sorriso
destò in K. l’impressione di essere sul punto di scoprire contraddizioni non nelle parole del pittore, ma nei
meccanismi stessi del tribunale. Tuttavia non si arrese e disse: "Prima lei ha osservato che il tribunale è inaccessibile
alle prove documentarie, poi ha limitato questa inaccessibilità al tribunale pubblico, e ora afferma addirittura che
l’innocente non ha bisogno di aiuti davanti al tribunale. Questa è già una contraddizione. Inoltre prima lei ha detto
che i giudici possono essere influenzati attraverso relazioni personali, ora invece lei esclude che la vera assoluzione,
come lei la chiama, possa mai essere ottenuta con influenze personali. E questa è la seconda contraddizione."
"Queste contraddizioni sono facili a spiegarsi", disse il pittore. "Stiamo parlando di due cose diverse, lei non deve
confondere quello che sta scritto nella legge con quella che è la mia personale esperienza. Nella legge, che comunque
io non ho letto, c’è scritto naturalmente che l’innocente viene assolto, d’altra parte non c’è scritto che i giudici
possono essere influenzati. Ora, io ho sperimentato proprio il contrario. Non ho mai saputo di vere assoluzioni,
mentre invece so di molti casi di influssi individuali. Naturalmente è possibile che in tutti i casi a me noti non ci fosse
mai innocenza. Ma questo non è inverosimile? Tanti casi, e nemmeno uno innocente? Fin da bambino stavo a sentire
mio padre con attenzione quando a casa raccontava dei processi, anche i giudici che venivano nel suo atelier
raccontavano del tribunale, nella nostra cerchia in generale non si parla d’altro, non appena ho avuto la possibilità di
andare io stesso al tribunale la sfruttavo sempre, ho assistito a innumerevoli processi nei loro stadi importanti e li ho
seguiti finché rimanevano accessibili, e - devo confessarlo - non ho mai osservato neppure una vera assoluzione."
"Neppure una vera assoluzione, dunque", disse K., come parlando a se stesso e alle proprie speranze. "Questo però
conferma l’opinione che avevo già del tribunale. Anche da questo lato dunque esso è senza scopo. L’intero tribunale
potrebbe essere sostituito da un solo carnefice." "Lei non deve generalizzare", disse scontento il pittore, "le ho
parlato solo della mia esperienza." "E’ ben sufficiente", disse K., "oppure lei ha sentito parlare di assoluzioni nei
tempi passati?" "Assoluzioni del genere", rispose il pittore, "devono pur esserci state. Solo, è molto difficile stabilirlo
con certezza. Le decisioni finali del tribunale non vengono pubblicate, sono inaccessibili agli stessi giudici, e di
conseguenza sui casi giudiziari del passato si conservano solo delle leggende. Queste, addirittura per la maggior parte,
riferiscono di vere assoluzioni, sono storie degne di fede, però non sono documentabili. Comunque non le si può del
tutto tralasciare, certamente contengono un fondo di verità, e poi sono molto belle, io stesso ho dipinto alcuni quadri
che hanno per tema leggende del genere." "Non saranno delle semplici leggende a cambiare la mia opinione", disse
K., "immagino che non ci si possa appellare a queste leggende davanti al tribunale." Il pittore rise. "No, non si può
fare." "E allora è inutile parlarne", disse K., per il momento voleva accettare tutte le opinioni del pittore anche se le
riteneva inverosimili e in contraddizione con altre notizie. Ora non aveva il tempo di soppesare la verità di ciò che il
pittore diceva o addirittura di contraddirlo, era già raggiunto il massimo se convinceva il pittore a venirgli in aiuto in
un modo qualsiasi, anche se non decisivo. Perciò disse: "Lasciamo perdere dunque la vera assoluzione, lei ha citato
altre due possibilità." "L’assoluzione apparente e il rinvio. Solo di queste si può trattare", disse il pittore. "Ma prima di
parlare, non vuole togliersi la giacca? Lei ha certamente caldo." "Sì", disse K., che finora aveva prestato attenzione
solo ai chiarimenti del pittore; ora però che gli era stato ricordato il caldo, la sua fronte si coprì di abbondante sudore.
"E’ quasi insopportabile." Il pittore accennò con il capo, come se capisse benissimo il disagio di K. "Non si potrebbe
aprire la finestra?" chiese K. "No", disse il pittore. "E’ solo una lastra di vetro montata fissa, non si può aprire." K. si
accorse ora che per tutto il tempo aveva sperato che ad un tratto il pittore sarebbe andato alla finestra per
spalancarla, oppure che lui stesso lo avrebbe fatto. Era pronto anche a respirare la nebbia a bocca aperta. Il pensiero
di essere qui del tutto escluso dall’aria gli faceva venire le vertigini. Colpì leggermente con la mano il piumino accanto
a sé e disse debolmente: "E’ proprio una cosa scomoda e malsana." "Oh no", disse il pittore a difesa della sua
finestra. "Per il fatto di non poterla aprire, anche se è un vetro semplice, il calore si mantiene meglio che se fosse una
finestra a doppi vetri. Se voglio fare aria, cosa che non è molto necessaria dato che ci sono spifferi dappertutto
attraverso le fessure delle travi, basta che io apra una delle mie porte, o anche tutte e due." Un po’ confortato da
questa spiegazione, K. si guardò intorno per trovare la seconda porta. Il pittore se ne accorse e disse: "E’ dietro di lei,
ho dovuto sbarrarla con il letto." Solo ora K. vide la porticina nel muro. "A dire il vero, tutto qui è troppo piccolo per
un atelier", disse il pittore come per prevenire un rimprovero di K. "Ho dovuto sistemarmi meglio che potevo.
Naturalmente, il letto davanti alla porta è in una posizione pessima. Ad esempio il giudice di cui sto facendo ora il
ritratto viene sempre dalla porta vicino al letto, e di questa porta gli ho anche dato una chiave, perché mi possa
aspettare qui nell’atelier anche quando io non sono a casa. Però di solito viene la mattina presto quando dormo
ancora. Naturalmente quando apre la porta vicino al letto mi strappa sempre dal sono più profondo. Lei perderebbe
ogni rispetto dei giudici se sentisse le maledizioni con cui lo accolgo, quando la mattina presto mi passa sul letto. E’
vero che potrei portargli via la chiave, ma sarebbe ancora peggio. Qui basta una piccolissima spinta per far saltare
tutte le porte dai cardini." Durante tutto questo discorso K. rifletteva se doveva togliersi la giacca, ma poi si rese
conto che non facendolo non sarebbe riuscito a rimanere lì più a lungo, e perciò si tolse la giacca, però se la mise
sulle ginocchia, per poterla rimettere subito se il colloquio fosse finito. Appena si fu tolto la giacca, una delle ragazze
gridò: "Si è già tolto la giacca" e si udì come tutte si affollassero alle fessure per godersi lo spettacolo di persona.
"Vede", disse il pittore, "le ragazze credono che io le farò il ritratto e che lei si stia spogliando per questo." "Dunque",
disse K. poco divertito, perché ora non stava molto meglio di prima, nonostante che fosse lì seduto in maniche di
camicia. Quasi brontolando domandò: "Come ha chiamato le altre due possibilità?" Aveva già dimenticato di nuovo
le espressioni precise. "L’assoluzione apparente e il rinvio", disse il pittore. "Sta a lei scegliere fra queste due.
Entrambe si possono raggiungere con il mio aiuto, naturalmente non senza fatica, da questo punto di vista la
differenza è che l’assoluzione apparente richiede uno sforzo concentrato e limitato nel tempo, il rinvio uno sforzo
molto più piccolo ma duraturo. Prima di tutto dunque parliamo dell’assoluzione apparente. Se le vuole questa, io le
scrivo su un foglio di carta un certificato della sua innocenza. Il testo di un simile certificato mi è stato tramandato da
mio padre ed è assolutamente ineccepibile. Con questo certificato faccio il giro dei giudici che conosco. Per esempio
potrei cominciare leggendo il certificato al giudice di cui sto facendo il ritratto, stasera quando viene. Gli presento il
certificato, gli dichiaro che lei è innocente e mi faccio garante della sua innocenza. Questa però non è una garanzia
puramente esteriore, ma è reale e vincolante." Nello sguardo del pittore c’era come un rimprovero che K. volesse
imporgli una simile garanzia. "Sarebbe certo molto gentile", disse K. "E il giudice potrebbe crederle e nonostante ciò
non assolvermi veramente?" "L’ho già detto", rispose il pittore. "D’altronde non è affatto sicuro che mi crederebbero
tutti, qualche giudice ad esempio pretenderà che io la porti da lui. In tal caso lei dovrà venire una volta con me. Però
in tal caso la cosa è già riuscita per metà, soprattutto perché naturalmente io la istruirei prima su come si dovrebbe
comportare con quel particolare giudice. Le cose stanno peggio con i giudici che - anche questo succederà - mi
dovessero respingere in anticipo. Di questi dovremo fare a meno, anche se certo non mancherò di provare più volte;
d’altronde possiamo anche permettercerlo, perché in un caso del genere singoli giudici non possono essere decisivi.
Quando dunque avrò un numero sufficiente di firme di giudici sotto il certificato, andrò con quello dal giudice che in
questo momento ha in mano il suo processo. Può darsi che io abbia anche la sua firma, in tal caso il tutto andrà
avanti un po’ più veloce. In generale però a quel punto non ci saranno più molti ostacoli, per l’imputato quello è il
momento di avere la massima fiducia. Strano ma vero, in momenti del genere la gente è più fiduciosa che dopo
l’assoluzione. Non c’è più bisogno di sforzi particolari; nel certificato il giudice ha la garanzia di un certo numero di
giudici, può assolverla senza preoccupazioni e per far piacere a me e ad altri conoscenti lo farà senz’altro, dopo
l’espletamento di diverse formalità. Così lei esce dal tribunale ed è libero." "In tal caso allora sono libero", disse K.
esitante. "Sì", disse il pittore, "ma è libero solo apparentemente, o per dir meglio temporaneamente. Infatti i giudici di
grado inferiore, come sono quelli che io conosco, non hanno il diritto di assolvere definitivamente, questo diritto ce
l’ha solo il tribunale superiore, del tutto irraggiungibile per lei, per me e per noi tutti. Che aspetto abbia lassù noi non
lo sappiamo, né, sia detto di sfuggita, ci interessa saperlo. Il grande diritto di liberare dall’accusa dunque i nostri
giudici non ce l’hanno, invece hanno il diritto di sciogliere dall’accusa. Questo significa che se lei viene assolto in
questo modo per il momento è sottratto all’accusa, questa però continua a librarsi sulla sua testa e può, appena
giungesse un ordine superiore, entrare subito in azione. Dato che io sono con il tribunale in un rapporto tanto stretto
posso anche dirle come è descritta, superficialmente, la differenza fra assoluzione reale e assoluzione apparente nelle
prescrizioni per le cancellerie del tribunale. In caso di assoluzione definitiva gli atti del processo devono essere
completamente archiviati, scompaiono completamente dalla pratica, e non solo l’accusa, ma anche il processo e
persino la sentenza di assoluzione vengono annullati, tutto è annullato. Non così nell’assoluzione apparente. Niente
cambia negli atti, tranne l’aggiunta del certificato di innocenza, dell’assoluzione e delle motivazioni di quest’ultima.
Per il resto però tutto resta nella pratica, la quale, come esige l’ininterrotto traffico delle cancellerie del tribunale,
viene inoltrata ai tribunali superiori, poi rimandata a quelli inferiori e così fa su e giù, con grandi o piccole
accelerazioni, con grandi o piccoli arresti. Questi percorsi sono incalcolabili. A un osservatore esterno può sembrare
talvolta che tutto sia dimenticato da un pezzo, che gli atti siano andati perduti e che l’assoluzione sia completa. Un
esperto non ci crederebbe. Nessun atto va perduto, presso il tribunale non esiste l’oblio. Un giorno - quando nessuno
se lo aspetta - un qualche giudice prende in mano l’atto con maggiore attenzione, si accorge che in questo caso
l’accusa è ancora in vigore e ordina l’immediato arresto. Ho fatto qui l’ipotesi che fra l’assoluzione apparente e il
nuovo arresto passi molto tempo, è possibile e io stesso conosco casi del genere, ma è altrettanto possibile che
l’individuo assolto torni a casa dal tribunale e trovi lì degli incaricati che già lo aspettano per arrestarlo di nuovo.
Allora naturalmente la vita in libertà è finita." "E il processo ricomincia da capo?" chiese K., quasi incredulo. "Eh sì",
disse il pittore, "il processo ricomincia da capo, ma di nuovo come prima c’è la possibilità di ottenere, a forza di
raccomandazioni, un’assoluzione apparente. Bisogna raccogliere di nuovo tutte le forze e non perdersi d’animo."
Quest’ultima cosa il pittore la disse forse per l’impressione ricevuta da K., che appariva un po’ demoralizzato. "Ma",
chiese K., come se ora volesse prevenire una qualche rivelazione del pittore, "ottenere in questo modo una seconda
assoluzione non è più difficile che ottenere la prima?" "A questo proposito", rispose il pittore, "non si può dire nulla
di preciso. Lei vuol dire forse che i giudici sono influenzati nel loro giudizio a sfavore dell’imputato a motivo di
questo secondo arresto? Questo no. Già al momento dell’assoluzione i giudici hanno previsto questo nuovo arresto;
dunque, tale circostanza è pressoché ininfluente. E’ vero però che il loro umore così come la loro visione giuridica
del caso possono essere cambiati per innumerevoli altri motivi, e perciò gli sforzi per ottenere una seconda
assoluzione devono essere adeguati alle mutate circostanze, e in generale altrettanto energici quanto quelli impiegati
in occasione della prima assoluzione." "Ma allora neppure questa seconda assoluzione è definitiva", disse K.
volgendo la testa come per rifiuto. "Naturalmente no", disse il pittore, "alla seconda assoluzione segue il terzo
arresto, alla terza assoluzione il quarto arresto e così via. E’ implicito nel concetto stesso di assoluzione apparente."
K. tacque. "Evidentemente l’assoluzione apparente non le sembra vantaggiosa", disse il pittore, "forse il rinvio
corrisponde meglio ai suoi desideri. Vuole che le spieghi in cosa consiste?" K. fece cenno di sì. Il pittore si era
appoggiato comodo alla sua sedia, la camicia da notte era ampiamente aperta e lui, infilata una mano, si carezzava il
petto e i fianchi. "Il rinvio", disse il pittore guardando per un attimo davanti a sé, come per cercare una definizione
perfettamente calzante, "il rinvio consiste in questo, che il processo viene continuamente trattenuto nei suoi stadi più
bassi. Per ottenere ciò, è necessario che l’avvocato e l’aiutante, ma soprattutto l’aiutante, siano in contatto personale e
ininterrotto con il tribunale. Ripeto, qui non c’è bisogno di tanta energia quanta è necessaria per l’assoluzione
apparente, però ci vuole uno sforzo di attenzione molto maggiore. Non bisogna mai perdere d’occhio il processo,
bisogna andare dal relativo giudice a intervalli regolari e oltre a ciò in particolari occasioni, e cercare di tenerselo
amico in ogni modo; se non si conosce personalmente il giudice, bisogna farlo influenzare da giudici che si
conoscono, senza che per questo si possa fare a meno dei colloqui diretti. Se così facendo non si tralascia nulla, si
può ipotizzare con sufficiente sicurezza che il processo non andrà oltre il suo primo stadio. Certo, il processo non si
interrompe, però l’imputato è quasi altrettanto al riparo da una condanna che se fosse libero. Rispetto all’assoluzione
apparente, il rinvio ha il vantaggio che il futuro dell’imputato è meno incerto, rimane al sicuro dallo spavento degli
arresti improvvisi, e anche quando per esempio tutte le altre circostanze sono meno favorevoli, non deve temere di
sobbarcarsi le fatiche e le agitazioni connesse a un’assoluzione apparente. Anche il rinvio comunque presenta per
l’imputato certi svantaggi che non devono essere sottovalutati. Non mi riferisco al fatto che l’imputato non è mai
libero, in senso stretto non lo è neppure nell’assoluzione apparente. E’ uno svantaggio di altro tipo. Il processo non
può rimanere fermo senza un motivo almeno apparente. Perciò, almeno esteriormente, nel processo deve sempre
succedere qualcosa. Così ogni tanto bisogna dare alcune disposizioni, l’imputato deve essere interrogato, si devono
fare delle indagini e così via. Bisogna far girare in tondo il processo all’interno del piccolo cerchio nel quale è stato
artificialmente costretto. Naturalmente questo comporta per l’imputato un certo numero di fastidi, che però non
sono neppure da immaginarsi come troppo pesanti. E’ tutta una cosa formale, gli interrogatori ad esempio sono
brevissimi, se per una volta non si ha tempo o voglia di andare ci si può scusare, con certi giudici poi si possono
addirittura stabilire insieme in anticipo le disposizioni per un lungo lasso di tempo, essenzialmente si tratta di questo,
che dato che si è imputato bisogna ogni tanto farsi vivo con il proprio giudice." Già durante queste ultime parole K.
si era messo la giacca sotto braccio e si era alzato. "Si è già alzato" si udì subito esclamare fuori della porta. "Lei vuole
andarsene già?", chiese il pittore, che si era alzato anche lui. "E’ certamente l’aria che la fa scappare. Mi dispiace
molto. Avevo da dirle ancora alcune cose. Ho dovuto esprimermi in termini molto sintetici. Spero però di essere
stato chiaro." "Oh sì", disse K., cui lo sforzo di ascoltare aveva fatto venire mal di testa. Malgrado questa
assicurazione, il pittore, come per dare a K. un conforto sulla via di casa, disse ancora a mo’ di riassunto: "Entrambi i
metodi hanno questo in comune, che impediscono una condanna dell’imputato." "Però impediscono anche la vera
assoluzione", disse piano K., come se si vergognasse di averlo notato. "Lei ha afferrato il nocciolo della cosa", disse
veloce il pittore. K. posò la mano sul suo cappotto, ma non poté decidersi neppure a indossare la giacca. Avrebbe
preferito raccogliere tutto alla bell’e meglio e correre fuori all’aria fresca. Neppure le ragazze poterono spingerlo a
vestirsi, anche se queste cominciarono a gridarsi a vicenda in anticipo che si stava vestendo. Il pittore ci teneva a
capire in qualche modo l’umore di K., e disse perciò: "Certo lei non ha ancora deciso per ciò che riguarda le mie
proposte. Mi sembra naturale. Io stesso le avrei sconsigliato di decidere così su due piedi. Vantaggi e svantaggi si
distinguono per sfumature. Bisogna valutare il tutto con precisione. D’altra parte non si può neppure perdere troppo
tempo." "Tornerò presto", disse K., con decisione improvvisa indossò la giacca, si gettò il mantello sulle spalle e si
affrettò alla porta, dietro la quale ora le ragazze cominciarono a gridare. K. ebbe l’impressione di vederle gridare al di
là della porta. "Lei però deve mantenere la parola", disse il pittore, che non lo aveva seguito, "altrimenti vengo in
banca di persona per informarmi." "Mi apra la porta", disse K. e tirò la maniglia che le ragazze, come si accorse dalla
resistenza che opponeva, stavano bloccando dall’altra parte. "Vuole che le ragazze le diano noia?" chiese il pittore.
"Usi piuttosto questa uscita", e indicò la porta dietro il letto. K. fu d’accordo e corse indietro verso il letto. Ma il
pittore, anziché aprire la porta, strisciò sotto il letto e da lì sotto domandò: "Un momento solo. Non vuole dare
ancora un’occhiata a un quadro che potrei venderle?" K. non voleva essere scortese, il pittore si era veramente
occupato di lui e inoltre gli aveva promesso di aiutarlo, e poi per colpa della distrazione di K. ancora non si era
neppur parlato della ricompensa per il suo aiuto; perciò K. non si poté rifiutare e lasciò che gli mostrasse il quadro,
anche se tremava per l’impazienza di andarsene dall’atelier. Il pittore tirò fuori da sotto il letto un cumulo di quadri
senza cornice, tanto impolverati che, quando il pittore soffiò sul quadro in cima al mucchio, la polvere roteò per un
pezzo davanti agli occhi di K., togliendogli il respiro. "Un paesaggio di brughiera", disse il pittore allungando il
quadro a K. Rappresentava due alberi stinti, lontani l’uno dall’altro sull’erba scura. Sullo sfondo c’era un tramonto
multicolore. "Bello", disse K., "lo compro." Era stato tanto conciso solo per sbadataggine, così fu contento quando il
pittore, anziché aversene a male, tirò su dal pavimento un altro quadro. "Questo è il suo compagno", disse il pittore.
Forse poteva essere considerato come il suo compagno, ma fra il primo e il secondo quadro non si notava la minima
differenza, qui c’erano gli alberi, qui l’erba e lì il tramonto. Ma a K. importava poco. "Sono bei paesaggi", disse, "li
compro entrambi e li appenderò nel mio ufficio." "Sembra che il motivo le piaccia", disse il pittore estraendo un
terzo quadro, "è una fortuna che io ne abbia ancora uno simile." Ma non era soltanto simile, piuttosto era
esattamente lo stesso paesaggio di brughiera di prima. Il pittore sfruttava bene questa occasione di vendere vecchi
quadri. "Prendo anche questo", disse K. "Quanto costano tutti e tre?" "Di questo parleremo la prossima volta", disse
il pittore, "ora lei ha fretta, e comunque rimaniamo in contatto. D’altra parte sono contento che i quadri le piacciano,
le darò tutti i quadri che tengo qua sotto. Sono solo paesaggi di brughiera, ho già dipinto molti paesaggi di brughiera.
C’è gente che rifiuta quadri del genere perché sono tetri, altri invece amano proprio il genere tetro, e lei fa parte di
questi ultimi." Ora però K. non era in vena di stare a sentire le esperienze professionali di quel pittore straccione.
"Me ne faccia un pacco di tutti", esclamò interrompendo il pittore, "domani verrà un mio inserviente a prenderli."
"Non è necessario", disse il pittore. "Spero di poterle procurare un fattorino che venga via con lei." E finalmente si
piegò sul letto, e aprì la porta. "Non si faccia scrupolo di salire sul letto", disse il pittore, "lo fanno tutti quelli che
vengono qui." Anche senza questo invito K. non avrebbe avuto riguardi, aveva persino già messo un piede sul
piumino quando attraverso la porta aperta diede uno sguardo all’esterno e tirò di nuovo indietro il piede. "Cos’è
questo?" chiese al pittore. "Di cosa si meraviglia?" gli chiese questi a sua volta stupito. "Sono le cancellerie del
tribunale. Non sapeva che qui ci sono le cancellerie del tribunale? Quasi in ogni soffitta ci sono cancellerie, perché
dovevano mancare proprio qui? A rigor di termini anche il mio atelier appartiene alle cancellerie, il tribunale però me
lo ha messo a disposizione." K. si spaventò non tanto per il fatto di aver trovato anche qui cancellerie del tribunale,
ma soprattutto per se stesso, per la propria ignoranza in materie giuridiche. Gli sembrava una regola fondamentale
per il comportamento di un imputato essere sempre pronto a tutto, non lasciarsi mai cogliere di sorpresa, non
mettersi a guardare ignaro verso destra quando il giudice fosse vicino a lui a sinistra - e proprio questa regola
fondamentale la trasgrediva sempre. Davanti a lui si estendeva un lungo corridoio, dal quale proveniva un soffio
d’aria al cui confronto l’aria dell’atelier sembrava fresca. Da una parte e dall’altra del corridoio erano state poste delle
panche proprio come nella sala d’attesa della cancelleria competente per il caso di K. Sembrava che ci fossero delle
regole precise per l’arredamento delle cancellerie. Al momento, non c’era qui molto traffico di parti in causa. In un
punto era seduto, mezzo sdraiato, un uomo col volto fra le braccia appoggiate sulla panca, e sembrava che dormisse;
un altro stava in piedi nella penombra in fondo al corridoio. K. ora passò sopra il letto, il pittore lo seguì con i quadri.
Presto incontrarono un usciere del tribunale - K. era adesso in grado di riconoscere tutti gli uscieri del tribunale dal
bottone d’oro che portavano sui loro vestiti borghesi in mezzo ai soliti bottoni - e il pittore lo incaricò di
accompagnare K. con i quadri. Più che camminare K. barcollava, con il fazzoletto premuto alla bocca. Quando erano
vicini all’uscita corsero loro incontro le ragazze, che perciò neppure così erano state risparmiate a K. Evidentemente
avevano visto che la seconda porta dell’atelier era stata aperta, e avevano fatto il giro per infilarsi da questa parte.
"Non posso accompagnarla oltre", esclamò ridendo il pittore, sotto la spinta delle ragazze. "Arrivederci! E non ci
pensi troppo a lungo!" K. non si voltò neppure indietro per guardarlo. Sulla strada, prese la prima carrozza che
capitò. Ci teneva a liberarsi dell’usciere, il cui bottone d’oro gli dava continuamente nell’occhio, anche se
probabilmente nessun altro ci faceva caso. Servizievole com’era, l’usciere avrebbe voluto mettersi a cassetta, ma K. lo
costrinse a scendere. Quando K. arrivò davanti alla banca mezzogiorno era passato da un pezzo. Avrebbe preferito
lasciare i quadri nella carrozza, ma temeva che per un motivo qualsiasi avrebbe potuto trovarsi nella necessità di
giustificarsi di loro nei confronti del pittore. Perciò li fece portare nel suo ufficio e li chiuse a chiave nell’ultimo
cassetto della sua scrivania, dove, almeno per i prossimi giorni, sarebbero stati al riparo dagli sguardi del vicedirettore.
8) Il commerciante Block. Licenziamento dell'avvocato

Alla fine K. si era deciso a togliere la delega all’avvocato. I dubbi sulla giustezza di una simile azione non si potevano
eliminare, ma prevalse la convinzione che essa fosse necessaria. La decisione gli aveva sottratto molta capacità di
lavoro nella giornata in cui voleva andare dall’avvocato, lavorava in modo particolarmente lento, dovette rimanere in
ufficio a lungo ed erano già passate le dieci quando fu finalmente davanti alla porta dell’avvocato. Fino a un
momento prima di suonare si chiese se non sarebbe stato meglio licenziare l’avvocato per telefono o per lettera, il
colloquio di persona sarebbe stato certamente assai penoso. Tuttavia alla fine K. non ci volle rinunciare, in ogni altro
modo il licenziamento sarebbe stato accolto in silenzio o con qualche frase di circostanza, e se Leni non avesse
potuto scoprire qualcosa K. non avrebbe mai saputo come l’avvocato aveva preso il licenziamento e quali
conseguenze esso avrebbe avuto secondo la sua opinione, opinione che non era poco importante. Ma standogli
seduto di fronte, colto di sorpresa dal licenziamento, anche se l’avvocato non si fosse fatto sfuggire nulla K. avrebbe
potuto facilmente capire tutto quel che voleva dal suo volto e dai suoi gesti. Non era neppure escluso per K. di poter
essere convinto a lasciare la difesa all’avvocato e quindi revocarne il licenziamento.

Come al solito, il primo suono di campanello alla porta dell’avvocato non ebbe successo. "Leni potrebbe anche
essere più svelta", pensò K. Ma era già un vantaggio se non si immischiava come al solito l’altro inquilino, che
cominciasse a disturbare l’uomo in pigiama o chiunque altro. Premendo una seconda volta il campanello, K. si voltò a
guardare l’altra porta, ma stavolta rimase chiusa anche quella. Alla fine allo sportellino della porta dell’avvocato
comparvero due occhi, ma non erano gli occhi di Leni. Qualcuno aprì la porta, ma ancora per un attimo la tenne
accostata, gridò all’interno: "E’ lui", e solo dopo la aprì completamente. K. si era appoggiato contro la porta perché
sentiva dietro di sé che qualcuno girava in fretta la serratura alla porta dell’altro appartamento. Perciò quando alla fine
la porta gli si aprì davanti, K. entrò come un turbine in anticamera e fece ancora in tempo a vedere Leni, cui era
destinato l’avvertimento di chi aveva aperto la porta, che correva via, in camicetta, lungo il corridoio che divideva le
stanze. Rimase a guardare per un po’, quindi si voltò verso la persona che aveva aperto. Era un omino secco con la
barba che teneva in mano una candela. "Lei è impiegato qui?" chiese K. "No", rispose l’uomo, "sono un estraneo qui,
l’avvocato è solo il mio difensore, sono qui per una questione legale." "Senza giacca?" chiese K. indicando con un
movimento della mano l’abbigliamento incompleto dell’uomo. "Ah, mi scusi", disse l’uomo illuminandosi con la
candela, come se si accorgesse solo ora del suo stato. "Leni è la sua amante?" chiese conciso K. Aveva allargato un
po’ le gambe e teneva le mani, che reggevano il cappello, intrecciate dietro la schiena. Già per il fatto di avere un
cappotto pesante si sentiva molto superiore a quell’uomo magro e piccoletto. "Oh Dio", disse quello, alzando una
mano davanti alla faccia come per negare spaventato, "no, no, cosa le salta in mente?" "Lei sembra degno di fede",
disse K. con un sorriso, "tuttavia - venga." Gli fece cenno con il cappello e lo fece andare avanti. "Come si chiama
dunque?" chiese K. mentre andavano. "Block, commerciante Block", disse il piccoletto e a questa presentazione si
voltò verso K., ma K. non lasciò che si fermasse. "E’ il suo vero nome?" chiese K. "Certo", fu la risposta, "perché le
viene il dubbio?" "Ho pensato che lei potrebbe avere dei motivi per nascondere la sua identità" disse K. Si sentiva
libero come lo si può essere quando in un paese straniero si parla con gente inferiore tacendo tutto ciò che riguarda
se stessi e chiacchierando con indifferenza solo dei fatti dell’altro, come alzandoli con questo davanti a sé ma
potendo, all’occorrenza, lasciarli anche cadere. Giunto alla porta dello studio dell’avvocato K. si fermò, la aprì e gridò
al commerciante, che ubbidiente aveva proseguito: "Non tanta fretta! Faccia luce qui." K. pensava che Leni potesse
essersi nascosta qui, fece cercare il commerciante in ogni angolo, ma la stanza era vuota. Davanti al quadro del
giudice K. trattenne il commerciante da dietro per le bretelle. "Lo conosce?" chiese alzando l’indice verso l’alto. Il
commerciante alzò la candela, guardò in alto stringendo gli occhi e disse: "E’ un giudice." "Un giudice di alto grado?"
chiese K., e si mise di lato davanti al commerciante per vedere l’effetto che il quadro faceva su di lui. Il commerciante
guardò in su con ammirazione. "E’ un giudice di alto grado", disse. "Lei non se ne intende molto", disse K. "Fra i
giudici istruttori di basso grado, questo è il più in basso." "Ora mi ricordo", disse il commerciante abbassando la
candela, "lo avevo anche già sentito dire." "Ma naturale", esclamò K., "dimenticavo, naturalmente lei deve averlo già
sentito dire." "Ma perché poi, perché?" chiese il commerciante mentre si spostava da lì spinto da K. con le mani. Nel
corridoio K. disse: "Allora, lei sa dove si è nascosta Leni?" "Nascosta?" disse il commerciante, "no, ma dovrebbe
essere in cucina a fare una minestra all’avvocato." "E perché non lo ha detto subito?" chiese K. "Io ce la volevo
portare, ma lei mi ha richiamato indietro", rispose il commerciante, come confuso dagli ordini contraddittori. "Lei si
crede di essere molto furbo", disse K., "mi ci porti allora!" K. non era ancora mai stato in cucina, era
sorprendentemente grande e arredata con sfarzo. Già il camino era tre volte più grande del normale, per il resto non
si potevano vedere i particolari, perché in questo momento la cucina era illuminata solo da una piccola lampadina
appesa all’ingresso. Al camino c’era Leni, in grembiule bianco come al solito, e stava rompendo uova in un tegame
posto su un fornello a spirito. "Buona sera Josef", disse lanciando uno sguardo di lato. "Buona sera" disse K., e con
una mano indicò una sedia posta in disparte su cui doveva sedersi il commerciante, cosa che quest’ultimo fece. K.
invece si accostò dietro Leni, si curvò sulla sua spalla e chiese: "Chi è quell’uomo?" Leni abbracciò K. con una mano
mentre con l’altra continuava a girare la minestra, se lo tirò davanti e disse: "E’ uno da compatire, un povero
commerciante, un certo Block. Ma guardalo." Si voltarono entrambi a guardare. Il commerciante se ne stava seduto
sulla sedia che K. gli aveva destinato, con un soffio aveva spento la candela, la cui luce era ora inutile, e con le dita
schiacciava il lucignolo per impedire il fumo. "Eri in camicetta", disse K. e con la mano le girò di nuovo il volto verso
il camino. Lei tacque. "E’ il tuo amante?" chiese K. Lei voleva prendere la pentola, ma K. le afferrò entrambe le mani
e disse: "Rispondimi!" Lei disse: "Vieni nello studio, ti spiegherò tutto." "No", disse K., "voglio che tu me lo spieghi
qui." Lei gli si aggrappò e lo voleva baciare, ma K. la respinse e disse: "Non voglio che tu mi baci ora" "Josef", disse
Leni e guardò K. negli occhi, implorante ma sincera, "non sarai davvero geloso del signor Block. Rudi", disse poi
rivolgendosi al commerciante, "vienimi in aiuto, guarda, hanno dei sospetti su di me, lascia stare la candela." Si
poteva pensare che non fosse stato a sentire, invece era tutto intento. "Nemmeno io saprei perché lei dovrebbe essere
geloso", disse con poca prontezza. "A dire il vero non lo so neppure io", disse K. e guardò il commerciante con un
sorriso. Leni rise forte, sfruttò la distrazione di K. per prenderlo a braccetto e sussurrò: "Lascialo perdere ora, non lo
vedi che razza di uomo è. Mi sono presa un po’ cura di lui perché è un importante cliente dell’avvocato, per
nessun’altra ragione. E tu? Vuoi parlare con l’avvocato proprio oggi? Oggi è molto malato, ma se vuoi ti annuncio.
Stanotte però resti con me, questo è sicuro. E’ già un po’ che non vieni da noi, anche l’avvocato ha chiesto di te. Non
trascurare il processo! Anch’io ho da comunicarti alcune cose che sono venuta a sapere. Ma ora, per prima cosa
togliti il mantello!" Lo aiutò a toglierselo, gli prese il cappello, corse coi vestiti in anticamera ad appenderli, quindi di
corsa tornò indietro ed esaminò la minestra. "Devo prima annunciarti o prima gli porto la minestra?" "Prima
annunciami", disse K. Era in collera, da principio aveva avuto l’intenzione di discutere con Leni la sua faccenda e
soprattutto i suoi dubbi a proposito del licenziamento, ma poi la presenza del commerciante gliene aveva fatto
passare la voglia. Ora però la sua questione gli sembrava troppo importante perché questo piccolo commerciante
potesse influenzarla in maniera decisiva, e così chiamò indietro Leni, che si trovava già nel corridoio. "Portagli prima
la minestra", disse, "deve rinforzarsi per il colloquio con me, ne avrà bisogno." "Anche lei è un cliente dell’avvocato",
disse piano dal suo angolo il commerciante, come di una cosa stabilita. La sua frase però non fu accolta bene. "E a lei
che importa?" disse K., e Leni disse: "Vuoi stare zitto." "Allora per prima cosa gli porto la minestra" disse Leni e
versò la minestra in un piatto. "L’unico timore è che dopo si addormenti, dopo mangiato si addormenta alla svelta."
"Quel che gli dirò lo terrà sveglio", disse K., in ogni momento voleva lasciar trapelare che intendeva trattare con
l’avvocato qualcosa di importante, voleva che Leni gli chiedesse di cosa si trattava, e solo allora le avrebbe chiesto
consiglio. Ma lei si limitava a eseguire minuziosamente gli ordini espressi. Passandogli vicino con la tazza lo urtò
piano e con intenzione, sussurrando: "Appena ha mangiato la minestra ti annuncio subito, così ti ho indietro di
nuovo il più presto possibile." "Vai ora", disse K., "vai." "Sii più gentile, però", disse lei, e sulla soglia si girò ancora
una volta.

K. rimase a guardare verso di lei; ora la decisione di licenziare l’avvocato era definitiva, ed era anche meglio che non
avesse avuto la possibilità di parlarne prima con Leni; non aveva una sufficiente visione complessiva delle cose, lo
avrebbe certamente sconsigliato, forse sarebbe anche riuscita, per questa volta, a trattenere veramente K. dal
licenziamento, lui sarebbe rimasto ancora nel dubbio e nell’inquietudine e alla fine, dopo un po’ di tempo, avrebbe
comunque portato a termine la sua decisione, perché era veramente una questione di forza maggiore. Quanto prima
veniva eseguita, tanto maggiore era il danno evitato. D’altronde, forse il commerciante avrebbe avuto qualcosa da
dire al proposito.

K. si voltò, e non appena il commerciante se ne accorse voleva alzarsi in piedi. "Resti seduto", disse K. e si avvicinò a
lui con una sedia. "Lei è già un vecchio cliente dell’avvocato?" "Sì", disse il commerciante, "un cliente molto vecchio."
"Da quanti anni la difende?" "Non so cosa intende", disse il commerciante, "in questioni commerciali - io ho un
commercio di granaglie - l’avvocato mi difende da quando ho il commercio, cioè da circa vent’anni; e anche nel mio
processo, al quale forse si riferisce, mi difende fin dall’inizio, e sono già più di cinque anni. Sì, molto più di cinque
anni" aggiunse poi tirando fuori un vecchio portafoglio, "ho scritto tutto qui, se vuole le dico le date precise. E’
difficile ricordarsi tutto. Forse il mio processo dura da molto più tempo, è cominciato poco dopo la morte di mia
moglie, e questo è avvenuto più di cinque anni e mezzo fa." K. gli si fece più vicino. "Allora l’avvocato si occupa
anche di giurisprudenza ordinaria?" chiese. Questa associazione di tribunale e scienze giuridiche gli sembrava
straordinariamente tranquillizzante. "Certamente", disse il commerciante e sussurrò poi a K.: "Si dice addirittura che
in queste faccende giuridiche sia più abile che nelle altre." Ma poi sembrò pentirsi di quel che aveva detto, mise a K.
una mano sulla spalla e disse: "La scongiuro, non mi tradisca." Per tranquillizzarlo K. gli diede un colpetto sulla
coscia e disse: "No, non sono un traditore." "In effetti, l’avvocato è vendicativo", disse il commerciante. "Certamente
non farà nulla contro un cliente tanto fedele", disse K. "Oh, non è così", disse il commerciante, "Quando si agita non
fa più distinzioni, e poi non è proprio vero che io gli sono fedele." "Cosa intende?" chiese K. "Posso fidarmi a
dirglielo?" chiese dubbioso il commerciante. "Penso che lei possa", disse K. "Allora", disse il commerciante, "io glielo
confiderò in parte, anche lei però deve dirmi un segreto, in modo che possiamo tenerci in pugno a vicenda di fronte
all’avvocato." "Lei è molto prudente", disse K., "ma io le confiderò un segreto che la tranquillizzerà completamente.
In che consiste dunque la sua infedeltà nei confronti dell’avvocato?" "Oltre a lui", disse il commerciante esitante e
come se confessasse qualcosa di infamante, "oltre a lui ho anche altri avvocati." "Non è una cosa tanto grave", disse
K. un po’ deluso. "In questo caso sì", disse il commerciante, che dopo la sua confessione respirava ancora a
malapena, ma che aveva ripreso un po’ di fiducia dopo l’osservazione di K. "Non è permesso. E tanto meno è
permesso prendere, oltre a un cosiddetto avvocato, anche degli azzeccagarbugli. E proprio questo è quello che ho
fatto io, oltre a lui ho cinque azzeccagarbugli." "Cinque!" esclamò K., solo il numero lo riempiva di stupore, "cinque
avvocati oltre a questo?" Il commerciante fece cenno di sì: "Proprio ora sono in trattative con un sesto." "Ma a cosa
le servono tanti avvocati?", chiese K. "Mi servono tutti", disse il commerciante. "Non me lo vorrebbe spiegare?"
"Volentieri", disse il commerciante. "Prima di tutto non voglio perdere il mio processo, questo va da sé. Di
conseguenza non posso tralasciare nulla di ciò che potrebbe essermi utile; anche quando in un dato caso la speranza
che mi sia utile è limitata, non posso tuttavia trascurarla. Perciò ho impiegato nel processo tutto quel che possiedo.
Così, per esempio, ho sottratto tutto il mio denaro alla mia attività commerciale, prima gli uffici del mio negozio
occupavano quasi un pianerottolo, ora basta una stanzetta sul retro, dove lavoro con un apprendista. Questo
arretramento è dovuto naturalmente non solo al decrescere del mio patrimonio, ma anche e soprattutto al decrescere
della mia energia lavorativa. Se si vuole fare qualcosa per il proprio processo, non ci si può occupare molto del resto."
"Allora lei lavora in prima persona in tribunale?" chiese K. "Proprio di questo vorrei sapere qualcosa." "Non saprei
dirne molto", disse il commerciante, "all’inizio ci ho anche provato, ma ho rinunciato presto. E’ troppo stancante, e
non porta molto successo. Lavorare lì e intanto negoziare, questo si è dimostrato del tutto impossibile, almeno per
me. Già star lì seduto e aspettare è una grossa tensione. Lei stesso conosce certamente l’aria pesante delle
cancellerie." "Come fa a sapere che ci sono stato?" chiese K. "Ero nella sala d’aspetto proprio mentre lei ci passava."
"Che coincidenza!" esclamò K. tutto assorto e dimenticando completamente di aver prima giudicato ridicolo il
commerciante, "allora lei mi ha visto! Lei era nella sala d’aspetto quando sono passato. In effetti sono stato lì una
volta." "Non è una gran coincidenza", disse il commerciante, "sono lì quasi ogni giorno." "E’ probabile che ora
anch’io debba andarci più spesso", disse K., "solo, non sarò più accolto con tanto onore come quella volta. Tutti si
sono alzati in piedi. Evidentemente pensavano che io fossi un giudice." "No", disse il commerciante, "noi salutavamo
l’usciere del tribunale. Che lei fosse un imputato lo sapevamo. Notizie del genere si diffondono molto alla svelta."
"Dunque lei lo sapeva già", disse K., "ma allora il mio modo di fare deve forse esserle sembrato superbo. Non se ne è
parlato?" "No", disse il commerciante, "al contrario. Ma queste sono stupidaggini." "Quali stupidaggini?" chiese K.
"Perché lo chiede?" disse il commerciante in collera, "Si direbbe che lei non conosca quella gente e forse
intenderebbe male. Lei deve pensare che in questo tipo di procedimenti vengono continuamente fuori molte cose per
le quali la ragione non basta più, si è semplicemente troppo stanchi e troppo sviati per molte cose e in mancanza di
meglio ci si appoggia alle superstizioni. Parlo degli altri, ma io stesso non sono migliore di loro. Una di queste
superstizioni ad esempio dice che molti potrebbero riconoscere dal volto dell’imputato, e in particolare dal contorno
delle sue labbra, come andrà a finire il suo processo. Questa gente dunque affermava che, a giudicare dalle sue labbra,
lei sarà condannato con certezza e in breve tempo. Ripeto, è una superstizione ridicola e anche, nella maggior parte
dei casi, contraddetta dai fatti, ma vivendo in quella compagnia è difficile sottrarsi a opinioni del genere. Pensi quanto
può essere forte una simile superstizione. Lei laggiù ha rivolto la parola a una persona, non è vero? Lui però le ha
potuto appena rispondere. Ci sono naturalmente molti motivi laggiù per essere confusi, uno di questi però è stato il
vedere le sue labbra. Più tardi costui ha raccontato di aver creduto di vedere sulle sue labbra anche il segno della
propria condanna." "Le mie labbra?" chiese K., estrasse dalla tasca uno specchietto e si osservò. "Non riesco a
vedere niente di particolare nelle mie labbra. E lei?" "Neppure io", disse il commerciante, "proprio niente di
particolare." "Quanto è superstiziosa questa gente, però", esclamò K. "Non glielo avevo detto?" "Hanno dunque così
tanti rapporti fra loro, e si scambiano le loro opinioni?" disse K. "Finora io mi sono tenuto completamente in
disparte." "In generale non hanno rapporti fra loro", disse il commerciante, "non sarebbe una cosa possibile, sono
talmente tanti. E poi ci sono pochi interessi comuni. Quando a volte in un gruppo emerge un interesse comune,
questo si rivela presto un errore. Non c’è niente che si possa intraprendere in comune contro il tribunale. Ogni caso
viene indagato a parte, è certo il tribunale più coscienzioso che ci sia. Quindi non c’è niente che si possa fare in
comune, solo un singolo a volte raggiunge qualcosa in segreto; solo quando ciò sia raggiunto lo vengono a sapere gli
altri; nessuno sa come sia avvenuto. Dunque non c’è nessuna comunanza, certo ci si incontra ogni tanto nelle sale
d’attesa, ma lì si parla poco. Le superstizioni ci sono da sempre, e si moltiplicano letteralmente da sole." "Ho visto
quei signori lì in sala d’attesa", disse K., "la loro attesa mi sembrava così inutile." "L’attesa non è inutile", disse il
commerciante, "inutile è soltanto l’iniziativa autonoma. Le ho già detto che oltre a questo ho altri cinque avvocati. Si
potrebbe credere - io stesso lo credevo da principio - che ora potrei affidare la cosa completamente a loro. Ma
sarebbe del tutto sbagliato. Le possibilità di affidarla sono meno che se ne avessi uno solo. Ma forse lei questo non lo
capisce?" "No", disse K., e per impedire al commerciante di parlare così veloce mise una mano su quella di lui, come
per tranquillizzarlo, "vorrei solo pregarla di parlare un po’ più lentamente, per me sono evidentemente cose di
grandissima importanza, e non riesco a seguirla a fondo." "Fa bene a ricordarmelo", disse il commerciante, "Lei è
certo un novizio, un giovane. Il suo processo dura da sei mesi, non è vero? Sì, l’ho sentito dire. Un processo così
giovane! Io invece ho riflettuto già infinite volte su queste cose, e mi sembrano la cosa più evidente del mondo." "Lei
sembra contento che il suo processo sia già così avanti, non è vero?" chiese K., voleva evitare di chiedere
direttamente come fosse la situazione del commerciante. Però così facendo neppure ebbe una risposta chiara. "Sì, ho
tirato avanti il mio processo per cinque anni", disse il commerciante chinando il capo, "non è cosa da poco." Poi
tacque un attimo. K. rimase a sentire se per caso Leni tornava. Da un lato non voleva che tornasse, perché aveva
ancora molte cose da chiedere e poi non voleva essere sorpreso da Leni in un colloquio così confidenziale con il
commerciante; d’altro lato lo metteva in collera che, malgrado lui fosse presente, Leni si intrattenesse così a lungo
con l’avvocato, molto più a lungo di quanto era necessario a dargli la minestra. "Mi ricordo ancora di preciso il
tempo", disse il commerciante, e K. fu subito tutto attento, "quando il mio processo era giovane come il suo. A quei
tempi avevo solo questo avvocato, ma non ne ero molto contento." "E’ la volta che vengo a sapere tutto", pensò K. e
fece un vivace cenno con il capo, come se con questo potesse incoraggiare il commerciante a dire tutto ciò che valeva
la pena di sapere. "Il mio processo", continuò il commerciante, "non andava avanti, certo avevano luogo degli
interrogatori, io mi presentavo sempre, raccoglievo materiale, presentai tutti i miei registri commerciali al tribunale,
cosa che, come venni a sapere in seguito, non era neppure necessaria, correvo in continuazione dall’avvocato, e lui
presentava diversi ricorsi..." "Diversi ricorsi?" chiese K. "Sì, certo", disse il commerciante. "Questo è molto
importante per me", disse K., "nel mio caso sta ancora lavorando al primo ricorso. Non ha ancora fatto nulla. Ora mi
rendo conto che mi trascura in modo scandaloso." "Possono esserci ragioni giustificate perché il ricorso non sia
ancora pronto", disse il commerciante. "E poi si è visto in seguito che i miei ricorsi erano tutti privi di valore. Grazie
alla cortesia di un funzionario, ne ho addirittura letto uno io stesso; era certo molto erudito, ma in fin dei conti privo
di contenuto. Prima di tutto c’era dentro moltissimo latino, lingua che io non conosco, poi pagine e pagine di
invocazioni generiche al tribunale, poi complimenti a singoli e determinati funzionari, che non venivano nominati ma
che un iniziato doveva certo identificare, poi autoelogi dell’avvocato, nei quali si umiliava davanti al tribunale proprio
come un cane, e infine ricerche di vecchi casi giudiziari che dovevano essere simili al mio. Queste ricerche, per quel
che potevo seguirle, erano fatte molto scrupolosamente. Con tutto ciò non voglio affatto esprimere un giudizio
sull’operato dell’avvocato, e poi il ricorso che io ho letto era solo uno fra i tanti, in ogni caso però, ed è questo che
voglio dire, a quei tempi nel mio processo non riuscivo a vedere alcun progresso." "E che tipo di progresso avrebbe
voluto vedere?" chiese K. "La sua è una domanda molto ragionevole", disse sorridendo il commerciante, "in questo
tipo di procedimenti è molto raro vedere dei progressi. Ma a quei tempi non lo sapevo. Io sono un commerciante e a
quei tempi lo ero ancor più di oggi, volevo avere progressi tangibili, tutta la faccenda doveva arrivare alla fine o per lo
meno imboccare una regolare salita. Invece c’erano solo interrogatori, per lo più sempre con lo stesso contenuto;
avevo già pronte le risposte come una litania; più volte alla settimana mi venivano in negozio, in casa o dovunque mi
trovassero dei messaggeri del tribunale, cosa che naturalmente dava fastidio (oggi, per lo meno da questo punto di
vista, va molto meglio, la convocazione telefonica disturba molto meno), fra i miei corrispondenti, ma soprattutto fra
i miei parenti, cominciarono a diffondersi voci del mio processo, ci furono quindi danni da ogni parte, ma non si
vedeva il minimo indizio che si stesse avvicinando la data anche solo del primo dibattimento. Perciò andai
dall’avvocato a lamentarmi. Lui mi diede sì dei lunghi chiarimenti, ma si rifiutò con decisione di far qualcosa secondo
le mie intenzioni, nessuno poteva influire sulla data del dibattimento e cercare di affrettarla in un ricorso - come io
desideravo - era semplicemente inaudito e avrebbe rovinato me e lui insieme. Io pensai: ciò che questo avvocato non
vuole o non può, lo vorrà e lo potrà un altro. Così mi guardai intorno alla ricerca di un altro avvocato. Voglio
anticiparlo subito: nessuno ha chiesto di stabilire la data del dibattimento né si è dato da fare per ottenerla, se si
prescinde da una considerazione di cui dirò poi è una cosa realmente impossibile, su questo punto quindi l’avvocato
non mi ha ingannato; per il resto però non ho dovuto pentirmi di essermi rivolto ad altri avvocati. Certo il dottor
Huld le avrà già detto qualcosa degli azzeccagarbugli, è probabile che glieli abbia presentati come gente degna del
massimo disprezzo, e lo è veramente. Però, quando parla di loro confrontandoli con se stesso e con i suoi colleghi,
gli sfugge sempre un piccolo errore, su cui voglio attirare la sua attenzione, sia pure di passaggio. Per distinguerli,
chiama sempre gli avvocati della sua cerchia i ‘grandi avvocati’. Ciò è sbagliato, naturalmente chiunque può chiamarsi
‘grande’ se lo vuole, in questo caso però è decisiva l’abitudine del tribunale. Secondo quest’ultima oltre agli
azzeccagarbugli ci sono soltanto i piccoli e i grandi avvocati. Questo avvocato e i suoi colleghi però sono solo i
piccoli avvocati, invece i grandi avvocati, di cui ho solo sentito parlare e che non ho mai veduto di persona, stanno al
di sopra dei piccoli a una distanza incomparabilmente più grande di quanto i piccoli stiano al di sopra dei disprezzati
azzeccagarbugli." "I grandi avvocati?" chiese K. "E chi sono? E come li si raggiunge?" "Dunque lei non ne ha mai
sentito parlare", disse il commerciante. "Quasi non c’è imputato che, una volta che ne abbia sentito parlare, non
sogni di loro per un certo tempo. E’ meglio che lei non si lasci allettare. Chi siano i grandi avvocati non lo so e
giungere a loro è certo impossibile. Non conosco neppure un caso in cui si possa dire con certezza che siano
intervenuti. Qualcuno lo difendono di certo, ma non lo si può ottenere di propria volontà, difendono solo quelli che
vogliono loro. Certo però perché si occupino di una questione bisogna che questa abbia già superato il tribunale
inferiore. Del resto è meglio non pensare a loro, altrimenti i colloqui con gli altri avvocati, i loro consigli e le loro
prestazioni sembrano - e l’ho sperimentato io stesso - tanto ripugnanti e inutili, che viene voglia di lasciar perdere
tutto, mettersi a letto in casa propria e non sentir parlare più di nulla. Anche questa però sarebbe naturalmente la
cosa più stupida, neppure a letto si starebbe tranquilli a lungo." "A quei tempi dunque lei non ha pensato ai grandi
avvocati?" chiese K. "Non a lungo", disse il commerciante sorridendo di nuovo, "dimenticarli del tutto purtroppo
non è possibile, soprattutto la notte è propizia a pensieri del genere. Ma a quei tempi volevo dei successi immediati, e
perciò mi rivolsi agli azzeccagarbugli."

"Come ve ne state seduti qui, vicini!" esclamò Leni che era tornata con la tazza e si era fermata sulla porta. E davvero
erano seduti stretti l’uno all’altro, se avessero fatto il più piccolo movimento le loro teste si sarebbero scontrate, il
commerciante, che già era piccolo e per di più teneva curva la schiena, aveva obbligato K. a piegarsi profondamente
per sentire ogni cosa. "Ancora un momento", esclamò K. allontanando Leni con un gesto e scuotendo impaziente la
mano che aveva tenuto per tutto il tempo sulla mano del commerciante. "Voleva che gli raccontassi del mio
processo", disse il commerciante a Leni. "Racconta, racconta pure" disse lei. Parlava al commerciante con affetto ma
anche con una certa condiscendenza, e questo non piaceva a K.; si era reso conto adesso che l’uomo aveva un certo
valore, o per lo meno aveva fatto delle esperienze che sapeva ben comunicare. Probabilmente Leni lo giudicava
ingiustamente. Ora con collera K. osservò come Leni togliesse di mano al commerciante la candela che questi aveva
sorretto per tutto il tempo, come gli pulisse la mano col grembiule e si inginocchiasse poi vicino a lui per grattar via
un po’ di cera che dalla candela gli era gocciolata sui calzoni. "Lei mi voleva dire degli azzeccagarbugli", disse K.
spingendo via senza dire altro la mano di Leni. "Ma cosa vuoi?" domandò Leni, diede un colpetto a K. e proseguì il
suo lavoro. "Sì, degli azzeccagarbugli", disse il commerciante e si passò una mano sulla fronte come se stesse
riflettendo. K. per venirgli in aiuto disse: "Lei voleva dei successi immediati e così si è rivolto agli azzeccagarbugli."
"Proprio così", disse il commerciante, ma non proseguì. "Forse non vuole parlarne davanti a Leni", pensò K., frenò
la sua impazienza di sentire subito il resto e non insistette oltre.
"Mi hai annunciato?" chiese a Leni. "Naturalmente", rispose lei, "ti sta aspettando. Lascia perdere Block adesso, con
Block puoi parlare anche più tardi, in fin dei conti resta qui." K. esitava ancora. "Lei resta qui?" chiese al
commerciante, voleva che rispondesse in persona, non voleva che Leni parlasse del commerciante come di un
assente, oggi K. era pieno di collera segreta contro Leni. E di nuovo fu solo Leni a rispondere: "Dorme spesso qui".
"Dorme qui?" esclamò K., aveva pensato che il commerciante avrebbe potuto rimanere qui ad aspettarlo mentre lui
sbrigava rapidamente il suo colloquio con l’avvocato, e che poi avrebbero potuto andarsene insieme e discutere il
tutto a fondo e senza interruzioni. "Sì", disse Leni, "a differenza di te, Josef, non tutti vengono ammessi
dall’avvocato all’ora che vogliono. Sembra addirittura che tu non ti meravigli nemmeno se l’avvocato, malgrado la sua
malattia, ti riceve alle undici di sera. Tu consideri troppo come una cosa scontata ciò che i tuoi amici fanno per te.
Ebbene, i tuoi amici, o per lo meno io, lo facciamo volentieri. Non voglio e non ho bisogno di altri ringraziamenti se
non che tu mi voglia bene." "Voler bene?" pensò K. in un primo momento, solo dopo gli passò per la testa il
pensiero: "Ma certo che le voglio bene." Ciononostante disse, tralasciando tutto il resto: "Mi riceve perché sono un
suo cliente. Se oltre a tale motivo ci volessero per questo altri aiuti, allora ad ogni passo si dovrebbe sempre
elemosinare e ringraziare insieme." "Com’è cattivo oggi, non è vero?" chiese Leni al commerciante. "Ora sono io
l’assente", pensò K., e quasi si arrabbiò con il commerciante quando questi, prendendo su di sé la scortesia di Leni,
disse: "L’avvocato lo riceve anche per altri motivi. Il suo caso infatti è più interessante del mio. E poi il suo processo
è agli inizi, quindi probabilmente ancora non molto imbrogliato, e perciò l’avvocato se ne occupa ancora volentieri.
In seguito le cose cambieranno." "Sì, sì", disse Leni, e guardò ridendo il commerciante, "sentilo come chiacchiera! E
tu", qui si rivolse a K., "non puoi credere a nulla di quel che dice. E’ tanto amabile quanto chiacchierone. Forse è
anche per questo che l’avvocato non lo può soffrire. Comunque lo riceve solo quando è dell’umore giusto. Mi sono
già data molto da fare per cambiare le cose, ma è impossibile. Pensa, a volte annuncio Block e lui lo riceve solo tre
giorni dopo. Ma se quando viene chiamato Block non è al suo posto, tutto è perduto e deve essere annunciato di
nuovo. Per questo ho permesso a Block di dormire qui, è già successo che l’avvocato abbia suonato il campanello per
chiamarlo nel pieno della notte. Perciò, adesso Block è pronto anche di notte. A volte però succede che l’avvocato,
quando risulta che Block è presente, revoca il permesso di lasciarlo entrare." K. guardò il commerciante con aria
interrogativa. Questi confermò con il capo e con la stessa franchezza con cui prima aveva parlato con K., forse
distratto dalla propria vergogna, disse: "Sì, in seguito si diventa molto dipendenti dal proprio avvocato." "Si lamenta
solo per finta", disse Leni. "E’ tutto contento di dormire qui, me lo ha confessato spesso." Andò a una porticina e la
aprì con un colpo. "Vuoi vedere la sua camera da letto?" chiese. K. si avvicinò e, dalla soglia, vide uno spazio basso e
senza finestre occupato completamente da un letto sottile. Per entrare in questo letto bisognava scavalcarne gli stipiti.
Alla testa del letto c’era una nicchia nel muro dove, in un ordine meticoloso, c’erano una candela, inchiostro e penna,
e un fascicolo di carte, verosimilmente atti processuali. "Lei dorme nella stanza della domestica?" chiese K.
voltandosi indietro verso il commerciante. "Leni me l’ha ceduta", rispose il commerciante, "è un bel vantaggio." K. lo
guardò a lungo; forse la prima impressione che il commerciante gli aveva fatto era stata quella giusta; certo aveva
fatto delle esperienze, dato che il suo processo durava da tanto tempo, ma le aveva anche pagate care. A un tratto K.
non sopportò più la vista del commerciante. "Portalo pure a letto", gridò a Leni, che non sembrò capirlo. Lui però
ora voleva andare dall’avvocato e licenziandolo liberarsi non solo dell’avvocato, ma anche di Leni e del
commerciante. Ma ancor prima che K. arrivasse alla porta il commerciante gli si rivolse a bassa voce : "Signor
procuratore." K. si voltò con un espressione di collera. "Lei ha dimenticato la sua promessa", disse il commerciante e
dalla sua sedia si allungò implorante verso K., "anche lei doveva dirmi un segreto." "Vero", disse K. e con uno
sguardo sfiorò anche Leni, che lo osservava attenta, "dunque mi ascolti: a dire il vero non è quasi più un segreto. Ora
vado dall’avvocato e lo licenzio." "Lo licenzia", gridò il commerciante, saltò su dalla sedia e si mise a correre per la
cucina con le braccia alzate. Continuava a ripetere: "Licenzia l’avvocato." Leni voleva correre subito addosso a K., ma
il commerciante le finì tra i piedi, per cui lei lo colpì con i pugni. Con le mani ancora chiuse a pugno corse poi verso
K., il quale però aveva molto vantaggio. Era già entrato nella stanza dell’avvocato quando Leni lo acchiappò. Si era
quasi chiuso la porta dietro di sé, ma Leni, tenendo aperta la porta con il piede, lo afferrava per un braccio e voleva
tirarlo indietro. Lui però le strinse il polso tanto forte che con un singhiozzo lei dovette lasciarlo. Di entrare nella
stanza non ebbe subito il coraggio, ad ogni buon conto K. chiuse la porta a chiave.

"E’ già molto che la aspetto", disse dal suo letto l’avvocato, mise sul tavolino un documento che aveva letto a lume di
candela e inforcò un paio di occhiali, con cui guardò fisso K. Anziché scusarsi, K. disse: "Me ne vado presto." Dato
che non era una richiesta di scuse, l’avvocato lasciò cadere inosservata la frase di K. e disse: "La prossima volta non
la riceverò più a un’ora così tarda." "Ciò viene incontro alle mie intenzioni", disse K. L’avvocato lo guardò con aria
interrogativa. "Si sieda" disse. "Se proprio vuole", disse K., avvicinò una sedia al comodino e si sedette. "Se non
sbaglio lei ha chiuso la porta a chiave", disse l’avvocato. "Sì", disse K., "è stato per Leni." Aveva deciso di non
risparmiare nessuno. Ma l’avvocato chiese: "E’ stata di nuovo importuna?" "Importuna?" chiese K. "Sì", disse
l’avvocato con una risata, ebbe un accesso di tosse e, quando questo finì, cominciò di nuovo a ridere. "Non si è
accorto forse di quanto sia importuna?" chiese, dando un colpetto sulla mano di K., mano che K. aveva appoggiato
distrattamente al tavolino e che ora ritrasse veloce. "Lei non ci dà importanza, tanto meglio", disse l’avvocato al
silenzio di K., "altrimenti avrei forse dovuto scusarmi con lei. E’ una caratteristica di Leni, che d’altronde le ho
perdonato da un pezzo e di cui non avrei neppure parlato se lei non avesse proprio ora chiuso a chiave la porta.
Questa caratteristica - certo a lei meno che ad ogni altro dovrei spiegarla, ma lei mi guarda tanto sconvolto che devo
farlo - questa caratteristica consiste nel fatto che Leni trova belli quasi tutti gli imputati. Si attacca a tutti, li ama tutti,
e a dire il vero sembra anche che tutti la amino; per divertirmi a volte, quando glielo permetto, me ne racconta
qualcosa. Tutto ciò non mi meraviglia tanto quanto sembra meravigliare lei. A guardarli nel modo giusto, gli imputati
spesso sono veramente belli. E’ per così dire un curioso fenomeno, in un certo senso pertinente alle scienze naturali.
Naturalmente non è che in conseguenza dell’accusa si verifichi un mutamento chiaro e ben definibile nell’aspetto
esteriore. A differenza di altre questioni giudiziarie, in queste la maggior parte degli imputati continua il suo solito
stile di vita e, se hanno un buon avvocato che si occupa di loro, non hanno molti fastidi dal processo. Eppure, chi ha
esperienza potrebbe riconoscere uno a uno in una gran massa di gente chi è imputato e chi no. Da quali segni, lei mi
chiederà; la mia risposta non può accontentarla. Il fatto è che gli imputati sono, per l’appunto, i più belli. Non può
essere la colpa a renderli belli, perché - così almeno devo parlare io, come avvocato - non sono tutti colpevoli, né può
essere la futura punizione a renderli belli fin da ora, perché non tutti vengono puniti, dunque può trattarsi solo di
qualcosa insito nel procedimento iniziato contro di loro, e che in qualche modo gli si attacca addosso. Certo, fra i
belli ce ne sono alcuni particolarmente belli. Belli però lo sono tutti, persino Block, questo verme miserabile."

Quando l’avvocato ebbe finito K. era perfettamente calmo, aveva persino approvato vistosamente con il capo le sue
ultime parole, confermando così a se stesso la sua vecchia opinione secondo la quale l’avvocato cercava sempre, e
dunque anche stavolta, di distrarlo con informazioni generiche e non pertinenti alla sua faccenda, in modo da
fuorviarlo dalla questione principale, e cioè che cosa avesse fatto concretamente per lui. L’avvocato certo si rese
conto che stavolta K. gli opponeva più resistenza del solito, perché ora tacque per dare a K. l’opportunità di parlare,
e siccome K. continuava a tacere chiese: "Lei oggi è venuto da me con un’intenzione precisa?" "Sì", disse K., e con la
mano schermò un poco la luce della candela per vedere meglio l’avvocato, "volevo dirle che a partire da oggi io le
tolgo la mia delega." "Ho capito bene?" chiese l’avvocato, e si alzò a metà nel letto, appoggiandosi ai cuscini con una
mano. "Penso di sì" disse K., che stava seduto teso e dritto come in agguato. "Beh, possiamo discutere anche di
questo progetto", disse l’avvocato dopo un po’. "Non è più un progetto", disse K. "Può darsi", disse l’avvocato, "ma
comunque noi non dobbiamo precipitare nulla." Disse "noi" come se non avesse intenzione di congedare K., ma
volesse, se non poteva più difenderlo come avvocato, almeno continuare a consigliarlo da amico. "Nessuna
precipitazione", disse K., si alzò lentamente e passò dietro la sedia, "è un passo ben meditato, e forse meditato anche
troppo a lungo. E’ una decisione definitiva." "Allora mi permetta ancora qualche parola", disse l’avvocato, alzò il
piumino e si mise a sedere sul bordo del letto. Le sue gambe nude, coperte di peli bianchi, tremavano per il freddo.
Chiese a K. di passargli la coperta che era sul divano. K. prese la coperta e disse: "Lei si espone a un’infreddatura del
tutto inutilmente." "L’occasione è fin troppo importante", disse l’avvocato, mentre si copriva la parte superiore con il
piumino e poi si avvolgeva le gambe nella coperta. "Suo zio è mio amico e anche a lei, nel corso di questo tempo, mi
sono affezionato. Glielo confesso apertamente. Non devo vergognarmene." Simili discorsi lacrimevoli da parte del
vecchio erano molto sgraditi a K., perché lo costringevano a una spiegazione approfondita che avrebbe volentieri
evitato, e inoltre, come dovette confessare a se stesso, lo confondevano, anche se non avrebbero mai potuto farlo
recedere dalla sua decisione. "La ringrazio per le sue gentili intenzioni," disse, "e riconosco che lei si è occupato della
mia questione per quanto le è stato possibile e nel modo che lei giudicava per me vantaggioso. Tuttavia negli ultimi
tempi ho maturato la convinzione che ciò non sia sufficiente. Naturalmente non tenterò in alcun modo di convincere
della mia opinione un uomo tanto più anziano ed esperto come lei; se per caso a volte ho cercato di farlo, la prego di
scusarmi, il fatto è che, per usare le sue stesse parole, la questione è fin troppo importante ed è mia convinzione che
sia necessario intervenire nel processo con energia molto maggiore di quanto sia avvenuto fino ad oggi." "La
capisco", disse l’avvocato, "lei è impaziente." "Io non sono impaziente", disse K. un po’ irritato e senza più
controllare tanto le parole, "durante la mia prima visita, quando venni da lei in compagnia di mio zio, lei dovrebbe
aver notato che non mi importava molto del processo; se non mi veniva ricordato in un certo senso con la forza, me
ne dimenticavo completamente. Ma mio zio ha insistito perché io le affidassi la mia difesa, e per fargli un piacere gli
ho dato retta. E allora ci si sarebbe potuto aspettare che il processo mi diventasse ancor più leggero di prima, perché
è proprio per questo che si affida la difesa a un avvocato, per liberarsi un poco dal peso del processo. Invece è
successo il contrario. Non ho mai avuto a motivo del processo preoccupazioni tanto grandi come da quando lei mi
difende. Quando ero solo non prendevo nessuna iniziativa nel mio processo eppure me ne accorgevo appena, ora
invece avevo un difensore, tutto era organizzato perché succedesse qualcosa, ininterrottamente e sempre più teso
aspettavo che lei intervenisse, e invece niente. Certo ricevevo da lei diverse informazioni sul tribunale, che forse non
avrei potuto ricevere da nessun altro. Ma questo non può bastarmi se il processo ora, per dir così in segreto, mi è
sempre più sul collo." K. aveva allontanato da sé la sedia e se ne stava lì in piedi con le mani nelle tasche della giacca.
"A un certo punto della professione", disse l’avvocato piano e con calma, "non succede più nulla di veramente
nuovo. Quanti clienti, in un simile stadio del processo, simili a lei, sono stati in piedi davanti a me, facendo discorsi
simili." "E allora", disse K., "tutti questi simili clienti avevano ragione esattamente come me. Questa non è
un’obiezione." "Non volevo con questo farle un’obiezione", disse l’avvocato, "ma volevo aggiungere che da lei mi
sarei aspettato una capacità di giudizio maggiore che negli altri, soprattutto perché io le ho dato una visione più
ampia del tribunale e della mia attività di quanto sia solito fare nei confronti dei clienti. E ora mi tocca vedere che
nonostante tutto non ha abbastanza fiducia in me. Lei non mi rende la cosa facile." Come si umiliava l’avvocato
davanti a K.! Senza alcun riguardo verso la propria dignità professionale, per la quale proprio questo punto è certo il
più sensibile. E perché lo faceva? In fondo a giudicare dalle apparenze era un avvocato pieno di impegni e un uomo
ricco, in sé e per sé non poteva importargli molto né dell’onorario mancato né del cliente perduto. Inoltre era
malaticcio e avrebbe dovuto essere contento lui stesso che gli si diminuisse il lavoro. E invece tratteneva K. con tanta
tenacia. Perché? Era una personale partecipazione nei confronti dello zio, o davvero giudicava il processo di K. tanto
straordinario e sperava di distinguersi in esso agli occhi di K. o anche - possibilità che non andava mai esclusa - agli
occhi dei suoi amici in tribunale? Dal suo aspetto non si poteva indovinare nulla, per quanto K. lo esaminasse senza
riguardi. Si sarebbe quasi potuto pensare che aspettasse l’effetto delle proprie parole con un’espressione
intenzionalmente indecifrabile. Ma evidentemente interpretava il silenzio di K. come troppo favorevole ai suoi
obiettivi, perché ora aggiunse: "Lei avrà notato che io ho una grande cancelleria ma non ho assunto aiutanti. Una
volta era diverso, c’è stato un tempo in cui lavoravano per me alcuni giovani giuristi, ora lavoro da solo. Ciò dipende
in parte dai cambiamenti intervenuti nella mia professione, nel senso che mi sono sempre più limitato a questioni
legali del tipo della sua, e in parte dalla conoscenza sempre più approfondita di tali questioni. Mi sono accorto che
non potevo lasciare a nessuno un lavoro del genere se non volevo mancare nei confronti dei miei clienti e del
compito che mi ero assunto. Tuttavia la decisione di sobbarcarmi tutto il lavoro ha avuto come conseguenza naturale
la necessità di rifiutare quasi tutte le richieste di rappresentanza legale, accettando solo quelle che mi stavano
particolarmente a cuore - in fondo ci sono tanti poveretti, anche qui nelle vicinanze, che si precipitano su ogni
briciola che butto via. E oltre a ciò mi sono ammalato per l’eccessivo lavoro. Malgrado ciò non mi pento della mia
decisione, forse avrei dovuto rinunciare a un maggior numero di clienti, però si è visto poi che era assolutamente
necessario dedicarmi interamente ai processi che avevo accettato, e i risultati mi hanno premiato. Una volta in un
documento ho trovato una bella espressione per definire la differenza fra la tutela legale in processi comuni e quella
in processi come il suo. C’era scritto: in un caso l’avvocato guida il suo cliente come legato a un filo fino al verdetto,
nell’altro caso invece se lo deve caricare sulle spalle, e portarlo fino al verdetto e anche oltre senza farlo mai scendere.
Così stanno le cose. Ma non mi sono espresso bene dicendo che non mi pento mai di questo lavoro così pesante.
Quando, come nel suo caso, viene misconosciuto così completamente, allora sì, allora quasi me ne pento." Questi
discorsi, più che convincere K., lo rendevano impaziente. Gli sembrava in qualche modo di capire dal tono di voce
dell’avvocato che cosa lo aspettava se avesse ceduto; di nuovo sarebbero ricominciate le consolazioni, gli accenni al
ricorso che stava progredendo e all’umore migliorato dei funzionari del tribunale, ma anche gli accenni alle grandi
difficoltà che si opponevano al lavoro, - insomma sarebbe venuto fuori tutto ciò che conosceva ormai alla nausea,
per ingannare di nuovo K. con speranze indefinite e con indefinite minacce tormentarlo. Doveva impedirlo una volta
per tutte, e quindi disse: "Cosa intende fare per me se le lascio la mia difesa?" L’avvocato si adattò persino a questa
domanda offensiva e rispose: "Continuerò ciò che ho già fatto per lei." "Me lo immaginavo", disse K., "ogni altro
discorso è superfluo." "Farò ancora un tentativo", disse l’avvocato, come se ciò che irritava K. non stesse succedendo
a K. ma a lui stesso. "In effetti mi viene da supporre che non solo il suo erroneo giudizio sulla mia condizione di
avvocato, ma anche in genere il suo stesso comportamento, derivino dal fatto che, malgrado la sua condizione di
imputato, lei viene trattato troppo bene, o per meglio dire con negligenza, una negligenza apparente. Anche questo
ha le sue ragioni; spesso è meglio essere in catene che liberi. Ma io vorrei mostrarle come vengono trattati gli altri
imputati, forse da questo lei imparerà qualcosa. Ora voglio chiamare Block, apra la porta e si sieda qui vicino al
comodino." "Volentieri", disse K. e fece quel che l’avvocato voleva; a imparare era sempre pronto. Ma per cautelarsi
da ogni eventualità gli chiese ancora: "Lei però ha preso atto che io le tolgo la mia difesa?" "Sì", disse l’avvocato,
"può anche essere però che lei oggi stesso faccia marcia indietro." Si rimise a letto, si tirò il piumino fino al mento e si
girò verso il muro. Poi suonò il campanello.

Quasi contemporaneamente al segnale comparve Leni, che cercò di capire, con un rapido sguardo, che cosa era
successo; il fatto che K. fosse seduto calmo vicino al letto dell’avvocato le sembrò tranquillizzante. Con un sorriso
fece un cenno a K., che la guardava immobile. "Vai a prendere Block", disse l’avvocato. Ma lei, invece di andarlo a
prendere, si limitò a uscire sulla soglia e a gridare: "Block! Dall’avvocato!" e poi scivolò dietro la sedia di K., forse
perché l’avvocato rimaneva voltato verso il muro e si disinteressava a tutto. Cominciò poi a dargli fastidio piegandosi
sullo schienale della sedia o accarezzandolo con le mani, sia pure con grande tenerezza e prudenza, fra i capelli e sulle
guance. Alla fine K. cercò di impedirglielo tenendole ferma una mano, che lei gli abbandonò dopo un po’ di
resistenza.

Appena chiamato, Block era venuto immediatamente, ma ora rimaneva davanti alla porta e sembrava riflettere se
dovesse entrare oppure no. Sollevò le sopracciglia e piegò la testa, come per sentire se l’ordine di entrare da parte
dell’avvocato si sarebbe ripetuto. K. avrebbe potuto incoraggiarlo a entrare, ma aveva deciso di dare un taglio
definitivo non solo con l’avvocato, ma con tutto ciò che riguardava questa casa, e rimase perciò immobile. Anche
Leni taceva. Block si rese conto che quanto meno nessuno lo cacciava via, ed entrò in punta di piedi, l’espressione
del volto tesa e le mani irrigidite dietro la schiena. Lasciò aperta la porta, per mantenersi la possibilità di una ritirata.
Non guardò neppure K. ma sempre e solo l’alto piumino, sotto il quale l’avvocato, che si era spinto vicino alla parete,
non si vedeva nemmeno più. In quel momento però si sentì la sua voce: "C’è Block qui?" domandò. Block, che era
già avanzato di un bel pezzo, ricevette da questa domanda un vero e proprio colpo nel petto e poi uno nella schiena,
vacillò, rimase in piedi tutto curvo e disse: "Per servirvi." "Cosa vuoi?" chiese l’avvocato, "vieni a sproposito." "Non
sono stato chiamato?" chiese Block più a se stesso che all’avvocato, teneva le mani in avanti per difesa ed era pronto
a correre via. "Sei stato chiamato", disse l’avvocato, "malgrado ciò vieni a sproposito." E dopo una pausa aggiunse:
"Tu vieni sempre a sproposito." Da quando l’avvocato aveva cominciato a parlare, Block non guardava più il letto ma
fissava un punto qualsiasi in un angolo della stanza e si limitava ad ascoltare, come se la vista di colui che parlava
fosse troppo abbagliante per sopportarla. Anche ascoltare però era difficile, perché l’avvocato parlava in direzione
della parete, e per di più a bassa voce e rapidamente. "Volete che io me ne vada?" chiese Block. "Ormai sei qua",
disse l’avvocato. "Rimani!" Si sarebbe creduto che l’avvocato non avesse esaudito il desiderio di Block ma che lo
avesse minacciato con un bastone, perché ora Block cominciò letteralmente a tremare. "Ieri", disse l’avvocato, "sono
stato dal terzo giudice, il mio amico, e a poco a poco ho portato il discorso su di te. Vuoi sapere cosa mi ha detto?"
"Oh, per favore", disse Block. Siccome l’avvocato non rispose subito, Block ripeté l’implorazione e si chinò come se
volesse inginocchiarsi. Allora K. lo assalì ed esclamò: "Ma cosa fai?" Poiché Leni avrebbe voluto impedirgli di parlare,
le afferrò anche la seconda mano. Non la stringeva con la forza dell’amore, anzi lei ogni tanto singhiozzava e tentava
di sottrargli le mani. Block però fu punito per l’esclamazione di K., perché l’avvocato gli domandò: "Chi è il tuo
avvocato?" "Voi lo siete", disse Block. "E oltre a me?" "Oltre a voi, nessuno", disse Block. "E allora non dare retta a
nessun altro", disse l’avvocato. Block gli diede completamente ragione, squadrò K. con occhiate cattive e scosse
energicamente la testa contro di lui. Se questo comportamento si fosse tradotto in parole, sarebbero stati volgari
insulti. E con un uomo del genere K. aveva avuto intenzione di discutere da amico la sua situazione! "Non ti
disturberò più", disse K. appoggiato alla sedia, "inginocchiati o striscia sulle quattro zampe, fa’ pure quel che vuoi,
non me ne interesserò." Ma Block, almeno nei confronti di K., aveva un suo senso dell’onore, perché gli si avvicinò
agitando i pugni e gridò, tanto forte quanto glielo permetteva la vicinanza dell’avvocato: "Lei non può parlarmi così,
non è permesso. Perché mi offende? E oltre tutto qui davanti al signor avvocato, dove entrambi, io e lei, siamo
sopportati solo per misericordia? Lei non è un uomo migliore di me, perché anche lei è imputato e ha un processo.
Se malgrado tutto lei è ancora un signore, allora sono un signore anch’io e magari più importante di lei. E come tale
voglio che mi si parli, specialmente da lei. Se poi lei si ritiene favorito perché se ne sta qui seduto tranquillo e
tranquillo può stare ad ascoltare mentre io, come lei dice, striscio sulle quattro zampe, allora voglio ricordarle la
vecchia sentenza: per l’individuo sospetto il movimento è migliore del riposo, perché chi riposa può sempre, senza
saperlo, trovarsi sul piatto di una bilancia ed essere pesato insieme con i suoi peccati." K. non disse nulla ma si limitò
a guardare stupito, senza distogliere gli occhi, quest’uomo in preda alla follia. Quali cambiamenti non aveva vissuto
solo nell’ultima ora! Era il processo a buttarlo qua e là e non permettergli di distinguere l’amico dal nemico? Non si
rendeva dunque conto che l’avvocato lo umiliava intenzionalmente e stavolta non aveva altri scopi che vantarsi del
suo potere con K., per potere magari sottomettere anche lui? Ma se Block non era in grado di capirlo, o se aveva
tanta paura dell’avvocato che capirlo non gli serviva a nulla, da dove veniva che fosse però tanto astuto o tanto
audace da ingannare l’avvocato e nascondergli che oltre a lui faceva lavorare per sé altri avvocati? E come osava
attaccare K., che avrebbe potuto rivelare subito il suo segreto? Ma osava anche di più, andò infatti al letto
dell’avvocato e anche lì cominciò a lamentarsi di K.: "Signor avvocato", disse, "avete udito come costui mi ha rivolto
la parola. Le ore del suo processo si possono ancora contare, e vuole già dare lezioni a me, che ho un processo da
cinque anni. Si permette addirittura di insultarmi. Non sa niente e offende me, che ho studiato scrupolosamente, per
quanto me lo permettono le mie deboli forze, cosa esigono il decoro, il dovere e le usanze del tribunale." "Non
preoccuparti di nessuno", disse l’avvocato, "e fai quel che ti sembra giusto." "Certamente", disse Block come per farsi
coraggio da solo, e con un rapido sguardo di lato si inginocchiò proprio accanto al letto. "Ecco che mi inginocchio,
mio avvocato", disse. L’avvocato però taceva. Con una mano Block accarezzava, guardingo, il piumino. Nel silenzio
che ora regnava Leni disse, liberandosi dalle mani di K.: "Mi fai male. Lasciami. Io vado da Block." Si fece avanti e si
sedette ai bordi del letto. Block fu molto rallegrato dal suo arrivo, e subito con segnali vivaci ma silenziosi la pregò di
intercedere per lui presso l’avvocato. Era chiaro che aveva un bisogno molto urgente delle comunicazioni
dell’avvocato, ma forse all’unico scopo di farle sfruttare dagli altri suoi avvocati. Leni probabilmente sapeva bene
come bisognava trattare l’avvocato, indicò le mani e appuntì le labbra come per un bacio. Subito Block eseguì il
baciamano, e su istigazione di Leni lo ripeté altre due volte. Ma l’avvocato continuava a tacere. Allora Leni si chinò
sull’avvocato - mentre si tendeva si rendeva visibile la graziosa struttura del suo corpo - e china sul volto di lui gli
sfiorò i lunghi capelli bianchi. Questo lo costrinse a dare una qualche risposta. "Sono incerto se dirglielo", disse
l’avvocato, e lo si vide scuotere un poco la testa, forse per assaporare meglio la pressione della mano di Leni. Block
ascoltava a capo chino, come se ascoltando trasgredisse un ordine. "E perché sei incerto?" chiese Leni. K. aveva
l’impressione di assistere a un colloquio preparato, che si era ripetuto spesso, che ancora spesso si sarebbe ripetuto e
che avrebbe mantenuto il suo sapore di novità solo per Block. "Come si è comportato oggi?" chiese l’avvocato invece
di rispondere. Prima di dare il suo giudizio, Leni guardò in basso verso Block e contemplò un poco come questi
tendesse le mani verso di lei e le strofinasse implorando una contro l’altra. Alla fine, seria, chinò il capo, si rivolse
all’avvocato e disse: "E’ stato calmo e diligente." Un vecchio commerciante, un uomo dalla lunga barba, implorava
una ragazzina di prestare una testimonianza favorevole. Anche se nel far ciò avesse avuto delle seconde intenzioni,
niente poteva giustificarlo agli occhi di un altro essere umano che fosse spettatore della scena. Era, per chi osservava,
quasi umiliante. K. non capiva come l’avvocato potesse aver pensato di convincerlo con questa sceneggiata. Se non
lo avesse fatto scappare già prima, con questa scena avrebbe raggiunto lo scopo. Il metodo dell’avvocato, al quale per
fortuna K. non era rimasto esposto a lungo, funzionava dunque così, che alla fine il cliente dimenticava il mondo
intero e non gli rimaneva che sperare di trascinarsi fino alla fine del processo lungo questa falsa strada. Non era più
un cliente, era il cane dell’avvocato. Se questi gli avesse ordinato di strisciare sotto il letto come in una cuccia e da lì
abbaiare, lo avrebbe fatto volentieri. K. ascoltava giudicando con superiorità, come se lo avessero incaricato di
ricordare con precisione tutto ciò che qui si diceva, in modo da poterne riferire a una istanza superiore e farne
rapporto. "Cosa ha fatto in tutto il giorno?" chiese l’avvocato. "Perché non mi disturbasse nel mio lavoro", disse
Leni, "l’ho chiuso a chiave nella stanza della domestica, dove del resto sta di solito. Ogni tanto potevo guardare dallo
sportellino che cosa stesse facendo. Stava sempre inginocchiato sul letto, teneva aperti sul davanzale i documenti che
tu gli hai dato e li leggeva. Ciò mi ha fatto una buona impressione; difatti la finestra si apre solo su un pozzo di
ventilazione e quasi non dà luce. Che nonostante ciò Block leggesse mi dimostrava quanto fosse diligente." "Mi
rallegra saperlo", disse l’avvocato. "Ma capiva quel che leggeva?" Durante questo colloquio Block muoveva
incessantemente le labbra, evidentemente formulando le risposte che avrebbe voluto da Leni. "Naturalmente non
posso dirlo con sicurezza", disse Leni. "Ad ogni modo ho visto che leggeva a fondo. Per tutto il giorno ha letto
sempre la stessa pagina, scorrendo le righe con il dito. Ogni volta che lo guardavo sospirava, come se leggere fosse
per lui una gran fatica. Probabilmente i documenti che gli hai dato sono difficili a capirsi" "Sì", disse l’avvocato, "in
effetti lo sono. E non credo che ne capisca qualcosa. Devono solo dargli l’idea di quanto sia difficile la battaglia che
porto avanti per difenderlo. E per chi porto avanti questa dura battaglia? Per - è quasi ridicolo dirlo - per Block.
Anche cosa questo significhi deve imparare a capirlo. Ha studiato senza interruzioni?" "Quasi senza interruzioni",
rispose Leni, "solo una volta mi ha chiesto dell’acqua da bere. Allora gli ho allungato un bicchiere attraverso lo
sportellino. Alle otto poi l’ho lasciato libero e gli ho dato qualcosa da mangiare." Block sfiorò K. con uno sguardo di
sbieco, come se venisse raccontato qualcosa che gli faceva onore e che doveva fare impressione anche su K. Ora
sembrava avere buone speranze, si muoveva più liberamente e si spostava qua e là sulle ginocchia. Tanto più chiaro
risultò il suo irrigidimento dopo le successive parole dell’avvocato. "Tu lo elogi", disse l’avvocato. "Ma proprio questo
mi rende difficile parlare. Infatti il giudice non si è espresso favorevolmente, né su Block né sul suo processo." "Non
favorevolmente?" chiese Leni. "Com’è possibile?" Block la guardava con uno sguardo teso, come se la ritenesse in
grado di cambiare ora in suo favore le parole che il giudice aveva già pronunciato da un pezzo. "Non
favorevolmente", disse l’avvocato. "E’ stato addirittura spiacevolmente impressionato quando ho cominciato a
parlare di Block. ‘Non mi parli di Block’, ha detto. ‘E’ il mio cliente’ ho detto io. ‘Lei si lascia manovrare’, ha detto lui.
‘La sua causa non mi sembra ancora perduta’ ho detto io. ‘Lei si lascia manovrare’ ha ripetuto lui. ‘Non lo credo’, ho
detto io, ‘nel suo processo Block è diligente e sempre dedito alla sua causa. Quasi ha messo casa da me per essere
sempre al corrente. Un simile zelo non lo si trova sempre. Certo, non è una persona gradevole, ha un brutto modo di
fare ed è sporco, ma dal punto di vista processuale è senza macchia.’ Ho detto senza macchia, esageravo apposta. A
questo punto lui ha detto: ‘Block è solo astuto. Ha fatto molta esperienza e sa come tirare in lungo il processo. Ma la
sua ignoranza è ancor maggiore della sua astuzia. Cosa direbbe se sapesse che il suo processo non è neppure iniziato,
se gli si dicesse che non è stato ancora suonato il campanello d’inizio?’ Buono Block", disse l’avvocato, dato che
Block aveva appena iniziato a sollevarsi sulle ginocchia incerte ed evidentemente voleva chiedere spiegazioni. Questa
era la prima volta che l’avvocato si era rivolto direttamente a Block con parole più esaurienti. Guardò con occhi
stanchi un po’ il vuoto e un po’ in basso verso Block, il quale sotto l’effetto di questo sguardo ricadde lentamente
sulle ginocchia. "Questa affermazione del giudice non ha alcun significato per te", disse l’avvocato. "Non devi
spaventarti per ogni parola. Se succede un’altra volta non ti svelerò proprio più nulla. Non si può cominciare una
frase senza che tu spalanchi gli occhi come se fosse il momento del tuo verdetto finale. Vergognati, qui, davanti al
mio cliente! Tra l’altro metti in crisi la fiducia che ripone in me. Cosa vuoi insomma? Sei ancora vivo, sei ancora sotto
la mia tutela. Che paura insensata! Da qualche parte hai letto che il verdetto finale in taluni casi può arrivare
inaspettatamente, pronunciato da un labbro qualsiasi in un momento qualsiasi. Ciò è vero, sia pure con molte riserve,
ma è altrettanto vero che la tua paura mi ripugna e che leggo in essa una mancanza della fiducia necessaria. Cosa ho
detto, in fondo? Ti ho riferito la frase di un giudice. Lo sai, le diverse opinioni si accumulano intorno a un
procedimento fino all’impenetrabilità. Questo giudice ad esempio considera l’inizio del processo situato in un
momento diverso da come lo considero io. E’ una divergenza di opinioni, niente di più. E’ una vecchia usanza che, a
un certo stadio del processo, si suoni la campanella. A giudizio di questo giudice il processo inizia in quel punto. Ora
non posso dirti tutto ciò che contrasta questa opinione, e poi tu non lo capiresti, ti basti sapere che molte cose la
contrastano." Impacciato, Block passava le dita sulla pelliccia dello scendiletto, l’angoscia conseguente alla frase del
giudice gli faceva dimenticare ogni tanto il suo stato di sottomissione nei confronti dell’avvocato, in quel caso
pensava solo a se stesso e girava da ogni lato le parole del giudice. "Block", lo ammonì Leni, tirandolo un po’ in su
per il bavero della giacca. "Lascia perdere la pelliccia, ora, e presta attenzione all’avvocato."
9) Nel duomo

K. era stato incaricato di mostrare alcuni monumenti a un corrispondente italiano della banca, assai importante, che
veniva per la prima volta in città. Era un incarico che in altri tempi avrebbe certo giudicato un onore, ma che ora, in
un momento in cui riusciva a mantenere la sua posizione in banca solo con un grande sforzo, aveva accettato con
ripugnanza. Ogni ora sottratta al lavoro in banca lo angustiava; certo non riusciva più neppure alla lontana a sfruttare
il tempo d’ufficio come una volta, utilizzava diverse ore per una minima apparenza di vero lavoro, tanto maggiori
erano però le preoccupazioni quando non si trovava in ufficio. In tal caso gli sembrava di vedere come il
vicedirettore, che certo era sempre in agguato, entrava ogni tanto nel suo ufficio, si sedeva alla sua scrivania, sfogliava
i suoi documenti, riceveva e gli sottraeva clienti con i quali K. era da anni quasi in amicizia, e forse scopriva anche
degli errori, dai quali ora nel lavoro K. si sentiva sempre minacciato in mille modi, e che non riusciva più a evitare. Se
accadeva perciò che lo incaricassero, sia pure in forma onorevole, di un’uscita per affari o anche di un piccolo viaggio
- incarichi del genere, per puro caso, si erano accumulati negli ultimi tempi - c’era sempre il pensiero che lo si volesse
allontanare un poco dall’ufficio per controllare il suo lavoro, o quanto meno che lo si ritenesse poco indispensabile
all’ufficio. La maggior parte di questi incarichi avrebbe potuto declinarli con facilità, ma non ne aveva il coraggio
perché, se i suoi timori avevano un fondamento anche minimo, declinare l’incarico significava confessare la sua
paura. Per questo motivo accettava simili incarichi con apparente indifferenza e, dovendo una volta fare un
impegnativo viaggio d’affari di due giorni, nascose di avere un forte raffreddore, per non esporsi al pericolo di essere
esonerato dal viaggio con la scusa del piovoso tempo autunnale che proprio allora dominava. Tornato da questo
viaggio con furiosi mal di testa, seppe di essere stato destinato ad accompagnare il giorno dopo il corrispondente
italiano. La tentazione di sottrarsi all’impegno almeno questa volta era molto grande, prima di tutto ciò che gli si
chiedeva stavolta non era un lavoro direttamente connesso alla banca, l’adempimento di questo dovere sociale nei
confronti del corrispondente era abbastanza importante in sé, ma non lo era dal punto di vista di K., il quale sapeva
bene di potersi mantenere solo con successi di lavoro, e che in mancanza di questi era perfettamente inutile se fosse
anche riuscito, inaspettatamente, ad affascinare questo italiano; non voleva essere spinto fuori dall’ambiente di lavoro
neppure per un giorno perché troppo grande era la paura di non essere riammesso più, una paura che riconosceva
bene come esagerata, ma che pure lo angustiava. In questo caso comunque era quasi impossibile inventarsi una scusa
decente, la conoscenza che K. aveva dell’italiano non era certo grande, tuttavia sufficiente; l’aspetto decisivo era che
K. possedeva da tempo alcune conoscenze di storia dell’arte, cosa che in banca era diventata, in forma estremamente
esagerata, di dominio pubblico dopo che K. aveva fatto parte, anche qui d’altronde per motivi di lavoro, dell’unione
per la salvaguardia dei monumenti artistici cittadini. Ora, l’italiano, a quanto si era appreso, era un amante d’arte e
quindi la scelta di K. come suo accompagnatore era stata perciò automatica.

Era un mattino molto piovoso, di tempesta, quando K., pieno di dispetto per il giorno che lo aspettava, arrivò in
ufficio già alle sette di mattina, per sbrigare almeno un po’ di lavoro prima che la visita gliene sottraesse ogni
possibilità. Era molto stanco, perché aveva passato metà nottata a studiarsi una grammatica italiana per prepararsi un
po’, la finestra, alla quale ultimamente era solito sedersi anche troppo spesso, lo attraeva più della scrivania, ma si fece
forza e si sedette a lavorare. Purtroppo proprio allora entrò l’usciere e annunciò che il direttore lo aveva mandato a
vedere se il signor procuratore era già arrivato; e in tal caso lo pregava di voler gentilmente passare nel salotto perché
l’ospite italiano era già lì. "Vengo subito", disse K., si infilò in tasca un piccolo vocabolario, si mise sotto braccio una
guida ai monumenti della città che aveva preparato per lo straniero e attraverso l’ufficio del vicedirettore passò nella
stanza del direttore. Era contento di essere venuto in ufficio così presto e di poter essere subito a disposizione, cosa
che nessuno avrebbe potuto seriamente aspettarsi. L’ufficio del vicedirettore era naturalmente ancora vuoto come a
notte fonda, probabilmente l’usciere aveva ricevuto l’incarico di chiamare anche lui in direzione ma l’incarico era
andato a vuoto. Quando K. entrò in salotto i due signori si alzarono dalle loro basse poltrone. Il direttore sorrise con
gentilezza, era evidentemente lieto per l’arrivo di K. e fece subito le presentazioni, l’italiano strinse vigorosamente la
mano di K. e ridendo parlò di qualcuno mattiniero, K. non capì bene a chi si riferiva, inoltre era un termine
particolare il cui significato K. indovinò solo dopo un certo tempo. Rispose con alcune semplici frasi che l’italiano di
nuovo accolse ridendo, mentre con mano nervosa si accarezzava i folti baffi grigi dalle sfumature azzurre. I baffi
erano evidentemente profumati, veniva quasi voglia di avvicinarsi e di annusarli. Quando tutti si furono seduti ed
ebbe inizio un piccolo colloquio introduttivo, K. si accorse con disagio di capire solo a tratti quel che l’italiano diceva.
Quando parlava in tutta tranquillità lo capiva quasi completamente, ma questa era una rara eccezione, per lo più il
discorso gli usciva dalla bocca proprio come una fontana, e scuoteva la testa come se ne fosse contento. Mentre
parlava così però si perdeva di regola in un qualche dialetto che per K. non aveva più niente di italiano, e che il
direttore invece non solo capiva ma anche parlava, cosa che K. avrebbe in realtà potuto prevedere, perché l’italiano
veniva dall’Italia meridionale, dove anche il direttore aveva soggiornato per alcuni anni. In ogni caso K. si rese conto
che la possibilità di intendersi con l’italiano gli era in gran parte preclusa, perché anche il francese di lui si capiva assai
male; inoltre i baffi coprivano i movimenti delle labbra, che forse sarebbero stati d’aiuto alla comprensione. K. iniziò
a prevedere parecchi momenti spiacevoli, per il momento rinunciò a capire il corrispondente - in presenza del
direttore che lo capiva con tanta facilità sarebbe stato uno sforzo inutile - e si limitò a guardarlo con irritazione
mentre se ne stava in poltrona affondato ma con leggerezza, si tirava ogni tanto la giacchetta corta e tagliata con
finezza, e aveva tentato anche, con le braccia alzate e le mani mobili e ben articolate, di descrivere qualcosa che K.
non capì, nonostante che, chino in avanti, non perdesse d’occhio il movimento delle mani. Alla fine in K., che era
rimasto inerte a guardare meccanicamente l’alternarsi dei discorsi, si rifece viva la stanchezza di prima, e con suo
spavento a un certo punto si accorse - per fortuna in tempo - che per distrazione stava quasi per alzarsi, voltarsi e
andarsene. Finalmente l’italiano guardò l’orologio e balzò in piedi. Dopo aver preso congedo dal direttore, si rivolse a
K. avvicinandoglisi tanto da costringerlo a spingere indietro la poltrona per potersi muovere. Il direttore, che certo
aveva notato negli occhi di K. il disagio in cui si trovava per questo modo dell’ospite di parlare l’italiano, si inserì nella
conversazione con tanta intelligenza e finezza da dare l’impressione di contribuire con piccoli suggerimenti, mentre
in realtà rendeva comprensibile a K. con poche parole ciò che l’italiano proferiva continuando a interrompere il
discorso. K. venne così a sapere dal direttore che l’italiano per il momento aveva ancora da sbrigare alcune faccende,
che purtroppo avrebbe avuto, in generale, poco tempo, ma che d’altronde non intendeva visitare tutti i monumenti in
fretta, ma piuttosto aveva deciso - comunque solo se K. era d’accordo, la decisione rimaneva sua - di visitare solo il
duomo, ma almeno questo per bene. Si rallegrava straordinariamente di poter fare una visita del genere in compagnia
di un uomo tanto colto e amabile - con questo intendeva K., il quale per parte sua era tutto intento a capire alla svelta
le parole del direttore, passando sopra a quelle dell’italiano - e lo pregava, se l’ora gli andava bene, di trovarsi nel
duomo fra circa due ore, verso le dieci. Lui sperava di poterci essere sicuramente per quell’ora. K. rispose qualcosa di
adeguato, l’italiano strinse la mano prima al direttore, poi a K., poi di nuovo al direttore, e uscì seguito da entrambi in
direzione della porta, sempre un po’ voltato verso di loro e senza mai smettere di parlare. K. poi rimase a parlare
ancora un po’ con il direttore, che oggi aveva un aspetto più sofferente del solito. Riteneva di doversi scusare in
qualche modo con K., e disse - mentre stavano in confidenza, l’uno vicino all’altro - che in un primo tempo aveva
avuto l’intenzione di andare lui stesso con l’italiano, ma che poi - non ne diede alcuna spiegazione - aveva deciso di
mandare piuttosto K. Se questi in un primo momento non capiva la lingua dell’italiano non doveva per questo
lasciarsi scoraggiare, ci avrebbe presto fatto l’orecchio, e anche se in generale non avesse capito molto non importava
un gran che, dato che per l’italiano non era poi così importante essere capito oppure no. D’altronde l’italiano di K.
era sorprendentemente buono, e certo se la sarebbe cavata splendidamente. Con questo K. fu congedato. Il tempo
che gli rimaneva libero lo impiegò a trascriversi dal vocabolario qualche parola rara di cui aveva bisogno per la guida
nel duomo. Era una lavoro estremamente noioso, gli uscieri portavano la posta, gli impiegati venivano con diverse
questioni e, vedendo K. occupato, si arrestavano sulla porta, né però se ne andavano finché K. non li avesse ascoltati,
il vicedirettore non si lasciò sfuggire l’occasione di disturbare K., entrò diverse volte, gli prese di mano il vocabolario
sfogliandolo, evidentemente senza scopo, quando la porta si apriva nella penombra dell’anticamera emergevano
anche clienti, che esitando si inchinavano per farsi notare, ma non erano sicuri che li si fosse visti - tutto ciò si
muoveva intorno a K. come intorno a un centro, mentre lui raccoglieva le parole che gli servivano, le cercava nel
vocabolario, se le trascriveva, si allenava a pronunciarle e infine tentava di impararle a memoria. Ma la sua buona
memoria di un tempo sembrava averlo abbandonato del tutto, ogni tanto diventava così furioso nei confronti
dell’italiano causa di tutta questa fatica che seppelliva il vocabolario sotto una pila di documenti con la ferma
intenzione di non prepararsi più, ma poi rifletteva che non avrebbe potuto camminare su e giù davanti ai monumenti
del duomo con l’italiano senza dire una parola, e quindi, con rabbia ancor maggiore, tirava di nuovo fuori il
vocabolario.

Alle nove e mezzo, proprio mentre stava per andarsene, arrivò una telefonata, Leni gli augurò il buon giorno e gli
chiese come stava, K. ringraziò alla svelta e fece notare che ora non poteva iniziare una conversazione perché doveva
andare al duomo. "Al duomo?" chiese Leni. "Certo, al duomo." "E perché proprio al duomo?" chiese Leni. K. cercò
di spiegarlo in poche parole, ma aveva appena incominciato quando Leni improvvisamente disse: "Ti danno la
caccia." K. non poteva sopportare una compassione che non aveva chiesto e che non si aspettava, si congedò in
poche parole, ma disse, rimettendo a posto il ricevitore, un po’ a se stesso e un po’ alla ragazza lontana la cui voce
non udiva più: "Sì, mi danno la caccia."
Ora però era già tardi, c’era già quasi il pericolo di non arrivare in tempo. Si avviò in automobile, si era ricordato
all’ultimo momento della guida ai monumenti che non aveva avuto occasione di consegnare prima e che ora quindi
prese con sé. La tenne sulle ginocchia, e per tutto il viaggio ci tamburellò sopra inquieto. La pioggia si era attenuata,
ma era umido, freddo e buio, nel duomo si sarebbe visto ben poco, in compenso il raffreddore di K., per la lunga
permanenza sulle mattonelle fredde, sarebbe molto peggiorato.

La piazza del duomo era del tutto deserta, K. ricordava di essersi stupito sin da bambino che nelle case di questa
stretta piazza quasi tutte le finestre avessero le tende abbassate. Col tempo di oggi però era più comprensibile che
mai. Anche all’interno il duomo sembrava deserto, naturalmente a nessuno saltava in mente di venire qui proprio ora.
K. attraversò veloce entrambe le navate, e trovò solo una vecchia che, avvolta in uno scialle caldo, stava in ginocchio
davanti a una statua della Madonna e la guardava. Da lontano vide poi un inserviente zoppo che scompariva in una
porta nel muro. K. era arrivato puntuale, proprio mentre entrava erano suonate le undici, ma l’italiano non c’era
ancora. K. tornò all’ingresso principale, si fermò lì indeciso per un po’ di tempo, poi fece un giro intorno a duomo
sotto la pioggia per vedere se per caso l’italiano non lo stava aspettando a una delle porte laterali. Non si trovava da
nessuna parte. Forse il direttore aveva capito male l’ora? E poi, non era facile capire bene quell’uomo. Comunque
fosse, K. doveva aspettare per almeno una mezz’ora. Siccome era stanco voleva sedersi, rientrò nel duomo, trovò su
un gradino un piccolo straccio a forma di tappeto, lo spinse con la punta del piede davanti a un banco vicino, si
strinse più stretto nel mantello, si rialzò il bavero e si sedette. Per distrarsi aprì la guida e la sfoglio un poco, ma presto
dovette smettere perché si era fatto così buio che, alzando gli occhi, quasi non riusciva a scorgere alcun dettaglio nella
navata laterale.

In lontananza, sull’altar maggiore, brillava un grande triangolo di candele, K. non avrebbe saputo dire con certezza se
le aveva viste già prima. Forse erano state accese solo ora. I sagrestani, per mestiere, agiscono di soppiatto, non si
fanno notare. Quando K. per caso si voltò, vide anche lì ardere, non lontano dietro di sé, un cero grosso e alto,
fissato a una colonna. Per quanto fosse bello, era del tutto insufficiente a illuminare i quadri che per lo più si
trovavano nell’oscurità degli altari laterali; e anzi aumentava il senso di oscurità. L’italiano, mancando
all’appuntamento, era stato tanto ragionevole quanto scortese, non si sarebbe visto quasi niente, ci si sarebbe dovuti
accontentare di esplorare palmo a palmo alcuni quadri con l’aiuto della lampadina elettrica di K. Per provare cosa ci
si poteva aspettare, K. si avvicinò a una piccola cappella laterale lì vicino, salì qualche gradino fino a una bassa
balaustra di marmo e, piegato su di essa, illuminò con la lampadina il quadro sull’altare. Davanti ad esso era appeso,
disturbando, il lumino perpetuo. La prima cosa che K. vide e in parte indovinò fu un grande cavaliere dotato di
armatura, rappresentato al limite esterno del quadro. Si stava appoggiando sulla spada che aveva piantato davanti a sé
sulla nuda terra - solo qua e là si vedevano alcuni steli d’erba. Sembrava osservare con attenzione qualcosa che stava
succedendo davanti a lui. Era sorprendente che rimanesse così fermo e non si avvicinasse. Forse era stato destinato a
fare la guardia. K., che da tempo non vedeva quadri, rimase a contemplare a lungo il cavaliere, benché dovesse
continuamente stringere gli occhi, perché non sopportava la luce verde della lampadina. Quando fece scivolare la luce
sul resto del quadro, trovò una deposizione di Cristo dipinta come al solito, ed era fra l’altro un quadro moderno. Si
rimise in tasca la lampadina e tornò al suo posto.

Con ogni probabilità non c’era più necessità di aspettare oltre l’italiano, fuori però la pioggia cadeva certamente a
scrosci, e siccome non faceva così freddo come si era aspettato, K. decise di rimanere per il momento ancora un po’
qui. Vicino a lui c’era il grande pulpito, sul cui tetto rotondo erano disposte, semidistese, due nude croci d’oro che si
intersecavano alle estremità. La parete esterna del parapetto con il suo punto di passaggio alla colonna di sostegno
era scolpita in forma di foglie verdi, che venivano afferrate da angioletti ora in moto, ora in riposo. K. si pose davanti
al pulpito e lo studiò da tutti i lati, la lavorazione della pietra era estremamente accurata, il buio profondo fra il
fogliame scolpito e il piano ad esso posteriore sembrava come catturato e trattenuto; K. mise in uno di questi buchi
la mano e tastò cautamente la pietra, che ci fosse questo pulpito non lo aveva finora mai neppure saputo. In quel
momento si accorse casualmente che dietro la fila di banchi più vicina c’era un sagrestano in una giacca nera,
penzolante e spiegazzata, che teneva nella mano sinistra una tabacchiera e lo osservava. "Cosa vuole questo?" pensò
K. "Gli sembro una persona sospetta? O forse vuole una mancia?" Quando però il sagrestano si accorse che K. lo
aveva notato, tese la mano destra, nella quale teneva sempre fra due dita una presa di tabacco, a indicare una
direzione indefinita. Il suo atteggiamento era quasi incomprensibile, K. aspettò ancora un poco, ma il sagrestano non
cessava di indicare qualcosa con la mano e lo confermava con cenni del capo. "Ma cosa vuole?" chiese K. a bassa
voce, non osava chiamare forte in questo luogo; poi però tirò fuori il portafoglio e si infilò attraverso i banchi più
vicini per raggiungere l’uomo. Questi però fece subito un gesto di rifiuto con la mano, scosse le spalle e se ne andò
zoppicando. Quando K. era bambino e voleva far finta di andare a cavallo assumeva un’andatura simile a quella di
questo zoppo frettoloso. "Un vecchio rimbambito", pensò K., "il cervello gli basta appena per il servizio in chiesa.
Guardalo lì come si ferma se mi fermo io, e come sta all’erta per vedere se riprendo a camminare." Sorridendo K.
seguì il vecchio per tutta la navata laterale quasi fino all’altezza dell’altar maggiore, il vecchio non la smetteva di
indicare qualcosa, ma intenzionalmente K. non si voltava, quell’indicare non aveva altro scopo che distrarlo
dall’inseguimento del vecchio. Alla fine lo lasciò andare per davvero, non lo voleva angosciare troppo, e poi non
voleva scacciare del tutto quell’apparizione per il caso che l’italiano fosse ancora venuto.

Quando entrò nella navata principale per cercare il suo posto, su cui aveva lasciato la guida, notò, su una colonna
quasi a fianco dei banchi del coro, un piccolo pulpito laterale, molto semplice, in nuda pietra biancastra. Era tanto
piccolo che da lontano sembrava una nicchia ancora nuova, destinata a ricevere una statua. Certo chi predicava non
poteva allontanarsi dal parapetto neppure di un passo. Inoltre la volta in pietra del pulpito iniziava su un punto
insolitamente basso e si innalzava senza alcun ornamento, ma centinata in modo tale che un uomo di media altezza
non avrebbe potuto rimanere in posizione eretta, ma avrebbe dovuto in continuazione rimanere piegato in avanti sul
parapetto. Il tutto sembrava studiato per torturare chi predicava, non si capiva a cosa potesse servire questo pulpito
dal momento che c’era a disposizione quell’altro tanto grande e decorato con tanta arte.

Certamente K. non si sarebbe neppure accorto di questo piccolo pulpito se sopra di esso non fosse stata posta una
lampada, come si fa di solito poco prima di una predica. Doveva esserci una predica ora? Nella chiesa vuota? K.
guardò giù verso la scala che, addossata alla colonna, conduceva al pulpito e che era tanto stretta che sembrava non
dovesse servire per chi saliva, ma solo come decorazione della colonna. Ai piedi del pulpito però - K. sorrise per lo
stupore - c’era veramente il prete, che teneva la mano sulla ringhiera pronto a salire, e osservava K. Quindi fece un
piccolo cenno con il capo, al che K. si fece il segno della croce e si inchinò, cosa che avrebbe dovuto fare già da
prima. Il prete, con un piccolo slancio, salì sul pulpito a passi brevi e veloci. Davvero sarebbe iniziata una predica?
Forse il sagrestano non era così fuori di cervello e aveva voluto spingere K. verso il predicatore, cosa d’altronde
assolutamente necessaria, dato che il resto della chiesa era vuoto. D’altra parte in qualche posto c’era anche una
vecchia, che avrebbe dovuto venire anche lei. E se doveva cominciare una predica, perché non veniva introdotta
dall’organo? Quest’ultimo invece rimaneva silenzioso e si limitava a splendere debolmente dall’oscurità delle sue
grandi altezze.

K. si domandò se non fosse il caso di andarsene in tutta fretta, se non lo avesse fatto ora non c’era poi più la
possibilità di farlo durante la predica, avrebbe dovuto rimanere finché durava, tutto quel tempo lo avrebbe perso in
ufficio, già da un pezzo non era più tenuto ad aspettare l’italiano, guardò l’orologio, erano le undici. Ma era possibile
che davvero si facesse ora una predica? Possibile che K. rappresentasse, da solo, tutto l’uditorio dei fedeli? Non
poteva essere un estraneo che voleva solo visitare la chiesa? E in fondo non era altro che questo. Era assurdo pensare
che si potesse fare una predica ora, alle undici di un giorno feriale e con un tempo così orribile. Il prete - un prete lo
era certamente, era un uomo giovane con un volto liscio e scuro - evidentemente era salito solo per spegnere la
lampada, che era stata accesa per errore.

Ma non era così, invece il prete controllò la lampada regolandone ancora un po’ la luce, poi si voltò lentamente verso
il parapetto, afferrandolo con entrambe le mani alla decorazione spigolosa dell’orlo. Per un po’ di tempo rimase
fermo così, guardandosi intorno senza muovere la testa. K. era indietreggiato di parecchio e stava appoggiato con i
gomiti al primo banco della chiesa. Da qualche parte, senza poter dire di preciso dove, vide con occhi incerti il
sagrestano che pacificamente, con la schiena curva, si accucciava come se avesse compiuto un lavoro. Che silenzio
regnava ora nel duomo! Ma era destino che K. lo disturbasse, non aveva intenzione di rimanere qui; se era dovere del
prete fare una predica a una determinata ora a prescindere dalle circostanze, poteva farla lo stesso, avrebbe avuto
successo anche senza l’appoggio di K., né certamente la sua presenza ne avrebbe migliorato l’efficacia. K. perciò
iniziò lentamente a muoversi, tastando con la punta dei piedi trovò la strada lungo il banco, arrivò poi alla via più
larga nel centro e anche lì proseguì indisturbato, solo il pavimento di pietra faceva rumore anche al passo più lieve e
le volte ne risuonavano debolmente ma senza interruzione, in una progressione ripetuta e regolare. K. si sentiva un
po’ abbandonato mentre, forse sotto lo sguardo del prete, se ne andava da solo fra i banchi vuoti, inoltre la grandezza
del duomo gli sembrava ai limiti della sopportabilità umana. Giunto al suo posto di prima, senza fermarsi oltre
agguantò letteralmente la guida che vi aveva lasciato e la prese con sé. Aveva quasi superato la zona dei banchi e si
avvicinava allo spazio libero che si trovava fra questi e l’uscita, quando per la prima volta udì la voce del prete. Una
voce potente, esercitata. Come attraversava il duomo, che era pronto a riceverla! Ma non era alla comunità dei fedeli
che il prete si rivolgeva, non c’erano dubbi e non c’erano vie d’uscita, il prete chiamò: "Josef K.!"

K. si arrestò e guardò il terreno davanti a sé. Per il momento era ancora libero, poteva proseguire e levarsi di torno
attraverso una delle tre piccole porte scure di legno non lontane da lui. Avrebbe significato che non aveva capito,
oppure che aveva capito ma che non voleva interessarsene. Se però si voltava era bloccato, perché in tal caso sarebbe
stata la confessione che aveva capito bene, che quello che veniva chiamato era proprio lui e che aveva anche
intenzione di dare retta. Se il prete avesse chiamato ancora una volta, K. se ne sarebbe certo andato, ma siccome
tutto taceva per quanto K. aspettasse, girò un po’ la testa, perché voleva vedere che cosa il prete stesse facendo in
quel momento. Stava sul pulpito tranquillo come prima, ma si vedeva chiaramente che si era accorto che K. aveva
mosso la testa. Sarebbe stato ora un infantile gioco a nascondino se K. non si fosse voltato completamente. Lo fece,
e il prete con un cenno del dito lo invitò ad avvicinarsi. Siccome tutto poteva ormai essere esplicito, si mise a correre
- per curiosità e per farla corta - volando a lunghi passi verso il pulpito. All’altezza dei primi banchi si fermò, ma la
distanza parve ancora troppo grande al prete, che tese la mano e con l’indice severamente piegato indicò un punto
proprio davanti al pulpito. K. ubbidì anche in questo, da quel punto doveva piegare molto indietro la testa per
riuscire a vedere il prete. "Tu sei Josef K.", disse il prete alzando una mano sul parapetto con un movimento
impreciso. "Sì", disse K., e pensò con quanta franchezza prima aveva sempre pronunciato il proprio nome, mentre da
qualche tempo era diventato un peso, e ora il suo nome era conosciuto da persone che vedeva per la prima volta;
come era bello prima presentarsi e solo dopo essere conosciuto! "Tu sei sotto accusa", disse il prete a voce
particolarmente bassa. "Sì", disse K.,
"me lo hanno comunicato." "Allora sei tu quello che cerco", disse il prete. "Io sono il cappellano della prigione." "Ah,
ecco", disse K. "Ti ho fatto chiamare", disse il prete, "per parlare con te." "Non lo sapevo", disse K. "Io ero venuto
per far vedere il duomo a un italiano." "Lascia perdere, questo è secondario", disse il prete. "Cosa tieni in mano? E’
un libro di preghiere?" "No", rispose K., "è una guida ai monumenti della città." "Buttala via", disse il prete. K. la
scagliò con tanta violenza che la guida sbattendo per terra si aprì e scivolò per un pezzo sul pavimento con le pagine
sgualcite. "Lo sai che il tuo processo sta andando male?" "Anch’io ho quest’impressione", disse K. "Ho fatto ogni
sforzo possibile, ma finora non ho avuto successo. Comunque non ho ancora finito di preparare il ricorso." "Come ti
immagini che finirà?" chiese il prete. "Prima pensavo che sarebbe finita bene", disse K., "ora io stesso a volte ne
dubito. Non so come andrà a finire. Tu lo sai?" "No", disse il prete, "ma ho paura che andrà a finire male. Credono
che tu sia colpevole. Forse il tuo processo non andrà oltre un tribunale di basso grado. Almeno per il momento, si
pensa che la tua colpa sia provata." "Ma io non sono colpevole", disse K., "è un errore. Com’è possibile, in generale,
che un uomo sia colpevole? Siamo tutti uomini, gli uni come gli altri." "Questo è vero", disse il prete, "ma di solito
sono i colpevoli a parlare così." "Anche tu hai un pregiudizio nei miei confronti?" chiese K. "Non ho nessun
pregiudizio nei tuoi confronti" disse il prete. "Ti ringrazio", disse K. "Tutti gli altri però in questo procedimento
hanno un pregiudizio contro di me. E lo ispirano anche a chi non fa parte del processo. La mia posizione diventa
sempre più difficile." "Tu capisci male i fatti", disse il prete. "Il verdetto non arriva tutt’a un tratto, il procedimento
diventa verdetto a poco a poco." "E’ così dunque", disse K. chinando il capo. "Cosa intendi fare ora per la tua
questione?" chiese il prete. "Voglio cercare altri aiuti", disse K. e alzò la testa per vedere come il prete valutasse
questa intenzione. "Ci sono ancora certe possibilità che non ho sfruttato." "Tu cerchi troppo aiuto dagli estranei",
disse il prete con disapprovazione, "e soprattutto dalle donne. Come fai a non accorgerti che non è questo il vero
aiuto?" "Talvolta, e diciamo pure spesso, potrei darti ragione", disse K., "ma non sempre. Le donne hanno un grande
potere. Se potessi convincere alcune donne che conosco a lavorare tutte insieme per me, dovrei avere la meglio per
forza. E soprattutto con questo tribunale, che consiste quasi solo di libertini. Fai vedere da lontano una donna al
giudice istruttore e quello, pur di arrivare in tempo, passa sopra alla scrivania del tribunale e alla testa dell’imputato."
Il prete piegò la testa sul parapetto, solo ora sembrava che la cupola del pulpito lo opprimesse. Ma che razza di
tempo doveva esserci all’esterno? Non era più un giorno cupo, lo si poteva ormai chiamare notte fonda. Nessuno dei
mosaici della grande vetrata era più in grado di interrompere quel muro di oscurità, sia pure con un solo riflesso di
luce. E proprio in quel momento il sagrestano cominciava a spegnere le candele sull’altar maggiore, una dopo l’altra.
"Ce l’hai con me?" chiese K. "Forse non sai di che razza di tribunale sei al servizio." Non ricevette risposta. "Certo, è
solo la mia esperienza", disse K. Lassù tutto continuava a tacere. "Non ti volevo offendere", disse K. Allora il prete
gridò in basso, verso K.: "Possibile che tu non veda a distanza di due passi?" Era un grido di collera, ma anche come
il grido di qualcuno che vede un altro cadere e senza pensare, senza volere grida perché è lui stesso spaventato.
Ora tacquero a lungo entrambi. Certamente il prete non poteva distinguere bene K. nel buio che regnava in basso,
mentre K. vedeva chiaramente il prete alla luce della piccola lampada. Perché il prete non scendeva? Non aveva certo
tenuto una predica, ma solo fatto alcune comunicazioni a K., le quali, a ben guardare, potevano magari più nuocergli
che essergli d’aiuto. Certo però la buona fede del prete sembrava a K. al di sopra di ogni dubbio, non era impossibile
che, quando fosse sceso, si sarebbe messo d’accordo con lui, e forse K. ne avrebbe ricevuto un consiglio decisivo e
accettabile, che per esempio gli mostrasse il modo non di influenzare il processo, ma di evadere dal processo, e come
si potesse aggirare, vivere all’esterno del processo. Doveva esserci una tale possibilità, negli ultimi tempi K. ci aveva
pensato spesso. Ma se il prete sapeva di una simile possibilità forse, se lo si interrogava, l’avrebbe svelata a K., anche
se lui stesso apparteneva al tribunale e anche se aveva represso la sua natura gentile quando K. aveva attaccato il
tribunale, arrivando persino a gridargli contro.

"Perché non scendi giù?" disse K. "Non ci sono prediche da fare. Scendi giù da me." "Ora posso anche scendere",
disse il prete, che forse si era pentito di aver gridato. Togliendo la lampada dal gancio disse: "Prima dovevo parlarti da
lontano. Altrimenti mi lascio influenzare troppo facilmente e dimentico il mio dovere."

K. lo aspettò ai piedi della scala. Già da uno dei gradini superiori, mentre scendeva, il prete gli tese la mano. "Hai un
po’ di tempo per me?" chiese K. "Tutto il tempo che ti serve", disse il prete e diede a K. la piccola lampada perché la
portasse. Anche da vicino, la sua presenza non perdeva una certa solennità. "Sei molto gentile con me", disse K. Uno
vicino all’altro, camminavano su e giù nella buia navata laterale. "Fra tutti quelli che appartengono al tribunale tu sei
un’eccezione. Ho più fiducia in te che in uno qualsiasi di loro, per quanti ne conosco. Con te posso parlare
apertamente." "Non ingannarti", disse il prete. "Su cosa dovrei ingannarmi?" chiese K. "E’ sul tribunale che ti
inganni", disse il prete, "negli scritti introduttivi alla legge a proposito di questo inganno sta scritto: Davanti alla legge
c’è un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede di poter entrare nella legge. Il
portiere però gli dice che ora non può permettergli di entrare. L’uomo riflette e poi chiede se allora potrà entrare più
tardi. ‘Può darsi’, dice il guardiano, ‘ora però no.’ Siccome la porta che dà accesso alla legge è aperta come sempre e il
guardiano si sposta da un lato, l’uomo si curva per guardare, attraverso la porta, all’interno. Quando il guardiano se
ne accorge, ride e dice: ‘Se ti attira tanto, cerca pure di entrare malgrado il mio divieto. Stai attento però: io sono
potente. E io sono solo il guardiano di grado più basso. Di sala in sala però ci sono guardiani uno più potente
dell’altro. Già lo sguardo del terzo non posso sopportarlo neppure io." L’uomo di campagna non si era aspettato
simili difficoltà, la legge dovrebbe pur essere accessibile sempre e a chiunque, pensa, ma ora che osserva meglio il
guardiano nel suo mantello di pelliccia, il suo grande naso a punta, la barba nera tartara, lunga e rada, decide che è
meglio aspettare finché non otterrà il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a un lato
della porta. Lì siede per giorni e anni. Fa molti tentativi per essere ammesso e stanca il guardiano con le sue
preghiere. Il guardiano ogni tanto gli fa delle brevi domande, lo interroga sulla sua patria e su molte altre cose, ma
sono domande senza interesse come quelle dei gran signori, e alla fine gli ripete sempre che ancora non può farlo
entrare. L’uomo, che si era equipaggiato di molti oggetti per il suo viaggio, usa ogni cosa, per quanto di valore, per
corrompere il guardiano. Questi accetta bensì tutto, ma dicendo: ‘Lo accetto solo perché tu non creda di aver
trascurato qualcosa.’ Nel corso dei molti anni l’uomo osserva il guardiano quasi ininterrottamente. Dimentica gli altri
guardiani e questo primo gli sembra l’unico ostacolo all’ingresso nella legge. Maledice il caso disgraziato, nei primi
anni ad alta voce, poi, invecchiando, si limita a borbottare fra sé. Diventa come un bambino, e siccome nei lunghi
anni di studio del guardiano ha imparato a conoscere anche le pulci del suo colletto di pelliccia, implora anche le
pulci di aiutarlo e di far cambiare idea al guardiano. Alla fine la sua vista si indebolisce e non sa se davvero intorno a
lui si sta facendo più buio o se sono solo i suoi occhi che lo ingannano. Nel buio però ora distingue uno splendore,
che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Non gli resta più molto da vivere. Prima della morte tutte le
esperienze di tutto quel tempo gli si riassumono nella testa in una domanda, che ancora non ha fatto al guardiano.
Gli fa un cenno, perché non può più sollevare il suo corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano deve chinarsi
profondamente fino a lui, perché la differenza di statura è molto cambiata a sfavore dell’uomo. ‘Cosa vuoi sapere
ancora’, chiede il guardiano, ‘sei insaziabile.’ ‘Tutti desiderano la legge’, dice l’uomo, ‘come mai allora in tanti anni
nessuno tranne me ha chiesto di entrare?’ Il guardiano si rende conto che l’uomo ormai è alla fine, e per raggiungere
ancora il suo udito che sta ormai svanendo gli grida: ‘Da qui non poteva essere ammesso nessun altro, perché questo
ingresso era riservato solo a te. Ora vado e lo chiudo.’"

"Dunque il guardiano ha ingannato l’uomo", disse subito K., cui la storia aveva fatto un’impressione molto forte.
"Non avere troppa fretta", disse il prete, "non accettare l’opinione altrui senza averla prima esaminata. Io ti ho
raccontato la storia come è, alla lettera, nello scritto. Non c’è niente che parli di inganno." "Ma è una cosa evidente",
disse K., "e la tua prima interpretazione era del tutto giusta. Il guardiano ha fatto la comunicazione salvifica solo
quando all’uomo non poteva servire più a nulla." "Nessuno gli aveva fatto la domanda prima", disse il prete, "rifletti
che era solo un guardiano, e come tale ha fatto il suo dovere." "Perché credi che abbia fatto il suo dovere?" chiese K.,
"Non lo ha fatto. Il suo dovere era forse di allontanare tutti gli estranei, ma quest’uomo, cui era destinato l’ingresso,
doveva lasciarlo passare." "Tu non rispetti lo scritto e cambi la storia", disse il prete. "Per quanto riguarda
l’ammissione nella legge, la storia contiene due spiegazioni importanti del guardiano, una all’inizio e una alla fine. Il
primo luogo dice: ‘che ora non può permettergli di entrare’, e l’altro: ‘questo ingresso era riservato solo a te.’ Se fra
queste due spiegazioni ci fosse contraddizione avresti ragione tu, e il guardiano avrebbe ingannato l’uomo. Invece
non c’è alcuna contraddizione. Al contrario, la prima spiegazione allude persino alla seconda. Si potrebbe quasi dire
che il guardiano vada al di là del proprio dovere facendo intravedere all’uomo una possibilità futura di essere
ammesso. In quel momento, si direbbe che il suo dovere sarebbe stato soltanto quello di respingere l’uomo. E in
effetti molti commentatori dello scritto si stupiscono in generale che il guardiano abbia fatto quell’allusione, dato che
sembra amare la precisione e si attiene strettamente al proprio dovere. Per molti anni non abbandona il suo posto e
chiude il portone solo alla fine, è ben conscio dell’importanza del suo incarico, perché dice ‘io sono potente’, ha
rispetto dei superiori, perché dice ‘io sono solo il guardiano di grado più basso’, quando si tratta di adempimento del
dovere non lo si può commuovere né esasperare, dato che dell’uomo si dice che ‘stanca il guardiano con le sue
preghiere’, non è chiacchierone, perché in tutti quegli anni pone soltanto, come sta scritto, ‘domande senza interesse’,
non lo si può corrompere, perché di un regalo dice ‘lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa’,
infine anche il suo aspetto esteriore allude a un carattere pedante, così il grande naso a punta e la barba nera tartara,
lunga e rada. Può esserci un guardiano più ligio al suo dovere? Ora però nel guardiano ci sono mescolati anche dei
tratti essenziali molto favorevoli a chi desidera essere ammesso e che comunque rendono comprensibile come abbia
potuto, con quell’allusione a una futura possibilità, andare oltre il proprio dovere. Infatti non si può negare che sia un
po’ sempliciotto, e in rapporto a questo anche un po’ presuntuoso. Anche se le sue affermazioni a proposito della
propria potenza e della potenza degli altri guardiani, e anche a proposito della loro vista insopportabile persino per
lui - voglio dire anche se tutte queste affermazioni in sé possono essere giuste, tuttavia il modo in cui le espone
testimonia che il suo modo di comprenderle è viziato dall’ingenuità e dall’esagerazione. A questo proposito gli
interpreti dicono: comprendere correttamente una cosa ed equivocarla non si escludono del tutto a vicenda. In ogni
caso bisogna ritenere che quella ingenuità e quell’esagerazione, per quanto si manifestino forse in minimi tratti,
indeboliscano tuttavia la sorveglianza dell’ingresso, e siano delle mancanze nel carattere del guardiano. A questo si
aggiunge che il guardiano, per sua natura, sembra essere di carattere gentile, non mantiene affatto in continuazione
l’atteggiamento del funzionario. Fin dai primi momenti scherza invitando l’uomo ad entrare, nonostante il divieto
formulato espressamente; e poi non lo caccia via, ma gli dà, come sta scritto, uno sgabello, e lo fa sedere a lato del
portone. La pazienza con cui nell’arco di tutti quegli anni sopporta le preghiere dell’uomo, le brevi domande,
l’accettazione dei regali, la signorilità con cui permette all’uomo di maledire in sua presenza il destino che ha messo
qui il guardiano - tutto ciò fa pensare che sia spinto dalla compassione. Non tutti i guardiani si sarebbero comportati
così. E alla fine si china anche, su un suo cenno, giù fino all’uomo per dargli la possibilità di un’ultima domanda. Solo
una debole impazienza - il guardiano sa bene che tutto è alla fine - si manifesta nelle parole: ‘sei insaziabile’. Alcuni
vanno persino oltre in questo tipo di interpretazione e ritengono che le parole ‘sei insaziabile’ manifestino una specie
di amichevole stima, alla quale comunque non è estranea una certa degnazione. In ogni caso così la figura del
guardiano si dimostra diversa da come la vedi tu." "Tu conosci la storia meglio di me, e da più tempo", disse K.
Rimasero per un poco in silenzio. Poi K. disse: "Allora tu ritieni che l’uomo non sia stato ingannato?" "Non
fraintendermi", disse il prete, "ti sto solo riferendo le opinioni al proposito. Non devi dare troppo retta alle opinioni.
La scrittura è immutabile, e le opinioni sono spesso solo un’espressione della disperazione per questo fatto. In questo
caso c’è addirittura un’opinione secondo la quale ad essere ingannato sarebbe invece il guardiano." "E’ una ben ampia
opinione", disse K. "E come viene motivata?" "La motivazione", rispose il prete, "prende le mosse dall’ingenuità del
guardiano. Si dice che egli non conosca l’interno della legge, ma solo la strada che deve sempre percorrere davanti
all’ingresso. Le sue fantasie a proposito dell’interno sono considerate infantili e si ritiene che lui stesso abbia paura di
ciò che vuol far temere all’uomo. Anzi ne ha paura più dell’uomo, perché questi non vuole altro che entrare anche
avendo sentito dei terribili guardiani nell’interno, mentre il guardiano non vuole entrare, o per lo meno non se ne
parla. E’ vero che altri sostengono che deve essere già stato nell’interno, perché deve pur aver preso servizio agli
ordini della legge, e questo può essere avvenuto solo all’interno. A questo bisogna rispondere che potrebbe essere
stato nominato guardiano anche con una chiamata dall’interno e che comunque non può essersi addentrato molto
all’interno, dato che non può sopportare la vista neppure del terzo guardiano. Inoltre non si racconta che, a
prescindere dall’osservazione sui guardiani, in tutti quegli anni abbia mai raccontato qualcosa di ciò che sta
all’interno. Può darsi che gli fosse proibito, ma anche di questa proibizione non si parla. Da tutto questo si conclude
che non sa niente dell’aspetto e del significato di ciò che sta all’interno, e che a questo proposito si inganna. Ma deve
ingannarsi anche a proposito dell’uomo di campagna, perché di quest’uomo è un sottoposto e non lo sa. Che il
guardiano tratti l’uomo come un sottoposto lo si vede da molti dettagli che potrai ancora ricordare. Ma che in effetti
sia lui ad essere sottoposto all’uomo risulta, secondo questa opinione, altrettanto chiaro. Anzitutto chi è libero è
superiore a chi è legato. Ora l’uomo di campagna è in effetti libero, può andare dove vuole, solo l’ingresso nella legge
gli è proibito, e inoltre gli è proibito da una persona sola, il guardiano. Quando si siede su uno sgabello a lato del
portone e ci resta per tutta la vita, ciò avviene per sua libera scelta, la storia non riferisce di alcuna costrizione. Invece
il guardiano è legato al suo posto dal suo ufficio, non se ne può allontanare all’esterno, e secondo ogni apparenza
non può neppure entrare all’interno, neppure se lo volesse. Inoltre egli è certo al servizio della legge, ma solo
limitatamente a questo ingresso, e dunque anche solo a favore di quest’uomo cui quest’ingresso è unicamente
destinato. Anche per questo motivo è un suo sottoposto. Bisogna ritenere che per molti anni, per l’intero periodo di
maturazione di un uomo il guardiano abbia svolto in certo modo solo un servizio a vuoto, perché la storia dice che
venne un uomo, dunque qualcuno in età virile, e che quindi il guardiano deve aver aspettato a lungo prima di
adempiere al suo scopo, deve cioè aver aspettato finché l’uomo voleva, dato che giungeva di sua volontà. Ma anche la
fine del suo servizio è definita dalla fine della vita dell’uomo, e dunque fino alla fine rimane un suo sottoposto. E
sempre si ripete che di tutto ciò il guardiano sembra non sapere nulla. In questo però non si vede niente di strano,
perché secondo questa opinione il guardiano si trova in un inganno ancor più grave, che riguarda il suo stesso
servizio. Alla fine infatti parla dell’ingresso e dice ‘ora vado e lo chiudo’, ma all’inizio sta scritto che il portone di
ingresso alla legge sta aperto come sempre, ma se sta aperto sempre, e questo sempre significa indipendentemente
dalla vita dell’uomo cui è destinato, allora neppure il guardiano riuscirà a chiuderlo. Qui le opinioni si dividono, c’è
chi ritiene che il guardiano, annunciando che chiuderà il portone, voglia solo dare una risposta qualsiasi, oppure
voglia far risaltare il proprio dovere, oppure intenda, anche all’ultimo momento, gettare l’uomo nella tristezza e nel
pentimento. Su questo però sono d’accordo in molti, che non potrà chiudere il portone. Addirittura si ritiene che,
almeno alla fine, sia sottoposto all’uomo anche nel grado di conoscenza, perché questi vede lo splendore che erompe
dall’ingresso della legge, mentre il guardiano in quanto tale volge le spalle all’ingresso e nemmeno c’è un passo che
mostri che ha notato un qualche cambiamento." "Questa è una buona motivazione", disse K., che si era ripetuto fra
sé a bassa voce alcuni passi della spiegazione del prete. "E’ una buona motivazione, e ora anch’io ritengo che il
guardiano sia stato ingannato. Questo però non mi distoglie dalla mia precedente opinione, perché in parte si
sovrappone a questa. Non è decisivo che il guardiano veda le cose chiaramente o venga ingannato. Io ho detto che ad
essere ingannato è l’uomo. Se il guardiano vede le cose con chiarezza tale inganno è dubbio, ma se il guardiano viene
ingannato allora il suo inganno deve per forza essere trasferito anche sull’uomo. In tal caso il guardiano non è un
imbroglione, ma è tanto ingenuo che dovrebbe essere subito cacciato dal suo incarico. E poi devi pensare che
l’inganno in cui si trova il guardiano non lo danneggia, mentre all’uomo procura danni incalcolabili." "Qui ti scontri
con un’opinione contraria", disse il prete. "Infatti molti affermano che la storia non concede a nessuno il diritto di
giudicare il guardiano. Comunque ci possa apparire, è pur sempre un servitore della legge, dunque appartiene alla
legge, e quindi è sottratto al giudizio umano. In tal caso non si può neppure credere che il guardiano sia sottoposto
all’uomo. Grazie al suo servizio, anche solo essere legato all’ingresso della legge è incomparabilmente di più che
vivere libero nel mondo. L’uomo può solo venire alla legge, il guardiano è già lì. E’ stato posto dalla legge al suo
servizio, dubitare della sua dignità significa dubitare della legge stessa." "Questa opinione non mi trova d’accordo",
disse K. scuotendo la testa, "perché se la si accetta allora bisogna considerare vero tutto ciò che il guardiano dice. Ma
che questo non sia possibile lo hai motivato estesamente tu stesso." "No", disse il prete, "non bisogna considerare
vero tutto, bisogna considerarlo solo necessario." "E’ un’opinione ben triste", disse K. "La menzogna viene
considerata l’ordinamento del mondo."

K. disse questo come se fosse una conclusione, ma non era il suo giudizio definitivo. Era troppo stanco per avere
una visione d’insieme delle conseguenze della storia, inoltre questa lo portava lungo pensieri inusuali, cose irreali, più
adatte alla società dei funzionari di tribunale che a lui. Quella semplice storia era diventata informe, voleva scuoterla
via da sé e il prete, mostrando in questo una grande sensibilità, lo tollerò accettando silenziosamente l’osservazione
di K., benché certo non corrispondesse alla sua opinione.

Proseguirono per un po’ in silenzio, K. si manteneva stretto vicino al prete, senza sapere dove, in quell’oscurità, si
trovasse. La lampada che teneva in mano si era spenta da parecchio tempo. A un certo punto, proprio davanti a lui,
una statua argentea di un santo aveva scintillato del solo chiarore dell’argento, ed era subito scomparsa di nuovo nel
buio. Per non rimanere in completa dipendenza dal prete, K. gli chiese: "Non siamo dalle parti dell’ingresso
principale?" "No", disse il prete, "siamo molto lontani da lì. Vuoi andartene già?" Benché K. non ci stesse pensando
in quel momento, disse subito: "Certo, devo andarmene. Sono procuratore in una banca, mi aspettano, ero venuto
solo per mostrare il duomo a un corrispondente straniero." "Beh", disse il prete tendendo la mano a K., "allora vai."
"Non mi so orientare da solo nel buio", disse K. "Vai a sinistra verso la parete", disse il prete, "poi segui la parete
senza lasciarla e troverai un’uscita." Il prete si era allontanato solo di pochi passi, ma già K. lo chiamava, a voce molto
alta: "Ti prego, aspetta un po’" "Sto aspettando", disse il prete. "Vuoi ancora qualcosa da me?" chiese K. "No", disse
il prete. "Prima eri così gentile con me", disse K., "e mi hai spiegato tutto, ora però mi abbandoni come se di me non
ti importasse nulla." "Ma devi andare via", disse il prete. "Beh, sì", disse K., "cerca di capirlo." "Prima di tutto cerca
tu di capire chi sono io", disse il prete. "Tu sei il cappellano della prigione", disse K. avvicinandosi al prete, il suo
ritorno immediato in banca non era così necessario come lo aveva presentato, poteva tranquillamente restare ancora
qui. "Dunque appartengo al tribunale", disse il prete. "E allora perché dovrei volere qualcosa da te. Il tribunale non
vuole niente da te. Ti prende quando vieni e ti lascia andare quando te ne vai."
10) Fine

La sera prima del suo trentunesimo compleanno - erano circa le nove di sera, l’ora in cui le strade si fanno silenziose
- in casa di K. giunsero due signori. Erano in abiti da passeggio, pallidi e grassi, con cappelli a cilindro
apparentemente inamovibili. Al portone ci fu una piccola schermaglia di cortesie per stabilire chi doveva passare per
primo, e la stessa scena si ripeté, più accentuata, davanti alla porta di K. Senza che la visita gli fosse stata annunciata,
K. sedeva anche lui vestito di nero su una sedia vicino alla porta e infilava lentamente dei guanti nuovi, ben tesi sulle
dita, nell’atteggiamento di chi aspetta ospiti. Si alzò subito, guardando incuriosito i signori. "Dunque siete destinati a
me?" chiese. I signori annuirono, uno indicò l’altro con il cilindro in mano. K. confessò a se stesso che si sarebbe
aspettato un’altra visita. Andò alla finestra e guardò ancora una volta nella strada buia. Anche le finestre sull’altro lato
della strada erano ancora buie, in molte le tende erano abbassate. In una finestra illuminata del pianerottolo due
bambini piccoli giocavano fra loro dietro una grata e, ancora incapaci di muoversi dai loro posti, si cercavano
allungando le piccole mani. "Mi mandano dei vecchi attori di quart’ordine", si disse K. e si guardò intorno per
convincersene ancora una volta. "Vogliono sbarazzarsi di me a buon mercato." K. si voltò improvvisamente verso di
loro e chiese: "In quale teatro recitate?" "Teatro?" chiese un signore all’altro come per avere consiglio, contraendo gli
angoli della bocca. L’altro fece gesti come un muto in battaglia con l’organismo che si oppone ai suoi sforzi. "Non
sono preparati a rispondere alle domande", si disse K., e andò a prendere il cappello.

Già sulla scala i signori volevano prendere a braccetto K., ma questi disse: "Solo sulla strada, non sono malato."
Appena fuori dal portone però lo presero a braccetto come non era mai successo a K. con un essere umano.
Tenevano le spalle strette dietro le sue, non piegavano le braccia, ma le usavano per avvolgere le braccia di K. in tutta
la loro lunghezza, e in basso afferrarono le mani di K. con una presa scolastica, allenata, cui era impossibile opporre
resistenza. K. procedeva fra di loro rigido e teso, ora formavano tutti e tre una sola unità, tanto che se si fosse
spezzato uno di loro si sarebbero spezzati tutti e tre. Erano un’unità come si può formare quasi solo dalla materia
inanimata.

Passando sotto i fanali K. cercò più volte, per quanto glielo permetteva quella vicinanza così stretta, di vedere i suoi
accompagnatori più chiaramente di quanto fosse stato possibile nella luce crepuscolare della sua stanza. Forse sono
dei tenori, pensò vedendo il loro pesante doppio mento. Provò nausea per la pulizia delle loro facce. Sembrava quasi
di vedere ancora la mano che puliva fin dentro gli angoli dei loro occhi, che strofinava il labbro superiore, che
raschiava le pieghe del mento.

Facendo queste osservazioni K. si arrestò, e di conseguenza si arrestarono anche gli altri; erano ai margini di una
piazza libera e deserta, adorna di aiuole. "Perché hanno mandato proprio voi!" esclamò più che domandare.
Sembrava che i signori non avessero alcuna risposta, aspettavano lasciando pendere le braccia libere, come fa chi
accudisce un malato quando il malato vuole riposarsi. "Non andrò oltre" provò a dire K. A questo i signori non
dovettero neppure rispondere, bastava che non allentassero la presa e cercassero di sollevare da lì K., ma K. oppose
resistenza. "Non avrò più bisogno di molta energia, la userò tutta ora", pensò. Gli vennero in mente le mosche,
quando si rompono le zampette nel tentativo di strapparsi dalla carta moschicida. "I signori qui avranno da faticare."

In quel momento, da una piccola scalinata che proveniva da una via situata più in basso, salì nella piazza la signorina
Bürstner. Non era una cosa sicura che fosse proprio lei, però la somiglianza era certo grande. Ma a K. neppure
interessava stabilire se era con sicurezza la signorina Bürstner, solo si rese subito conto di quanto poco valore avesse
la sua resistenza. Non c’era in niente di eroico nel resistere, nel fare difficoltà ora a quei signori, nel tentare di gustare
in quella difesa l’ultimo riflesso della vita. Si rimise a camminare, e un po’ della gioia che così facendo destò nei
signori si trasferì anche su di lui. Ora permettevano che fosse lui a decidere la strada, e lui la sceglieva in base alla
direzione che prendeva la signorina davanti a loro, e non perché volesse raggiungerla, non per vederla il più a lungo
possibile, ma solo per non dimenticare il monito che rappresentava per lui. "L’unica cosa che ora posso fare", si disse
mentre la regolarità dei suoi passi e di quelli degli altri tre confermava i suoi pensieri, "l’unica cosa che ora posso fare
è mantenere fino alla fine un cervello che sappia dare, con calma, a ciascuno il suo. Ho sempre voluto affrontare il
mondo a venti mani, e inoltre per ottenere qualcosa che non si poteva approvare. E’ stato uno sbaglio, dovrei dunque
dimostrare che neppure questo processo durato un anno mi ha insegnato qualcosa? Devo andarmene come un uomo
dalla testa dura? Devono potermi dire che all’inizio del processo volevo finirlo e ora che è alla fine vorrei
ricominciarlo? Non voglio che si dica questo. Io sono grato che per fare questa strada mi abbiano assegnato questi
signori quasi muti e privi di comprendonio, e che sia lasciato a me di dire a me stesso ciò che è necessario."

Intanto la signorina aveva piegato in una strada laterale, ma K. ormai poteva fare a meno di lei e si abbandonò ai suoi
accompagnatori. Ora tutti e tre, in perfetto accordo, passarono su un ponte alla luce della luna, i signori
accondiscendevano ora prontamente a ogni piccolo movimento che K. faceva, quando si voltò un poco verso il
parapetto anche loro girarono su se stessi fino ad averlo pienamente di fronte. L’acqua, che splendeva e tremava alla
luce della luna, si divideva a formare una piccola isola, sulla quale si ammucchiavano, come accumulate, masse di
fogliame costituite da alberi e arbusti. Sotto di loro correvano dei percorsi di ghiaia, ora invisibili, con delle comode
panchine sulle quali a volte, d’estate, K. si era poggiato lungo e disteso. "Non volevo fermarmi", disse ai suoi
accompagnatori, vergognandosi della loro disponibilità. Dietro le spalle di K., l’uno sembrò fare all’altro un leggero
rimprovero per quella sosta dovuta a un equivoco, poi ripresero il cammino.

Passarono attraverso alcune strade in salita, dove qua e là c’erano, fermi o in movimento, alcuni poliziotti, a volte
lontani, a volte vicinissimi. Uno di loro, con dei folti baffi, la mano sull’elsa della sciabola, si avvicinò come
intenzionalmente al gruppo non del tutto al di sopra di ogni sospetto. I signori si fermarono, il poliziotto sembrava
già sul punto di aprire la bocca, quando K. trascinò in avanti i signori con energia. Di tanto in tanto si voltò con
cautela per vedere se il poliziotto li seguiva; ma quando fra loro e il poliziotto ci fu un angolo K. cominciò a correre, i
signori, sia pure con un gran fiatone, dovettero correre anche loro.

Così uscirono velocemente dalla città, che in questa direzione si continuava quasi ininterrottamente nella campagna.
Una piccola pietraia, abbandonata e deserta, era lì in vicinanza di una casa dall’aspetto ancora pienamente cittadino.
Qui i signori si fermarono, sia che fosse questa fin dall’inizio la loro meta, sia che fossero troppo esausti per correre
ancora. Ora lasciarono K., che aspettava in silenzio, si tolsero i cilindri e, guardandosi intorno nella pietraia, si
asciugarono il sudore dalla fronte. Ovunque regnava il chiaro di luna, con quella sua naturalezza e tranquillità che
non è concessa a nessun’altra luce.

Dopo essersi scambiati alcuni complimenti su chi dovesse eseguire il prossimo compito, - sembrava che i signori
avessero ricevuto gli incarichi in comune - uno di loro andò da K. e gli tolse la giacca, il vestito e infine la camicia. K.
provò involontariamente un brivido, al che il signore gli diede sulla schiena un colpetto di incoraggiamento. Poi
dispose le cose in un ordine accurato, come se dovessero ancora servire, sia pure non nell’immediato futuro. Per non
lasciare K. immobile nella pur sempre fresca aria notturna, se lo prese sotto il braccio e camminò un po’ con lui su e
giù, mentre l’altro signore esplorava la pietraia alla ricerca di un qualche posto opportuno. Quando lo ebbe trovato
fece un cenno, e l’altro signore vi condusse K. Era vicino alla parete di scavo, lì vicino c’era una pietra che si era
staccata. I signori distesero K. per terra, lo appoggiarono alla pietra e vi collocarono la sua testa. Malgrado tutti i loro
sforzi e malgrado la collaborazione che K. mostrava nei loro confronti, la sua posizione continuava ad essere molto
sforzata e inverosimile. Uno dei signori perciò chiese all’altro di lasciare per un attimo a lui solo il compito di
disporre K., ma neanche così le cose andarono meglio. Alla fine lasciarono K. in una posizione che non era neppure
la migliore di quelle che aveva ottenuto finora. Allora uno dei signori aprì il suo abito da passeggio e da un fodero
che pendeva da una cintura stretta intorno all’abito estrasse un coltello da macellaio lungo, sottile e a doppio taglio, lo
tenne alto e ne controllò l’affilatura alla luce. Di nuovo cominciarono quei ripugnanti complimenti, l’uno tendeva il
coltello all’altro al di sopra di K., l’altro, al di sopra di K., lo restituiva. K. ora sapeva bene che sarebbe stato suo
dovere prendere il coltello che passava di mano in mano al di sopra di lui e trafiggersi da sé. Ma non lo fece, invece
girò il collo ancora libero e si guardò intorno. Non poteva dare del tutto buona prova di sé, non poteva risparmiare
ogni fatica alle autorità, la colpa di questo ultimo errore era di chi gli aveva tolto il resto della forza necessaria. Il suo
sguardo cadde sull’ultimo piano della casa al limite della pietraia. Come una luce che si accende con un guizzo, le
imposte di una finestra lassù si spalancarono, un uomo debole e sottile in quel punto alto e lontano si chinò d’un
colpo molto in avanti e stese le braccia ancor più davanti a sé. Chi era? Un amico? Un brav’uomo? Uno che provava
compassione? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C’era ancora un aiuto possibile? C’erano delle
obiezioni che erano state dimenticate? Ce n’erano certamente. La logica, è vero, è incrollabile, ma non si oppone a un
uomo che vuole vivere. Dov’era il giudice che non aveva mai visto? Dov’era l’alto tribunale al quale non era mai
arrivato? Sollevò le mani distendendo tutte le dita.
Ma uno dei signori mise le mani sul collo di K., mentre l’altro gli immergeva il coltello nel cuore e lo girava due volte.
Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, vicini al suo volto, i due signori guancia a guancia
contemplavano l’esito. "Come un cane!" disse, era come se la vergogna dovesse sopravvivergli.

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