È un’altra teoria che si fonda sull’evoluzione in senso manageriale della struttura imprenditoriali e
che privilegia le finalità dello sviluppo dimensionale. Secondo tale teoria i manager sono più
interessati all’espansione dell’impresa perché quest’ultima si traduce quasi sempre in un
irrobustimento dell’organizzazione (garanzia di sopravvivenza), nell’assunzione di una maggiore
forza nei confronti della concorrenza (garanzia di redditività aziendale) e nell’incremento delle
retribuzione ai livelli più elevati della direzione.
Tutto ciò contribuirebbe a favorire comportamenti imprenditoriali tendenti ad un ampliamento del
volume di affari rispetto a quello dei profitti globali. Quindi, al posto della crescita del profitto
sarebbe sostituita quella del fatturato quale obiettivo primario della conduzione aziendale. Questa è
la tesi dettata dal Baumol il quale sostiene che il gruppo di governo dell’impresa tende a
massimizzare il fatturato perché questo è l’indicatore del suo successo perché consente di
migliorare gli sviluppi di carriera di tutti i dirigenti. Perché facilita i rapporti con le banche, i
fornitori, il personale dell’impresa, ecc..
Il dibattito in atto intorno alla missione dell'impresa suggerisce, spesso, che la prima re-sponsabilità del
management riguarda la rimunerazione globale del capitale, in forma di dividendo e di incremento del
valore di mercato delle azioni: l'incremento del valore dell'investimento azionario diviene, in questo
caso, l'obiettivo principale dell'impresa (Rappaport,1989).
Sono stati soprattutto gli studi in materia di strategia che hanno dato lo spunto per ampie discussioni
sugli obiettivi aziendali: ciò deriva dal fatto che, da tale punto di vista, occorre tener conto della
variabile ambientale e della compatibilità con gli interessi della popolazione.
Il problema viene visto in funzione di un miglior andamento nel lungo periodo: si decide cioè di
accettare diminuzioni di ricavi nel breve periodo per riqualificare le produzioni in senso ecologico e
massimizzare i risultati nel lungo periodo. D'altra parte, per il management, l'ambiente circostante è un
"dato" e la continuità della vita dell'impresa deve essere comunque assicurata. In questo senso si può
dire che il manager potrebbe non avere alcun interesse per un mutamento, socialmente utile,
dell'ambiente circostante. Se, però, l'ambiente economico-sociale rifiuta alcune produzioni,occorrerà
adeguarsi facendo sacrifici oggi per ottenere il massimo in futuro. L'obiettivo è il prolungamento della
vita dell'impresa in funzione dell'ottenimento del massimo profitto. Come si vede si è, ormai, di fronte a
un sistema di obiettivi aziendali di cui il profitto diventa l'elemento certo fondamentale, ma non unico.
Furono Berle e Means (1970), attraverso uno studio sulla proprietà e il controllo nelle società per azioni,
a fornire il primo spunto per un'analisi critica della coerenza concettuale tra massimizzazione del reddito
e mutamento strutturale-organizzativo dell'impresa moderna. Infatti, la scissione della proprietà dal
controllo evidenzia, in primo luogo, l'esistenza di due classi distinte di soggetti, diversamente motivati,
in possibili situazioni conflittuali; in secondo luogo, favorisce lo sviluppo delle teorie
comportamentistiche tendenti a enfatizzare il ruolo della struttura decisionale all'interno della teoria
d'impresa.
Il notevole contributo fornito dagli studi comportamentistici fu quello di aver cercato dimettere in
rilievo i conflitti di interesse esistenti all'interno dell'impresa moderna, spostando il fulcro dell'analisi
dal mercato all'impresa, e precisamente a livello di processi decisionali interni fautori del movimento
della stessa nell'ambiente economico. Il modello di condotta della grande impresa elaborato da Cyert e
March che, tra l'altro, mette in evidenza come le suddette teorie fondino elementi utilitaristici e razionali
a elementi di tipo irrazionale, affrontò invece in modo diretto il problema della sopravvivenza
dell'impresa attraverso un continuo processo di apprendimento, di adattamento agli insegnamenti della
storia passata, nonché di verifica dei risultati realizzati rispetto ai livelli di aspirazione proposti, mentre
proprio la molteplicità e conflittualità di queste ultime fu, per gli autori, già di per sè sufficiente a
giustificare la collocazione del reddito a obiettivo intermedio, comunque da soddisfare per garantire la
sopravvivenza del sistema.
Anche Galbraith fornì un notevole contributo critico al principio della massimizzazione del reddito,
ritenendolo inadeguato a rappresentare coerentemente l'insieme delle aspettative dei partecipanti
all'impresa e della società nel suo complesso. Esiste, secondo l'autore, un'uniformità di comportamento
tra l'organizzazione egli individui che operano in essa realizzata attraverso un processo di
identificazione e adattamento, da cui origina una connessione strettissima tra gli obiettivi della società,
dell'organizzazione e dell'individuo.
L'obiettivo prevalente nell'individuo, nel1'impresa e nella società è la sopravvivenza: «Per ogni
organizzazione, come per ogni organismo, il fine o l'obiettivo che si può presumere naturalmente
prevalente è la sopravvivenza stessa dell'organizzazione [...] La prima condizione per la sopravvivenza
è che la tecnostruttura conservi la sua autonomia da cui dipende il suo potere di decisione[...] Ciò
significa che essa deve assicurare all'impresa un minimo di utili» (Galbraith, 1968, p. 25).
W. J. Baumol, mediante il modello dell'oligopolio, ha sostenuto che l'obiettivo centrale per l'impresa
nel capitalismo moderno è quello della massimizzazione delle vendite. I dirigenti della grande impresa,
dove vige il principio di separazione tra proprietà e controllo, hanno sufficiente discrezionalità per
perseguire obiettivi tesi a massimizzare la propria utilità che differisce dalla massimizzazione del
profitto, tipico obiettivo della proprietà. Nella fattispecie, Baumol indica nella massimizzazione delle
vendite l'obiettivo dei manager, e ciò per alcune ragioni, tra cui:
1) il fatto che i guadagni dei dirigenti sono spesso correlati più direttamente alle vendite che al livello
dei profitti;
2) il comportamento delle banche è tale per cui esse si presentano più disponibili a concedere prestiti di
fronte a crescenti livelli di vendite (Baumol, 1974).
In sostanza tale modello parte dal presupposto che i prezzi di vendita sono spesso calcolati in base ai
costi, per cui l'impresa persegue il fine di collocare sul mercato le sole quantità vendibili al prezzo
stabilito e non quelle che danno luogo al massimo reddito, sottovalutando la considerazione che il
procedimento di formazione del prezzo di vendita in funzione del costo è relegato alla ricerca del
metodo più conveniente di formazione del prezzo e non di cambiamenti di fini dell'impresa.
Schumpeter (1972), nel tentativo di dimostrare la temporaneità e residualità del profitto, introdusse un
concetto, quello dell'evoluzione dinamica provocata dall'innovazione, fondamentale per il
funzionamento di tutto il sistema economico in quanto fonte di surplus legato alla temporanea situazione
di monopolio. Le teorie del capitalismo manageriale sono oggi riprese dai modelli evoluzionisti che
prendono in considerazione la rilevanza dei fattori di sviluppo e di cambiamento che vive l'impresa in
rapporto all'ambiente. Queste ultime superano il limite dell'ipotesi di razionalità assoluta, tipica delle
teorie manageriali, preferendo modelli più realistici di razionalità limitata (Frigerio-Zanetti, 1991).
In questo senso diviene impossibile stabilire il fine dell'impresa, in quanto gli obiettivi saranno diversi
quanti sono i diversi soggetti che partecipano, a diverso titolo, all'impresa.
La teoria della creazione di valore (Guatri, 1991) si dimostra in grado di offrire una valida
impostazione razionale alla soluzione di problemi sostanziali che l'impresa si trova a dover affrontare.
In sostanza, il valore è sempre stato riconosciuto come categoria fondamentale dell'attività
economica (Menger, 1976) e nonostante le problematiche a esso legate siano state oggetto solo di
recenti sviluppi, l'economia aziendale ha sempre ritenuto la massimizzazione del valore un obiettivo
centrale nella strategia d'impresa.
Con l'introduzione del concetto di creazione e diffusione del valore nasce un nuovo modo di concepire il
quadro teleologico dell'impresa. Ogni strategia è in grado di apportare valore al capitale dell'impresa
solo se essa comporta il sostegno e lo sviluppo del reddito di lungo periodo e se provoca, allo stesso
tempo, un contenimento del rischio migliorando o, almeno, conservando la qualità e la variabilità del
reddito. In questo modo il management è in grado di garantire all'impresa redditività e successo
duraturo, evitando il depauperamento di tutte quelle risorse sempre più indispensabili per conservare il
proprio vantaggio competitivo. Non v'è dubbio che la ricerca di indicatori del grado di successo debba
basarsi sul confronto fra obiettivi perseguiti e mezzi impiegati per tale perseguimento. Il reddito
rappresenta indubbiamente un indicatore coerente del grado di successo ottenuto dal management nel
perseguire gli interessi dell'impresa. La cosa da accertare è se tale indicatore sia in grado di
rappresentare anche il grado di successo riferito agli interessi dei molti soggetti che operano
nell'impresa.
IL MODELLO DI BAUMOL
Una caratteristica del capitalismo moderno è la progressiva perdita di peso di imprese gestite
direttamente dal proprietario e la posizione dominante conquistata dalle grandi ‘corporations’. In
queste ultime la gestione delle attività è divenuta sempre più complicata e viene di fatto affidata a
manager di professione. D’altro canto la volontà degli investitori (istituzionali e individuali) di
diversificare il rischio, acquistando partecipazioni in molte imprese, ha ridotto l’interesse a
controllare in dettaglio la gestione di una specifica impresa. L’elevata dispersione di una società
azionaria ha così attribuito ai manager un enorme potere nel determinare le scelte strategiche e
operative di una determinata impresa, riducendo l’importanza del controllo diretto della proprietà.
Nella grande impresa proprietà e controllo, che nella teoria neoclassica erano concentrate in una
sola persona, divengono attributi di differenti gruppi, i proprietari e i manager. Il lavoro di Berle-
Means (1932) attribuiva ai manager un ruolo di tecnocrazia neutrale la cui azione era volta a
contemperare le varie richieste dei gruppi interessati alla gestione. I manager gestiscono, secondo
questa interpretazione, l’impresa nell’interesse dei vari gruppi partecipanti alla vita dell’impresa
stessa. Questa visione è stata poi abbandonata dagli economisti (Baumol,1958; Marris, 1966)1 che
hanno tentato di dare una formalizzazione alle teorie manageriali. Questi autori hanno sostituito
l’ipotesi neoclassica di massimizzazione dell’utilità dell’imprenditore con quella di
massimizzazione dell’utilità del manager. Il problema rilevante è divento quello di comprendere la
natura della funzione manageriale di utilità.
Molti studi hanno identificato nel reddito, nel prestigio sociale, nel potere e nella sicurezza gli
obiettivi dei manager e hanno assunto che la realizzazione di tali obiettivi e quindi l’utilità del
manager dipende dalla dimensione dell’impresa (nel caso statico) e dal tasso di crescita (nel caso
dinamico) e che i manager massimizzino la loro utilità, vincolata al raggiungimento di un livello
minimo di performance imposto dagli azionisti. Baumol tratta il modello statico, mentre Marris
quello dinamico.
Nel modello di Baumol si assume che l’obiettivo dei manager è la massimizzazione dei ricavi sotto
il vincolo del raggiungimento di un profitto minimo.
Chiamiamo RT i ricavi totali, Q la quantità venduta, CT la curva dei costi totali. La curva dei
profitti si ottiene come differenza fra le ordinate della curva dei ricavi e di quella dei costi. In un
tratto iniziale, al crescere della quantità venduta crescono i profitti e i ricavi; i profitti raggiungono
il massimo allorchè costo marginale e ricavo marginale si eguagliano. Dopo questo punto,
corrispondente alla quantità Q*, al crescere della quantità venduta i profitti diminuiscono e i ricavi
continuano a crescere fino a Q**. La linea delle opportunità fra profitti e vendite avrà l’andamento
illustrato nella figura. Se l’obiettivo dell’impresa è la massimizzazione dei ricavi essa produrrà Q**;
se l’obiettivo è la massimizzazione del profitto essa produrrà Q*.
Consideriamo ora il vincolo di profittabilità minima.
Nella figura, se il livello di profitto minimo richiesto è pari a OA l’impresa produrrà una quantità
Q¹.
Poiché Q¹<Q**, RT(Q¹)<max RT e quindi le richieste degli azionisti costituiscono un vincolo
effettivo. Se il profitto minimo è uguale a OB i manager produrranno la quantità Q** alla quale essi
1
W.J. Baumol, 1958, On the Theory of Oligopoly, in “Economica”, 25, pp 187-98;
R.Marris, 1966, The Economic Theory of Managerial Capitalism, Londra, pp.249-65(trad.it. La Teoria Economica del
Capitalismo Manageriale, Einaudi, 1972)
massimizzano i ricavi e offrono agli azionisti un profitto superiore a quello minimo richiesto. In
questo caso, dunque, il vincolo non è operante.
Baumol ha il merito di essere stato il primo a dare una formulazione analitica alla teoria
manageriale
Baumol mette in evidenza il conflitto di obiettivi tra la proprietà (azionariato) che vuole massimizzare il
valore netto del capitale investito (massimizzazione dei profitti) e il managment che valorizza la propria
carriera massimizzando le dimensioni dell’impresa (fatturato lordo) a scapito dei profitti. Minore il
controllo dell’azionariato in via diretta o indiretta (tramite la borsa valori) maggiore l’autonomia dei
manager nel raggiungere i propri obiettivi (inefficienti).
Attualmente, come è noto, la linea di pensiero prevalente (Si ricordano Baumol (1952), Baumol (1962),
Berle A. (1954), Rathenau (1960), Veblen (1954),Williamson (1991).) è quella secondo la quale
l’obiettivo fondamentale che il management di un’impresa deve perseguire è la creazione di valore
per gli azionisti. Non vi è quindi più discussione, almeno tra la gran parte degli economisti
occidentali, su quale sia l’obiettivo fondamentale dell’organizzazione d’impresa: è la creazione di
ricchezza, che è di interesse generale e non soltanto di pochi capitalisti. Questa chiave interpretativa
trova ragione da un lato nella sempre più ampia diffusione dell’azionariato che vede la
partecipazione diretta e indiretta (attraverso fondi di investimento, fondi pensione, ecc.) del grande
pubblico dei risparmiatori, dall’altro nel convincimento che creare valore è la condizione essenziale
per procedere successivamente alla fase di distribuzione di esso mediante scelte di politica
economica che sono sostanzialmente al di fuori delle imprese.
Nonostante il prevalere di questa linea interpretativa, il dibattito sulla definizione della funzione-
obiettivo delle imprese non si è esaurito: essa, infatti, tende ad articolarsi, riconoscendo i più che
all’obiettivo di creazione di ricchezza si affiancano obiettivi di natura sociale, come ad esempio il
mantenimento di determinati livelli occupazionali, la capacità di contribuire allo sviluppo del
territorio di insediamento, la capacità di essere scuola di costume se non di cultura, ecc.
è un economista statunitense, professore della New York University e della Princeton University,
che si occupa del mercato del lavoro e di altri fattori economici. Ha inoltre apportato considerevoli
contributi alla storia del pensiero economico. È tra i 500 migliori economisti del mondo secondo la
RePEc.
Tra i suoi contributi più noti citiamo la teoria dei mercati contendibili, il modello Baumol-Tobin
sulla domanda di moneta con movente transattivo, la descrizione di quella che Baumol ha chiamato
la malattia dei costi nel settore dei beni sociali, e i lavori sulle imposte pigouviane.
Nel 2006 la riunione annuale della American Economic Association, onorando i suoi molti anni di
lavoro, ha tenuto una sessione speciale in suo nome, nella quale sono stati presentati 12 papers sulla
imprenditorialità.
La rivista inglese The Economist ha pubblicato un articolo su William Baumol e il suo lavoro di
una vita teso a sviluppare un posto nella teoria economica per l'imprenditore (11 marzo 2006, pag.
68), molto del quale deve la sua genesi a Joseph Schumpeter. Entrambi hanno infatti notato che la
tradizionale teoria microecomica ha un posto sia per i 'prezzi' sia per le 'imprese' ma non per quello
che (apparentemente) è il più importante motore dell'innovazione, l'imprenditore. Baumol ha il
merito di aver posto rimedio a questa lacuna: "Grazie all'accurata opera di Baumol, ora gli
economisti hanno un po' più di spazio per gli imprenditori nelle loro teorie."
Oligopolio
E’ una forma di mercato molto diffusa nella realtà. Poche imprese hanno il potere di fissare il
prezzo (sono cioè price maker).
Ci sono più modelli per spiegarne il funzionamento.
Il più noto è il modello di Sweezy (o della curva di domanda ad angolo).
Questo modello descrive fenomeni di interazione strategica (non presi in considerazione nella teoria
neoclassica, dove il singolo agente decide autonomamente). Partiamo da p, ossia dal prezzo
formatosi nel periodo precedente. Conviene alla singola impresa aumentarlo? Ci si può aspettare
che le altre non la seguano. La curva della domanda D, al di sopra del prezzo iniziale, tende
pertanto ad essere elastica (figura 13): l’impresa perde grosse quote di mercato.
Se decide di ridurre il prezzo, si attende che le altre non la seguano: la curva al di sotto del prezzo
iniziale tende ad essere rigida. La curva, pertanto, è ad angolo e riflette ciò che la singola impresa si
attende rispetto alle mosse delle proprie concorrenti (curva di domanda congetturale). Inoltre
l’angolo nella curva della domanda determina una discontinuità nella curva del ricavo marginale. La
curva del costo marginale (assumendola, per semplicità, analoga a quella del modello neoclassico)
passa nell’intervallo di detta discontinuità e il profitto risulta quindi massimo nel punto E (ciò
spiega la tendenza a non cambiare il prezzo), anche se nulla implica che un prezzo iniziale diverso
non avrebbe potuto determinare un profitto maggiore.
Conclusione:
a) i prezzi tendono ad essere rigidi (in accordo con l’evidenza empirica);
b) è facile la formazione di cartelli, per quanto concerne la formazione dei prezzi. Se la domanda
è complessivamente rigida, sia prima sia dopo il punto E (figura 13), è più conveniente tenere un
cartello. Nel caso invece che la domanda sia elastica, soprattutto dopo il punto E, la convenienza a
defezionare cresce ed è più difficile che il cartello venga mantenuto.
Quando la domanda è rigida, la concorrenza si sposta sulla differenziazione tipologica e qualitativa
dei prodotti e sulle campagne pubblicitarie tese a evidenziare o enfatizzare tali differenze.
Le imprese operanti in regime di oligopolio tendono a erigere barriere all’entrata nei confronti di
nuove imprese. Tali barriere possono consistere in massicce campagne pubblicitarie aventi
l’obiettivo di mantenere la fedeltà dei consumatori o in temporanee ma drastiche riduzioni dei
prezzi, tali da scoraggiare le nuove concorrenti. Una barriera efficace e tipica delle grandi imprese,
in grado di usufruire di economie di scala in virtù dei massicci investimenti necessari per operare in
tali mercati, è fornita dalla possibilità di espandere la produzione fino a saturare il mercato. Tutte
queste strategie hanno in comune il fatto di comportare per le imprese nuove entrate dei costi di
ingresso molto più elevati di quelli che furono sostenuti dalle aziende già presenti.
Figura 13
Critiche al modello di Sweezy
Il modello non spiega come si è formato il prezzo che inoltre non necessariamente è il prezzo di
massimo profitto.
A tal proposito ci sono stati sviluppi successivi in ambito non neoclassico, in base ai quali in
oligopolio i prezzi si formano sulla base del mark-up, cioè di un margine di profitto che le imprese
aggiungono ai costi:
Pe = (w / ) (1 + q ) 22)
Inoltre (tesi di Baumol), in oligopolio accade che la proprietà sia distinta dalla gestione
(management). C’è quindi un conflitto fra proprietà e gestione: la prima vuole massimizzare i
profitti, la seconda i ricavi (dal momento che la remunerazione dei manager è, di norma,
commisurata all’espansione dell’impresa e, dunque, ai ricavi conseguiti), sotto il vincolo di un
profitto minimo che serve ad accontentare gli azionisti.
Con ciò si è al di fuori della teoria neoclassica dell’impresa, per la quale quest’ultima è una scatola
nera (black box). Gli economisti neoclassici, infatti, non si interrogano su ciò che accade
all’interno dell’impresa.
Tesi di Baumol: in oligopolio accade che la proprietà sia distinta dalla gestione (management): c’è quindi un
conflitto fra proprietà e gestione: la prima vuole massimizzare i profitti, la seconda i ricavi.
Tali barriere possono consistere in massicce campagne pubblicitarie aventi l’obiettivo di mantenere la fedeltà
dei consumatori o in temporanee drastiche riduzioni di prezzi, tali da scoraggiare la nuove concorrenti.
Le barriere sono di 2 tipi:
Di norma, le imprese hanno una quota del Quando è forte la minaccia di impresa
capitale fisso di proprietà dell’impresa che non all’ingresso, l’oligopolista azzera
viene mai utilizzato e che serve in caso di temporaneamente i costi fissi (e quindi i
pericolo = quando, per esempio, aumenta la profitti) finchè non si attenua la concorrenza,
produzione, per coprire la domanda del per poi azzerarlo nuovamente.
consumatore ed evitare l’ingresso di altre.
facile la formazione di cartelli ( condizione in cui non c’è concorrenza tra imprese) o trust.
I “cartelli” sono coalizioni di imprese che stabiliscono di non competere sui prezzi, accordandosi su un prezzo
unico per tutte (es. petrolio). Se la domanda è rigida complessivamente (sia prima che dopo il punto E) è
conveniente tenere un cartello; nel caso, invece, in cui la domanda fosse elastica, soprattutto dopo E, la
convenienza a ritirarsi cresce ed è più difficile che il cartello venga mantenuto.