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A MATTER OF CONSCIOUSNESS

ALESSANDRO GIANNANDREA
[ a.giannandrea@gmail.com ]
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu' io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;

perché appressando sé al suo disire,


nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.

Veramente quant' io del regno santo


ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.

DANTE, Paradiso, I 4-12


1

“Corpo io sono anima” – così parla il fanciullo.


E perché non si dovrebbe parlare come i fanciulli?
Ma il risvegliato e il sapiente, dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro;
e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo.
[...]
Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza.
(FRIEDRICH NIETZSCHE 1883) 2

Il corpo umano è costituito da circa 1022 (10 000 trilioni) di cellule, di esse
circa 1011 (100 miliardi) sono cellule neuronali. Sebbene nessuna di queste
cellule sia dotata della capacità di comprendere la propria funzione o quella
dell’intero sistema, il risultato della loro coesistenza all’interno di un
organismo umano è la meravigliosa complessità di pensiero e azione della
nostra specie.
Il quesito su come possa la materia (auto)organizzarsi e diventare un corpo
pensante e agente è stato affrontato da ogni civiltà sin dall’alba della propria
filosofia. Praticamente ogni cultura, in ogni tempo, ha prodotto un approccio
e una risposta al quesito mente-materia. Per secoli si è considerato il campo
mentale non riducibile al fisico: qualunque cosa la mente fosse non era
ritenuta spiegabile dai fenomeni fisici soggiacenti. Scivolando nel sottile
tranello della confusione tra ontologia ed epistemologia, filosofi, scienziati e
religiosi hanno ritenuto impossibile, se non addirittura pericoloso e blasfemo,
descrivere come e perché la materia fosse capace di pensiero, in alcuni casi

1
Kata: La Forma
2
NIETZSCHE,F.. Also Sprach Zarathustra. 1883-1885 (Così parlò Zarathustra, tr. it. Adelphi,
Milano 1968).
tracciando la separazione tra res-cogitans e res-extensa, in altri descrivendo
l’inaccessibilità dell’esperienza mentale privata o cercando in qualche divinità
il soffio vitale che ha creato dal fango il peccatore.
L’approccio, tipicamente occidentale, “in principio era il logos” può condurre
ad un empasse epistemologico: se la ricerca dell’origine del mentale parte
dal mentale stesso, si rischia di ritenere incolmabile la distanza che separa
l’esperienza soggettiva dell’essere-un-essere-pensante, esperita come
multicolore e vivida, dalla quella degli esseri inanimati definiti da Hofstadter e
Dennet “tutto fuori e niente dentro”3, strutturalmente incapaci di esperienza
cosciente. Qualunque descrizione si faccia partendo da tale approccio
sembra lasciare fuori qualcosa di tanto importante quanto inafferrabile.
Charles Darwin nel 1859 affermava “la psicologia si baserà su nuove
fondamenta [...] quelle della necessaria acquisizione per gradi di ogni facoltà
e capacità mentale”4; cerchiamo di proseguire il percorso preconizzato dal
padre dell’evoluzionismo: dalla materia alla mente in una progressione di
complessità e capacità crescenti. Ricorreremo al filtro dell’atteggiamento
intenzionale (Dennett 1997)5 per spiegare come il mentale possa essere
riconosciuto nelle sue componenti fisiche, a partire dalle sue componenti
fisiche, e senza aggiungere altro alle sue componenti fisiche. Per
atteggiamento intenzionale intendiamo l’attribuire agli “agenti” osservati (che
siano virus, neuroni o persone) una intenzionalità propria, un comportamento
teso a un fine6. Sul pianeta Terra, cinque miliardi di anni fa, non c’erano menti
di nessun tipo. Un miliardo di anni dopo, alcune macromolecole, tra cui le
prime molecole di RNA, iniziarono a produrre copie di sé stesse sempre più
perfezionate. Tutto ciò avvenne in assenza di una mente che ne guidasse il
comportamento e anche in assenza di vita nel senso biologico del termine.
Compiendo un balzo in avanti di un ulteriore miliardo di anni troviamo gli

3
HOFSTADTER D. R., DENNET D.C. L’io della mente. Adelphi, Milano 1992.
4
DARWIN C.. L’origine delle specie, tr. it. Universale Scientifica Boringhieri, Torino1967.
5
DENNETT D.C.. La mente e le menti. Tr. it. BUR, Milano 1997.
6
DENNETT D.C.. Dove Nascono le Idee. Di Renzo Editore, Roma 2006
stessi robot-macromolecolari-autoreplicanti (per usare un’espressione cara a
Dennett) organizzati in organismi unicellulari finalmente in grado di compiere
azioni oltre che di avere effetti. Nel giro di centinaia di milioni di anni
seguiranno nella scala evolutiva le prime creature marine pluricellulari,
evolutesi poi in pesci, rettili e, infine, mammiferi. Questo breve excursus
sull’evoluzione della specie Homo Sapiens porta alla luce due assunti
importanti: 1) i nostri antenati filogenetici erano privi di facoltà mentali, 2) in
un organismo umano, composto esclusivamente dai suddetti robot-
macromolecolari-autoreplicanti, ed evolutosi a partire da essi, non c’è alcun
componente singolo in grado di pensare. Di fatto, facendo ricorso ad una
sorta di principio antropico, constatiamo che l’insieme strutturale e
funzionale delle parti che costituiscono un corpo umano è in grado di
pensare. Autori come Dennett non ritengono questo passaggio un salto
qualitativo inspiegabile, si tratta semplicemente di quello che egli definisce
un falso problema filosofico: il mentale è all’estremo del continuum che
origina dalle caratteristiche fisiche della materia di cui è composto
l’organismo pensante. Inoltre, tracciando le tappe del percorso si ottiene un
circolo che non sembra lasciare nulla di incompreso: il mentale è spiegato
dalle neuroscienze a partire dall’attività del sistema nervoso centrale (e
dell’organismo in genere); tale attività è a sua volta descrivibile nei termini del
funzionamento collettivo dei vari aggregati funzionali e strutturali di cellule; il
funzionamento di ogni singola cellula è descrivibile nei termini delle
interazioni fisiche degli atomi che la compongono, i quali atomi si
comportano secondo le leggi della meccanica quantistica. Ed è a questo
punto che il cerchio si chiude poiché la meccanica quantistica necessita di
includere l’osservatore (e la sua mente) nella descrizione del sistema
osservato.
Come spieghiamo allora la differenza di capacità di pensiero e azione che
separa, ad esempio, un virus da un essere umano?
Al fine di rispondere a questa domanda, appare opportuno procedere per
tappe nella ricostruzione evolutiva del mentale. Inizialmente la selezione
naturale ha favorito esclusivamente il genotipo degli organismi più adatti
all’ambiente: in questo primo stadio, l’espressione del fenotipo è
direttamente collegata al genotipo in una rosa di possibilità adattive ridotta a
uno. Successivamente, in analogia col modello del comportamentismo di
Skinner7, e per il medesimo meccanismo di selezione naturale, si osserva un
aumento della fitness degli organismi in grado di mostrare una più alta
variabilità di comportamenti sebbene questi risultino ancora scelti a caso fra
di quelli resi possibili dal genotipo. In questa tappa tale selezione di
comportamenti è consolidata attraverso il meccanismo del rinforzo, ovvero
dopo gli esiti del comportamento espresso. La terza tappa della
progettazione genetica è quella nella quale gli organismi diventano in grado
di scegliere i vari comportamenti possibili testandoli su un proprio modello
interno dell’ambiente; citando le parole di Popper8 un tale meccanismo
consente “alle nostre ipotesi di morire al posto nostro”. Infine, l’ultimo passo
della catena evolutiva è costituito da quelle creature in grado di depositare
intelligenza9 nell’ambiente sotto forma di strumenti utilizzabili e condivisibili,
primo tra essi il linguaggio.
In questo breve riassunto della filogenesi umana possiamo vedere come
quello che appare un salto qualitativo nelle capacità mentali, da organismi
unicellulari a esseri umani, sia in realtà un processo graduale, continuo e in
progressione quantitativa.
Si noti che i modelli descritti fino ad ora sono compatibili con la descrizione
del funzionamento mentale che si ritrova nei testi della dottrina buddista. In
essi la mente viene infatti considerata come un’entità autonoma
caratterizzata da un funzionamento proprio legato alla sua struttura interna.

7
CASTIGLIONI M., CORRADINI A.. Modelli epistemologici in psicologia. Dalla psicoanalisi al
costruzionismo, Carocci, Roma, 2003.
8
citato in DENNETT 1997 (ibid.) pg.103
9
BELLONE E.. I corpi e le cose. Bruno Mondatori, Milano 2000.
10

Dov'è il pensiero? È, questa, cosa che non si può


sapere né vedere. È come un'illusione magica, perché
con l'immaginazione dipinge il mondo. Cercando il
pensiero, incapace di vederlo, una persona ne cerca
l'origine. E gli sembra che il pensiero sorga là dove c'è
un oggetto. Il pensiero non sorge senza un oggetto.
Può il pensiero vedere il pensiero? No. Come la lama
d'una spada non può tagliare se stessa, o la punta di
un dito toccare se stessa,così il pensiero non può
vedere se stesso.

Sikshasamuccaya SANTIDEVA (VII-VIII secolo d.C.)

“Vi è un’amabile ma fuorviante inclinazione delle persone a esagerare le


meraviglie delle proprie esperienze coscienti, piuttosto simile a quella dei
partecipanti agli spettacoli di magia, che tendono a uscire dal teatro
affermando di aver assistito a prodigi superiori a quelli realmente presentati
per il loro divertimento.”; con queste parole Dennett (2006)11 ridimensiona il
compito di spiegare la coscienza, la cui meta, lo studio scientifico
dell’esperienza cosciente, è più vicina e concreta oggi di quanto non lo sia
mai stata in passato. Autori come Edelman e Tononi (2000)12 hanno elaborato
modelli informatici estremamente accurati del funzionamento delle reti
neurali, processi che solo un secolo fa sembravano insondabili sono stati
riprodotti con l’elegante semplicità delle simulazioni al computer (ad es.
Sporns et al. 2000)13.

10
Shin: La Mente
11
DENNETT D.C. Sweet Dreams. Philosophical Obstacles to a Science of Consciousness. MIT
Press (MA) 2006.
12
EDELMAN,M., TONONI G.. Un universo di coscienza. Einaudi, Torino 2000.
13
SPORNS O., TONONI G., EDELMAN M.. Theoretical Neuroanatomy: Relating Anatomical and
Functional Connectivity in Graphs and Cortical Connection Matrices. Cerebral Cortex, Vol.
10, No. 2, 127-141, February 2000. Oxford University Press.
Non è negli scopi del presente lavoro quello di riassumere le conquiste attuali
nel campo dello studio della coscienza, ci limiteremo a sottolineare i punti di
contatto tra scienza contemporanea e buddhismo percorrendo alcuni dei
numerosi ponti che collegano gli studi di entrambe i campi. A tal fine,
considerando la coscienza come un processo, essa si mostra essere il
risultato dell’attivazione, istante per istante, di vaste e mutevoli popolazioni
neurali, in risposta all’integrazione di percezioni, e azioni aventi sempre come
protagonisti inseparabili tra loro un corpo e l’ambiente che lo circonda.
Secondo tale paradigma non si può distinguere la coscienza né dagli oggetti
che accoglie né dal corpo dal quale emerge. Nelle parole del filosofo
esistenzialista Maurice Merleau-Ponty (1965)14 “dacché c’è coscienza, e
perché ci sia coscienza, è necessario che ci sia un qualcosa di cui essa sia
coscienza, un oggetto intenzionale”.
Bisogna quindi ricorrere ad unica descrizione ontologica per soggetto e
oggetto in un’ottica, quella del paradigma della enazione, che sviluppa
ulteriormente il modello dell’emergenza, delocalizzando la sede dell’origine
delle esperienze fenomeniche e diffondendola in una rete che nasce dal
sentire e muoversi con il corpo nel mondo15. Il modello della enazione fu
creato nel 1991 dal biologo, neuroscienziato ed epistemologo cileno
Francisco Varela16 il quale trasse profonda ispirazione dalla descrizione, nel
modello buddhista, dei concetti di skandha e dharma. Secondo quest’ultimo
modello, gli oggetti di coscienza, i dharma, vengono raggruppati in aggregati,
i cinque skandha, ciascuno dei quali ha natura “illusoria”. La coscienza risulta
essere quindi il risultato della relazione tra organismo e ambiente, ed è solo
nella relazione che si può descrivere l’uno e l’altro: “La materia, parlando
metaforicamente, è la creazione dello spirito […] lo spirito è la creazione della
materia che esso crea. Questo non è un paradosso, ma l’espressione della

14
MERLEAU-PONTY M.. Fenomenologia della percezione. Il Saggiatore, Milano, 1965. p. 176.
15
BERTOSSA F.,FERRARI R.. in Neurofenomenologia. Curato da CAPPUCCIO, M., Bruno
Mondadori, Milano 2006.
16
VARELA F. J., THOMPSON E., ROSCH E.. The Embodied Mind. Cognitive Science and Human
Experience. MIT Press (MA) 1991.
nostra esistenza in un dominio di cognizione nel quale il contenuto della
cognizione è la stessa cognizione.” (Varela 2001)17.
Il paradigma dell’enazione delocalizza al di fuori dell’individuo la coscienza
attribuendo agli oggetti il ruolo di condizione fondante dell’esperienza
cosciente. Quindi, l’espressione “essere coscienti degli oggetti” va
riformulata nell’espressione “essere cosciente perché ci sono gli oggetti”.
Questo assunto è legato al concetto buddista di “interdipendenza”, che
descrive come ogni cosa sia partecipe di tutto il resto in una rete
indissolubile.

Un essere umano è una parte del tutto che noi chiamiamo universo,
una parte limitata nel tempo e nello spazio,
che sperimenta pensieri e sensazioni come qualcosa di separato dal resto,
una specie di illusione ottica della coscienza.
(ALBERT EINSTEIN)

La dottrina buddhista è molto esplicita per quanto riguarda la natura degli


oggetti fisici: essi sono impermanenti, interdipendenti e insoddisfacenti.
Ciascun oggetto attraversa un percorso che passa necessariamente per le
tre fasi di nascita vita e morte. In aggiunta, e in consonanza con la Teoria
della Relatività, non esiste nulla che possa essere descritto in termini
assoluti, distinto nello spazio e nel tempo da tutto il resto. Notiamo
brevemente la sintonia di questi assunti con il pensiero scientifico
contemporaneo: la termodinamica si occupa dell’impermanenza quando
descrive le caratteristiche dell’universo in termini di sistema entropico, un
sistema cioè all’interno del quale l’energia tende a degradare verso stati
sempre più semplici e dis-ordinati. Inoltre, la concezione di un universo fatto
di oggetti distinti, situati nei due contenitori concettuali di spazio “vuoto” e
tempo “costante”, ha ormai perso di efficacia descrittiva, lasciando il posto ai
modelli quadridimensionali (e oltre) che seguono alle intuizioni di Einstein

17
MATURANA H. R., VARELA F. J.. Autopoiesi e Cognizione!Autore: la realizzazione del vivente.
Marsilio, Venezia 2001.
sulla Teoria della Relatività. Malgrado ciò i nostri sistemi sensoriali sono
strutturati in modo da distinguere i vari elementi dal contesto, come, ad
esempio, gli oggetti dal loro sfondo, la conversazione che stiamo ascoltando
da tutte le altre contemporanee, il presente dal passato e dal futuro. Tali
discriminazioni avvengono in larga misura al di là della nostra
consapevolezza, delle nostre intenzioni e, come nota Enrico Bellone (2000)18,
senza che noi abbiamo necessità di conoscere il funzionamento dei nostri
recettori sensoriali.
La scienza distingue il tempo soggettivo, definito da Einstein una “ostinata
illusione”19, dai tempi della fisica teorica, dando validità descrittiva solo a
questi ultimi. Se osserviamo una qualunque scena che si presenta ai nostri
occhi abbiamo la percezione, l’”ostinata illusione”, di vedere oggetti, disposti
nello spazio, più o meno in movimento in relazione a noi, e situati nel tempo,
precisamente nel tempo presente. Almeno due osservazioni possono
sollevare dubbi sulla affidabilità descrittiva della nostra impressione sensibile:
1) il tempo presente, l’ “adesso” della scena che stiamo osservando, non è
un punto di riferimento valido per discriminare passato e presente, e 2) il
concetto stesso di eventi contemporanei è un costrutto relativo
esclusivamente alle impressioni dell’osservatore. Per quanto riguarda la
prima osservazione basti notare il dato empirico e fenomenologico che
analizza Tolle (1997)20: qualunque idea possiamo aver maturato sul concetto
di tempo non abbiamo mai avuto esperienza diretta di quello che definiamo
passato e futuro. Ovvero, qualunque cosa accada nella vita di una persona,
accade nel presente soggettivo di quella data persona. La seconda
osservazione si basa su una considerazione piuttosto semplice, la luce si
propaga ad una velocità grandissima, ma finita. Nel suo ormai classico

18
Ibid. BELLONE 2000.
19
EINSTEIN A.. La relatività e il problema dello spazio, Appendice 5 a Relatività: esposizione
divulgativa in Albert Einstein. a c. di BELLONE E., Bollati Boringhieri, Torino 1988. (citato in
BELLONE 2000).

20
TOLLE E.. The Power of Now. 1997. Hodder & Stoughton LTD, London 1999.
trattato sulla visione Gregory (1988)21 sottolinea che ogni sguardo sulle cose
è uno sguardo sul passato: i fotoni che raggiungono la rètina in un dato
istante, dando l’impressione di una scena che avviene tutta nel presente
dell’osservatore, sono in realtà partiti dalle rispettive sorgenti in tempi molto
diversi. Osservando ad esempio un cielo stellato attraverso una finestra si ha
l’illusione percettiva che le stelle, dalle quali i fotoni sono partiti diversi anni
prima, e la finestra, siano contemporanei e presenti. Di fatto, la fisica ha
abbandonato la categorizzazione degli oggetti attraverso i concetti di spazio
e tempo così come li si intendeva ai tempi di Galilei, adottando la
descrizione, comune alla dottrina buddhista dell’impermanenza e
dell’interdipendenza, in termini di eventi. Secondo Minkowsky (1908)22 gli
oggetti della nostra percezione includono sempre una combinazione di
luoghi e di tempi, essi sono la sequenza ordinata dei quattro valori con i quali
esprimiamo abitualmente le tre dimensioni spaziali e la dimensione
temporale. Tale punto localizzato in un sistema di riferimento
quadridimensionale è quello che corrisponde al concetto archetipico di
evento, nelle parole di Einstein23: “la somma totale di tutti gli eventi è proprio
ciò che noi intendiamo quando parliamo del mondo reale esterno”. Da tale
punto di vista il concetto moderno di oggetto appare descritto negli stessi
termini del buddhismo tradizionale: la reificazione di un evento percepito
ripetutamente e categorizzato dai nostri sistemi percettivi e cognitivi in un
modo che, sebbene sia risultato essere utile ai fini evolutivi di adattamento
alla nicchia, diventa inutile ai fini della scientificità e oggettività della
descrizione.

21
GREGORY R.. Occhio e cervello. La psicologia del vedere. Raffaello Cortina, Milano 1988.
(citato in BELLONE 2000).
22
MINKOWSKI H.. Raum und Zeit. In Physikalische Zeitschrift, 20, 1909. (citato in BELLONE
2000).
23
EINSTEIN A.. I fondamenti della teoria della relatività generale, in Albert Einstein. Opere
scelte, a c. di BELLONE E., Bollati Boringhieri, Torino 1988. (citato in BELLONE 2000).
Siamo quindi la meravigliosa somma di minuscoli robot il cui funzionamento
corale è la sorgente di quello “stream of toughts” che William James (1892)24
pone come nucleo dell’esperienza cosciente. Detta esperienza, come fosse
uno specchio, emerge solo in presenza di oggetti (e di attaccamento verso di
essi, forse aggiungerebbe Buddha) che ne riempiono il panorama. Oggetto è
una ipostasi che il nostro sistema cognitivo usa per cristallizzare
l’inafferrabile fluidità di un universo fatto eventi in continuo cambiamento.
Tirando su le reti che abbiamo audacemente gettato nell’oceano della
conoscenza scopriamo che non ci sono pesci, non ci sono reti, e, a guardare
bene, non c’è traccia del pescatore.

25

Abitare un corpo pensante genera la costante (ed efficacissima) illusione che


ci sia un dentro e un fuori, un soggetto e un oggetto. Se volessimo definire
con attenzione (“completezza e coerenza”, per dirla con Gödel) i confini di
questi costrutti ci troveremmo invischiati in un loop epistemologico, lo stano
anello26 che si genera ogni volta che un sistema descrive se stesso
(cambiando livello di complessità). Una prima impossibilità ci viene dalla
natura processuale dell’universo (che, non a caso, è uni-verso): come ogni
cosa fatta di atomi tenuti insieme dalla valenza delle loro cariche
elettromagnetiche, anche noi siamo il continuo divenire di aggregazione e
disgregazione di particelle elementari. D’altronde che ne è dell’ultimo chicco
di uvetta che abbiamo mangiato? Siamo fatti degli atomi che abbiamo
introdotto nel nostro sistema digerente, quello che è noi adesso era

24
JAMES, W.. Psychology. Henry Holt and Company, New York, 1892.
25
Omote, Ura: Interno, Esterno
26
HOFSTADTER , D.. Anelli nell'io. Che cosa c'è al cuore della coscienza?. Mondadori, Milano
2008.
necessariamente altro-da-noi e fuori-di-noi prima. In fondo siamo tutti stati
una singola cellula, un tempo. Proviamo a tralasciare il dato ontogenetico,
cercando una definizione della distinzione soggetto/mondo attraverso una
fotografia della realtà in questo preciso istante nel quale (ammesso che, per
complicarci le cose, non stiamo mangiando un altro chicco di uvetta) ci
sembra di finire là dove finisce il nostro corpo fisico. Sembrerebbe quasi che
la nostra pelle sia il confine tra dentro e fuori. Ma questa forte impressione è
destinata a soccombere ad un’analisi più obiettiva: anche se volessimo
ignorare il fatto che le nostra superficie esterna diventa interna senza
soluzione di continuità attraverso il sistema respiratorio, digerente ecc. (e
tralasciamo anche che, avendo i polmoni una superficie a struttura frattale e
la pelle a struttura lineare, abbiamo più superficie dentro che fuori)
consideriamo che la nostra forma tridimensionale nello spazio dipende da
una moltitudine di caratteristiche fisiche dell’ambiente. Se non esplodiamo o
implodiamo è perché ci siamo evoluti per vivere in questo preciso range di
variazione della pressione atmosferica. Le nostre membra hanno una forma
che rispecchia in modo molto accurato le caratteristiche degli oggetti con i
quali ci relazioniamo per vivere: abbiamo mani e braccia atte a manipolare
oggetti di medie dimensioni e consistenza solida, piedi e gambe atti a
sostenere la nostra massa in questo esatto sistema gravitazionale e sul
terreno che di solito calpestiamo (altrimenti, ad esempio, avremmo pinne o
ciaspole da neve al posto dei piedi). I nostri occhi sono fatti per rispondere
ad una precisa sezione dello spettro elettromagnetico e le aree visive del
nostro cervello sono fatte per interpretare un mondo quasi-bidimensionale
(non tridimensionale come quello degli uccelli o dei pesci che si muovono
naturalmente anche lungo l’asse verticale delle tre coordinate spaziali). Come
un enzima e il suo cofattore, abbiamo la forma del mondo che abitiamo. Ma
questo ecosistema responsabile in modo così stringente della nostra forma
(postulando l’equivalenza tra forma e funzione propria della fisiologia) è a sua
volta costituito dall’equilibrio di tutte, nessuna esclusa, le sue componenti: a
livello macroscopico pensiamo al rapporto tra temperatura, gas atmosferici e
vegetazione. Per quanto ci possa sembrare di essere altro da, ad esempio,
un albero, è proprio ad esso che dobbiamo la nostra forma, i nostri polmoni
ecc.. È facile a questo punto argomentare come la vegetazione del pianeta
sia legata alle radiazioni emesse dal sole, allargandoci poi fino all’equilibrio
gravitazionale del sistema solare, alla sua delicata interazione con le altre
galassie ecc..
Un proverbio serbo dice: “sii umile perché sei fatto di terra, sii nobile perché
sei fatto di stelle”.
Potremmo anche percorrere all’inverso questo “slippery slope”,
considerando dapprima tutti i vegetali del pianeta, poi riducendo il focus a
tutte le foreste nel loro ruolo ecologico, poi ad una foresta, un boschetto e
così via, arrivando ad affermare che ogni singolo albero, ogni singola foglia,
determina la nostra forma, la nostra natura, il nostro essere-nel-mondo.

SHA RI SHI
SHIKI FU I KU
KU FU I SHIKI
SHIKI SOKU ZE KU
KU SOKU ZE SHIKI
JU SO GYO SHIKI
YAKU BU NYO ZE27

O Sariputra,
i fenomeni non sono diversi dalla Vacuità,
la Vacuità non è diversa dai fenomeni;
i fenomeni diventano Vacuità,
la Vacuità diventa i fenomeni;
e per la percezione, il pensiero, la volontà e la coscienza
vale la stessa cosa.

27
“Maka Hannya Haramita Shingyo”: Sutra del cuore della perfetta saggezza
Il poeta John Keats descrisse come i più grandi uomini fossero dotati di
“Capacità Negativa”, la possibilità cioè di tollerare dentro di sé l’incertezza
del vivere nel mistero del mondo, senza dover necessariamente trovare una
spiegazione razionale, senza afferrare nulla. Consapevolezza è la possibilità
di contemplare il panorama che abbiamo descritto senza sforzare i nostri
occhi o corrugare la nostra fronte, ascoltare la musica dell’universo
scoprendo che è lo stesso canto che risuona nel nostro cuore, sapere che in
fondo non siamo poi così diversi da un chicco di uvetta, non siamo separati
da ciò che ci è intorno, non siamo gli stessi di ieri o di domani. Avere spazio
dentro di noi per accogliere tutto questo, e, magari, sorriderne.
Del resto, dall’alba al tramonto, non c’è molto altro da fare.

28

28
Ku: il Vuoto, la Vacuità

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