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A Riva dei Tarquini, in una comunità che lotta ogni giorno

MONDO NUOVO, DOVE NON


ESISTONO MALATI

Voi che cosa regalerete a Natale? Un iPod, o una fotocamera, o magari un DVD. Questi,
forse, saranno i doni per i vostri cari. Ma oltre a loro ci sono le persone alle quali non si
sa bene che cosa offrire - i conoscenti. Li si va a trovare, e non ci si può presentare a mani
vuote. Per questo genere di situazioni vengono in aiuto quelle fantastiche invenzioni che
sono i cesti e le composizioni. Quanti ne doniamo ogni anno, vero? Li compriamo nel
negozio sotto casa, o al centro commerciale, per risparmiare un po'. Ma a Natale, si dice,
si è tutti più buoni. Tutti d'accordo? Ok: prendo la palla al balzo. Seguitemi.

Nelle campagne di Riva dei Tarquini, in provincia di Viterbo, c'è un casolare. L'ingresso
non ha nulla di particolare: un cancello, un piccolo spiazzo dove parcheggiare, a lato una
fontanella, poi l'edificio principale e due secondari. Sul retro ci sono gli orti, e qualche
serra. Attraversata la strada che conduce fin qui, ci sono le stalle, con i cavalli, alcune
mucche, pecore e capre.

Dall'edificio principale suona una campanella: avverte che mancano 20 minuti al pranzo.
Quando mancheranno 5 minuti ne suonerà un'altra, e tutti dovranno tassativamente
andare a tavola. Siamo in una comunità di recupero: la comunità Mondo Nuovo.

Nata nel 1979, su iniziativa di Alessandro Diottasi, che conoscerò a pranzo, la comunità
Mondo Nuovo ha otto centri di recupero sparsi per l'Italia, e uno in Croazia: aiuta persone
finite nel giro di qualche tipo di dipendenza, come droga, alcol, o gioco d'azzardo. Ce n'è
uno, in Abruzzo, dedicato esclusivamente all'assistenza psicologica per i genitori dei
ragazzi ospiti.

In questo periodo quasi tutti gli ospiti sono impegnati nel confezionare i cesti natalizi, da
mettere successivamente in vendita, con banchetti nelle varie parrocchie di Roma e
dintorni: il ricavato contribuirà a finanziare la vita della comunità. Vengo accompagnato
dentro un tendone bianco, lungo una trentina di metri. Entriamo. Sui due lati e al centro ci
sono tavolate colme di cesti, cestini, cassette di legno, composizioni: pieni di ogni ben di
Dio. Miele, biscotti, olio: tutto prodotto all'interno della comunità. Le stesse cassette di
legno sono fatte a mano nell'officina. E poi candele, a forma di abete o di fiore. Alcune
sono splendide: a forma di rosa, circa 40 cm di diametro, con i petali dai colori sfumati.
In alcuni cesti c'è una tegola, decorata con un dipinto della Madonna o di Padre Pio. E
anche case per il presepe, in legno, con la Sacra Famiglia: sempre fatte da loro.

Cerco di conoscere alcune persone. Ad ognuno è assegnata una responsabilità ben precisa
all'interno della struttura. Mario, 60 anni, fioraio a Civitavecchia, è qua come volontario.
Insegna agli altri come confezionare le varie composizioni. Mentre lo intervisto mi
confessa, senza che io gli chieda nulla, che anche lui è stato ospite in questa struttura,
l'anno scorso, per dipendenza da gioco – i video poker. Poi si è affezionato ai ragazzi, ed
è voluto tornare per aiutarli. Fabio, 21 anni, è qua da tre mesi, ed è alla sua seconda
esperienza in comunità: “Sandro [il fondatore, ndr], mi sta dando tanta fiducia, e adesso
mi ha dato la responsabilità di preparare i pacchetti”. Come va? “Bene: ce la sto mettendo
tutta per andare avanti”. Parlo con il cuoco. 23 anni di tossicodipendenza, 13 in carcere:
“La vita qua è vita: quella che non era prima”. Stefano ha 25 anni. È lui che crea quelle
candele stupende. È qui da un anno e tre mesi. Problemi di droga e alcolismo. “Ho deciso
di entrare in comunità per riprendermi la mia vita, perchè ero convinto che poteva ancora
avere un valore. Sto cercando di aiutare i ragazzi che entrano adesso, come hanno fatto
con me quando sono arrivato”.

Nessun timore nel parlare delle loro attività, anzi. Ma quando chiedo delle esperienze
passate, la loro voce scende di tono, gli occhi si abbassano o vagano nervosi, la voce
trema un po'. Non vergogna: piuttosto una sorta di intima ritrosia. È difficile vedere
facce spensierate. Sembrano tutti portare con loro un peso. Non è come in televisione,
dove nelle comunità fanno vedere persone contente, rinate.

Andiamo a pranzo. Siedo affianco al capotavola, Diottasi. Parte con una bella strigliata
alla tavolata. La sera prima qualcuno aveva lasciato acceso una candela in un tendone
nuovo: per fortuna non è successo nulla. Nessuno osa replicare. “Se non sei così, questi ti
si mangiano” – mi dirà. Poi recita la preghiera. Infine, si mangia. Sono gli stessi ragazzi
che cucinano, che servono ai tavoli, e che alla fine di tutto puliranno. Mangiano con noi
anche le psicologhe per il loro sostegno.

È stato in mare, Diottasi: fino al 1979 ha lavorato sulle navi delle Ferrovie dello Stato:
“Ho cominciato pulendo i cessi”, racconta con un certo orgoglio. Durante il pranzo ride e
scherza, poi, quando gli chiedo perchè ha voluto iniziare ad assistere i ragazzi in crisi, si
fa serio: “Penso che, quando una persona vede qualcun altro in difficoltà, abbia il dovere,
di fronte a sé stesso, agli uomini, a Dio, di aiutare quella persona”. Nel 1979 un suo
cugino morì di overdose: “Lì mi resi conto che cos'era il fenomeno della droga: al
funerale, tre ragazzi su quattro erano tossici. Perchè l'ho fatto? Perchè se non intervenivo
io chi c'era? Forse i SERT? O le Asl? Che davano metadone o morfina? ”. Persona
complessa, Diottasi: forte accento romanesco, voce stentorea, a momenti di estrema
durezza ne alterna, in un batter di ciglia, altri di tenerezza assoluta. Si accorge, durante il
pasto, che ho il registratore acceso. Parte una sfuriata, ma riesco a riparare. Alla fine del
pranzo mi dirà, con tono un po' ironico: “Sandrì, non far vedere che dico troppe
parolacce!”
“Lo Stato ci dà poco, quasi nulla” – continua a raccontarmi -. Che cosa devo fare? Vado
avanti. Chè, li posso buttare in mezzo ad una strada, 'sti ragazzi? Sono come dei figli per
me: loro sono la mia vita e io sono la loro. Sono stati loro a farmi scoprire Dio: io adesso
sono diacono. E pensare che prima ero un mangiapreti! Oh, che anche adesso, quando
serve, mi faccio sentire.”

Mi dice che qua le persone non sono trattate come malati: ai suoi ragazzi non vengono
date medicine per uscire dal tunnel nel quale sono cascati, ma solo un lento sostegno
psicologico. “Quando arrivano qui – continua Diottasi – me li abbraccio e me li bacio.
Quelli pensano: o è scemo o è dell'altra sponda. Ma poi capiscono che si possono fidare”.
Mi saluta regalandomi un vasetto di marmellata di mele fatta da loro il giorno prima.

La comunità Mondo Nuovo non è come la immaginavo: non è il regno della gioia e della
perfezione. È il luogo della lotta: dei ragazzi contro il loro passato e di un uomo che fa
del suo meglio per loro.

Un giornalista ha un codice da rispettare: non può mica mettersi a fare pubblicità per
qualcuno. È per questo che riconosco che anche i negozi dove solitamente andiamo a
comprare i cesti natalizi devono lottare, con le loro bollette. Ed è per questo che lascio a
voi la scelta di dove andare a comprare i vostri regali. Io ho già scelto.

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