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Atto I

Essere, non essere...
Alla ricerca di se stessi

di
Paolo Toso

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Premessa

L'autore ha volutamente usare uno pseudonimo affinché il lettore non sia influenzato o  
meno dalla conoscenza dello scrittore e nel corso di questi testi sarà sempre più chiaro  
perché lo pseudonimo richiama qualcosa di conosciuto. Un punto fondamentale per  
avvicinarsi   a   questi   testi   è   quello   di   comprendere,   secondo   il   proprio   metro   ed  
esperienza, il contenuto fine a se stesso senza l'identificazione con l'autore.
Scopo di questi testi, una volta presenti sui diversi siti e oggi qui riproposti in formato  
PDF, è quello di instillare la curiosità su se stessi, sulla vita e sulla morte, cercando di 
proporre una ricerca interiore che nasca dal personale interesse  a migliorarsi  e non 
dall'appartenenza ad un gruppo, ad una religione o ad una qualsiasi cosa, fosse anche 
semplicemente un simbolo. Per questo motivo il lettore è responsabile personalmente e  
davanti alla società, civilmente e penalmente, di qualsiasi cosa metterà in pratica e dirà  
dopo aver letto questi testi. La persona ha l'obbligo morale e pratico di approfondire gli  
argomenti   qui   presenti   ed   evitare   il   fai   da   te   nel   caso   di   pratiche   o   consigli   che  
richiedano, in caso di problemi personali, il consiglio di uno specialista.
Se un lettore vorrà  riproporre  questi concetti  sotto  simboli, bandiere,  etichette o altre 
forme significa che non avrà capito nulla di ciò che è stato scritto e coloro che potranno  
imbattersi in questa persona avranno la possibilità di  riconoscerne il gioco di potere  
per  andare oltre, perché questi concetti hanno  il solo  scopo di  iniziare  la persona  ad 
una   personale   ricerca   interiore   per   liberarsi  dagli   schemi   mentali  e   riconoscere   la  
limitatezza del loro io.

Questa prima riflessione sull'essere e sull'essere gruppo nasce nel 2009 in relazione  
all'incontro con un movimento: un gruppo di persone alla ricerca di un pensiero unico  
collegato   al   “Noi”   e   che   potesse   essere   sostitutivo   all'   “Io”,   meglio   espresso   nel  
concetto di un “essere” piuttosto di un “apparire”. Pensando di poter contribuire con  
le   sue   idee   e   una   propria   visione,   l'autore   ha   creato   queste   diverse   riflessioni   che  
potranno   ora   essere   utili   a   qualsiasi   persona   che   intenda   realizzare   un   gruppo   di  
carattere etico partendo dalla crescita interiore.
 G. Cavasino
­ . ­

Buona lettura

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Indice generale
Essere e non violenza........................................................................4
Essere e non vedere...........................................................................6
Essere e non sentire...........................................................................8
Essere e non parlare.........................................................................10
Essere e non fare.............................................................................12
Essere, non essere, essere oltre........................................................14
Riflessione conclusiva.....................................................................21
Note.................................................................................................25

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1.1  Essere e non violenza

Un aspetto contraddittorio dell’attuale società è quello legato alla violenza. Ci sono 
comitati e università che trattano di bioetica, dove studiosi discutono continuamente su 
cosa è etico e cosa non lo è. Costruiscono nuovi concetti e valori, mentre fuori dalle loro 
piccole stanze la società segue una sua personale strada segnata non certo da valori 
etici,   ma   dalla   pubblicità   e   dagli   interessi   di   parte,   dove   la   furbizia   è   di   casa.   La 
televisione che un tempo doveva educare, oggi, sta rivelandosi un pessimo esempio: non 
c’è serata dove non ci sia un film di violenza o giochi di potere o, falsamente, dove non 
ci sia un gruppo di cosiddetti amici che criticano delle persone che conoscono, facendo 
finta di voler aiutare attraverso il dialogo. Questo sistema  è ancora più fuorviante, e 
segno del degrado sociale, nei cartoni animati per i bambini.

Ma il problema non è se le discussioni di questi programmi siano pilotati, quanto il fatto 
che alle persone piacciono queste cose: diciamolo chiaramente, amiamo farci gli affari 
degli altri purché nessuno si faccia gli affari nostri. Perché dentro ogni persona c’è una 
profonda rabbia che si alimenta della violenza, virtuale o meno, di ciò che vede in 
televisione. Queste sono alcune delle tante forme di violenza che noi tutti accettiamo 
senza reagire. Altre, meno visibili, sono piccole e insignificanti azioni che compiamo 
ogni   giorno   senza   accorgerci   e   che   ci   portano   a   vivere   la   violenza   come   una   cosa 
normale. Ci stiamo forse abituando alla violenza? Oppure possiamo essere qualcosa di 
diverso da quello che crediamo di essere? Qual'è la nostra preferenza e vantaggio?

La violenza, se volessimo analizzarla, è così sfaccettata che sarebbe difficile esprimere 
tutte le sue diverse espressioni e ancora più difficile sarebbe dire cosa essa non sia. 
Possiamo sperimentare la non violenza solo quando l’essere umano è in reali difficoltà, 
(vedi il terremoto in Abruzzo di questi giorni) quando le persone porgono aiuto senza 
chiedersi se è bene o male e lo fanno in base alla loro intima sensibilità. Non ci si pone 
dubbi o pensieri, si agisce e basta: la volontà, apparentemente uguale ad un pensiero, è 
in questo caso più potente del pensiero. Attenti però, di volontà ce ne sono due: una 
agisce e l'altra decide.

La non violenza, quella di Gandhi, è un’altra forma: è una posizione interiore che può 
essere solo delineata da una profonda conoscenza di se stessi e del mondo. È sempre 
una   scelta   e   da   sola   non   basta   per   accettare   quello   che   accade.   C’è   un   detto, 
probabilmente di Confucio, che dice più o meno così: “Fa' del bene solo se sarai in 
grado di accettare il male che ne deriva.”

Il moto di accettare ciò che accade, non passivamente, è un altro problema insieme a 
quello di conoscere se stessi, perché attraversa la conoscenza della propria violenza. 
Nulla è così scontato e semplice. Perché si tende a fuggire da questo nostro personale 
lato, in quanto fa paura e ferisce profondamente il nostro orgoglio. Quando l’orgoglio è 
ferito sale l’arroganza e con essa la rabbia di ferite che non abbiamo mai sanato, ma che 
abbiamo lasciato dentro di noi a putrefarsi.

La violenza che subiamo da piccoli è un segno che non si cancella e che ci portiamo 
fino nell’età adulta con riflessi assai cupi. Non pensiamo solo alla violenza fisica, ci 

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sono violenze che non si vedono: quelle psicologiche e legate ai ricatti, quelle di un 
padre che non è stato presente, quelle di una madre troppo presente, quelle dell’assenza 
di regole, quelle determinate dalla falsità, dall'ipocrisia e dall'imposizione autoritaria. 
Anche non insegnare le regole è una violenza, perché la società è fatta di regole e non 
conoscerle significa sbagliare di continuo e scontrarsi senza nessun costrutto. Anche il 
lasciar correre continuamente un comportamento errato è una violenza, perché così i 
bambini non comprenderanno i limiti della libertà personale e li porterà a credere che 
tutto sia lecito. Non insegnare a parlare correttamente è una violenza, perché i bambini 
non   sapranno   esprimersi   correttamente   e   avranno   difficoltà   a   rapportarsi   con   il 
prossimo. Piccole cose di ogni giorno, che anno dopo anno, costruiranno la struttura di 
una grande piramide che sarà la tomba dell'adulto.

Violenza. Una parola con milioni di sfumatura. Una parola, uno sguardo, un pensiero. 
Quanti   di   noi   stanno   attenti   alle   parole   che   usano?   Quanti   si   accorgono   dei   propri 
sguardi? Quanti sono coscienti dei propri pensieri? Piccole sfumature che ci riportano 
ad un solo attore: il nostro ego. Crediamo di conoscerci bene? Non so voi, ma io sto 
ancora imparando e fatico  ogni giorno nello  scoprire i  miei  lati più oscuri. Quanta 
violenza abbiamo dentro? Se scaviamo dentro di noi scopriamo che la violenza spesso 
nasce da una rabbia e sotto di questa c’è un dolore. Qual è l’origine di quel dolore? 
Un’incomprensione? Un nostro errore oppure qualcosa che ci ha ferito? Domande a cui 
possiamo rispondere solo noi.

Scoprendo giorno dopo giorno il nostro passato possiamo scoprire cosa ci fa male e 
riusciremo a superarlo solo nella comprensione di ciò che è stato realmente. Ricostruire 
il nostro passato non è solo onorare il padre e la madre, ma mettere pace dove pace non 
c’è. Se in un gruppo le persone si confrontano e accettano le critiche quale strumento di 
crescita,   c'è   in   seme   la   possibilità   anche   di   una   società   migliore   e   queste   persone 
potrebbero guidare la nazione al di là della loro provenienza politica. Non è più tempo 
di ideologie politiche o sociali, è tempo di lavorare su se stessi. Sono un sognatore? È 
una utopia? Sì, può essere. Però, vi prego, lasciatemi sognare un po’. Perché dai sogni 
che possono nascere le grandi cose.

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1.2 Essere e non vedere

La vista è il senso che usiamo più dell’udito, del tatto, la usiamo più della stessa parola. 
Attraverso   lo   sguardo   si   esprimono   le   emozioni   e   i   pensieri   più   svariati.   Se   non   è 
strutturato in una rigida maschera, il volto esprime a nostra insaputa quello che siamo, 
quello   che   pensiamo,   quello   che   desideriamo,   quello   che   viviamo.   È   un   televisore 
attraverso il quale anche una persona non troppo preparata può intravvedere ciò che 
siamo,   ma   tutti   facciamo   finta   di   non   vedere   e   abbassiamo   gli   occhi.
Gli occhi, forse non tutti lo sanno, funzionano in modo diverso: con uno puntiamo e 
guardiamo il particolare, mentre con l’altro guardiamo l’insieme di ciò che abbiamo 
avanti.   Questo   processo   non   avviene   sempre   con   lo   stesso   occhio,   ma   cambia   in 
rapporto all’interesse di quel momento. Cosa c’entra tutto questo con il movimento? 
C’entra nella capacità di comprendere il significato di trasparenza.

La vista, come ogni altro senso,  è capace di percepire oltre l’apparenza, tuttavia va 
rieducata e, come è per qualsiasi strumento, si deve imparare ad usarla in modo corretto. 
Un primo passo è riconoscere il giudizio che nasce dal guardare: troppo spesso non 
diamo il tempo alla mente di comprendere una situazione, o una persona, e tendiamo a 
formulare un giudizio a prima vista.
Molti conoscono il detto: “la prima sensazione è quella che conta” Vero, spesso però 
non è così, perché la prima sensazione è volata via ed ha lasciato posto al nostro primo 
pensiero. Quel pensiero è stato formulato dal nostro caro io che elabora la sensazione, 
attraverso le nostre strutture mentali e abitudini, quello che abbiamo visto e sentito.

Come si fa a non formulare un giudizio? Non è facile, soprattutto quando è diventata 
un’abitudine da molto tempo. Anche quando poniamo molta attenzione, ci renderemo 
conto del nostro giudizio sempre tardi. Tuttavia, quando c’è un intento vero di crescere 
come persone, il tempo che passa dal momento in cui si emette un giudizio a quello in 
cui   ci   accorgiamo   di   averlo   emesso,   sarà   sempre   più   breve,   fino   al   giorno   che 
percepiremo dentro di noi non più il giudizio quanto la sensazione che ci porta poi ad 
esprimere il giudizio. Non è questo un processo semplice, ci vuole pazienza e molta 
attenzione. Tuttavia è possibile.

Anche se il volto è l’espressione di mille pensieri, non prendiamo subito per buono ciò 
che vediamo o percepiamo. Per capire meglio questo processo, soprattutto se riguarda 
gli altri, è quello di guardare prima a noi stessi. Per prima cosa dobbiamo verificare se 
ogni cosa che pensiamo di una persona in qualche piccolo modo possa riguardarci in 
qualche modo. Non fermiamoci se crediamo che non sia così, quando magari qualcuno 
afferma il contrario. In questo modo avremo fatto il 70% del lavoro. Non dimentichiamo 
che nulla è scontato e così facile da riconoscere, la mente è ben educata all’inganno, 
anche quando, in certi casi, afferma la verità a tutti i costi. Ogni eccesso nasconde un 
problema. Man mano che riusciremo a riconoscere noi stessi, nel confronto con gli altri, 
riusciremo a riconoscere i moti degli altri e a livello di sensazione sapremo distinguerli 
da quelli nostri. Non dobbiamo avere fretta in questa difficile ricerca personale, ma 
prendiamoci il tempo che ci serve.
Con il tempo risulterà semplice comprendere, per esempio, quando una persona veste in 
un modo appariscente perché vuole essere notata e quando, invece, lo fa perché fa ha dei 

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gusti particolari oppure quando una persona mostra di voler parlare e quando non lo 
vuole, sebbene lanci segni di voler essere contattata. Non dobbiamo sottovalutare la 
vista,   perché   essa   ci   impedisce   di   utilizzare   gli   altri   sensi.   Non   dobbiamo   cadere 
nell’errore di cercare gli spettacoli forti, ad esempio vedere le energie, perché sono 
specchi per le allodole, come si dice, per far perdere tempo: è necessario tenere i piedi 
ben ancorati a terra.
È   noto  che  un  cieco   utilizza   l’udito  e  il   tatto  molto  di  più  di   quanto  noi  facciamo 
normalmente:   prendiamoci   del   tempo   per   scoprire   quale   percezione   abbiamo 
dell’ambiente e delle persone. Non è usando il sesto senso, come molti credono, che si 
impara a riconoscere chi abbiamo di fronte, ma è usando tutti sensi. La mente, il nostro 
io, in questo modo dovrà scendere nel corpo ed entrare in contatto con quello che spesso 
non conosce o non vuol conoscere o, peggio, ritiene un peso o una bruttura. Impareremo 
così a prenderci cura di noi non per quello che appaiamo, ma per quello che siamo 
realmente.

Anche i modi di dire possono aiutarci a comprendere: “Occhio che non vede, cuore che 
non duole”, ad esempio, oppure “Non avere più occhi per piangere”. Gli occhi hanno la 
stessa importanza degli altri organi di senso, tuttavia, non dimentichiamolo, sono lo 
specchio della nostra anima: per due persone guardarsi negli occhi può essere molto 
invasivo o molto coinvolgente. Si può essere violenti anche con un semplice sguardo. 
Tutto dipenderà dalle intenzioni. Da uno sguardo si può percepire le vere intenzioni di 
una   persona,   da   uno   sguardo   può   esserci   il   sostegno,   un’approvazione   o   una 
disapprovazione. Tutto dipende, come sempre, da noi e dalla conoscenza delle nostre 
reali intenzioni. Intenzioni di cui spesso non conosciamo l'origine.

Quello che è importante, per me, è comprendere quali siano le nostre reali intenzioni, 
perché da esse si svilupperà o meno il gruppo che vorremmo costruire. La base, simile 
al terreno, è importantissima perché determinerà la crescita o meno di quello che è il 
progetto comune. Noi tutti siamo la terra da cui crescerà il movimento e sta a noi, da 
buoni contadini, prepararla ad accogliere il seme di tutti.
Non credo ad un movimento politico nel senso stretto del termine, ce ne sono stati 
troppi in questi anni e non hanno portato a nulla perché non sapevano trovare i punti in 
comune tra i loro membri. Credo invece in un movimento di buon senso e di sviluppo 
della libertà , che trova un senso nelle regole, del giusto e, anche se a qualcuno la parola 
può sembrare inutile o retorica, dell’onore.
L’onore è una luce che brilla nella notte come una stella: è il valore che ogni persona da 
alla sua vita, l’espressione del rispetto, della dignità e dell’onestà. Questi tre elementi 
compongono, a mio parere, l’onore. E nel firmamento non c’è una stella, ma un insieme 
di stelle che formano una galassia. Un galassia visibile, ma così lontana da risultare 
sconosciuta,   invisibile   eppure   lì   davanti   agli   occhi   di   tutti.   Ecco,   cosa   è   per   me   il 
movimento: lo vedi, c’è, esiste, ma non puoi toccarlo perché l’unico modo di entrare a 
farne parte è quello di essere.

I termini hanno sempre un chiaro e storico significato, se nel corso degli anni sono stati 
usati  male,  questo  non deve  impedirci  di  usarli  in  modo  corretto  e  se il  significato 
dovesse essere diverso, allora ben vengano altri e migliori termini. Tutto dipende da noi.

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1.3 Essere e non sentire

Cosa significa sentire e ascoltare? Perché per me sono due cose distinte: ascoltare fa 
parte del senso dell’udito, mentre il sentire, collegato letteralmente all’udito, è per me 
invece legato alla percezione. Cercherò quindi di spiegare al meglio questi due concetti.
Quanti di noi fanno finta di sentire? Perché ci sono diversi modi di far finta. Nel dialogo 
tra due persone può capitare che un ascoltatore stia facendo finta di ascoltare, annuisca 
con la testa o faccia gesti per dire che è presente, senza che ciò sia vero. Sebbene ciò 
possa accadere per vari motivi, che al momento esulano dal mio discorso, ciò che ci 
interessa capire ora è se nella nostra vita ci è capitato di essere in questa situazione. Sia 
dal punto di vista di chi ascolta che di chi parla. Questi miei interventi non vogliono 
collegarsi con ciò che accade nel mondo, ma con ciò che accade dentro il nostro piccolo 
e personale mondo.

Per quanto possiamo essere superficiali, insicuri, insensibili a tutti è capitato di notare 
l’atteggiamento di chi, pur mostrando interesse per quanto diciamo, in realtà non ci stia 
ascoltando. I tanti modi di rendersi trasparenti in questa situazione dipendono  dalla 
situazione stessa: cambiamo discorso, annuiamo, troviamo una scusa per allontanarci, 
guardiamo lontano o abbiamo lo sguardo perso nel vuoto.
Vi ricordate ciò che avevo detto sul valore delle parole? (ne parlerò nei prossimi testi) 
La chiave di lettura dell’ascolto non si discosta poi molto da quel discorso, visto che 
parola e ascolto sono intimamente legate: se ciò che ascoltiamo non è di interesse, non 
solo   per   la   mente,   ma   anche   per   il   nostro   interiore,   l’attenzione   si   perde.   Questo 
meccanismo è ancora più evidente quando una persona non parla per raccontare una sua 
storia, ma per sfogare una sua pressione interna: ci sono persone che caricano la mente 
non solo intellettualmente, ma anche a livello esperienziale, di un argomento ed hanno il 
bisogno  di  scaricarlo  parlandone   ad  un’altra   persona.  Non  solo  per  scaricare  questa 
pressione, ma, a volte, anche per ricevere un’approvazione o un segno di condivisione. 
Questo dialogo spesso è a senso unico, porta ad essere al centro dell’attenzione e alla 
lunga,   stanca   e   annoia   prendendo   non   solo   tempo,   ma   anche   energie:   le   energie 
dell’attenzione.

Capita, a volte, che chi deve esprimere un concetto, non sia in grado di farlo in modo 
corretto   e   finisca   per   fare   un   lunghissimo   discorso,   talvolta   frammentato,   facendo 
perdere all’ascoltatore il filo e il senso. Capita, a volte, che per dare peso ad un concetto 
si infarcisca di dati e nomi altisonanti quanto viene detto. Capita, a volte, che mancando 
la percezione e l’esperienza relativamente a un fatto, non si sappiano trovare le parole 
giuste e questo accade perché non ci diamo il tempo di far sedimentare l’esperienza 
attraverso una riflessione personale, che richiede sempre tempo, pazienza e apertura.
A volte non perdiamo neppure tempo ad interpretare quanto sentiamo perché quello che 
non   va   bene   alla   nostra   mente   viene,   quasi   inconsciamente   e   automaticamente, 
censurato. Per questo motivo ho preso l’abitudine di registrare i discorsi, non solo quelli 
degli altri, ma anche i miei, perché riascoltandomi capisco non solo il modo con cui ho 
espresso le mie parole, ma posso immaginare l’effetto che posso avere avuto sul mio 
ascoltatore, soprattutto se lo conosco bene.

Cosa c’entra tutto questo con il movimento? Come è importante usare le parole migliori 

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in un discorso è bene che l’ascoltatore sia attento a quanto viene detto. Ogni parola ha 
un’eco dentro di noi e muove le strutture che abbiamo costruito negli anni della nostra 
crescita. A volte questo movimento interno non è una semplice sensazione, ma è un vero 
e proprio terremoto che ci ferisce, ci altera e ci fa nascondere dietro mura altissime. A 
volte queste mura sono composte da diversi elementi: un atteggiamento archetipo, una 
maschera, un modo di esprimerci, un modo di respirare, un modo di guardare, un modo 
di stare in piedi, un modo di vestire. Diventa uno stile di vita che si radica dentro di noi 
senza lasciarci via di uscita.

Allora,   che   fare?   Cerchiamo   di   essere   dei   samurai   giapponesi,   non  solo   per  quanto 
riguarda la determinazione nel voler crescere e nell’essere aperti ad ampliare la nostra 
personale   verità   (processo   di   trasformazione),   ma   anche   coraggiosi   e   pronti 
nell’affrontare   i   numerosi   terremoti.   Sì,   ci   saranno   terremoti   e   ci   saranno   diverse 
occasioni,  nelle  quali  dovremo  non  difendere  le  nostre convinzioni  ponendoci  come 
controparte, come se dovessimo combattere un nemico, ma rendere esplicito il valore 
delle nostre scelte di vita. Perché la vita è fatta così e noi non possiamo fare nulla, se 
non adeguarci. Vi  è piaciuta questa immagine? Un samurai… dovremmo cercare di 
liberarci gradualmente anche di questi archetipi ed “essere” noi stessi.
Fino a questo momento si è parlato di ascolto, ma cosa significa sentire? Il sentire è per 
me parte della percezione e quest’ultima è il processo di sintesi che il corpo fa attraverso 
tutti i sensi che utilizza, anche quelli di cui la mente non è cosciente. Quanti di noi si 
accorgono dello sguardo di una persona che ci sta dietro e ci osserva? Il pensiero è più 
presente di ciò che tocchiamo con mano, non si vede, non si sente, ma si percepisce. 
Spero che capiate ciò che voglio dire. Esistono tanti livelli di percezione e dipendono 
dalla nostra capacità di aprirci al nostro interiore. Non ci sono tecniche o preghiere per 
questo processo perché ogni tecnica è una forzatura legata dalla volontà di potere della 
mente.

Dobbiamo essere trasparenti, diventando pressoché invisibili, a noi stessi, per scorgere 
ciò   che   siamo   realmente.   Non   sto   cercando   di   fare,   come   alcuni   crederanno,   del 
semplice   spiritualismo;   ma   solo   di   ampliare   la   veduta   sulla   vita   e,   per   quanto   sarà 
possibile, sulla morte. Un percorso personale dove ognuno deve trovare le sue chiavi di 
lettura; alcune potranno essere comuni, altre no.
Tutto questo per dire di non ascoltare? No, ascoltando dentro di noi ciò che si muove, 
amplieremo ciò che ascoltiamo normalmente fuori. Essere è ascoltare in entrambe le 
direzioni comprendendo il giusto senso della lettera di ciò che abbiamo sentito e non 
quello che abbiamo creduto che fosse.

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1.4 Essere e non parlare

Parlare. Cosa significa parlare? Tutti parlano. Qualcuno con rigore e in modo letterato, 
altri in modo popolare, altri in modo disordinato o errato, altri per dare, come si dice, 
aria ai denti. Come è per il respiro che può essere più o meno profondo, anche le parole 
hanno una loro profondità. Questa profondità non viene dal concetto espresso o dai 
termini utilizzati, ma da chi la esprime. Tuttavia qualcuno dissentirà su questo. Io leggo 
un testo di uno scrittore e mi emoziono. Ciò potrebbe significare che le parole hanno 
smosso qualcosa dentro di me. Vero, ma solo parzialmente. Quando leggo o ascolto una 
frase, io inconsciamente mi collego al sentire (preferite: inconscio?) di quella persona e 
percepisco il senso che essa voleva dare alle sue parole. Questo sottile collegamento 
avviene mentre noi siamo impegnati a leggere, poi la nostra mente frulla i concetti, li 
collega, li stira, li ribalta, li rende più consoni a quello che la nostra mente crede e 
quindi accetta o rifiuta quanto ha capito. O forse, si dovrebbe dire meglio: quanto ha 
creduto di capire.

Cosa è accaduto? Nel frullatore della mente si è perso gran parte di quello che la nostra 
corporeità in toto ha invece percepito. Riteniamo che tutto il nostro mondo sia racchiuso 
nel nostro piccolo io, mentre è continuamente collegato non solo alla natura, ma ad ogni 
essere umano. Questi sottili fili o canali ci portano a percepire ogni cosa che ci accade, 
vicina o lontana.

Se per un neonato è naturale e per un bambino è semplice percepire quello che per 
l’adulto è illogico e inesistente, è possibile ampliare la propria coscienza in merito a 
questi moti interiori senza cadere però nei giochi di luce o nelle esplosioni di fantasia 
che la New Age ci ha offerto negli anni passati. Potrebbe essere identificato nel “noi” di 
cui   si   parlava   nel   movimento.   Tuttavia,   prima   dobbiamo   comprendere   la   forza   e 
l’importanza della parola.
Se trasmetto insieme alle parole quello che ho acquisito emotivamente, coscientemente 
e   incoscientemente   ­in   quanto   sono   trasparente   e   privo   di   giudizio­   chi   mi   ascolta 
percepirà meglio la mia esperienza. Se trasmetto solo parole, come un registratore, non 
trasmetterò nulla e l’interlocutore non comprenderà il senso del mio messaggio. Posso 
anche avere ragione su quello che dico, ma se la verità è scarica del mio vissuto, quelle 
parole non avranno nessun valore e così si perderanno. Nel suo insieme le parole sono lo 
strumento maestro di comunicazione e il loro corretto uso è tanto importante quanto la 
comprensione del contesto della loro nascita e storia.

In questo momento io sto usando le parole e non mi è certo facile esprimere quello che 
vorrei, un po’, come ho già detto, perché non sono uno scrittore e un po’ perché ritengo 
di dover ancora assimilare bene questo concetto. Da piccolo mi dicevano saggio perché 
non parlavo molto e quando dicevo qualcosa era di solito una cosa importante, ma vi 
dico che la questione era più semplice: non sapevo che parole usare ed ero terrorizzato 
di essere frainteso o ripreso perché mi ero espresso in modo sbagliato.
Quando   usiamo   la   volontà   in   modo   oggettivo,   per   ottenere   uno   scopo,   le   parole   si 
caricano della forza psichica ed entrano di forza nelle persone, lacerandole. Ci sono 
persone che usano questa forza senza rendersene conto. Risultato? Nessuno, le persone 
si turbano, non comprendono ciò che accade loro e continuano a non sapersi difendere 

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dalle influenze esterne. Nella comunicazione, secondo me, un obiettivo importante  è 
quello di non voler cambiare gli altri con le parole, ma offrire la propria esperienza 
come un dono. Perché è questo il senso e il modo con cui offro ogni esperienza che ho 
accumulato,   sebbene   io   sia   consapevole   che   le   mie   parole   possano   essere   fraintese, 
facendomi passare per quello che il pregiudizio di un ascoltatore poco aperto decide che 
sono.

Quando le persone parlano dietro la schiena, seminano, talvolta senza fine, pensieri 
quasi   sempre   negativi   nelle   persone.   Pensieri   che   comporteranno   prima   o   poi   una 
crescita e un raccolto. Sembrerà ai più che questo non intacchi queste persone, ma in 
realtà ogni cosa accade secondo una qualche funzione matematica e il suo risultato 
tornerà nell’interiore della stessa. Questo è uno dei misteri della vita che potrà trovare 
soluzione in futuro attraverso una funzione matematica, ma poi? Che ci facciamo? La 
verità è semplice ed è dentro di noi. Qualcuno si domanderà come mai non sia stata 
ancora scoperta, visto che è così semplice. Qualcuno chiama questa funzione “karma” , 
qualcuno   “destino”:   ciò   che   importa   è   che   ancora   nessuno   ha   trovato   una   risposta 
accettabile da tutti, perché è più comodo cercare all’esterno di noi piuttosto che in un 
interno che spesso fa male.

Ci sono persone che sono artisti nella capacità di utilizzare parole volgari senza però 
risultare triviali. Perché accettiamo una parola volgare da un attore, da uno scrittore, da 
un artista? Spesso è il tono con cui viene detta, molte volte è il contesto e praticamente è 
sempre l’intenzione con cui si dicono. L’intenzione non dovrebbe avere secondi fini, ma 
spesso accade il contrario. Un buon esercizio è quello di conoscere i propri lati nascosti 
e le nostre vere intenzioni attraverso il confronto. Ma siamo poi aperti al dialogo? A 
cambiare   noi   stessi   così   radicalmente   e   profondamente?   Non   è   un   sì   che   farà   la 
differenza. Pensiamoci intanto.

Questo è solo l’ennesimo lavoro del singolo, dove la parola diventa “essere” o per chi 
può comprendere il senso profondo di un termine così complesso: “Verbo”.

Buona parola a tutti.

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1.5 Essere e non fare

Il gruppo. Partiamo da quello che non è. Prima di tutto ritengo che lo scopo di questo 
movimento non sia di creare l’ennesimo movimento politico, perché ce ne sono già 
tanti. Visto come vanno le cose in Italia, potrebbe essere normale aderire al desiderio 
comune di dover fare qualcosa per cambiare la società e per poterlo fare, come spesso è 
stato   richiamato   dalle   forze   politiche   in   questi   anni,   lo   si   può   solo   attraverso   la 
partecipazione attiva in qualche gruppo politico.

È facile cadere in questo ambiguo gioco, perché è tendenza comune dividere ogni cosa 
in bene e in male, in destra e in sinistra, in buoni e in cattivi, coprendo però il vero 
problema: le persone non pensano con la propria testa e ogni cosa ha sempre al suo 
interno entrambi gli aspetti.

Non sto dicendo che non sia possibile e che non sia giusto partecipare alla politica, ma è 
farlo con quello scopo che non è del tutto corretto. Quando vogliamo entrare in politica 
ci sono già i partiti a cui aderire e se nessuno dovesse essere di nostro gradimento, 
insieme ad altre persone, si fonderà un nuovo partito su basi ben chiare. Penso che 
ognuno   di   noi   desideri   trasmettere   un   modello   di   studio   diverso,   dove   le   persone 
possano  ampliare   la   propria   conoscenza   senza   arroccarsi   nei   termini,   in   valori   o   in 
simbolismi   assoluti.   Perché   questi   moti   possono   solo   portare   ad   estremismi   e   alla 
violenza, magari non fisica, ma sicuramente ideologica e verbale.

Vedo un movimento che parte dalla base della società, che incontra le persone, ci parla, 
porta   cultura,   porta   “essere”.   Strumenti?   A   seconda   delle   proprie   possibilità   e 
sensibilità: la televisione, la radio, i giornali, internet, chi ci circonda. Perché anche il 
passa parola può essere uno dei tanti strumenti e per certi versi, secondo me, il più 
potente.

Lo vedo come un vento, invisibile, che si sposta tra le persone e la società, che non 
appare, ma lo si sente. Se appare, lo fa ogni tanto qui e là sfiorando le persone come una 
brezza del mare in una giornata di primavera, senza lasciare tracce, perché queste tracce 
sono dentro le persone. E come il vento porta alcuni semi in giro per il mondo facendoli 
diventare alberi e frutti, anche i nostri semi un giorno fioriranno in altrettanti esseri 
invisibili.

Ma andiamo avanti. Per poter realizzare tutto questo si deve “essere”. Cosa significa? 
Quante   volte   noi   parliamo   alle   persone?   Spesso.   Esse   ascoltano,   ma   ascoltano 
veramente? Spesso le persone danno valore alle parole non perché ascoltano e riflettono, 
ma perché mettono su un piedistallo la persona e quando cade per un suo errore, perché 
siamo   umani   ed   è   normale   commettere   errori,   la   buttano   giù   con   disprezzo. 
L’idealizzare una persona è una delle cose pericolose di questo mondo, perché in quel 
momento noi trasferiamo le nostre responsabilità su un soggetto e diventiamo passivi 
credendoci non responsabili delle nostre azioni, tuttavia siamo sempre responsabili di 
“essere”. È fin troppo evidente come questo perverso meccanismo venga oggi usato per 
dirigere il pensiero comune.

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Essere significa vivere. Significa fare proprie le parole dell’interlocutore, trovarci i punti 
di contatto, darsi il tempo per capire quello che non ci è chiaro. Dobbiamo metterci nella 
condizione di comprendere in quale contesto si trova l’interlocutore, quale sia la sua 
storia e del perché parla in un certo modo. Solo in questo modo si può fare proprie le 
conoscenze degli altri e se riusciamo a collegarle con quello che già conosciamo, senza 
farci prendere dalla fretta del momento, potremo ampliare le nostre piccole verità. In 
questo   modo   scopriremo   che   non   ci   sono   contraddizioni,   ma   solo   incomprensioni 
nell’uso dei termini e scelte di vita diverse.
In quel momento il nostro pensiero assumerà non solo la connotazione di una serie di 
parole, ma avrà la forza interiore di una conoscenza propria. Sarà carico di quel quid 
misterioso che è la vita e affonderà nel cuore delle persone oltre che nella loro mente. 
Non ci saranno trucchi psicologici, oggi troppo usati per vendere, o tecniche per imporre 
la propria volontà, ma sarà la chiarezza e la forza interiore della persona a fare breccia. 
Essere significa essere veri, anche se non lo saremo mai in assoluto, visto la relatività 
del mondo, ma di certo potremo tendere ad esserlo sempre di più.
Il non fare è legato intimamente alla mancanza di desiderio. Mi spiego, se io faccio una 
cosa perché desidero qualcosa, brucio in qualche modo la forza che lo accompagna. 
Cosa vuol dire? Vuol dire che quando parlo non lo faccio per convincere, ma per offrire 
una maggiore comprensione.

Questo moto non viene dalla volontà, da un psichismo, ma dal cuore. Qui, non facciamo 
l’errore di confondere il cuore con l’emotività, perché nel mio discorso non c’entra. Il 
cuore   è   un’energia   ben   più   complessa   ed   è   legata   anche   al   coraggio   e   al   senso   di 
giustizia, non al farsi giustizia, come alcuni pensano.
Sarà naturale scontrarsi con il giudizio e i confronti che le persone faranno di noi, sarà 
facile trovarsi in situazioni nelle quali ci si troverà su un piedistallo, sarà facile trovare 
l’affetto smisurato delle persone, così come il contrario di tutto questo. Quello che è 
importante è non farci prendere da tutto ciò, bello o brutto che sia. Cercheremo invece di 
metterci da parte e di dare spazio a tutti. Oppure ci saranno altre scelte, ma di questo 
potremo parlarne personalmente.

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1.6 Essere, non essere, essere oltre

Non è solo una classica citazione del vecchio William Shakespeare e non è neppure un 
controsenso. È un punto di arrivo per chi cerca se stesso. Viviamo la vita con la paura di 
perderci   e   contemporaneamente   ogni   giorno   facciamo   di   tutto  per   mescolarci   tra   le 
persone e conformarci agli ideali vuoti del mercato.
Il nostro amato io, dolore e piacere della nostra vita, è il soggetto di questo essere e non 
essere. Diamo per scontato che la nostra esistenza sia legata tutta ad esso ed  è così 
quando diciamo di avere una sola vita a disposizione. Uno dei problemi delle persone è 
l’incapacità di unire due concetti apparentemente contrari: prendiamo la questione della 
vita.

Alcuni dicono che ce ne è una, altri dicono che ce ne sono molte. Ognuno avvalla la 
propria tesi con diversi argomenti: testi, fede, esperienze, casi. Avevo iniziato a dire che 
la verità è qualcosa che unisce e non divide: come la mettiamo ora? Se prendiamo in 
considerazione la nostra vita, quella che viviamo adesso, sì, è unica, è irripetibile. Non 
ci sono, per quanto simili, due vite uguali con scelte ed esperienze identiche. Allo stesso 
tempo ci sono persone che ricordano vite precedenti, di cui poi trovano riscontri pratici. 
A una prima occhiata, queste sembrano due verità contrastanti. Ma proviamo a vedere 
se esiste un modo sensato di integrare queste due verità.

Possiamo pensare che la nostra vita sia unica e gli errori che facciamo possano essere 
rimediati solo in questa vita, visto che non è scontato ricordare una vita precedente. Allo 
stesso tempo possiamo immaginare che qualcosa sopravviva dopo la morte: forse non 
proprio   il   mio   io,   forse   un’essenza,   qualcuno   la   chiama   anima.   L’anima   potrebbe 
incarnarsi,   prendere   forma   in   questa   realtà   e   manifestare   un   io.   Potremmo   perfino 
pensare che un’anima possa manifestare più di un io, tanto da dire che effettivamente, in 
certi casi, davanti a noi abbiamo noi stessi. Accidenti, se fosse così, sai che fregatura! 
Ma come il caro dualismo ci insegna possiamo interpretare la situazione in un’altra 
maniera: le persone ricordano non le proprie vite, ma le vite di altri. Ciò significherebbe 
cosa? Che possiamo collegarci a qualcosa che ci informa di ciò che altri hanno fatto. 
Questa seconda visione non ci aiuta a dare una spiegazione di cosa ci sia dopo la vita, 
ma ci fornisce una indicazione di come ogni persona sia intimamente collegata agli altri.
Non   voglio   addentrarmi   troppo   nel   problema,   quanto   far   notare   come   entrambe   le 
riflessioni   possano   essere   vere   e   che,   invece   di   contraddirsi,   ampliano   ciascuna   il 
concetto   di   vita   che   offre   l’altra.   Sicuramente   anche   voi   troverete   ulteriori   modi   di 
interpretare   questi   esempi   togliendo,   ovviamente,   i   rifugi   mentali   della   categoricità, 
dell’impossibilità e dello scientismo puro. E andiamo avanti.

La   questione   è:   chi   siamo?   Siamo   un   soggetto,   un   oggetto   del   mercato?   Siamo   un 
numero? Siamo una massa informe? Nel concetto di “noi” è bene chiarire l’importanza 
del singolo e della sua unicità perché, quando si tratta di trasmettere delle conoscenze,  è 
solo   nella   diversità   che   amplia   una   coscienza.   A   volte   il   noi   è   confuso   nella 
omologazione senza volontà, tipo come accade nei paesi totalitari. Se fossimo omologati 
in   questo   modo   si   perderebbe   quella   diversità   che   invece   è   la   vera   e   propria   forza 
dell’essere umano e di una società sana. 
Non   cadiamo   nell’inganno   di   sentirci   diversi,   siamo   esseri   umani   con   una   grande 

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ricchezza interiore e tutto sta dentro di noi. Non cadiamo neppure nell’errore di pensare 
agli altri in termini di “loro” o “voi” perché quei pronomi sono facce dello stesso io, 
prima persona singolare, quella che divide, non quella plurale, che unisce. Vedere nel 
prossimo un te stesso riflesso non è così scontato e semplice, difficile quanto accogliere 
chi   ti   potrebbe   ingannare   o   uccidere.   Per   ora   non   pensiamo   troppo   a   quest'ultimo 
concetto, perché vedremo nel tempo il suo reale significato.

Per non essere si deve prima essere e l’unico modo per essere veramente è quello di 
conoscersi, in modo da conoscere anche il mondo che ci circonda. Non sarà mettendoci 
in   un   gruppo   che   noi   avremo   realizzato   il   nostro   essere,   non   sarà   affermando   un 
principio   che   lo   faremo   vivo,   non   sarà   decidendo   che   realizzeremo   i   nostri   scopi. 
Quando abbiamo raggiunto il nostro essere qui, non essere sarà solo una questione di 
poco conto. Morire, vivere sarà la stessa cosa.
Turbati? Immagino di sì, la morte è uno di quegli argomenti che si cerca di cancellare in 
tutti i modi eppure è la morte che da valore alla vita. Ma cosa è la morte? La fine di 
tutto come alcuni sostengono? Vero, è la fine del nostro io. Ma per altri è l’inizio di una 
nuova   esperienza.   Molte   delle   persone   che   hanno   avuto   esperienze   di   premorte 
ricordano immagini felici e non la temono più. Cosa sentiamo noi, cosa facciamo noi 
rispetto   alla   morte?   Facciamo   finta   di   nulla,   neghiamo   violentemente   ogni   cosa,   ci 
diamo all’ippica, ci chiudiamo in un credo religioso, filosofico o politico? Resta un 
fatto:   alla   fine   moriremo.   La   morte   è   uno   dei   tanti   momenti   dell’essere   umano   e 
prepararsi ad essa è uno dei tanti compiti. Da sempre i sacerdoti hanno avuto il compito 
di   accompagnare   i   defunti,   ma   purtroppo   tanti   di   loro   oggi   non   sanno   più   in   cosa 
credere.

Non possiamo ignorare una cosa solo perché ci fa paura, affrontarla significa diventare 
più forti. Essere più forti non significa non morire, ma vivere. Io ho molti dubbi in 
merito al concetto di morte che viene affermato di recente dalla scienza, in relazione, 
per esempio, ai trapianti, e cerco di informarmi e trovare una mia risposta in merito: ciò 
che troverò sarà mio e suonerà strano a molti, ma sarà una nuova possibilità per altri, se 
la accoglieranno e la faranno propria giorno dopo giorno.
Perché la questione è ancora e sempre la stessa: chi siamo? E la risposta  è varia, in 
relazione al contesto che vogliamo prendere in considerazione. Il nostro dualismo ci fa 
pensare in termini di essere e non essere, facendoci identificare l’essere con la vita 
terrena e il non essere con la vita intima, con la vita dell’anima, dell’oltemorte. Possibile 
che tutto si risolva in opposizioni? Possibile che non possa esistere una terza possibilità, 
più vasta e matura, che colmi il divario tra i dati sensibili di questa esistenza e i dati  
esperienziali dell’aldilà? In fondo, si tratta sempre di due realtà che appartengono al 
regno dell’esperibile, per quanto difficile possa essere. E la spiritualità, il lato oscuro 
della luna, il regno oltre le colonne d’Ercole, dove li mettiamo? Non potrebbe essere che 
i dati da mettere insieme siano tre, due sperimentabili con la totalità del nostro essere 
uomini e un’altra che esula, che sfugge, ma che è tuttavia presente come un altro da 
tutto ciò che è e non è?
Fosse così, l’unica possibilità che avremmo per metterci in contatto con la terza realtà, 
quella Altra, è quella di vivere in pieno l’essere e il non essere. Altro non ci è dato fare: 
non abbiamo termini, non abbiamo concetti, non abbiamo mappe né descrizioni. Solo il 
silenzio infinito, oltre.
Essere oltre  è quello che possiamo essere nella nostra massima espressione, se non 

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fossimo troppo legati alle nostre strutture mentali, quello che siamo in potenza. Superato 
il limite dell’essere, quello indicato nelle mie diverse riflessioni, quello dell’essere se 
stesso in se stesso, il nostro sguardo scruta oltre l’orizzonte e vede il mondo come è.

Il mondo è un sistema ordinato di regole, non certo inventate da noi, a cui dobbiamo 
sottostare anche se ciò non ci piace. Ci sono regole materiali, che si chiamano leggi 
della fisica e devono ancora essere scoperte nella loro interezza, e ci sono leggi non 
materiali. La principale di queste è la legge di causa­effetto: se c’è una cosa, ci sarà un 
effetto.  Se faccio  una  cosa, questo qualcosa  produrrà  un altro  qualcosa.  Sempre. In 
oriente questa legge ha preso il nome di karma, ma l’idea che abbiamo del karma in 
occidente assomiglia più alla vendetta del destino che al meccanico riproporsi del terzo 
principio della dinamica. Eh, sì, funziona anche in fisica: ad ogni azione ne consegue 
una   uguale   e   contraria.   Tuttavia,   tutto   nella   società   in   cui   viviamo   sembra   volerne 
negare l’evidenza.

Prendiamo l’amministrazione della giustizia: si commettono reati e poi, tra processi 
lunghi, indulto e sconti di pena, si grida allo scandalo se pochissimi scontano la loro 
condanna in pieno. Prendiamo la sanità: si vive una vita sregolata e poi ci si meraviglia 
di essere colpiti da malattie gravissime anche in giovane età oppure siamo coinvolti in 
un   caso   di   malasanità   ma   non   facciamo   nulla.   Prendiamo   l’informazione:   ci   si 
disinteressa   di   ciò   che   succede   intorno   e   poi   ci   si   lamenta   perché   tutto   va   male, 
continuando   a   seguire   passivamente   il   pensiero   di   altri.   Prendiamo   l’ambiente:   si 
inquina, si sfrutta e si violenta il nostro pianeta e poi ci si ritrova di fronte a catastrofi  
che sembrano insensate. Ancora, ed è più grave: si crede che la morte sia la fine di tutto 
e ci si sente autorizzati a comportarsi in modo strafottente, ricorrendo poi a qualunque 
possibilità offerta dal mercato per sedare i sensi di colpa. Si vuole confondere la libertà 
con la mancanza di responsabilità, ma attenzione, la coscienza non è un optional, anzi è 
sempre lì, sia che sia ammantata di un credo bigotto, sia che sia nutrita di sano rispetto, 
sia che sia dopata da soldi, pigrizia e potere.

Prendiamo i discorso dei piedistalli. Le persone amano, desiderano, vogliono qualcuno 
da seguire e da imitare. Qualcuno da mettere su un piedistallo, perché ogni volta che 
seguiamo qualcuno, noi, per quanto grandi conoscitori di noi stessi, stiamo facendo la 
brutta   copia   di   quel   personaggio.   Se   applichiamo   questo   concetto   a   Gesù,   è   facile 
renderci conto che basta spogliarlo degli allori che il Vaticano gli ha messo addosso, per 
trovare una serie di indicazioni verso un essere qualcosa di più, e lo stesso capita per 
altri   grandi   della   Storia.   Cosa   significa   essere   oltre?   Possiamo   forse   essere   oltre   i 
grandi? Possiamo andare oltre le categorie mentali del grande e del piccolo? Dobbiamo 
andare oltre, non vi pare?

Ecco   che   quell’oltre   rappresenta   il   mondo,   ciò   che   appare   sotto   i   nostri   sensi   e   in 
specifico il futuro. È la legge di causa­effetto: ciò che io faccio nel mondo di oggi, avrà 
un effetto sul mondo di domani. Cosa è il futuro se non i figli, i giovani che oggi si 
arrabattano a seguire mille idoli di carta e non capiscono la parola valore? Già sento i 
commenti   di   sottofondo.   Sto   parlando   in   modo   generale,   perché   non   è   giusto 
generalizzare, tuttavia è bene capire cosa è che non funziona. La difficoltà principale 
dell’essere umano è la solitudine, nessuno ama essere sempre solo e così si aggrega a 
gruppi grandi o piccoli, perché l’unica alternativa che conosce è la depressione e le sue 

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conseguenze sulla salute. Ma il gruppo è la soluzione? Ve lo domando perché per molti 
che si avvicineranno ad un  movimento, questa sarà l’ennesima occasione per sentirsi 
parte di qualcosa, per dare un senso al vuoto che hanno dentro. Vogliono ascoltare delle 
parole buone da parte di chi, come è stato per Krishnamurti, non vuole essere maestro o 
leader ma vuole capire se ci sono persone che vogliono essere vere.

Cosa lasciamo ai nostri figli o a quelli degli altri? Perché non ha nessuna importanza di 
chi sono, i figli di tutti sono anche i figli nostri. Cosa stiamo seminando oggi? Non ieri 
o domani, ma oggi. È importante. Di argomenti ce ne sono tanti, ho preparato una lista 
per un promemoria che mi auguro potremo discutere all’interno di ciò che fonderete. 
Dobbiamo avere le idee chiare per non rischiare di disperdere i nostri tentativi in mille 
direzioni inutili. Il che non vuol dire che dobbiamo pensare tutti la stessa cosa, ma che 
abbiamo   delle   posizioni   da   prendere   e   dobbiamo   essere   informati   perché   le   nostre 
posizioni abbiano senso oggi e domani. Sebbene io abbia accumulato molti dati per 
alcuni di questi argomenti, scrivo spunti generali, volutamente privi di commenti e sono 
sicuro di aver scordato qualcosa: per questo faccio riferimento a voi.

IL   PRIMO   PUNTO   È   L’EDUCAZIONE,   perché,   proprio   per   la   legge   di   causa­


effetto, già dalle scuole dell’infanzia si forgiano i cittadini di domani. Non è un fatto 
privato degli insegnanti, è una faccenda di tutti e non si tratta di andare a contestare ciò 
che viene realizzato nelle singole scuole o di guardare a modelli importati da fuori. In 
discussione  deve  essere  messo  tutto  il   sistema   educativo,  le  sue  fondamenta,  le   sue 
strutture e, più in generale, il senso stesso del fare cultura:
1. struttura   dell’ordinamento   scolastico,   tempo   scuola,   discipline   da   insegnare, 
comportamento,   modelli   e   comportamenti   alimentari,   ruolo   della   religione 
cattolica, ruolo di altre religioni
2. istruzione VS educazione
3. a ciascuno (dirigente, insegnante, genitore) il suo ruolo
4. scuola pubblica VS scuole private (anche non confessionali)
5. accesso al patrimonio culturale
6. ruolo dell’arte e della cultura.

IL SECONDO PUNTO È LA TERRA, perché è il mondo che ci ospita, quello che 
lasceremo ai nostri figli. Non possiamo fare finta che i comportamenti individuali non 
abbiano una ricaduta a livello dell’ambiente e non possiamo nasconderci che la somma 
dei comportamenti individuali più la somma delle scelte economiche fa la differenza tra 
un futuro e l’assenza di un futuro:
1. inquinamento: tipi e caratteristiche
2. tutela dell’ambiente
3. energie rinnovabili
4. uso degli OGM
5. tecniche di coltivazione
6. salvaguardia della biodiversità
7. caccia, la pesca come sport anche per i minori, aree e specie protette.

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IL TERZO PUNTO È LA SALUTE, perché si tratta del nostro corpo, di cui abbiamo 
la  prima  e  ultima  responsabilità.  Noi tutti,  prima  o  poi, abbiamo  fatto  l’esperienza, 
diretta o indiretta, con la malattia, e conosciamo bene la fragilità fisica, la vulnerabilità 
emotiva,   la   scarsa   resistenza   alla   manipolazione   ideologica,   la   disperata   volontà   di 
dimenticare   che   prendono   in   un   momento   grave.   Ecco   quindi   degli   argomenti   di 
riflessione colossali, da affrontare da diverse prospettive, perché in questo campo la 
rigidità   spesso   fa   rima   con   la   connivenza,   magari   involontariamente,   con   le 
multinazionali del farmaco:
1. concetto di malattia
2. unitarietà del corpo VS parcellizzazione
3. medicine “altre” e libertà di cura
4. morte cerebrale
5. trapianto di organi
6. trasfusioni
7. vaccini
8. eutanasia
9. aborto
10. eugenetica
11. fecondazione assistita e clonazione
12. trattamenti sanitari obbligatori
13. elettroshock
14. cambio di sesso
15. soglie di inquinanti, sostanze nocive, OGM in cibi, bevande e ambiente
16. nuovi farmaci: procedure per l’ammissibilità.

IL QUARTO PUNTO È L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA, perché se 
non è certa, rapida, rieducativa, non si tratta né di giustizia né di diritto ma di sopruso 
legalizzato.   Se   abbiamo   il   diritto   di   esser   tutelati,   abbiamo   anche   il   dovere   di   non 
offendere altri esseri umani nel loro diritti fondamentali, anche se hanno sbagliato ad 
agire, macchiandosi magari di delitti orribili. Se in uno stato la giustizia  è ingiusta, 
nessuno può invocarla e tutto diventa confuso e privo di senso:
1. come garantire la reale indipendenza della magistratura dagli interessi di parte
2. struttura ottimale del sistema giudiziario
3. segreto di stato
4. impunità dei politici
5. intercettazioni, privacy
6. lavoro carcerario come produzione di beni per ripagare la carcerazione
7. pene sostitutive
8. requisiti strutturali e organizzativi di un carcere auspicabile
9. prostituzione
10. droga: consumo, spaccio.

IL QUARTO PUNTO SONO LE REGOLE DELLA PARTECIPAZIONE ALLA 
GESTIONE DELLA COSA PUBBLICA, perché, anche se sembra una cosa di altri 
tempi, lo stato siamo noi. Giusto per ricordare, “repubblica” vuol dire “cosa pubblica” e 
ciò che è pubblico è di tutti, cioè è nostro e non di “altri” generici. Vivere in comunità 

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vuol dire avere ben chiari i principi e i meccanismi di questo vivere insieme, utilizzarli 
ognuno al livello che crede e rendersi conto che il proprio voto ha un peso enorme. 
Perciò, la prossima volta che si vota a qualsiasi livello, teniamo d’occhio il programma 
elettorale di chi votiamo e cosa è stato effettivamente realizzato, lamentandoci con chi ci 
ha deluso e lodando chi è stato all’altezza delle nostre aspettative. Sappiamo di volere, 
ad   esempio,   uno   stato   laico:   ma   cosa   fa   uno   stato   laico   in   faccende   quali   la 
regolamentazione del matrimonio, la legislazione sulla morte e sulla vita, il destino del 
corpo dopo la morte, la professione di fede in credi altri da quelli storicamente attestati 
in Italia, la sessualità, il senso del pubblico pudore? Ecco, allora, qualche idea:
1. regole per la rappresentanza e la partecipazione
2. chi governa deve pagare per gli errori
3. leggi che abbiano sempre un regolamento attuativo
4. limite della ripetibilità del mandato
5. necessità di competenza dimostrabile per occupare una carica politica
6. necessità di una fedina penale pulita
7. incompatibilità tra mandato politico e posizioni finanziarie di monopolio
8. benefici economici dei politici, pensioni, gettoni di presenza
9. possibilità delle leggi di iniziativa popolare
10. voci ineludibili di bilancio di uno stato e spese inutili
11. la prolificazione delle leggi e l’eliminazione di quelle inutili
12. programmi Open Source e GPL nella P.A. come contrasto allo spreco di denaro 
pubblico.

IL SESTO PUNTO È IL MONDO DEL LAVORO, perché è la realtà in cui viviamo 
tutti i giorni e che, volenti o nolenti, ci condiziona la vita. Credo che, tranne pochi 
fortunati, nessuno sia contento del suo lavoro, non solo perché si trova a contato con 
persone antipatiche o violente, ma perché è vincolato a una serie di situazioni che trova 
prive   di  senso:   spesso,   infatti,   non  abbiamo   scelto  un   lavoro   per   vocazione   ma   per 
necessità. E, con i tempi che corrono, temo sia già tanto avercelo, un lavoro:
1. lavoro: diritto o dovere?
2. sicurezza nei posti di lavoro
3. durata della settimana lavorativa
4. forme contrattuali ammissibili
5. come calcolare il giusto compenso
6. valorizzazione del ruolo di tutti
7. l’aggiornamento: diritto o dovere?
8. sciopero: diritto e regolamentazione
9. età pensionabile, buonuscita, pensioni di anzianità
10. il ruolo del sindacato nella contrattazione e nella difesa dei lavoratori.

IL SETTIMO PUNTO È L’ECONOMIA, perché ha una ricaduta diretta sulla nostra 
vita, a partire dalla spesa quotidiana. Per non pensare che il mercato siano un’entità viva 
che si gestisce da sé, dobbiamo capire se le scelte attuali in materia economica siano 
consone al nostro sentire. Non sono meccanismi facili da capire e non sempre c’è libero 
accesso alle informazioni, ma fortunatamente le cose si ripetono e ciò  che la storia 
racconta può servire da modello per comprendere in parte il mondo moderno: 

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1. signoraggio
2. sistema bancario italiano, europeo e mondiale
3. libero accesso ai beni di primaria necessità
4. educazione alla produzione dei beni di prima necessità nei paesi del III mondo
5. sistema euro VS valute nazionali
6. ruolo delle multinazionali
7. sviluppo di modelli alternativi al libero mercato
8. microeconomia VS macroeconomia
9. indipendenza della ricerca scientifica
10. rapporti economici con i paesi che non rispettano i diritti umani.

L’OTTAVO PUNTO È LA POLITICA ESTERA, perché dobbiamo renderci conto 
che   non   viviamo   da   soli   su   questo   pianeta   che   diventa   ogni   giorno   più   stretto   e 
sovraffollato e che è necessario sapere come comportarci nell’avere rapporti con gli altri 
stati:
1. regolamentazione dell’immigrazione
2. status di rifugiato
3. ruolo degli stranieri in Italia: diritti, doveri
4. soluzione dei conflitti internazionali
5. partecipazione dell’Italia alle missioni militari all’estero
6. ammissibilità dell’idea di “ ingerenza umanitaria”
7. necessità di far parte della UE
8. ruolo dell’Europa, suoi limiti e prerogative
9. ruolo dell’ONU.

E così via. Difficile? Certo. Faticoso? Certissimo. Inutile? Non sta a noi dirlo. Qui il 
lavoro è grande: stiamo tentando di costruire un’etica nuova su antiche tracce di buon 
senso. Ho detto niente… Questa riflessione ha lo scopo di farci capire che il potere è 
una   questione   assai   complessa   e   non   è   semplice   e   riducibile   solo,   ad   esempio, 
all'ecologia e al mercato. 

Nota: questi sono solo appunti per iniziare una propria riflessione personale.

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1.7 Riflessione conclusiva

Dopo aver esposto a 360° gli aspetti di "essere" e "non essere", a questo punto sento la 
necessità di chiarire due concetti: teoria e conoscenza di se stessi. Una è la serratura e 
l'altra è la chiave di comprensione di ciò che ho espresso fino a oggi. La teoria è una 
serratura statica che si serve di regole e concetti rigidi, la conoscenza  è una chiave, 
sempre diversa che però fa girare sempre la stessa serratura e apre la porta all'interiore. 
Sulla   base   di   questo   concetto   possiamo   immaginare   che   l'uomo   stia,   attraverso   le 
filosofie e la scienza, costruendo mille serrature diverse senza però neppure una chiave 
che le apra. Capite? Tutto ciò che fa l'uomo è uno strumento che richiama in senso lato 
la ricerca di se stesso. Ogni sperimentazione porterà, in un complesso gioco di specchi, 
solo ad altre sperimentazioni.

È stato detto che quanto ho scritto era solo teoria: è vero, quanto è stato detto nei diversi 
interventi è solo teoria se chi legge non trova il modo di applicarlo nel quotidiano. 
Questo concetto è vero per qualsiasi pensiero. Il passaggio di una teoria da serratura a 
chiave, quasi fosse un'operazione alchemica, sta proprio in questo: dobbiamo prendere 
un concetto che sta fuori di noi e, giorno dopo giorno, espanderlo e dirigerlo dentro di 
noi. Fate attenzione che, trattandosi di una regola, di un insieme di regole o di una 
tecnica, quello che viene chiesto dal vostro interiore è l'intima comprensione di quanto 
sta alla base, comprensione che non è legata alla mente e ai suoi limitati processi, ma 
all'intelligenza che si produce in un sistema assai più complesso, che coinvolge tutto il 
corpo.

Questo processo è molto differente da quanto normalmente crediamo, visto che, per 
esempio pensiamo che ripetere una litania all'infinito diano luogo a una qualche forma 
di   meditazione.   Questo   errore   di   valutazione   nasce   dal   fatto   che   tutte   le   tecniche 
esprimono una qualche forma di potere potere: potere sulla vita, sul corpo, sulla mente, 
sugli altri, sul mondo. Nascono e vengono praticate anche con buoni propositi, ma sono 
e   restano   strumento,   al   pari   di   un'arma.   Puoi   usarla   per   difenderti   o   per   fare 
volontariamente, sempre di un'arma si tratta. Nella realtà in cui viviamo la nostra mente 
è un'arma e sebbene facciamo di tutto per non rendercene conto e pensiamo che i nostri 
pensieri non abbiano  effetto solo  perché non ne vediamo risultati materiali, le  cose 
stanno   così.   Seminiamo   pregiudizi,   pensieri   negativi,   superbia   e   non   sarà   con   una 
tecnica, fosse anche una preghiera o una candela accesa, che potremo cambiare questo 
stato di cose.

La teoria assomiglia a un eterno dibattito, possiamo discutere per decenni su cosa sia il 
bene e cosa sia male, trovandoci anche ottime ragioni per il nostro punto di vista, ma 
non produrremo nessun risultato perché le nostre resteranno nozioni senza costrutto. 
Anche la redazione di un testo, per quanto chiaro e accurato non è altro che la creazione 
di nuove regole e principi senza però quel quid utile al cambiamento. La differenza la fa 
il   portare   fuori   di   noi   quello   che   abbiamo   dentro.   Ma   cosa   abbiamo   dentro? 
Domandiamocelo, perché questo è solo il punto di partenza.

La   teoria   diventa   realtà   solo   attraverso   la   comprensione   del   singolo   ed   è   viva   solo 
quando costui se ne l'avrà fatta sua: solo allora sarà in grado di esprimerla con parole 

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sue. Vi è chiaro? So di essere ripetitivo, ma so anche che non è facile capirsi. Quante 
volte noi, ascoltando un discorso siamo d'accordo con quanto abbiamo ascoltato ma poi 
non siamo capaci di ripetere nulla? È chiaro che ci sono persone molto portate ad usare 
la lingua, ma non è questa capacità che ci manca: manca invece la consapevolezza di 
quanto accade intorno a noi, nella società e così non siamo in grado di collegare gli 
eventi.

È   importante   questa   comprensione   perché   ci   permetterà   di   lasciare   questo   mondo, 


qualunque   sia   la   vostra   filosofia   o   la   vostra   religione,   solo   se   sapremo   lasciarlo 
serenamente, con il cuore in pace. Qualsiasi violenza, incertezza, durezza causerà una 
tensione che riporterà a ripetere gli stessi errori, le stesse esperienze. Così, prima di 
continuare con il concetto successivo, riprendo le chiavi teoriche che nel corso dei miei 
interventi vi ho offerto, affinché diventino ­ per quanto possibile ­ chiare a tutti.

La verità è personale: può solo essere ampliata comprendendo il contesto del nostro 
interlocutore. Non esiste un bene o un male assoluti, esiste solo una rigidità mentale 
determinata da una volontà di potere o da una limitazione provocata dall'ignoranza. La 
prima si deve scoprire in se stessi attraverso una profonda analisi di sé e lo scambio con 
gli altri, la seconda si elimina gradualmente aprendosi alle verità degli altri. Dobbiamo 
imparare a non aggiungere giudizi alle nostre considerazioni ed a aprirci al pensiero 
degli altri senza pensare di sapere subito cosa vogliono dire.

La libertà è interiore: non è possibile pensare di essere liberi perché ci è permesso fare 
quello   che   ci   pare   o   perché   siamo   nella   posizione   di   infrangere   le   regole   o   perché 
nessuno ci vede. Dobbiamo sempre rispondere alla nostra coscienza, che non ci lascia 
certo abbindolare dalle nostre scuse, non possiamo di certo ricorrere a ragioni morali se 
crediamo che l'essere si riduca alla sola vita materiale. A quanti pensano che il mondo 
dello spirito non esiste, che Dio non esista, ricordo che quando non è provato neppure il 
contrario, c'è sempre l'ombra del dubbio e una possibilità in questo senso resta. Un salto 
qualitativo in questo pensiero sta nella comprensione delle proprie percezioni, non solo 
dei sensi, ma anche interiori.

Il   mondo   è   illusorio:   che   siamo   credenti   o   non   credenti,   partiamo   sempre   dal 
presupposto che il mondo sia stato creato da Dio – o dal caso, se pensiamo che Dio no 
possa permettere tutto il dolore che sperimentiamo ogni giorno. Non avrebbe più senso 
dire che questo mondo è figlio del Demonio? Un Demonio che opera con il consenso e 
con l'aiuto di Dio perché l'esperienza di ciascuno di noi non vada persa e si giustifichi 
ogni vicenda dolorosa alla luce di un progetto molto più grande di noi tutti? Ricorrerò a 
un   esempio:   la   pellicola   di   un   film   produce   su   uno   schermo   delle   immagini.   Le 
immagini sono di violenza o di amore, o di tutti e due. Lo schermo è un dono di Dio, la 
luce che sprigiona le immagini è l'anima, la pellicola è la conoscenza del bene e del 
male,   diciamo   così.   E   l'operatore?   È   quel   quid   che   io   chiamo   Spirito.   Lo   schermo 
manifesta   ciò   che   non   potrebbe   manifestarsi   nel   mondo   dell'anima,   ma   grazie   allo 
schermo l'anima che  è anche spettatrice di questo gioco impara e, paradossalmente, 
migliora se stessa. Quello che ho fatto è un esempio retorico che resterà una favola 
sciocca se non saprete andare oltre le parole.

Il corpo è molto di più di un aggregato di organi chimicamente determinati: di fatto ciò 

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è vero se non si va oltre quello che si percepisce: il limite non è nei sensi, ma nella 
mente. Fate particolarmente attenzione a questo ultimo concetto. Non dimenticate che 
togliere i limiti alla mente non è facile e significa ma ampliare, espandere, accogliere. 
L'uomo può anche andare oltre l'immaginabile scoprendo l'antimateria, i viaggi spaziali, 
anche nuove civiltà, tuttavia resta sempre legato al limite della sua percezione e dell'idea 
che si fa della realtà. La vita come la conosciamo esiste perché sia vissuta nel migliore 
dei modi. Quando ci facciamo prendere dal desideri di potere, dall'avidità, dal senso del 
possesso,   dal   bisogno   di   apparire   noi   perdiamo   il   meglio   di   quello   che   possiamo 
ricevere dalla vita e saremo sempre scontenti. Non culliamoci nell'illusione di essere 
buoni: ciascuno di noi, nel suo piccolo, è capace di desideri terribili; il fatto è che non 
ce ne rendiamo conto.

Se avete già compreso i punti sopra indicati e li avete fatti vostri, possiamo dire che 
avete fatto più della metà della strada per arrivare alla prima porta. Che l'io sia oggi 
imperante è chiaro: perché? L'io è parte di noi, il più grande rischio che possiamo vivere 
è quello di perdere la nostra identità, il nostro io, la nostra storia. Così facciamo di tutto 
per radicarci in quello che per noi è la verità, nascondendo giorno dopo giorno la nostra 
vera natura, che sperimentiamo, ad esempio, nei momenti di grande difficoltà, quando 
scopriamo di avere risorse impensabili.

La soluzione non si trova nell'estremizzare le situazioni, che raccolgono il dolore e la 
rabbia   che   nascono   dalla   finzione   dell'io,   che   finge   di   non   sentire   i   messaggi   che 
nascono dal suo interiore, dalla sua anima. Dobbiamo andare oltre, quando crediamo di 
essere arrivati in fondo, dobbiamo andare ancora oltre, porta dopo porta, serratura dopo 
serratura, scoprendo sempre nuove chiavi. Temo che, a causa dei termini usati, molti di 
voi confonderanno la percezione con i sensi, ma questo è naturale perché non usiamo la 
mente come dovremmo. Le abitudini fanno da padrone nella nostra vita e non ne siamo 
consapevoli.   Ad   esempio,   avete   mai   usato   gli   occhiali   neri   bucherellati   tipo 
VisionLight? Dopo un primo momento di smarrimento inizierete ad usarli normalmente 
e scoprirete dopo un po' di poter migliorare la vostra vista. Si tratta forse di un migliore 
uso dell'occhio oppure di esercizio del muscolo oculare? No, si tratta del fatto che la 
mente deve usare l'occhio in modo diverso. Non è l'occhio il problema, ma la mente. 
Noi diciamo che l'occhio ha perso la capacità di vedere, in realtà la mente ha smesso di 
vedere:   quante   sono   le   cose   che   non   vogliamo,   metaforicamente   parlando,   vedere? 
Pensateci.

A questo punto molti diranno che non sanno percepire oltre i sensi tradizionali, eppure 
anche questa è una scusa che continuiamo a raccontarci per non essere responsabili di 
ciò che siamo, perché la verità è che spesso ci accorgiamo se qualcuno dietro di noi ci 
sta guardando insistentemente. Tuttavia ci fermiamo in superficie perché abbiamo paura 
di percepire, perché se dovessimo farlo e dovessimo rendercene conto, rimarremmo in 
imbarazzo  di   fronte  a   un  nuovo  potere,  che  qualcuno  potrebbe   usare  contro  di  noi, 
facendoci sentire inermi.

La verità è che lo siamo sempre ed è inutile far finta che non ci siano queste capacità. 
Sicuramente sono assopite, ma di certo non cancellate o inesistenti. Abbiamo solo paura 
di noi stessi. Renderci conto di ciò significa mettere in gioco tutto, soprattutto la propria 
vita: una persona che ha compreso ciò va oltre l'apparenza e non teme più la morte e 

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vive ogni giorno come fosse l'ultimo. E se è l'ultimo sarà, avrà sicuramente assaporato e 
vissuto  quasi   al  100%  la   sua  esperienza  e  non  avrà  bisogno  di   diversivi  o  paradisi 
artificiali.

Comprendete   la   differenza?   Anche   quanto   viene   espresso   da  Krisnamurti  sulla 


conoscenza di se stessi è molto interessante (il video è in inglese). Questa riflessione è 
pari ad discorso di un libro o ad una conferenza in televisione, può prendere forma solo 
attraverso uno scambio personale tra di noi. Un noi che non è solo l'incontro di persone, 
ma che è quello che unisce ogni essere umano: bianco, nero, giallo, rosso, cristiano, 
ebreo,   ateo,   mussulmano,   induista,   agnostico,   materialista   e   spiritualista.   Possiamo 
farlo?   Possiamo   parlarne?   Possiamo   essere?   Nessuno   può   decidere   per   noi.   Intanto 
possiamo riflettere su questo. Questo intanto, prima della sorpresa.

Il  prossimo  testo  “Atto II”  conterrà  il  concetto  delle  cinque chiavi:  una  visione  più 
approfondita di questi ultimi concetti.

Paolo Toso
Buona ricerca

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Note sul copyright e copyleft

Le   riflessioni   ivi   contenute   sono   sotto   la   licenza   Creative   Commons   e   possono   essere  
utilizzate   liberamente   secondo   tale   licenza,   ci   piacerebbe   però   che   fossero   comprese   e  
vissute dal lettore attraverso la sua presa di coscienza ed esperienza personale, in modo da  
poterle esprimere con le sue parole e non riportando voci di altri.

–.–

Paolo Toso
L'autore è nato in Friuli (Italia) nel 1963 e 
dal 1980 ha iniziato la sua ricerca interiore. 
Ancora   oggi   è   alla   ricerca   non   solo   di 
conoscere   se   stesso,   ma   anche   i 
collegamenti   tra   le   diverse   filosofie   e 
pensieri sulla vita e la morte.
In   questi   anni   ha   accumulato   un   bagaglio   considerevole,   che 
attraversa   le   tematiche   dell'esoterismo,   delle   religioni   e   delle 
filosofie,   sperimentando   anche   diverse   tecniche   e   meditazioni 
quali   la   Meditazione   Trascendentale   e   le   Shiddi   di   Maharishi 
M.Yogi, il KryaYoga di Yoganada, la radionica con M.Frisari, lo 
Shiatzu e la M.T.C. con M.Boato, C.Liansheng e W.Ohashi, il 
Buddismo a Pomaia, le danze sacre e i giochi non competitivi con 
istruttori di Findhor, il Cristianesimo con Don Nicolino Borgo e 
Don Candido Maffei e tanti altri. Mai contento dei risultati, ha 
sperimentato anche tecniche da lui stesso elaborate. 
Una lunghissima storia che non è possibile raccontare in poche 
righe  e  che  lo ha  portato a  riconsiderare  le sue  concezioni  di 
realtà e di essere. Nel 1993 ha iniziato a portare la sua visione e 
ricerca attraverso conferenze, stage e corsi  che gli  hanno  fatto 
ottenere nel 1997 la laurea honoris causa da un'antica accademia 
italiana, da cui in seguito ha ricevuto anche il titolo di Reggente 
esecutivo per la sua regione. Tenendo lui stesso e insegnando nei 
suoi   incontri   il   principio   di   autonomia   e   responsabilità   della 
persona verso la vita e la spiritualità ha ottenuto anche il titolo di 
diacono   della   Chiesa   Syro   Antiochena   Missionaria   Autocefala 
d'Europa. Oggi, si è ritirato per terminare un punto focale della 
sua ricerca.

Per informazioni:
http://paolo.toso.noguide.it
pa2002 (at) libero (dot) it 

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