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+ Prologo:

Sorvolando i continenti

Al freddo
Un pollice inclinato come un soldato ferito. Le gocce d’acqua gli
cadono sopra come una cascata di pugnali. Il pollice resiste intirizzito
e si rianima davanti ai fari della macchina di passaggio. Quando
questi scompaiono inghiottiti dal temporale il povero soldatino si
rifugia nella tasca dei miei pantaloni.

“Siamo qui da quaranta minuti e non si è ancora fermato


nessuno!” Il cappuccio del k-way limita la prospettiva. Il mio
corpo è diventato un ghiacciolo ricoperto da vestiti fradici.
“Dovresti toglierti il cappuccio. La gente non si ferma se non ci
vede in faccia” sibila la figura accanto a me.
Evito di girarmi. “Perché non ti togli tu il cappuccio?”
“Perché non sono una fanciulla con gli occhi azzurri e lo sguardo
mesto come te. Nessuno si fermerebbe”
Tento di sorridere al pick up che si avvicina, ma il guidatore
invece di rallentare, accelera.
“Riusciremo ad essere a Auckland stasera?” chiedo al mio
compagno di viaggio.
“Non vedo alternative”
La dura vita dell’autostoppista.

Niente a che vedere con la vita granitica di Milano: laurea in


Sociologia e guado del fiume cercalavoro, popolato da predatori
di ogni genere. La proposta media? Stage di trenta mesi a
retribuzione nulla con quotidiana pedata nel sedere. Continuo a
cercare e nel frattempo lavoro quasi ogni sera come maschera al
Teatro alla Scala. Ovvero appendo e consegno pellicce e cappotti,
con un costante sorriso di carta velina dipinto sul viso. Questa sera
la Lucia di Lammermoor è in scena e spero che la protagonista
impazzisca nel giro di pochi minuti e si uccida tre ore prima della
fine, altrimenti sono io a dare fuori di matto. Combatto la noia
pensando a Bart.

Lettera ad un sogno
Caro Bart non posso dimenticarmi di te. È passato quasi un anno,
ma quei pochi momenti che abbiamo passato insieme sono stati
come legna buttata nel fuoco. Un fuoco fatto di passione,
ispirazione, avventura e desiderio. Credo che il meglio della vita
avvenga ad un incrocio. Quando casualmente ti trovi a fianco
qualcuno con una vita e una storia, come è successo a noi a Riga.
Ti sento vicino, sei mosso dalla mia stessa inquietudine, qualcosa
che è forza e dannazione insieme. Il resto è scomparso. Il mio
paese, la tua lingua, la mia cultura, le tue tradizioni. Gli incroci
non durano molto, ma scavano dentro come pennarelli indelebili.
Tu sei tornato a casa, in Nuova Zelanda e io ho ripreso a vagare
sentendomi più forte e coraggiosa.
Prima o poi verrò a trovarti in quella tua terra lontana. Lontana
come un sogno che evapora alle prime ore del mattino. Di ogni
mattino.

Per me Bart è divenuto una fissazione e un mito.


Il cellulare interrompe la poesia e la voce di Vitaly la frantuma.
“Alicetta, allora vieni in Russia con me? Dai che bisogna fare il
visto”
“Si, si, me lo hai già detto. Ti faccio sapere domani”
Vitaly alias zarevic o principe Myskin è il mio ragazzo da qualche
mese. È russo ma vive da dieci anni in Italia e parla con una forte
cadenza romana.
Tra una settimana va a trovare i parenti a Mosca e mi ha invitato,
ma l’idea mi spaventa. Ho scoperto da poco che siamo troppo
diversi.
Per una notte in tenda si è presentato con materassino
matrimoniale gonfiabile, quattro felpe, due paia di ciabatte e un kit
da bagno. Non ha fatto altro che lamentarsi: tenda troppo
scomoda, troppi acciacchi, oddio muoio, ecc.
Tutto il contrario di Bart.

Lucia finalmente è morta, il pubblico e le maschere si dileguano


nel caldo milanese. Torno a casa con la busta paga stretta tra le
mani. Dopo mesi di risparmio ora posso permettermi un volo fino
in Nuova Zelanda. Obiettivamente non ho nulla che mi vincoli
qui: né un lavoro né una relazione seria e in cambio ho delle idee
da chiarire: Bart è diventato il miraggio dell’oasi nel deserto. Devo
rivederlo e calarlo in una sagoma umana.
Trovo mio padre in salotto impegnato in un complicato amplesso
con il condizionatore.
“Che ne dici se me ne andassi per un mese dall’altra parte del
globo?”
Con il naso tra le fessure del bocchettone dell’aria mi dà la sua
benedizione: “Approfittane ora che sono in agonia da afa.”
Così compro il biglietto: partenza fra 10 giorni e ritorno in teoria
tra 40. Ho un biglietto aperto per cui posso cambiare la data di
ritorno gratuitamente per tre volte.
“Mi consola sapere che per il visto non puoi stare là per più di tre
mesi.” sospira mia madre. La genitrice però non sa che ho ottenuto
la Holiday Visa: un visto di vacanza-lavoro riservato ai giovani
under 30. Con questo permesso posso rimanere al massimo un
anno ed avere diritto a lavorare.
Dopo circa 20 ore di viaggio ed uno scalo a Singapore atterrero a
Auckland. Da qui prenderò un autobus fino a Wellington dove
vive Bart, per poi fare rotta verso sud, nella parte più selvaggia di
questo paese. La Nuova Zelanda è composta da due isole: quella
settentrionale, più sviluppata con le città principali, Auckland e
Wellington, e l’80% della popolazione, e quella meridionale, più
selvaggia, meno popolata, ma con paesaggi incredibili. Nell’Isola
del Nord vi è una forta attività sismica e ci sono vulcani ancora
attivi quali il Ruahpeu (2797 m.) e il Tongariro (1968 m.) nonché
geysers che formano sorgenti termali con fanghi e acqua calda.
Nell'Isola del Sud invece vi sono montagne molto alte: le alpi
Neozelandesi, ad esempio, superano i 3000 m. di altezza e il
Monte Cook raggiunge i 3764 m.

“Dove hai detto che vai?” mi chiede Vitaly flebile.


“In Nuova Zelanda”
“E dove si trova la Nuova Zelanda?”
“Prendi un atlante. Comunque starò via solo un mese. Ne ho
bisogno”.
“Magari ti tranquillizzi” sospira il poveretto.
Decido di viaggiare leggera anche se ora là è inverno. Vuol dire
che mi vestirò a strati.
Grazie all’hospitality club, una comunità virtuale di viaggiatori,
una coppia di russi si offre di ospitarmi per una notte a Auckland.
“Ci troviamo al porto. Facci uno squillo quando atterri.” Non mi
resta che caricarmi lo zaino in spalla sotto lo sguardo perplesso dei
miei perplessi genitori. Il pensiero di mio padre va solidale allo
zarevic. “Poveretto” mormora.
“Mi raccomando, non diventare un’aborigena!” la
raccomandazione di Vitaly.
“Non sono aborigeni, sono maori”
L’aereo decolla e sotto di me Milano scompare rapidamente.
Mi metto comoda perché ho un paio di continenti da sorvolare.

Capitolo 1
Bart e la regina

1.1 Slalom per la vita


Durante lo scalo a Singapore scrivo a Bart da un internet point.
Non sa ancora che sto arrivando.

Caro Bart, domani sarò a Auckland. Stavo pensando di farti una


visitina a Wellington nei prossimi giorni. Sarai lì?
Baci.
Alice.

Non gli scrivo altro. Penso di essere rimbalzata da piccola fuori


dal balcone. Ho prosciugato i risparmi e attraversato il globo per
fare una “visitina” ad un uomo che non vedo da un anno e di cui
non so neanche se sia sposato, fidanzato, padre. Nelle e-mail che
ci siamo scritti abbiamo sempre sorvolato su certi argomenti. Di
lui so solo che studia lingua maori all’università e che ha da poco
acquistato un ristorante.

Ciao Alice, come stai? Spero tutto bene.


All’università mi diverto. Per imparare maori ci fanno cantare le
canzoni e scrivere il nome delle cose dappertutto e io da bravo
studente ho tappezzato casa con grande gioia dei miei coinquilini.
Il ristorante va bene anche se mi tiene molto impegnato. A
proposito, ora devo scappare.
Un bacio
Bart

La sua lettera tipica in risposta alle mie sulla vita, la morte,


l’amore e l’attualità.
Stavolta sono io a essere concisa. L’idea chiave è: arrivo.
Durante la mia seconda notte in aereo, seguo sul monitor la rotta.
Scivoliamo sopra città, deserti e montagne e perforiamo fusi orari,
cieli e rotte finché non comincia l’atterraggio.
Alla dogana mi vengono confiscate le salsicce di cinghiale
toscano, regalo per Bart.
“Questo strano animale può distruggere la nostra delicata fauna”
mi rimprovera un’ispettrice. Sapevo che questa fosse delicatissima
e che basta un niente per alterarla e per distruggerla, ma non
pensavo che due miseri bastoncini di carne creassero tale dramma.
Invece i neozelandesi hanno ragione perché quasi tutte le specie
indigene si sono estinte a causa dell’introduzione di animali quali
capre, gatti e opossum. Tuttavia il Kiwi, un uccello preistorico
notturno senza ali e con un becco lungo come quello di un airone,
è riuscito stoicamente a sopravvivere diventando il simbolo di
questo paese. La popolazione locale è conosciuta sia come
neozelandese che come kiwi, in omaggio al super volatile. Per
questo motivo ho soprannominato Bart, oltre uomo-della-mia-vita,
“Il Kiwi.”
Per la paura che mi arrestino per contrabbando, salto sul primo
autobus diretto alla city.
“Mi scusi, dove devo scendere per il porto?” chiedo al guidatore.
E’ il primo maori che incontro: capelli lunghi nerissimi e tatuaggi
sulle braccia, ben piazzato.
“Ti faccio un segno io quando devi scendere” mi dice.
“Da dove vieni?”
“Italia.”
“Ah, il paese con capitale Parigi.”
“No, Roma.”
“Roma?” il ragazzo si gira perplesso verso di me minacciando di
sbandare.
“Roma? Mai sentita!”
Auckland, la città delle regate, di alti grattacieli, bungee jumping.
É stata costruita in fretta senza cattedrali né chiese, per fare spazio
allo sviluppo economico. In lontananza scorgo il porto e le sue
barche.
“No, non qui!” mi dice deciso il guidatore e obbedisco.
Comincio tuttavia a preoccuparmi quando i passeggeri saliti con
me scendono, lasciando il posto a nuovi con altre valigie e quando
vedo l’autobus riprendere l’autostrada.
“Ma dove è il porto?”
“Eh? Era dieci fermate indietro. Fra due siamo all’aeroporto.
Perché non sei scesa?”
“Come??? Ti ho chiesto e mi hai detto di aspettare”
“Ma non eri una di quelle due ragazze che dovevano scendere in
Queen Street?”
“Evidentemente no. Sono un’altra ragazza, quella del porto!”
“Cavolo ho fatto confusione.” Scoppia a ridere battendo le mani
sul volante.
“Siete tutte uguali voi ragazze bianche! È difficile riconoscervi”.
“Grazie. Come ci torno in città ora? Devo pagare un altro
biglietto?”.
“Mmmm, no spiego io l’equivoco. Non ci siamo capiti! Piuttosto
siete voi italiani che avete quell’affare lungo e alto che si trova su
tutte le cartoline? La Torre Effor, Efful?”.
“Tour Eiffel? No, quella è in Francia a Parigi. Noi abbiamo il
Colosseo.”
“Colosseo? Mai sentito!”
Al secondo giro in autobus riesco a scendere al porto. Anche al
nuovo autista spiego che sono italiana. “Se vuoi mangiare
qualcosa c’è un buon ristorante italiano vicino. Ha un nome così
musicale: Pompino. Che cosa vuol dire?”.
“E’ un frutto mediterraneo.” Non so come mi venga fuori.
Non faccio a tempo a vagabondare per l’attracco delle barche che
una ragazza mi si avvicina. “Sei Alice? Sono Ira, la tua ospite.”
“Ti ho visto attraverso la vetrina con questo zaino da sbarco e ho
pensato fossi tu. Andiamo a prendere il traghetto?”.
Ira abita con il suo compagno Oleg e sua figlia Katiuscia
all’estremità nord di Auckland.
“Eravamo stufi della vita incasinata di Mosca ed abbiamo deciso
di emigrare qui circa due anni fa.” mi spiega Ira.
Mi arriva un messaggio di Bart: “Sei arrivata a Auckland? Quando
parti per Wellington?” Mi rendo conto che non sono pronta a
vederlo; dopo tutti questi mesi, il rapporto virtuale e il mio sogno
nel deserto, non sono pronta ad affrontare la realtà. La voce di
Oleg mi riporta sulla terra:“Faccio la guida turistica per ricchi
russi. Da domani ne devo portare in giro quattro per tre
settimane.”
“Sapresti dirmi cosa ci sia di interessante da vedere tra Auckland
e Wellington?”
“Beh, per i miei connazionali ho deciso in ordine: Rotorua,
Napier, Wellington e poi l’isola Sud”
Allora è deciso. Tra me e Bart interporrò una settimana e due
mete….
“Rotorua e Napier.” mi ripete Oleg. “A Rotorua mi raccomando
non perderti i bagni sulfurei e Wai-o-tapu, la terra delle
meraviglie”

Il giorno dopo, alla partenza per Rotorua, abbraccio i miei ospiti


con affetto. Accogliendomi, mi hanno dato la carica. Ora posso
proseguire da sola.
“Non sapete quanto vi sono grata Ira. Siete il primo ricordo di
questo viaggio”
La prima tappa è Rotorua, la città con la più alta attività
geotermica, famosa per i suoi geyser, lo zolfo onnipresente e i
crateri. Senza controllare le distanze,decido di saltare su un
pulmino diretto a un ostello, il quale taglia per un parco brullo
disseminato da potenti geyser. Vapori provenienti dagli abissi
aleggiano tutto intorno nell’aria e il terreno vibra sotto di loro.
L’iconografia perfetta dell’inferno. Questo paese ha inoltre una
conformazione ad altissimo rischio sismico e l’attività geotermica
dà il meglio di sé qui a Rotorua, a causa delle numerose faglie.
Spesso nella storia si sono verificati terremoti di grande
magnitudo, di cui il più drammatico è stato quello del 3 febbraio
1931 che distrusse le città di Napier e Hastings e causò la morte
di 256 persone.
Scopro che le Polynesian Spa, i bagni termali sulfurei sono al
centro della città e l’unica possibilità di arrivarci è tagliare per il
parco dei geyser. Nel cielo le stelle brillano fievoli e io sono persa
in questa notte buia.
Kant aveva detto: “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale
dentro di me.”
In realtà più che morale in questo caso si deve parlare di mortale.
Per circa quaranta minuti cammino tra vapori sulfurei, ribollio
delle paludi di fango, odore di uova marce.
L’attraversata dura finché in lontananza avvisto le luci di alcune
macchine. Tutto questo per ritrovarmi in una vasca di acqua
sporca e bollente, accerchiata da una dozzina di giapponesi
arrapati. Dopo aver pagato il biglietto mi accorgo che ho
dimenticato costume e asciugamano. Inoltre per uno strano caso
del destino invece dei soliti mutandoni, questa volta indosso un
completo di pizzo che mia madre deve avermi ficcato
segretamente nello zaino, sperando che trovi marito e non torni più
in Italia.
Tra i geyser mortali e la mia esibizione da nudista non so cosa sia
peggio. Bagnata e maleodorante riattraverso il parco degli orrori.
La mattina dopo salto su un pulmino diretto a Wai-o-tapu, la terra
delle meraviglie, guidato da un ragazzo kiwi che continua a dire:
goodhey e Sweet as/ass, choice.
Hey è una specie di interiezione, ma non capisco perché un sedere
debba essere dolce e dall’altra cosa debba essere dolce.
“Dove vai dopo Rotorua?” mi chiede.
“A Napier”
“Sweet as baby!C’è una spiaggia spettacolare lì ed anche
l’acquario più grande di tutto il paese”
Terrazze colorate, vasche di acqua ribollente, profondi crateri,
geyser ad altra pressione formano Wai-o-tapu, Acque Sacre in
lingua maori. Qui Madre Natura è piuttosto incazzosa.
In vero stile kiwi, a parte ponti di legno traballanti e cartelli:
“Attenzione. Rischio geotermico e morte assicurata”, non ci sono
altre precauzioni per salvare i turisti. I neozelandesi risultano
parecchio spartani, abituatati a stare in contatto con la natura e i
suoi malumori e non si preoccupano dei goffi turisti, abitanti di
grigie metropoli.
Tornando a Rotorua scorgo dall’autobus una specie di grande
tempio.
“Quello è il Marae di Rotorua, la casa di ospitalità maori”
comincia a spiegarmi il guidatore. Il Marae per le popolazione
polinesiane e quindi anche per quella maori è un luogo sacro in cui
avvengono rituali religiosi e sociali e dove sono esaltati la cultura
e i costumi e la lingua resa viva da tutta la comunità. La parola
“Marae” significa: “pulito, senza radici nè alberi” e consiste in
un’area rettagolare recitata da pietre e pali con figure totemiche
incise.
Vado in esplorazione. Davanti al Marae una lunga piroga è esposta
in una bacheca di vetro. È di legno chiaro inciso da lunghe linee e
cerchi, simili a quelli che vedo spesso tatuati sulle braccia e i visi
degli indigeni.
“Ti piace la nostra Waka, pakeha?” un signore anziano mi mette
una mano sulla spalla.
“Pakeha?”
“Pakeha sono tutti quelli che non sono maori. Neozelandesi,
europei o asiatici che siano”
“Cosa rappresentano allora quelle linee e quei segni incisi?” gli
chiedo indicando le due alte strutture totemiche all’ingresso del
Marae?
“Sono storie e leggende del nostro popolo e ci ricordano le nostre
origini” fa una pausa. “Noi siamo arrivati qui molto prima degli
inglesi ed amiamo profondamente questa terra. Da quando sono
arrivati i pakeha tutto è stato cambiato e stravolto.”
“E i tatuaggi?” fisso il suo viso coperto di sagome viola.
“I tatuaggi sono delle biografie. Colui che ne ha tanti vuol dire che
vive per il bene della Comunità. E’ un uomo che merita rispetto.”
Già mi vedo tatuata da capo ai piedi mentre dico a Vitaly: “Cocco,
è la mia biografia questa.”
Mi guarda in silenzio per un po’. “E anche se i bianchi inglesi ci
hanno tolto la terra non faranno lo stesso con la nostra identità.”
Il signore mi racconta dell’arrivo dei maori in Nuova Zelanda tra il 300
ed il 1300 D.C. e di come l’esploratore olandese Abel Tasman diventò
nel 1642 il primo europeo a imbattersi nelle due isole. Tasman fece
però due gravi errori. In primis quello di pensare che la Nuova Zelanda
fosse la parte più meridionale del Sud America. In secundis sottovalutò
la popolazione indigena pensando che fosse innocua e impaurita. In
realtà era soprattutto affamata e l’olandese finì nel pentolone insieme
alla sua ciurma e delle erbette profumate.
Il mio interlocutore mi racconta la vicenda con orgoglio soffermandosi
su dettagli cannibali. Gli chiedo gentilmente di proseguire nel racconto.
Per più di un secolo nessun europeo rompiscatole si avventurò così
lontano, fino all’approdo dell’esploratore inglese James Cook durante la
sua spedizione del 1768-71. Con lui arrivò la colonnizazione britannica
e la fine della sovranità maori. “Nel 1840 fu firmato il Trattato di
Waitangi tra il governo inglese e i capi tribù maori, che fa diventare
quella vecchia ciabatta della Regina d’Inghilterra Capo dello Stato.”
uno scatto di rabbia nella voce del vecchio.”
“Sì, ma è una carica simbolica e non politica.Elisabetta II regna ma non
ha nessun potere di legiferare. Avete un Governatore Generale e il
governo è eletto democraticamente dal Parlamento guidato dal Primo
Ministero o sbaglio? ” chiedo conferma timidamente.
Il signore si stringe nelle spalle. “E che importanza fa se sai che il tuo
popolo è stato preso in giro per un pezzo di carta?” Mi spiega che il
Trattato di Waitangi non è stato tradotto correttamente e che i capi tribù
hanno firmato un riconoscimento di appartenenza della terra al loro
popolo, mentre gli inglesi una cessione di questa ai coloni britannici.
“Belle fregatura per una traduzione.Così abbiamo perso quasi tutti i
nostri possedimenti” dice il narratore sputando per terra e assumendo
un’espressione tra il melanconico ed il cupo.
“Se puoi, dovresti dare una lettura al Trattato di Waitangi, magari
tu ci capisci qualcosa. Beh, ti saluto ora…Kia ora, addio” e se ne
va canticchiando.
“Kia ora” sussurro, rimanendo a guardare la waka un altro po’.

Al mattino parto per Napier e per la “Hawke’s Bay” famosa per i


vigneti.
“Da qui arriva il miglior vino del paese” mi dice orgoglioso il
ragazzo dell’ostello. “Inoltre a causa dei divertimenti sfrenati e dei
negozi di Art Deco è soprannominata la Miami neozelandese”
Nessun cenno al fatto che nel 1931 questa città in miniatura sia
stata distrutta da un violentissimo terremoto.
Alla sera mentre tento di cucinare un pesce ignoto, faccio
conoscenza con una ragazza con gote rubiconde e bicipiti grossi
come querce.
“Cos’ è quell’affare che tenti di bollire?” mi chiede.
“Non so esattamente ma dovrebbe essere pesce.”
Mi vibra un colpo sulla schiena e per poco non finisco nella
pentola con la creatura. “Dai mangia con me. Sto facendo
un’insalata con le uova.”
Non è il caso di contraddirla. È molto più alta di me e ha delle
maniere non proprio da nobildonna elisabettiana. Si chiama Emily,
è irlandese e viene da un paesino vicino a Belfast.
“Quattro gatti, due vecchi ubriaconi e me.” Mi racconta che è in
viaggio da un anno e mezzo. “Un giro in senso antiorario. Prima
Canada poi California, Fiji, Nuova Zelanda e prossima meta
Australia”.
“E poi?”
“Poi forse torno a casa” mi dice poco convinta.
“Ma ragazze, due bei fiori come voi qua tutte sole? Venite a farvi
una birra al pub qui sotto. Avete diritto allo sconto attrazione” il
ragazzo dell’ostello ammicca.
“Bello sono irlandese. Secondo te c’è bisogno di pregarmi per
andare a bere?” risponde offesa Emily.
Dopo un paio di birre ammorbo la ragazza irlandese con la storia
di Bart: una settimana insieme e un anno di seghe mentali.
“Quindi hai deciso di andare a Wellington da questo Bortolo,
Bormolo domani e non sai neanche se è sposato e con figli?”
“See Eolo. Bart, si chiama Bart. No, non so neanche se mi ospita.”
Usciamo a braccetto per le vie di quella che dovrebbe essere la
Miami neozelandese: siamo le uniche due anime in giro.
“Se questa è la città del divertimento allora le altre sono dei
pensionati all’aperto”
“L’unica discoteca che c’era è stata chiusa per disinfestazione”
commenta Emily
“Ratti?”
“No, uomini.”
Prima di crollare sul letto scrivo un messaggio a Bart: “Caro
Bortolo, a Wellington alle sette di sera, stazione degli autobus. Mi
vieni a prendere? Mi ospiti? Mi sei molto simpatico. Buona notte.”
Uno strano sogno agita la mia notte.

Parenti acquatici
Sono in un acquario. Davanti a me c’è una vasca piena di pesci
buffi: una razza con un vezzoso gonnellino, un piccolo squalo con
veletta nera, ed un polipo ha con i tacchi a spillo per ogni
tentacolo.
“Tesoooro così lontana sei andata. Come sei cambiata!” la razza
mi trilla apprensiva.
“Piantala mamma lo sapevi!” le rispondo.
“Non parlare così a tua madre! Ti do una pedata” infuria il
polipo.
“Ma che ci fai con i tacchi a spillo papà?”
“Nipotiinaaa mia, torna dalla tua nonnina e trovati un bravo
maritooo” lo squalo si strugge.
“Se dici così non torno più.” Provo a scappare, ma sono su un
tapis roulant. Continuo ad avere addosso lo sguardo serio dei I
parenti al di là del vetro.

Mi sveglio angosciata. E decido prima di partire di fare un salto


all’acquario di Napier. Mi metto il cuore in pace notando che i
pesci non mostrano di conoscermi e anzi vagano per la cupola
d’acqua con un’espressione fessa. Mentre sono in viaggio mi
arriva uno strano messaggio di Bart: “Ti ospito con piacere. Anzi
non prendere impegni per stasera, ho una sorpresa per te!”.
Cosa diavolo vuol dire con questo? Il mio cuore batte sotto stress
agonistico. Mi spremo le meningi. Quale sorpresa? Da qui le
ipotesi in un climax drammatico:
1) cena con parenti in cui si dichiara perdutamente innamorato
della sottoscritta.
2) cena con amici a cui ha detto tutto di me, di lui, di noi.
3) cena con amici che non hanno la più pallida idea di chi io sia.
4) cena con la moglie giovane e rubiconda a cui mi presenta come
una cara amica.
6) caffè insieme a moglie e figli in cui si scusa del fatto che non ha
tempo per una cena come si deve perché deve portare l’amata
consorte a teatro.

Le ultime tre opzioni fanno parecchio schifo, ma questa è la vita e


io mi aspetto di tutto, soprattutto da Bart.
Scende la sera e il buio avvolge il tragitto. In lontana intravedo
una città che sembra fatta di lego, tante barche cullate dal vento e
stelle lucenti nel cielo crespo.
Sono arrivata a Wellington.

1.2 Te Arkinui Dame


Provo a scorgere sulla banchina la figura che potrei riconoscere tra
mille: piccola, falsa magra e saltellante con un casco di capelli neri
ed occhi verde scuro. Una ragazzo simpatico, inquieto, con le mani
in tasca e lo sguardo lontano, sempre altrove, sempre in viaggio.
Finalmente la vedo venirmi incontro simile a una molla. Per un
istante la fiamma del ricordo viene scossa da uno spiffero gelido.
L’oasi nel deserto non è più un miraggio, ma un fogliame
palpabile e ben visibile. Il mio amico mi stampa un bacio sulla
guancia. “Vieni. Partiamo per un funerale. Hai portato qualcosa di
nero?”.
“Eh? Non ho niente di nero. È questa la sorpresa?Il funerale?”
mormoro incredula.
“Beh sì. Ma è un funerale speciale. Passiamo un attimo al mio
ristorante per bere qualcosa e ti spiego tutto”
Parcheggia davanti a un piccolo locale con luci soffuse e
un’atmosfera tranquilla: lo “Sweet mother’s Kitchen”. “Il mio
ristorante” dichiara orgoglioso. All’interno un jazz spagnolo
riscalda i clienti. Una cameriera longilinea e bionda fa un cenno a
Bart. Eccola è lei, la sua donna! “Ti presento la mia migliore
amica Kate. Ci conosciamo da una vita.” Bart stappa una bottiglia
di vino e me ne versa un bicchiere. “Kate, Kate ti prego hai un
golf nero per Alice?”.
La ragazza si avvicina:“Ciao Alice, è un piacere conoscerti. Bart
mi ha parlato un sacco di te e finalmente sei qui!. Ti posso prestare
il pullover che ho su” e mentre parla se lo sfila e me lo porge.
Sono sempre più perplessa. “Ma il funerale di chi?”.
“Una storia pazzesca. Partiamo!” il mio amico scatta in piedi,
saluta ogni singolo cliente, dà un paio di ordini ai camerieri ed
esce. Il tutto in pochi secondi.
“Wellington è davvero piccola e qui conosco tutti.” L’aria è
frizzante e soffia un vento freddo. “Andiamo. Dovrò guidare fino
all’alba” e sgommiamo via inseguiti da una scia di stelle.
Sono qui da circa quaranta minuti, sono scesa da un autobus e
sono salita in macchina. Rotta: la strada che ho appena percorso al
contrario. Per compagno: l’uomo ideale esaltato per un funerale.
“Domani parteciperemo a una cerimonia funebre molto
particolare: l’ultimo saluto alla Regina maori che è morta ieri.” Mi
ricordo di aver letto qualcosa a riguardo.
“Si chiamava Te Arkinui Dame Te Atairangikaahu, una donna
forte che ha regnato per quaranta anni. I suoi funerali andranno
avanti per sette giorni, ma i primi due sono a cerimonia chiusa e
avvengono nel Turangawaewae Marae, la casa di ospitalità maori
che si trova nel villaggio di Ngarwawahia, a 100 km da
Auckland.” Ha una voce commossa: “Ti rendi conto?!? Saremo gli
unici pakeha presenti. Tutti i giornalisti rimarranno fuori….Sai chi
sono i pakeha?”
Annuisco. “Poi cosa succede al feretro della regina?”
“Al settimo giorno la bara della regina viene portata fino al fiume
Waikato, caricata su una waka e lasciata scivolare sull’acqua fino
al luogo di sepoltura tradizionale, il monte Tapiri….Sai cos’è una
waka?”. Rimane spiazzato quando annuisco per la seconda volta.
“Beh, allora sai quasi tutto! Scommetto però che non hai ancora
visto la pratica dell’Hongi?”
“No, questa mi manca. Perché ci andiamo anche noi?”.
Mi spiega che studiando maori è diventato amico di alcuni maori,
che lo hanno invitato.”
“Un’occasione così non capita tutti i giorni.”
“Cosa succederà ora per la successione?”
“Sarà il primogenito a ereditare il trono, speriamo che ne sia
all’altezza.”
Dopo un breve silenzio cominciamo a parlare di noi stessi, di
quello che è successo in questo anno: lavoro, studi, difficoltà.
Come nelle e-mail non tocchiamo argomenti quali: amori e
delusioni. Aspetto che succeda qualcosa di romantico. Ho la
sensazione di aver scritto per un anno un libro a cui non trovo il
giusto finale. Invece anche quando ci fermiamo per riposare
un’ora sotto una cascata di astri luminosi, Bart inclina il sedile, si
butta una coperta addosso e si addormenta di sasso. Rimango a
guardare il vetro che si incrosta di gelo. Un freddo bastardo.
Un’alba gelida ci accoglie a Hamilton. Bart si ferma davanti
all’ostello dove lo aspetta parte della comunità maori
neozelandese: saranno circa in quaranta e tutti vestiti di nero. Ci
salutano con un cordiale kia ora e ci offrono caffè e biscotti senza
fare domande. Senza chiedermi cosa ci faccia qui così curiosa e
impacciata allo stesso tempo.
Conosco due amici di Bart: Amiri ed Ashley. Amiri è maori e
Ashley è la sua fidanzata. Lei è neozelandese-pakeha con la
carnagione chiara e i cappelli rossi.
“Ehi, che ne dite se dopo la cerimonia passiamo la notte sulla
spiaggia di Raglan?” propone Bart. In questo momento sono così
assonnata che riesco a emettere solo una specie di mugolio.
Mi rianimo quando raggiungiamo Ngarwawahia. Davanti al Marae
c’è una fiumana umana, circondata da giornalisti che tentano di
cogliere sprazzi di evento. Entro nell’ampio cortile della casa di
ospitalità.

Il Marae
La Comunita’ aspetta al freddo e in silenzio l’inizio della
cerimonia. Gli occhi sono puntati sui capi tribù, sui leaders
spirituali e politici che si apprestano a parlare. A un tratto uno
dei piu’ anziani si alza e comincia ad intonare un lamento triste e
dolce. Centinaia di teste si piegano all’unisono e piangono la
loro regina.
L ’emozione generale mi avvolge. Si stringono le mani, poi
chiudono gli occhi e premono leggermente naso contro naso per
qualche secondo.
“Quello e’ l’Hongi” mi spiega Bart.
I capi tribù parlano a turno. Alcuni di loro brandiscono un
bastone e lo agitano mentre cantano; sembrano stregoni con la
barba lunga e gli occhi magnetici. Raccontano un mondo antico,
custodito dalla Madre Terra.
Vago tra i visi commossi, gli occhi chiusi, le nenie di addio, i danzatori
di haka. Intorno a me tutti parlano il: “Te Reo Māori” che sta
vivendo un periodo di rinascita grazie soprattutto
all’esistenza di un canale televisivo con la maggior parte
dei programmi in lingua maori e al fatto che nel 1987
questa sia diventata una delle lingua ufficiali della Nuova
Zelanda, anche se solo il 4% della popolazione la parla ancora. Intanto
alcuni uomini danzano mostrando il bianco degli occhi, tirando fuori la
lingua e battendo energicamente le mani sul corpo e i piedi per terra. E’
l’Haka guerriera che rappresenta una specie di sinfonia di cui le parti
del corpo costituiscono i diversi strumenti. Le mani, le gambe, gli
occhi, la lingua sono come un’orchestra che agisce compatta
nell’esprimere in base all’occasione e alla cerimonia sentimenti quali il
coraggio, la felicità o la tristezza. Qui i danzatori salutano con profondo
dolore la loro regina.
Bart mi posa un braccio sulle spalle.
“Ti va di andare? Siamo qui già da un bel pezzo”
“E la regina?” lo rimprovero.
Sorride: “Lasciamola con il suo popolo.”
Ce ne andiamo insieme a Ashley e al suo ragazzo.
“Ok il piano e’ questo: spiaggia di Raglan, campeggio notturno e
domani ritorno a Wellington.” propone il mio amico.
“Perfetto. Conosco un paio di posti spettacolari qui in giro” dice
Amiri.
Mentre il mio amico sfreccia sulla strada le due colombe tubano
dietro e io impreco in silenzio davanti. Troppo carini e
imbarazzanti per due come me e Bart con qualche questione da
risolvere.
Arriviamo a Raglan al tramonto. Cinque surfisti in acqua
aspettano l’onda perfetta in silenzio tra cielo e mare. Il freddo e il
gelo filtrano attraverso le loro tute, nubi nere li minacciano. Loro
però rimangono immobili sullo specchio immenso dell’oceano.
Bart è silenzioso e sta collezionando enormi conchiglie. “Fra un
po’ accompagno Amiri ed Ashley a Hamilton. Vanno a una festa e
noi andiamo a riprenderli domani.” Si inginocchia sulla sabbia e
guarda lontano.
“Dove dormiamo noi? In macchina?” gli chiedo.
“Ho portato la tenda. Possiamo montarla qui vicino. Eviterei
l’ostello, come sai non sono il tipo. Mi conosci”.
In realtà non molto vorrei dirgli.
“Sono contenta di essere qui con te”
“Anch’io sono felice. Ti piacerà questo paese anche se è stato per
la maggior parte distrutto da noi pakeha. Da quelli come me, come
i miei genitori, come mio nonno. Tuttavia io dentro sono maori e
faccio parte della grande cultura indigena. Quella della natura,
delle leggende, della purezza.”Parla in tono cupo. “Il mio
bisnonno è stato tra i primi inglesi ad arrivare qui e a promettere ai
maori una falsa equità. Dall’altra parte mia madre non accetta che
io studi le origini di questo paese e considera gli indigeni
inferiori”.
“Penso che per conoscere le proprie origini si debba sapere da
dove si viene. Non e’ obbligatorio qui studiare lingua e cultura
maori a scuola?”
“No, non lo e’ e questo mi amareggia e mi irrita. Riesci a
capirmi?”
Sì.. So come la tua anima irrequieta si agita. So che hai deciso di
avere una missione: sentirti parte integrante di questo paese.
Maori e inglese allo stesso tempo senza che le due identità
facciano a pugni. Vorrei riuscire a dirti che sono qui per te. Ora
mi schiarisco la voce e ci provo.

“A proposito di capire…”
“Ragazzi andiamo mangiare qualcosa? Ho lo stomaco in rivolta”
Ashley ci saltella vicino.
“Va bene. Andiamo” Il mio amico si alza. “Che stavi dicendo
Alice?”
“Nulla di importante.”
Il loro concetto di cibo e’ abbastanza diverso dal mio. I miei
compagni di viaggio si avventano su strati di pesce fritto e su
patatine collose. Se l’unto che ho sulle mani fosse sangue verrei
incolpata di una carneficina.
Dopo aver accompagnato le colombe alla festa, ritornati sulla
spaiggia montiamo la tenda al buio.
“Una luce no?” chiedo rischiando un salto all’asta con la paleria.
“ Se passa la polizia e ci vede ci becchiamo una multa salata. È
vietato campeggiare qui!”
Non so neanche esattamente dove sia qui. Vedo solo la linea di
contorno di alcuni arbusti e sento il ritmico cullarsi delle onde
sulla spiaggia… e delle voci.
“C’è una festa. Senti che casino!! Andiamo?” Ho sempre amato i
falò, le sere davanti al mare, impronte di mille passi sulla sabbia e
rivoli di vino.
A Vitaly non potrei neanche proporlo, ma Bart e’ diverso.. E’ un
vagabondo spirituale, un Dharma Bums alla Kerouac. …
“Se vuoi vai tu. Non ho voglia di unirmi a una festa di ragazzini.
Ho sonno.” taglia corto lasciandomi con un muso lungo fino al
Polo Sud.
La sua tenda è monouso. In due dovremmo stare appiccicati o uno
sopra all’altro. Vuoi vedere che il satiro qui aveva organizzato
tutto???, penso indossando il mio pigiama rosso ammazzasesso. Se
non succede niente ora le condizioni sono due: o è diventato gay
lui o sono diventata lesbica io.
Dopo avermi dato una pelle di pecora contro l’umidita’ del suolo e
due coperte Bart si gira dandomi la schiena e comincia a russare.
È diventato gay! La terza possibilità si insinua nel mio cervello
come un serpente velenoso: Non ti vuole, cocca. Cerco di
scacciarla e mi concentro sul sibilo del vento e sulle voci allegre
del falò. Loro sì che si stanno divertendo. Dal nervoso mollo un
calcio al mio amico.
“Eh?” biascica svegliandosi.
“Niente, dormi. C’è poco spazio qui.” e mi giro a mia volta
dall’altra parte. Almeno ci provo in questo loculo bisogna giocare
a Risiko. Un gioco di strategia in cui Bart mi ha battuto occupando
i ¾ di spazio. Sono costretta a rimanere immobile come una lastra
di vetro; anche respirare porta via spazio.
Mi sveglio per un forte scossone alla tenda. Il Kiwi sobbalza
schiacciandomi con tutto il suo peso “Hey voi. Scusate se vi
sveglio ma vi conviene smontare la tenda e filare perché una
pattuglia della polizia passa ogni mattina di qui a controllare.” una
voce roca.
“Grazie” bisbiglia Bart che esce come un missile dalla tenda.
Sembra quasi che abbia paura di me. In meno di cinque minuti
abbiamo impacchettato tutto in macchina, anche se io sono ancora
in pigiama.
“Che bel pigiama!” ride il Kiwi. Molto sexy”.
“Lo metto quando non mi serve essere sexy” lo fulmino. Sono
nera. Prima mi rifiuta e poi mi prende in giro.
“Touchè” mormora. “Ti porto a fare colazione”
Nel tragitto Bart si shciarisce la voce.

Tre anni
Ho passato due anni a esplorare l’Europa. Per un anno non ho
sentito la mancanza di nessuno, ne’ familgia ne’ amici. A volte mi
venivano degli spifferi di freddo nel petto come se avessi lasciato
tante porte aperte e tanti discorsi in sospeso. Ho tenuto duro e ho
continuato a viaggiare. Dopo un anno e mezzo avevo nostalgia
del mio paese: le sue contraddizioni, i colori e la poesia. Ho
stretto i denti e alla fine sono tornato a casa stremato con tanta
voglia di mettermi in gioco qui a casa. Studiare, avere il mio
ristorante, scavare fino alle origini mie e della mia famiglia.
Ora ho delle priorità che sto concretizzando e la vita amorosa
non è per il momento tra quelle. Non ho la testa di pensarci. Tutto
il resto mi assorbe come una spugna rigonfia di acqua che diventa
pesante ogni giorno di più.
Non so cosa tu voglia da me, ma sono felice di averi qui, anche se
ho poco tempo da darti....
Mi vuoi aspettare tre anni?

“Aspettarti tre anni? Per fare che?” gli chiedo.


“Beh per essere una coppia no?” dice incerto.
“Ti dovrei aspettare tre anni qui in Nuova Zelanda per poi forse
cominciare una relazione di coppia. Che cosa dovrei fare in questo
periodo secondo te: orbitarti intorno come se fossi il sole?!?”
“No aspetta non mi sono spiegato. Forse…ecco Amiri e Ashley.
Riprendiamo la conversazione un’altra volta.”
“Tanto abbiamo tre anni per riprenderla giusto?” sibilo.
“Ultima tappa prima di Wellington: i bagni sulfurei” propone
Amiri..
“Ci sono già stata.” rabbrividisco al ricordo del mio spettacolo a
luci rosse.
“No, non quelli per turisti. Intendo una vera pozza termale.”
Per fortuna questa volta ho con me il necessario: costume da
bagno e asciugamano. Parcheggiamo sul ciglio della strada, ma
intorno a noi c’e’ solo buio e boscaglia. In lontanaza si sentono
alcune voci trasportate dal vento.
I miei compagni si spogliano, indossano il costume e senza
ciabatte si addentrano alla cieca tra pini e terriccio.
“Ehi un momento cosa fate?? Ma se non sapete esattamente dove
sia questo posto?!?”.
“Appunto per questo andiamo a cercarlo!” la voce di Ashley sta
scomparendo risucchiata dalle foglie.
Scalza, congelata e semi nuda maledico ogni ramo su cui metto i
piedi. Infine casco in un nero bacino d’acqua. Alcuni ragazzi ci
sguazzano dentro. Illuminati dalla sola luce lunare mi sembrano
tante lucciole smarrite… e totalmente nude. Siamo capitati in un
ritrovo di nudisti.
“Italiana buttati!” grida Amiri.
Mi immergo lentamente. L’acqua è bollente e ci sono tante alghe
che si annodano su per le caviglie. Dopo pochi secondi il mio
corpo si abitua e divento una lucciola a mia volta. Sopra di noi le
stelle sono incandescenti e sembrano così vicine da poterle
toccare.
L’alta temperatura ci rende ubriachi e meditativi insieme.
“Nella lingua maori non c’e’ nessuna parola che indichi il tempo.”
Osserva Bart.
“I latini invece ce l’avevano eccome. Carpe diem: cogli l’attimo.”
commento.
“Gia’, i romani. Mentre loro conquistavano parte della terra
conosciuta in Nuova Zelanda l’unico “abitante” degno di nota era
una specie di mongolfiera pennuta di nome MOA alta tre metri e
di circa 250 kg.” ride Ashley.
In realtà questo paese ha molto da insegnare al mondo per quanto
riguarda la parità sociale. Oltre a essere stata la prima nazione al
mondo a riconoscere alle donne il diritto di voto nel 1983, è
l’unica in cui i più alti incarichi sono stati assunti simultaneamente
da donne: Elisabetta II d’Inghilterra che ha un ruolo simbolico e
non politico di capo di stato, Il Governator Generale Dame Silvia
Cartwright, il primo ministro Helen Clark.

Arriviamo a casa di Bart a notte fonda. Piu’che casa sembra un


centro sociale in miniatura:biciclette accatastate una sopra l’altra,
una selva di libri sparsi, fogli, quadri e vestiti.
Se vale la famosa frase di Nietzche:“Bisogna avere un caos dentro
di sé per generare una stella danzante”, allora la camera di Bart è
la Via Lattea.
“Vedi quel quadro con la colomba bianca? E’ il mio simbolo. Lo
disegno ovunque, anche sui pali della luce e sugli edifici
cittadini.”
“Ma non e’ vandalismo? Non puoi andare a dipingere uccelli in
giro.” Osservo timidamente.
Mi guarda indignato.Questo è il MIO marchio artistico. Non
sporco la città, ma la arricchisco.”
“Però se tutti facessero così la città sarebbe imbrattata di segni che
hanno un significato solo individuale.”
“E non sarebbe bello? Ognuno di noi metterebbe qualcosa di suo a
disposizione della città. Beh, non e’ tempo ora per discutere.
Domani mattina devo andare a lavorare. Buonanotte.” si sfila
pantaloni e maglietta rimanendo solo in mutande, si corica e si
rannicchia contro il muro dandomi le spalle.
“Ed io dove dormo?”
“Questo letto è matrimoniale no? Metà a te e metà a me. ‘Notte.”
la sua voce rimbalza contro il muro e mi colpisce come un colpo
di pistola. Non contento, durante la notte, il mio amico rotola un
paio di volte verso di me, mi assesta una capocciata e rotola via.
Non penso di riuscire a sostenere questa situazione a lungo e
infatti due giorni dopo sono in viaggio.Lascio il rifiuto dietro di
me e mi riapproprio del mio orgoglio.

Lo sveglio di notte per comunicargli la mia scelta.


“Bart! Svegliati e smettila di darmi testate!”lo agito come una
bottiglia di champagne.
“Zzzz…. Che c’è?”
“Parto dopo domani.”
“Dove vai?”
“Isola sud. Qual è la prima meta?”
“Te lo dico domani.”
“Ma torni a Wellington?”
“Si’, ci ripasso fra circa 10 giorni.”
“Ok, ora dormiamo pero’.”
Mi sveglia lui all’alba.
“Kaikoura”
“Zzzzz… eh?”
“La tua prima meta nell’Isola Sud è Kaikoura: un paesino di un
centinaio di anime sulla costa est dell’Isola Sud. Capirai il perche’
quando sarai li’”
“Ma che ore sono?”
“E’ presto. Volevo mantenere la mia parola.”
“E come ci arrivo a Kaikoura?”
Troppo tardi, Bart ha ricominciato a russare.
Il giorno dopo prendo il traghetto fino a Picton e poi l’autobus per
un totale di 5 ore di viaggio. Il viaggio in pieno oceano si rivela
drammatico: appena salpiamo si scatena una violenta tempesta. I
flutti sono indemoniati e sbatacchiano la nave su e giù. Mi chiudo
in bagno sperando in una morte veloce. Ho la colazione che sta
facendo l’haka guerriera nello stomaco.
Sto ancora peggio quando vedo tanti pazzi suicidi in piedi a
godersi queste insalubri montagne russe. Tutti neozelandesi e
australiani folli.
Loro sono abituati, come andare in giro scalzi e finire ogni frase
con un hey!
“Yeah, that’s cool hey?!”, “Yuuu-huuu” gridano eccitati due
ragazzi.
Scesa dal traghetto mi tocca salire sull’autobus, ma la strada che
percorriamo e’ lungo la costa frastagliata di scogli.
Qui il colore dell’oceano e’ diverso rispetto a quello dell’isola Nord. La
schiuma ricama le onde con un orlo artistico. La costa è frastagliata di
scogli.
“Scusi cosa sono quei punti neri là?” indico delle palle immobili
all’autista.
Lui scoppia a ridere: “Sono foche. Ora mi fermo cosi’ puoi
scendere e fotografarle.”
“Non si deve disturbare. Cosa diranno gli altri passeggeri?”
“Non penso che nessuno abbia fretta in questa sperduta parte di
mondo.” Mi risponde il conducente inchiodando.
Una ventina di enormi foche se ne stanno stravaccate, sono
impegnate a fare versi che sembrano sbadigli e a grattarsi la
schiena sulle pietre ruvide. Cercano di cogliere i deboli raggi
solari con i baffi frementi per aria.
“Ora vedrai che meraviglia.” mi anticipa il conducente, mentre
montagne innevate si stagliano a precipizio sull’acqua. Il color
bianco si riflette sulla superficie dell’oceano dotandolo di una
bellezza quasi innaturale. Custodito tra mare e monti c’è un
piccolo paese di pescatori: Kaikoura. Mi sento a casa e decido di
seguire un’indicazione per il Dolphin Lodge: un ostello
abbarbicato su una collina. Quando arrivo in cima mi giro,
ammirando un incredibile quadro selvaggio. Assorbo tutto: dal
sole del tramonto alla punta affilata di una montagna.
“Un bello spettacolo vero? La gente stenta a crederci” una voce di
donna dietro di me.
Si chiama Jenny e da sola gestisce l’ostello. “E’ un posto molto
piccolo con dodici letti in tutto. Ce la faccio benissimo.” Mi
mostra in giro: “Fuori in giardino c’è anche la Jacuzzi e qualche
bici che metto a disposizione per gli ospiti. La parte piacevole.
Spero che tu abbia un sacco a pelo pesante perché abbiamo un po’
di problemi di riscaldamento”.
“Di solito gli ospiti dell’ostello si danno ad attivita’ quali il whale
whatching- avvistamento balene o al nuoto con i delfini.” Mi dice
quando le chiedo cosa posso fare qui in zona. Mi guarda riflessiva.
“Ma per chi ha un budget ridotto, consiglio una gita in kayak.”
“Cos’e’? Una specie di pedalo’?”
“ E’ una canoa molto sportiva, snella e veloce usata soprattutto sui
fiumi. Al porto organizzano gite di quattro ore sull’oceano. E’
faticoso ma ne vale la pena.”
Speriamo di sopravvivere.
Dopo una veloce telefonata Jenny mi annuncia: “Allora domani
mattina alle undici ti aspettano qui sotto nel piazzale degli
autobus.”
Chiamo mia madre per la prima volta dopo la partenza.

Telefono casa
“Pronto.” La voce gentile e squillante della mia mamma.
“Mamma sono io.”
Silenzio dall’altra parte.
“Mamma sono tua figlia!”
“Ciao cara!!!Come stai!” l’ugola ha un’impennata tanto da farmi
vibrare il timpano. “Walter, tua figlia in linea!”
Immagino mio padre fare un balzo semi felino dall’amato
condizionatore alla cornetta. Ora li ho entrambi in mondo-udito,
uno in sala e uno in stanza a parlare simultaneamente.
“Rosaria ora tocca a me dire qualcosa!” sentenzia serio il
genitore dopo il monopolio vocale della genitrice: “Come stai?
Dove sei? Torni? Seguo i tuoi spostamenti sull’atlante.” ecc, ecc.
“ Abbiamo già affittato camera tua!” sghignazza Walter.
“Non gli credere. Non è vero!”. Mia madre ci casca sempre.
“Qui tutto bene, ragazzi, non vi preoccupate.”
“E Bart?” sollecita mia madre.
“Sta bene.” una lieve fitta al cuore.“Vi devo salutare ora. Vi
chiamo presto. Ve lo prometto”.
“Ma senti ancora Vitaly o è già migrato in Siberia?” chiede mio
padre.
Ecco cosa dimenticavo! “Non ne ho la piu’ pallida idea.” E qui
tra baci virtuali, lacrime materne e scherzi paterni riattacco.

Da quando sono in viaggio al principe Myskin-Vitaly- ho


mandato solo un messaggio: “Sono viva.” Lo immagino
rabbrividire alla proposta di una gita in aperto oceano come se
fosse un male virulento.
Quando vado a dormire vengo attaccata da un gelo crudele.
Altro che problemi di riscaldamento, qui rischio l’ibernazione. Mi
attacco al calorifero. Spento. Se lo si accende ha un’autonomia di
venti minuti, poi si spegne e non si riaccende più. Sono da sola in
una camera a sei letti e non c’e’ nessuno a cui possa chiedere una
coperta. Non ho mai provato un freddo simile. Mi copro con tutto
quello che ho nello zaino, ma non è abbastanza. Precipito in un
torpore simile al sonno e il mattino vado al porto pronta per
remare mezza giornata.
Qui un pulmino con quattro canoe accatastate mi frena davanti di
colpo e ne scende uno strano personaggio.Piccolo e tozzo con un
grande faccione, abbronzantissimo, occhiali da sole neri, mani
grosse quanto un televisore, il solito sweet as di saluto. Grazie a
Bart ora so che e’ sweet as, dolce come, invece che sweet ass,
dolce sedere.
Mi stringe la mano con decisione: “Mi chiamo Nick e oggi ti
insegnerò a domare un kayak, piccola. Monta a bordo.”
Obbedisco e faccio conoscenza con gli altri compagni di remata:
una coppia irlandese e una madre con figlia.
“Allora miei prodi. I kayak sono da due quindi la ragazza qui sta
con me.” urla gasato facendomi l’occhiolino e costeggiando
l’oceano a gran velocità. “Speriamo di non perdere i kayak.”
sussurra l’irlandese vedendo ondulare in modo rischioso i nostri
veicoli.
“Chi di voi non ha mai fatto kayak alzi la manina santa.” Sono
l’unica a farlo.
“Non ti preoccupare bambina. Mettiti tuta, scarpe e guanti che
partiamo.” Ha la risata di uno tacchino ubriaco.

L’armamentario è complesso: 2 giacche, una termo-covertibile e


una water proof, guanti ergonomici reggi- remi e cappello per il
sole.
“Dai cocca forza con quei muscoli…beh insomma con le
braccia!” Nick mi guarda tra lo scettico e lo schifato mentre tento
di saltare dentro la canoa.
Il vento ci è contrario, l’oceano non troppo calmo e questo tratto è
disseminato di rocce su cui rischiamo di schiantarci. In più ci si
mette anche un enorme foca dispettosa, che comincia a giocare
dietro la scia del kayak.
“Un bestione così ci può ribaltare in un istante. Basta un colpo di
coda.” Sibila Nick.
“Su baby dacci dentro, altrimenti ci ribaltiamo. Pensa di fare
l’amore con il tuo principe azzurro.”
“Ma in quel caso non vorrei proprio brandire un remo!!”
“Eh, eh però forse dovresti prima stordirlo.”
Cavalchiamo le onde, finché la riva si mischia da lontano con la
base delle montagne.
“E tu questo me lo chiami lavoro?” chiedo a Nick.
“Eh ma io non sono nato deboluccio come te. Ho conosciuto un
surfista italiano in Australia. Era piuttosto bravo e veniva
dalla….Sardigna mi pare!”
“Sardegna” lo correggo.
“Sardigna, Sardegna, ma come siamo suscettibili. Piccoli ma
incazzosi eh?”
Quando riemergiamo sulla terra ferma, sono fradicia:
l’attrezzatura super tecnologica non è valsa a niente.
“Che cosa ti è successo?Ti hanno buttato in acqua?” chiede la mia
nuova compagna di camera all’ostello.

Si chiama Erin, è texana e sembra simpatica.


“Dove sei diretta?” mi chiede.
“Bella domanda. Sono in fuga da un uomo che non mi vuole.
Strano ma vero. Penso di dirigermi a sud.”
Erin mi guarda seria: “Ti capisco, ho provato lo stesso sulla mia
pelle.”
“Ti muovi anche tu in autobus?”le chiedo.
“No, sempre e solo autostop. Ho una proposta di viaggio da farti.”
Erin mi spiega il suo piano. Ha un’amica americana che arriverà
fra due giorni a Christchurch, a circa 180 chilometri a sud di
Kaikura. Da Christchurch hanno deciso di fare l’autostop fino a
Dunedin e da lì affittare una macchina per esplorare la parte più
selvaggia della Nuova Zelanda, la costa ovest con rarefatti segni di
vita umana.
“L’idea è quella di dormire in macchina. Fra una settimana io
devo essere a Queenstown per prendere l’areo per Los Angeles e
Laura non so cosa farà. Se tu volessi unirti a noi potremmo
risparmiare un po’ di soldi. Che ne dici?”
E’ deciso: partirò domani per Dunedin, città universitaria
sull’Otago Penisola e aspettare lì per qualche giorno le mie due
nuove compagne di viaggio.
“Ti conviene fare una tappa di una notte a Christchurch che è sul
tragitto per Dunedin, altrimenti da qui sono quasi nove ore di
autobus. A meno che tu non faccia l’autostop.”
“Da sola ho un po’ paura.”
La stanza è ancora gelida e mi addormento pensando a una
macchina calda e comoda.
Capitolo 2
In tre per una Twingo

2.1 Un ritmo folle


La mattina dopo riparto.
“Ricordati sempre chi sei e dove sono le tue radici. Solo allora
potrai trovare il tuo posto ideale.” Mi sorride Jenny
“Magari Kaikoura lo sarà. Un giorno.”
L’idea di fermarmi una notte a Christchurch non mi alletta molto:
Erin me l’ha dipinto come buco urbano sgradevole e di poco
interesse.
In autobus faccio due chiacchiere con un ragazzo tedesco di nome
Timo, con una risata alla Pippo, l’amico di Topolino. È giovane,
belloccio, ma non il mio tipo; se non sono scuri con occhi roventi
e sguardo malsano non mi piacciono. Decidiamo di trovare
insieme un ostello.
Montagne e oceano hanno lasciato il posto a una ragnatela di
strade grigie, fatta di negozi e case impilati gli uni sopra le altre.
Sprazzi di luce rossa morente sbirciano tra le nubi e cadono
proprio sopra l’unica chiesa in stile gotico abbandonata al centro
della piazza.
A malincuore optiamo per il Central City YHA: un casermone
fatto di centinai di cubicoli-dormitorio. La città delle talpe.
“Siete fortunati, avete solo un altro coinquilino.” ci dice la
ragazza alla reception.
Appena entriamo in camera uno strano odore acre ci colpisce:
qualcosa tra la muffa e il whisky. L’unico bagaglio visibile è una
chitarra appoggiata al muro.
“Ciao.” saluta Timo.
Il ragazzo sobbalza lanciando un lamento e copre tutto quello che
ha sul letto con un cuscino. Poi si gira: un giovane zombie con la
fronte bagnata di sudore.
“C -ciao” risponde a fatica: “V-voi siete i miei nuovi camerati?
Sono contento. Mi chiamo Martin.”
“Sei neozelandese?” gli chiedo.
Emette una risata simile al sibilo di una gomma bucata. “Sono di
qui. Di Christchurch. Sono sempre stato qui.” Poi rivolto alla
chitarra: “Ok, Ok baby tutto bene. Sono amici.”
“Vi posso cantare la mia ultima composizione?” e senza aspettare
risposta sguaina la sua baby.

Senza pace
Te ne sei andata mentre stavo male. Male da morire.
Per me c’eri solo tu
Mi avresti salvato.
Accanto a te dormivo, speravo, sognavo.
Ed ora tutto si è distorto.
Uno specchio malato ed un’anima arida.
La mia. La tua.
Per me c’eri solo tu.
Mi avresti salvato.
…………………..

Un violento colpo di tosse gli ricaccia le note in gola. “Scusatemi


amici. Scusatemi. Non sto molto bene in questo periodo. Ora esco
e vado a suonare un po’ con i amici.”
“Ma quante canne si è fatto secondo te?” chiedo a Timo.
“Non so, ma non è normale. Fammi vedere cosa nasconde sotto il
cuscino.
Un bel tesoro a quanto pare: lacci emostatici, siringhe e
antidepressivi.
Decidiamo di farci un giro e ragionare sul da farsi: se restare in
quella camera o cambiare.
Mentre camminiamo una vetrina attira la mia attenzione. È una
specie di erboristeria alternativa che espone un cartello: “Qui
party pills.”
“Party pills? Strano nome per un’erba.”
Timo scoppia a ridere: “Sono pastiglie di ecstasy naturale, e qui
sono legali”
Sono allibita. “Forse è per questo che Martin è così! Ne ha prese
troppe.”
Dopo aver girato per ore all’una torniamo titubanti.
“Entra prima tu.” Mi dice Timo davanti alla camera.
“Eh no, tu sei un uomo grande e grosso.”
“Sì ma se vede te per prima magari ti risparmia perché sei una
donna.”
“O magari mi taglia a fettine perché gli ricordo madre o
fidanzata.”
Sulla porta qualcuno ha appeso un post-it giallo: “Per favore
Martin, tua madre ha chiamato chiedendo di te per la millesima
volta. Richiamala appena torni!” Firmato: la reception.
“Allora sua madre sa che è qui!”
“Magari è già anche tornato a casa.” spero.
All’interno nessuna traccia del ragazzo. Il letto sfatto è girato a
90° gradi e tutto quello che era sotto il cuscino è sparito.
Dormo poco e male. Con un occhio aperto e l’altro pure chiedendo
continuamente a Timo: “Dormi?” per sentirmi rispondere un
secco: “No.” Faccio anche un breve sogno dove sono rincorsa da
zombie che suonano la chitarra e che cantano in chiave hard rock:
“Vieni quiiii fanciullaaa, fatti da noi divorare, yeah- yeah!”
Finché le chiavi nella toppa e un’ombra vacillante fanno capolino
tra i miei incubi. Timo di scatto accende la luce. “Hai visto il
messaggio Martin? Quello appeso alla porta?” gli chiede.
“Ohi, ohi. Sì l’ho visto. La chiamo domani o dopo. Devo
pensarci.” Fa dietro front e ritorna verso la porta. “Continuate a
dormire. Io riesco.”
“Dove vai? Sono le tre!”
“Mi metto su un prato a suonare la chitarra. Se a chi passa piacerà
la mia musica mi darà qualche monetina.” E scompare di nuovo.
“E tu domani rimani qui da solo con lui?” chiedo a Martin.
“Vedrò. Non mi sembra nocivo per gli altri. Per se stesso è una
bomba innescata.”
Quando mi sveglio per prendere l’autobus Martin non è ancora
rientrato.
“In bocca al lupo e ci ritroveremo sullo stesso tragitto.” Saluto
Timo.
Mentre riconsegno le chiavi alla reception Martin entra scortato da
una poliziotta.
Ha lo sguardo perso, confuso e non mi riconosce.
Per fortuna gli hanno trovato le chiavi in tasca con il nome del
posto.
“Martin come stai?” gli chiedo.
Lui mi fissa senza riconoscermi.
“È con te?” chiede speranzosa l’agente.
“No. L’ho conosciuto solo ieri sera. Eravamo compagni di stanza.
Cosa ha combinato?”
“L’ho trovato che vagava in questo stato in Cathedral Square.”
Non ha trovato le siringhe nella chitarra.
Mi allontano con una morsa allo stomaco.
In viaggio leggo qualche informazione su Dunedin e sull’Otago
Penisola. Questa città fu fondata dagli scozzesi intorno al 1850 e il
suo nome in gaelico, Dùn Èidean, significa Edinburgo. La città
ospita la più grande e conosciuta università neozelandese: una
striscia di terra larga si estende come il dito di una mano formando
la piccola penisola di Otago sulla cui punta si trova la Penguin
Beach, riserva naturale della rara specie di pinguini occhi gialli.
Per l’orgoglio nazionale sempre nei dintorni si trova l’unico
castello kiwi: Larnach Castle costruito nel 1871. La storia
racconta che il mercante e politico William Larnach abbia voluto
impressionare la moglie di discendenza francese. Sembra che
questa davanti all’opera finita abbia cacciato un lungo sbadiglio.

Dunedin è il paradiso di ogni studente: negozi che sfoggiamo


party pills, pubs e ristoranti. Scelgo un ostello a venti minuti dal
centro: il Kiwis Nest, piccolo e confortevole.
“Nella stanza c’è solo un’altra ragazza che è qui da due mesi. Una
persona tranquilla.” mi rassicura il ragazzo della reception quando
lo interrogo sospettosa.
Appena entro scorgo un letto pieno di pupazzi, di lettere da
spedire, di maglioni neri e… catene.
Cosa ci fa con delle catene? Sodomizza i peluche?
Un tintinnare di catene si avvicina e per poco non mi viene un
colpo. La proprietaria delle catene si sta liberando di cappotto e
zaino: un dark lady agghindata di spilli, oggetti di tortura prensili,
scarponi da militare. Marylin Manson nei suoi momenti migliori.
La cosa peggiore però è la sua faccia. Il suo ovale minuto sembra
soccombere sotto uno strato di crema bianca innaturale. Crema,
cipria, cera.. che cavolo è?? Un trucco nero pesante le rende gli
occhi due orbite vuote come quelle di un teschio.
Si presenta: “Mi chiamo Christine e sono inglese, dello
Yorkshire.” Poi si guarda allo specchio. “Oddio. Mi devo mettere
un po’ a posto altrimenti spavento la gente.”
Prende delle pillole e le ingoia. “Ho una fame. Ti va di mangiare
qualcosa con me?” mi chiede.
È incredibile come il viaggio porti a tuffarti per un breve momento
nella vita di chi incontri. Ogni persona diventa un cortometraggio
a cui appassionarsi, un ritratto a macchie vivide.
Christine mi racconta che sta facendo uno stage di restauro al
museo di Dunedin.
“Ancora un mese e torno a casa. Mi manca il mio ragazzo.”
Il suo amato Sonny. Mentre mangiamo fissa con apprensione il
telefono dell’ostello.
“Deve chiamarmi da un momento all’altro. Doveva chiamarmi
ieri, ma niente. Mi ha scritto un’e-mail e dice che ha problemi con
la linea telefonica. Sai è così angosciato che io sia qui. Ha paura di
perdermi. Che scemo!”
Eh già scemo. C’è invece chi non vede l’ora di perdere me.
“Sonny vorrebbe sposarmi, ma io sono troppo giovane e devo fare
le mie esperienze. Mi piace vivere qui. Le colline intorno mi
ricordano casa. Ci sei mai stata nello Yorkshire? No? Beh, i miei
hanno un’impresa agricola molto grande persa tra le colline.
Campi sterminati su cui sdraiarsi a disegnare. Tutta il mio
equilibrio viene da lì…. E da Sonny.”
“Ti ha proprio conquistato questo ragazzo.” osservo. Ne parla
come se fosse una creatura superiore.
Lei ha gli occhi lucidi e a bassa voce mi sussurra. “Lui mi ha
salvata. Mi ha riportato alla vita.” Davanti al mio sguardo basito
abbozza un sorriso. “Questa è una storia che ti racconterò domani
se vieni con me a fare colazione in un posto.”
“Quando si parla di cibo sono sempre in prima linea.” affermo
seria.

2.2 L’orgoglio del Sud.


La mattina dopo le catene di Christine mi fanno da sveglia. La
proprietaria ha iniziato il cerone mattutino. Senza trucco sembra
una bambina con capelli lunghi e grandi occhi marroni. In breve
tempo tornano sinergici Manson e il conte Draculia.
“Coraggio alzati. La colazione ci aspetta!”
Balzo in piedi. “Dove?”
“Al mercato. Vedrai che delizie.”
E infatti nel piazzale vicino alla stazione ci sono delle bancarelle
molto invitanti. Dal müesli naturale a bastoncini di pollo fritto
cinesi, dal cappuccino italiano alle crepes francesi. Dal pane alle
mele.
Saltiamo da una bancarella all’altra e mi sorprende constatare
quanto mangia Christine: dalle crepes al pollo fritto con
cappuccino. “Hai uno stomaco d’acciaio con tutti gli abbinamenti
improbabili.”
Lei diventa triste. “Nella vita bisogna provare di tutto prima che…
ti succeda qualcosa di brutto.” Mi fissa con le sue orbite nere: “
Sono affetta da una brutta forma di artrosi. Tanto brutta che mi
causa dei dolori pazzeschi, delle fitte lancinanti che non mi
permettono di muovere neanche un dito come se fossi tutta
congelata. Mi paralizzano.”
“Oddio. Mi dispiace Christine.”
“…Il problema è che mi capitano così all’improvviso. Un secondo
prima sto bene e poi sono a terra urlante. I medici dicono che
quando avrò cinquant’anni sarò su una sedia a rotella. E forse
molto prima.”
“ E non si può fare nulla. Non si può guarire?”
Lei alza le spalle. “Per ora non c’è nulla. Magari in futuro con i
progressi della medicina.”
Vedendomi turbata mi dà un colpetto sul ginocchio. “Ehi non
volevo rattristarti. Ti ho raccontato questo per dirti come la penso:
vivere il tutto al meglio senza paranoie fino in fondo. Me l’ha
insegnato Sonny!”
“Sei fortunata ad avere un ragazzo così.”
“Prima o poi il principe azzurro arriverà anche da te. Ti troverà
lui, tu non cercarlo!”
“Io sfido proprio la sorte, non lo cerco ma lo inseguo!”
Mi guarda seria. “Tu sei la prima amica che ho da quando sono
qui. Di solito la gente è molto gentile con me, ma tende a evitarmi.
Io vorrei fare un po’ di cose prima di tornare a casa e alcune
potremmo cancellarle dalla lista insieme. Che ne dici?”
“Dico che la lista domani sera sarà antiquata.”
Mi confessa i suoi desideri:tour della fabbrica della birra Speights,
castello e pinguini.
La prima tappa non mi alletta molto, con tutto il rispetto per
“L’Orgoglio del Sud”, la bevanda nazionale.
“Dai retta a me. C’è un motivo per cui te lo propongo.” Mi dice la
dark lady.
Compriamo i biglietti per una visita guidata alla riserva naturale
dei Pinguini a Penguin Beach sull’Otago Penisola passando da
Larnach Castle. Le mie finanze stanno appassendo
drammaticamente e penso che dopo Dunedin mi ciberò a bacche e
felci.
Un signore anziano è sia la guida che l’addetto alla biglietteria.
Deve essersi scolato un paio di barili tra mattina e primo
pomeriggio perché è molto euforico. Prende in giro Christine.
“Ma nello Yorkshire ci sono più mucche che uomini vero?” e si
sganascia dal ridere.
“Divertente. Ma allora ce li vuole vendere questi biglietti o no?”
“Sì, sì. Quanta fretta. Tanto il tour inizia solo fra un’ora. Allora
funziona così…. Ma tu sei sul serio italiana? Avrei detto ucraina!”
“Le assicuro che sono italiana.”
“Bene…che stavo dicendo? Ah sì. Il tour è composto da due parti.
Quella noiosa dura un’ora. Vi facciamo vedere come si fa la birra
e robe del genere. La seconda dura mezz’ora, ma è molto
concentrata. Vi lascio liberi di bere la nostra amata bambina
finché non siete stesi sul pavimento.”
Christine mi lancia uno sguardo di intesa. “Vedi? Ti ho detto di
fidarti!”
I nostri compagni di tour hanno l’aria bonaria, ma sotto
quell’aspetto inoffensivo e disinteressato si celano tanti predatori
di malto. I più temibili avversari: una coppia giapponese, due
ragazzi australiani e due anziane sorelle scozzesi che stanno già
circuendo l’alticcia guida.
Il copione si svolge come previsto. Tra uno sbadiglio e l’altro
fingiamo di interessarci alla germinazione, all’aerazione dei
chicchi, alla torrefazione. La mia amica in prima linea aspetta il
momento clou. Questo arriva quando la guida spalanca le porte di
una stanza al cui interno c’è un enorme bancone con sei rubinetti
di birra. Ognuno corrisponde a un gusto: Old Dark, Pilsener, Pale
Ale, Distinction Ale, Porter, Harvest. A ciascuno viene dato un
boccale: “Vi consiglio di andare per gradi. Dalla più dolce a quella
più amara.” gracchia il vecchietto, ma le sue parole sono per i
posteri. I miei compagni di tour brandendo i bicchieri stanno
dosando e ridosando copiosi fiumi di birra. Come previsto gli
australiani sono nemici ingordi, ma Christine tiene loro testa con
un coraggio stoico mentre io poco combattiva non riesco a farmi
valere. A causa di una gomitata nel fianco da parte della
giapponese mi accontento di un solo giro.
Dopo trenta minuti i rubinetti si bloccano e c’è chi tenta di carpire
l’ultimo goccio.
Il giorno dopo faccio fatica a svegliarmi per il troppo orgoglio del
sud. Christine mi scuote energicamente. “I pinguini, i pinguini,
andiamo a vedere i pinguini! Su alzati!”
Il bus fa una breve sosta al Castello di Larnach: una baracca
quadrata con tre fronzoli e un giardino popolato da anatre
selvatiche. L’unica cosa degna di nota è la vista sulle colline e
sulle insenature.
“Secondo le cronache William Larnach si è suicidato, ma ritengo
più probabile che sia stato ucciso dalla moglie di sangue francese
inorridita dall’edificio.”
Ripartiamo fino ad arrivare sulla punta estrema della penisola.
Nella parte interna della riserva naturale che si affaccia su spiaggia
e oceano sono stati scavati lunghi e profondi cunicoli di legno,
attraverso cui si arriva fino ai nidi dei pinguini occhi gialli. Alla
fine del tunnel una fessura tra due aste permette ai visitatori di
osservare gli animali e di essere a nostra volta osservati. In questo
modo i pennuti vedono gli occhi dei curiosi alla loro altezza a
causa della profondità del cunicolo pensano che siano piccoli
come loro e non ne hanno paura.
In branco escono dall’acqua e traballano sulla sabbia dopo la
caccia, poi si dividono in coppie e tornano nei loro rifugi.
“Dovete sapere che i pinguini sono animali monogami.” ci spiega
la giovane guida. “Si scelgono una compagna o compagno con cui
rimangono per la vita.”
“Sfigati!” Il commento di un ragazzino.
Gli occhi gialli maschi si esibiscono in sinfonie canore alzando le
ali come per trattenere il fiato. Le femmine invece ci scrutano
scettiche.
Si staranno chiedendo: “Ma guarda che faccia da scemi hanno
questi. E che razza di animali sono?? Degli occhi ambulanti?!?
Speriamo che i nostri compagni vengano fulminati da diarrea
acuta così smettono di cantare!”
“Parti domani allora?” mi chiede Christine nel viaggio di ritorno a
Dunedin, mentre un tramonto rosso sangue colora le colline dando
loro una nuova luce.
“Sì. La ragazza americana mi ha mandato un’e-mail. Devo farmi
trovare domani mattina alle nove nella piazza principale,
l’Octagon. Affitteremo la macchina dal Centro Informazioni.”
Prima di ripartire abbraccio la dark lady con affetto. E’ una vera
guerriera determinata a vivere bene senza troppe paranoie e senza
arrendersi al dolore.
Mentre rifletto sul luogo dell’appuntamento, le vedo avanzare con
sguardo da rocce arenarie, occhiali da sole, enormi zaini. Erin si
muove “alla Bart”: saltella puntando i talloni per terra come in
montagna. La ragazza con lei, Laura, è vestita da marines con
scarponi da arrampicata libera, pantaloni con tasca porta pugnale.
Ha un fisico atletico, alta con un bel viso e capelli fini biondissimi.
Si capisce subito che è una dura e pura.
Mentre Erin si occupa delle trattative per la macchina, Laura mi
spiega il suo piano.
“Erin parte fra quattro giorni da Queenstown mentre io ho l’aereo
da Christcurch fra due settimane. Tu torni a Wellington fra circa
dieci giorni. Se dopo la partenza di Erin teniamo la macchina
possiamo farci tutta la costa ovest fino a Nelson o Picton, lasciarla
lì e poi ci separiamo. Tu torni a nord ed io a sud verso Kaikoura.
Ti confesso che mi eccita molto questo viaggio.” conclude con lo
stesso tono allegro di Schwarzenegger in Terminator.
La sicurezza di questa donna più grande di me di cinque anni mi
mette in soggezione. È l’inizio di un rapporto di fievole amore e
vivace odio, turbolenta complicità su….una una Twingo Berlina
del 1994 a tre porte di colore giallo canarino.
“Eccola! Che bella!” esclama Erin.
“Ma non è un po’ piccola?!? Non per essere pignola, ma come ci
dormiamo in tre qua dentro? ”
Le compagne di viaggio mi fulminano con sdegno.
“Questa macchina è omologata per quattro persone. In tre ci si
dorme quasi comodamente.”
È quel quasi che stona. Tra l’altro non ci stanno tutti gli zaini nel
bagagliaio ed io che starò sul sedile posteriore dovrò viaggiarci
abbracciata.
Farò la fine del purè di patate e della spremuta di arance insieme.
“Se sei scomoda ti lasciamo in ostello e ti veniamo a prendere il
giorno dopo.” mi dice Erin con tono da mediatrice di pace.
Sgommiamo via verso l’autostrada. Prima meta: Il lago Te Anau
sulla costa ovest.
Da qui domani raggiungeremo Milford Sound: uno stretto fiordo
lungo ventidue chilometri sul Mare di Tasmania. “La costa ovest
dell’Isola Sud è famosa per le precipitazioni. Neve, pioggia,
grandine danno una connotazione mistica al paesaggio…” legge
Erin dalla Lonely-Planet.
“Ragazze, non so voi ma io non vedo l’ora di andare a fare
trekking su per le cime fangose. Alice spero tu abbia degli
scarponi seri e non solo quelle scarpette da balletto.”
“Ma queste sono scarpe da ginnastica!”
“Con quelle non sali neanche sul marciapiede. Hai almeno
pantaloni water-proof, borraccia, zaino ermetico? Insomma le cose
basilari.”
Scuoto la testa.
“Dai Laura non la torturare. Gli scarponi te li presto io Alice. Ne
ho un paio in più. Per il resto una soluzione la troviamo.”
“Come vuoi dolcezza.” e lasciando cadere il discorso Laura si
racconta.

Wonder woman
Trent’anni, giornalista. Scrive articoli sullo sviluppo sostenibile e
sull’ambiente, vive in Colorado alla base delle montagne.
Una valchiria, un amazzone, un caporale, un cyborg.
Le sue passioni sono tre. Scalata libera, fotografia, Miriam.
Miriam è la sua donna, la sua amata, la sua musa.
“Sono pazza di lei. Non vedo l’ora di rivederla. Sto contando i
giorni.” estrae la sua foto dal diario e ce la mostra.
La sua ragazza ha vent’anni, ha i capelli rossi e gli occhi verdi. È
bellissima.
“La mia amante, la mia bambina, la mia migliore amica. Per lei
ucciderei. Fermati Erin, Dio! guarda che spettacolo!”

Balza fuori dalla macchina ancora in corsa impugnando una


macchina fotografica grossa quanto un bazooka.
È una giornata fredda e procedendo verso sud ci avviciniamo al
Polo. Il lago Te Anau è avvolto da basse nubi che lo rendono
spettrale e le barche attraccate oscillano nella nebbia. Il paesino è
deserto.
“Perché stasera non dormiamo tutte e tre in ostello e da domani
nella Twingo? Si gela.” propone Erin.
Laura entra in un negozio per avere informazioni sulle condizioni
stradali e ne esce torva: “Mi hanno detto che il passo per Milford
Sound, l’Homer Tunnel è abbastanza inagibile per ghiaccio e
neve. Forse dovremo montare le catene. Domani devo essere in
forma per guidare quindi concordo sul dormire comode .”
Le mie compagne lasciano gli zaini in stanza e poi escono.
“Ehi? Ma dove andate?” grido loro dietro.
“Dolcezza non siamo ancora amiche. Per ora siamo buddies.
Dividiamo spese e veicolo, ma poi ciascuna fa quello che vuole!”
precisa Laura.
Forse non hanno tutti i torti e in questo modo non ci si rende la
vita impossibile. Mi adatto e mi intrufolo tra un gruppo di
giapponesi in giro, giusto per avere un po’ di calore umano.
Al ritorno in ostello trovo Laura seduta per terra e avvolta nel
sacco a pelo. “Questo posto è inquietante. Mi aspetto di vedere
qualche fantasma da un momento all’altro.”
Abbozzo un sorriso.
“Guarda che sono seria. Sono una specie di sensitiva. Percepisco
delle presenze intorno a me e le attraggo. Tutte le donne della mia
famiglia hanno questo dono. Pensa che mia cugina non riesce a
distinguere la nostra realtà da quella parallela. A volte mentre
camminiamo mi chiede: la vedi anche tu quella persona?È reale?
Più che sensitiva mi sembra psicopatica.
“Non ci credi? Allora vi racconto una storia vera: del mio viaggio
in Tasmania fino a Port Arthur, a circa sessanta chilometri sud-
est dalla capitale Hobart.” Fa una pausa. “Sapete per che cosa è
famoso Port Arthur?”
Erin ed io ci guardiamo dubbiose.
“Port Arthur è stata dal 1833 al 1877 una colonia penale in cui i
criminali inglesi e australiani più efferati erano rinchiusi,
condannati a marcire in completo isolamento e senza speranze di
fuga. L’oceano intorno era infestato da squali e il sottile istmo che
collegava il penitenziario alla terra ferma era presidiato da guardie
e cani feroci. Molti prigionieri disperati per la solitudine e il
silenzio si suicidarono e furono sepolti sulla vicina Isola del Morto
in tombe senza nome. A causa di alcuni omicidi avvenuti negli
anni ’90 si insinuò tra gli abitanti la paura della maledizione del
posto.
Molti curiosi da tutto il mondo ogni anno visitano Port Arthur per
via della sua fama maledetta, nella speranza di avvistare qualche
fantasma. “…Comunque quel posto è veramente dannato. Ci sono
spettri ovunque.”
“Li hai visti?”.
“Sì, ma non so se sia una bella storia da raccontare.”

Laura a Port Arthur


Incuriosita dalle leggende sul luogo ho noleggiato una macchina
ad Hobart e ho raggiunto Port Arthur. Il luogo trasuda sangue e
silenzio: non c’è nulla tranne il sibilo del vento che a volte
trasporta strane trasparenti grida.
La prigione ora è meta di turisti che pagano il biglietto per
entrarvi e venire spaventati, ma è tutto quello che la circonda
mette i brividi. L’unica costruzione che scorgo è un grande
edificio. La scritta: “Albergo” mi spinge a fermarmi. Entro ma
non c’è nessuno.
“Vuoi una stanza?” una ragazza magrissima con un lungo vestito
bianco è apparsa dietro di me. Ho la strana sensazione che i suoi
piedi non siano appoggiati al suolo e che stia fluttuando nell’aria.
“S-sì grazie. Scusa non ti ho sentito arrivare. Sono l’unica
ospite?”
“Sì, l’unica da mesi. La mia famiglia ed io gestiamo questo
albergo. Sali le scale e scegli la camera che vuoi.”
Apro la porta di una delle prime stanze. Un bambino sta saltando
sul letto. Ha un viso cadaverico, come se non avesse più in corpo
neanche una goccia di sangue.
“Ciao. Io sono Geremy!”
“Geremy! Giù dal letto della signorina.” La mamma rimane sulla
soglia della stanza. Una donna piccola e grassoccia con mani
candide come confetti. Il bambino le corre incontro.
“Lo scusi. È troppo vivace.”Indietreggiano nel corridoio finché
sotto i miei occhi scompaiono risucchiati dalle pareti. Forse
soffro di allucinazioni.
“Quanta corrente qui.” Un’altra voce dal nulla e a pochi passi da
me c’è un uomo con occhi vitrei ed una scacchiera in mano.
Dormo male ed il mattino presto me ne vado lasciando venti
dollari sul bancone.
“Non vuoi il resto?.” La ragazza è davanti alla porta con la luce
dell’alba che la attraversa.
“N-no grazie. Va bene così.” Mentre mi allontano in macchina lei
diventa aria, sole, cielo insieme all’albergo. Evaporano entrambi
lasciando il posto ad un piazzale deserto.

Silenzio. Fuori imperversa una bufera. Erin e io siamo scivolate


dentro i sacchi a pelo a causa del freddo e della paura.
“Ma non è possibile!Vuoi dire che quelli erano….”
“Fantasmi?!? Presenze?!? Chiamali come vuoi. Ho controllato: in
quel punto non c’è mai stato nessun albergo e io non mi sono certo
sognata tutto!”
Mi addormento pensando a spettri senza pace.
2.3 Le spie
La mattina dopo balziamo in Twingo pronte per affrontare
l’Homer Tunnel: un coagulo di neve e ghiaccio. Procediamo per
trenta minuti in una dimensione ovattata da fiocchi di neve.
“Oddio.” Esclama Laura. Appollaiato sullo specchietto retrovisore
c’è un enorme rapace verde; una via di mezzo tra un’aquila e un
pollo cresciuto a estrogeni. Con il becco picchietta contro il vetro.
“Ma che fa?? Vuole mangiarci la macchina!”
“È enorme. Come lo cacciamo?”
“Via, sciò, vattene.” urliamo all’unisono. Quello però non si
scompone e con uno sbattere d’ali si sposta sul cofano e afferra un
tergicristallo.
“Da quando i volatili si cibano di metallo??”
“Kea: pappagallo troppo cresciuto con scompensi ormonali.
Psicologicamente instabile.” Erin legge da un depliant preso a Te
Anau.
Laura scende dalla macchina e gli lancia una scarpa senza neanche
sfiorarlo. Quello ci guarda infastidito con un’aria del tipo: “Beh?
Invece di sfamarmi mi tirate un puzzolente scarpone! Come
osate??!” Balza giù dal nostro macinino e trotta via.
“Ma non riesce a volare come tutti gli uccelli?”
“Manie di grandezza. Forza ripartiamo, fra un’ora siamo a Milford
Sound.”
Secondo i maori il semidio Tu Te Raki Whanoa creò i fiordi e le
montagne e mise tutta la sua arte nello scolpire Pipiotahi, oggi
Milford Sound. Quando ci appare davanti un mantello di basse
nubi che avvolge le cime è difficile non pensare a un lavoro
divino. Ciascuna di noi segue il proprio pensiero persa in un
intenso sospiro...finchè Laura non decide di avventurarci tra fango
e sterpi.
“Voglio fare trekking. Siete con me o contro di me?”
Erin l’adora. “Presto ad Alice i miei scarponi e veniamo con te.”
Chiediamo a una coppia del posto in che condizioni sono i
sentieri. La risposta è concisa ma chiara: fangosi.
“Uff, la tipa ha detto così solo perchè voleva portarmi a letto.”
risponde seccata Laura.
“Ma se camminava mano nella mano con un uomo?!?”
“ E questo che c’entra??Allora Alice vieni con noi?”
Acconsento mesta e mentre piove a dirotto ci imbuchiamo nella
boscaglia seguendo un sentiero immaginario fatto di guadi
estremi, piante orticanti e una palude di melma. Un sentiero per gli
avvoltoi: ci possono volare sopra in cerca di vittime intrappolate.
Avvisto dei segni rossi sugli alberi: sangue!
“Ma no, indicono il percorso.” mi rassicura Erin che salta come
uno stambecco. Laura si cimenta in una maratona contro se stessa.

Ballata fangosa
Sono fradicia e trasudo fango.
Ho rametti incastrati nelle scarpe.
Ma con questa pazza a lungo non ci rimango.
Nella testa deve avere una piantagione di rape.

Piagnucolo e mi lamento.
Ho perso anche il segno rosso.
Quanto tornerei bambina per un momento.
Un moscone morto mi si spiaccica addosso.

Laura con il suo passo veloce.


Ed il suo sguardo sprezzante.
Mi farà diventare una killer precoce.
Se non crepo prima per il freddo agghiacciante.

Con questo stato d’animo raggiungo le compagne già da mezz’ora


ferme a decidere sul da farsi.
“Laura ci conviene tornare indietro. Questo sentiero non porta da
nessuna parte e siamo tutte bagnate e sporche.”
“Già dobbiamo farci un bagno e mettere ad asciugare i vestiti, ma
non ho voglia di spendere soldi per l’ostello. Ho un’idea.” Scorgo
una scintilla diabolica nei suoi occhi.
“Erin, tu ed io accompagnamo Alice in ostello e parcheggiamo la
Twingo nei paraggi.Ci mischiamo alla folla di backpackerd e
usiamo tutti le comodità, cucina, bagno, doccia, salotto e poi
andiamo a dormire in macchina.”
“Mmmm e se ci beccano cosa diciamo?” la texana è poco
convinta.
“Diciamo che siamo venute a trovare Alice un momento.”
Avrá imparato tali strategie alla A.G.P: Associazione Giovani
Parassiti?
Ripercorriamo il sentiero a ritroso fino alla Twingo inzaccherata e
poi fino all’unico ostello di Milford Sound.
Alla reception dell’unico ostello di Milford Sound una donna
mascolina ci accoglie a schioccate di lingua e occhiolini.
“Un posto letto per te per una notte. Le tue amiche?”
“No noi dormiamo altrove. Possiamo stare un po’ con la nostra
amica per farle compagnia?” le chiede Laura con sussiego.
La manager schiocca la lingua con fare affermativo.
“Carina la tipa. Scommetto che vuole portarmi a letto!”
“Secondo te tutte le donne desiderano fare sesso con te?!?”
Lei sorride: “Mio fratello dice sempre che se una donna non vuole
stare né con me né con lui allora ha seri problemi mentali.”
Come risposta me ne vado rassegnata a farmi una doccia, ma
quando torno in cucina mi aspetta una scena surreale.
Fregandosene dei miei timori anti-spionaggio Laura ha
monopolizzato i fornelli e sta raccontando le sue gesta a due basite
irlandesi.
“..quindi siamo entrate qui, amalgamate con voi altri ospiti paganti
e ci siamo fatte doccia e tutto il resto gratis. Vero Erin?”
La texana annuisce ebete. Faccio per scappare quando la strega mi
vede. “Ed ecco la nostra complice! Lei ha pagato, ma è stata la
nostra chiave d’accesso.Vieni qui con noi.”
“Erin come si spegne la TUA AMICA?” sibilo.
“Non lo so. É una mina vagante.”
Intanto le due irlandesi si congedano in silenzio.
“Stanno andando a smascherarci!” bisbiglia la texana.
“Macché. Te lo dico io quelle sono….”
“Pazze di te?!?” la anticipo.
“Ecco brava. Hai capito finalmente.”
Infatti dopo pochi minuti la donna della reception avanza verso di
noi con passo da mastino. Questa appoggia le mani sul tavolo
abbassandosi con sguardo torvo.
“Odio essere presa in giro soprattutto da tre ragazzine come voi.
Non potete pensare di venire qui e fare i vostri porci comodi senza
pagare. Due sono le soluzioni: o rimanete dandomi i soldi o ve ne
andate seduta stante. Ora!”
Siamo pietrificate.
“Il fatto è che noi pensavamo di dormire in macchina e di usare i
servizi dell’ostello. Possiamo avere uno sconto?” la fioca voce di
Laura.
La donna la guarda sorridendo. “Se aveste chiesto vi avrei detto
che abbiamo un prezzo speciale per chi vuole dormire nel proprio
veicolo. Siamo anche un campeggio. Per dieci dollari, metà prezzo
del posto letto, potete parcheggiare qui dietro e utilizzare bagni e
cucina.
“Grazie, grazie. Allora paghiamo subito.” risponde strisciante
Laura.
La manager schiocca la lingua e se ne va.
“Le piaccio!”
Lascio le due compagne di viaggio alle prese con la disposizione
dei sedili.
“Beh, buonanotte.” Mi dirigo verso calde lenzuole.
Mors tua, vita mea, mie care.

Alla mattina i vetri della macchina sono incrostati di brina e gelo.


È impossibile vederci attraverso.
“Come avete dormito?” chiedo.
“Ottimamente. Faceva un po’ freddo, ma con sacco a pelo e strati
di maglioni ce la siamo cavata. Vero Erin?”
La texana ha delle occhiaie grandi come crateri. “Stasera dormo
in ostello.” Per circa un’ora queste sono le sue uniche parole,
finché ci imbarchiamo per il giro dei fiordi. Il traghetto ci porta
tra quei picchi di una bellezza immortale passando vicinissimo alle
cascate tanto da sentirne gli spruzzi d’acqua sulla faccia. Allora
Erin si riprende e i suoi occhi da foschi tornano brillanti.
“Che meraviglia! Guarda Alice, quella montagna ha la forma di un
leone!”
“Bambine che mi dite di quell’arcobaleno tra le due cime?”
esclama Laura mentre con il bazooka-camera in mano si cimenta
in foto rischiose.
“Laura così cadi in acqua!”
“Se ti preoccupi vuol dire che anche tu sei pazza di me, mia bella
italiana.”
Maledico le mie buone intenzioni.
Ha smesso di piovere e il sole lascia una scia dorata sui fiordi e
riscalda le maestose montagne. Tuttavia preferisco Milford Sound
in versione mistica fatta di foschia e nubi, un paesaggio in cui
poter cullare un po’ di sana melanconia.
Ripartiamo in direzione di Queenstown, da dove il giorno dopo
Erin ha l’aereo per Los Angeles. Un pensiero atroce mi attraversa
la mente: da domani saró da sola con Laura. Tento di scacciarlo
concentrandomi sulla nostra prossima meta.
Queenstown è famosa per i suoi sport mortali e per l’adrenalina
che imbratta i muri delle sue case insieme al sangue; skydive
senza paracadute, free climbing con i denti, snowboard sui crateri,
ecc ecc. La maggior parte dei reduci arranca dolorante verso il
nostro ostello: il Bungi Backpackers. Ripetendo la stessa strategia
del giorno prima, Erin ed io paghiamo una notte mentre Laura
dopo aver posteggiato nei paraggi si intrufola.
Erin tira fuori dallo zaino una bottiglia di vino.
“E quella da dove salta fuori?” giubilo.
“Frena cocca questa bottiglia è per me ed Erin. Se vuoi bere
qualcosa vai a prendertelo, non vogliamo dividerla.”
Esco in silenzio a cercare un supermercato. Devo dire che non le
capisco; condividiamo trabiccolo, paesaggi, avventure e loro non
mi coinvolgono neanche per una bevuta?!?
Al mio ritorno trovo Laura in piedi i ubriaca che arringa gli
astanti:
“….perché tra donne c’è molta più fantasia e si gode di più. La
mia ragazza si presenta in camera nuda e io devo scoprire in quali
parti del corpo ha messo le gocce di profumo.”
I backpackers la guardano allibiti.
“Ma come fate ad avere l’orgasmo senza la penetrazione?” chiede
un innocente giapponesino.
“Ora te lo spiego carino. Devi sapere che…”
Mi defilo a velocitá razzo.
“Aspetta Alice veniamo con te!” la voce di Erin e dei passi incerti.
“Ancora voi! Ma perché non rimanete a fare cabaret e mi lasciate
in pace.”
“Oddio ho le allucinazioni come mia cugina. Vedo due creature
con naso ad antenna e palle da golf al posto degli occhi su quella
macchina!! Aiutatemi.” urla disperata Laura aggrappata al braccio
di Erin.
“Alice aiutami. Non vedi che sta male.” Sono costretta a
sorreggere la mia compagna di viaggio.
Mentre attraversiamo la strada barcollando un grosso pick up ci
inchioda davanti. Un capellone con frangia selvaggia si sporge dal
finestrino.
“Ehi pupe!Perché non saltate sul mio bolide all’inseguimento di
una bolgia notturna?”
Ci guardiamo intorno, dietro, a destra e a sinistra, ma oltre a noi
non c’è nessuno nei paraggi. Non prendiamo in considerazione
neanche per un momento che stia parlando con noi. Siamo
struccate e vestite da detenuti in fuga.
“Ehi dico a voi tre!” il tizio è un po’ perplesso. La voce acuta.
Poi Laura ha un’illuminazione: “Hai preso delle party pills di
recente?” gli chiede.
Quello in risposta emette un ululato affermativo: “Uhh-
uuhhhhhhhhhhh!!!”
Adesso capiamo: un altro con le allucinazioni.
“Senti in realtà noi siamo tre uomini con i baffi e con martelli
pneumatici tra le gambe, ma tu sei troppo fatto per rendertene
conto!” il sergente si è ripreso.
“Eh?”
“Smamma scemo!” tuona Laura tornata nel pieno delle sue energie
omicide.
“Baby così mi spezzi il cuore.” Il ragazzo sgomma via emettendo
versi animaleschi.
“Ragazze vado a dormire nella mia reggia. A domani.” Laura si
dirige verso la Twingo.
“Speriamo non le succeda qualcosa. E se la aggredisce qualche
malintenzionato?” Erin si preoccupa.
“Uno piú malintenzionato di lei?Non è possibile.”
“Non hai tutti i torti.”
La texana si ferma a guardare le stelle. “L’ultima notte sotto
questo cielo.” Punta il dito verso una nera montagna. “Domani
mattina prima di partire devo scalare quella cima. Non ti ho mai
detto dove ho conosciuto il ragazzo di cui è innamorata, che la
cerca e le sfugge da due anni. “Abbiamo partecipato insieme a un
programma di conservazione ambientale e quando è scoccata la
scintilla eravamo qui, a Queenstown. Una mattina siamo arrivati
fin lassù insieme e abbiamo inciso i nostri nomi su una panchina.”
Sospira. “Devo andare domani a vedere se ci sono ancora.”
Così al mattino mentre Erin saltella veloce su per il monte in cerca
di un ricordo indelebile Laura (purtroppo) sopravvissuta si dedica
alla pulizia della Twingo con cura amorevole. Magari ne dedicasse
metá a lavare se stessa.
“Questa macchina dobbiamo tenerla uno specchio. Da ora in poi
non ci mangeremo più dentro, ma sul cofano.”
Erin ritorna imbronciata poco dopo. “Non c’è più nulla. Neanche
la panchina. L’hanno tolta e al suo posto c’è un cartello:
“Attenzione con snowboard. Pericolo morte imminente.”
All’aeroporto Erin ci coinvolge in un abbraccio di gruppo:
“Scrivetemi ragazze e mi raccomando, comportatevi bene e
abbiate cura una dell’altra.”
Laura ed io meste la guardiamo allontanarsi. La nostra mediatrice,
il nostro collante se ne è andato lasciandoci in balia dei nostri
terribili caratteri.
“Allora prossima meta?” chiede Laura sputando energicamente
per terra.
“Che ne dici di Fox Glacier? È uno dei ghiacciai più antichi del
mondo, incanalato tra due montagne con una foresta pluviale
circostante. È possibile scalarlo!” la parola “scalare” insieme a
“Miriam” le fa scintillare gli occhi.
“Ci vengono organizzate escursioni, costose perchè viene fornita
tutta l’alttrezzatura necessaria.”
“Bleah! Sei matta? Secondo te spendo un patrimonio per
un’arrampicata un po’ scivolosa.”
“Laura stiamo parlando di un ghiacciaio! Non di un arbusto!”
“E allora? Non mi impressiono facilmente. Si parte!”
“Abbiamo poche provviste: riso e formaggio. Erin non doveva
lasciarci le sue?” frugo tra le cibarie.
“Merda! Se le è portate via. Stasera occorre trovare un ostello da
predare!”
“Perché non un supermercato da rapinare?Sarebbe piú logico.”
“Troppo impegnativo. Stammi dietro e ce la caveremo sempre.”
Da Queenstown passiamo per Cromwell e su fino al Lago Wanaka
nell’entroterra per poi tornare sulla costa ovest attraversando il
passo di Haast e risalirla fino a essere in prossimità di Fox Glacier.
Passiamo il giorno in macchina. Le distanze sono notevoli e le
strade sembrano tante onde disegnate con un’ ampia pennellata.
Siamo costrette a fermarci spesso per non soccombere al mal di
Twingo. Pioggia e sole si alternano rapidamente giocando con
ombre e luci, con superficie azzurre e macchie di neve. La mia
compagna di viaggio si fa romantica e mi racconta della sua
Miriam, di quanto sia bella, intelligente. “O Dio, quanto mi
manca!”
“Si, i suoi genitori preferirebbero diversamente, ma sono contenti
di vederla felice con me.” Fa una pausa. “Non la vedo da tre mesi
e ora voglio tornare a casa e trovare un buon lavoro per lei, per
vivere insieme, per prendermene cura. Il mio periodo nomade è
finito.”
Mi chiedo se ci sarà mai l’uomo per cui mi farò legare dei sassi ai
polsi e alle gambe.
“Eh, l’amore agita e stravolge tutto.”
“Perché siamo liberi di scegliere di farci stravolgere, altrimenti
continueremmo a essere lupi solitari.” Poi cambia discorso. “Ti ha
raccontato Erin l’avventura che abbiamo avuto in autostop da
Christchurch a Dunedin? No? Beh, allora senti cosa ci è
successo.”

Il guidatore
Erin ed io sul ciglio della strada. Odio fare l’autostop, non mi
sento sicura e non mi fido della gente. Erin però mi convince: “Ci
puoi scrivere un articolo sopra.” Allora siamo qui, sorriso
accattivante e capelli al vento finché una Mitsubishi Magma
accosta. Un signore sulla quarantina abbassa il finestrino. Porta
dei grossi occhiali neri e delle visibili macchie scure gli segnano
il viso. Penso subito che abbia qualche malattia infettiva e tiro
Erin per una manica. Il segnale: “Non salire!” lei mi indica il
cielo. Sta arrivando un temporale e non abbiamo altra scelta.
“Ci può dare un passaggio fino a Dunedin?”
Il tizio abbozza un ghigno, ha le labbra blu. Salgo di dietro e mi
tengo vicino lo zaino. Ho il coltellino svizzero a portata di mano
nel caso dovessimo difenderci. Questo tizio mi angoscia. Appena
Erin si siede davanti lui sgomma via a tutta velocità. Accelera al
massimo facendo lo slalom tra le macchine nella corsia.
Erin si gira e mi guarda spaventata. Che cavolo sta facendo?
Così ci uccidiamo!
“Non potrebbe rallentare un po’ per cortesia?” gli chiede.
Per tutta risposta lui contrae le labbra in un sorriso e le sue
macchie si accartocciano ancora più in evidenza.
“M-ma Dunedin era dall’altra parte. Noi dobbiamo arrivare a
Dunedin!!!” dice Erin con un filo di voce.
“Devo fare una deviazione. Poi vi porto a Dunedin.” la voce
metallica del tizio squarcia la nostra nube di paura.
Arriviamo ad Alexandria, una piccola città nel mezzo di niente.
Quando ci fermiamo davanti ad una fattoria isolata un gelido
pensiero mi attraversa la mente: è finita. Una signora in
grembiule ci viene incontro.
“Peter che sorpresa! Come stai? E queste signorine?
Backpackers immagino. Venite dentro che vi offro una tazza di
tè.” Confuse seguiamo la signora, che ci accoglie in una bella
casa. Scopriamo che Peter, il guidatore taciturno, è il fratello
della padrona di casa rimasta vedova da poco.
“Mio fratello è tanto bravo. Mi viene spesso a trovare anche solo
per qualche ora.”
Erin mi lancia uno sguardo di vittoria del tipo: “Vedi, te l’avevo
detto.”
Sempre in silenzio Peter ci porta a Dunedin e ci lascia davanti ad
un ostello. “Questo costa poco ed è pulito.” Così dicendo riparte
a tutta velocità.

Arriviamo a Fox Glacier con il buio e il freddo. In lontananza il


ghiacciaio si staglia minaccioso contro il cielo. Il paesino che gli è
stato costruito attorno comprende quattro ostelli, un piccolo
supermercato e un benzinaio. In un raptus di orgoglio prometto a
Laura che dormirò con lei in macchina anche se alla vista delle
calde luci degli ostelli vacilliamo.
“Facciamo così. Entriamo e chiediamo se possiamo dormire in
macchina nel parcheggio dell’ostello e usufruire di bagni e cucina
a prezzo dimezzato.”
Il primo ostello ci manda direttamente a quel paese. Il secondo
pure. “Tanto meglio. C’è un’energia negativa in entrambi.” Il
commento di Laura.
La coppia di vecchietti che gestisce il terzo ci accoglie senza
battere ciglio.
“Affare fatto per otto dollari. Se volete mangiare qualcosa ho
appena fatto una zuppa calda e pop corn.” dice la signora.
Ci aggiriamo in cucina come lupi famelici, ispezionando il cesto
del “Free Food.” E tirandone fuori solo cracker neolitici. La
sciagura è che siamo capitate in un ostello per ricchi backpackers:
i fornelli sono stracolmi di pentole e padelle con carne, pesce.
Alcuni viaggiatori, spaventati per la cupidigia morbosa con cui
guardiamo le loro scorte, le chiudono in camera.
Non ci rimane che prepararci qualcosa con gli unici due
ingredienti che abbiamo: pasta e formaggio.
“Che tristezza.” Mangiamo a testa bassa prese dalle sconforto.
Solleviamo per caso la testa nello stesso istante e ci fissiamo io
con uno spaghetto ancora in bocca e lei che raschia il formaggio
fuso sul fondo del piatto.
Ci sediamo nel caldo e confortevole soggiorno, dove il dvd
trasmette Forrest Gump .“Giusto per un attimo. Se ci
addormentiamo qui con il cavolo che ritorniamo in Twingo.”
Mi appisolo sognando di correre con Tom Hanks per tutti gli Stati
Uniti. Laura mi sveglia dopo un tempo indefinito. “Dai, andiamo!”
“Dove?” faccio finta di non capire.
“Come dove??!! In macchina!”
“ Laura lasciami dormire qui sul divano.”
“Già così se ti beccano questi spocchiosi ti consegnano alla
polizia. Non vedi come ci scrutano dall’alto in basso?”
“Come non dare loro torto?!? Siamo conciate da far schifo!”
“Vedrai che non è così tragico dormire in macchina.”
La seguo di mala voglia nell’aria pungente e nel buio assoluto. Nel
parcheggio c’è solo il nostro macinino. Siamo isolate.
“Ci manca solo un cartello: Accomodati. Due fanciulle inermi 100
metri avanti.”
“Parla per te. Io non sono inerme. Sono agile ed armata.”
“Di umorismo sei armata.” Intanto sfodero il sacco a pelo e reclino
il sedile. “Ahh, che comodità!”
“E piantala! Bisogna accendere la torcia. Non si vede nulla qui.”
Tento di distinguere cose e forme nella notte. “Laura si sta
avvicinando un’ombra nera con una luce in testa da minatore!”
sobbalzo.
“See ma che fantasia hai!” grugnisce concentrata nel togliersi gli
scarponi.
“No guarda viene verso di noi.”
“Merda!”
Tratteniamo il fiato intanto che la luce si fa sempre più vicina fino
ad abbagliarci.
“Non vedo nulla!”
“Scusate ragazze.” L’ombra appartiene ad un uomo robusto. “Non
voglio accecarvi. Faccio parte di una squadra di geologi
dell’università di Wellington e nella nostra camerata ci sono due
letti liberi. Se volete approfittarne.”
Rimango a bocca spalancata e non so cosa rispondere. “Va bene.
Veniamo in ispezione. Se ci convincete rimaniamo.” decreta Laura
saltando giù dalla macchina senza consultarmi. Li seguo a distanza
ed entriamo in una grande stanza piena di macchinari di
rilevazione, provviste e lampade. Gli altri sei componenti della
squadra ci accolgono con calore.
“Siamo qui per studiare il ghiacciaio.” Ci spiega una donna.
“Fatevi una buona dormita alle spese del dipartimento di
geologia!”
Il mattino dopo veniamo svegliate alle sei dai preparativi per la
spedizione. Ci vestiamo in fretta e salutiamo i nostri compagni di
dormitorio che mi rivolgono un comprensivo: “Buona fortuna.” Si
riferiscono a Laura che già sul presto coltiva vivaci istinti suicidi e
omicidi.
“Alice ho deciso, vado a scalare il ghiacciaio.”
“Con cosa?” chiedo, ma conosco già la risposta.
“Lo scalerò senza picchetti né corde, a mani nude.” La sua voce
rimbomba piena di sfida nella valle brulla circondata dalla foresta.
A 500 metri si staglia Fox Glacier: un composto impressionante di
massa fredda trasparente che si estende in salita attraverso
scivolosi cunicoli.
“Fatti un giro per la valle. Ci vediamo alla macchina fra qualche
ora.” urla.
Con calma arrivo fino alla base del ghiacciaio per godermi una
scena singolare. Un capannello di scalatori muniti di tutto punto
osservano increduli Laura.
“Quella è pazza!” mormora una guida mentre Laura per la terza
volta tenta di non scivolare. Fa dei numeri da equilibrista, ma il
ghiacciaio la ricaccia indietro schifato. Ha lividi per tutto il corpo,
peró non demorde.
“Così si ammazza!” esclama una ragazza.
Non mi illudere, cara, non mi illudere.
Ora la mia compagna di viaggio non riesce né a scendere né a
salire e devono andare a prenderla e portarla giù.
“Signorina lei sa che cosa ha rischiato??’” la rimprovera un
escursionista.
“Perché non prende quella sua bella piccozza e non se la ficca
nel….”
La blocco in extremis: “Grazie, grazie va bene ora andiamo e la
prendo per un braccio.
“Cosa direbbe Miriam se ti vedesse così?”
Allora lei diventa mansueta come un cucciolo di foca e mi segue.
“Ce la fai a guidare?”
“Sì, sì. Dove andiamo ora?” è un po’ spaesata. Le deve essere
caduto un iceberg in testa.
“Non avevamo deciso di fare una tappa ad Hokitika, la città della
giada verde? Ne volevi comprare una per la tua ragazza.”
“Giusto, andiamo.” E con fermezza si rimette al volante con un
grosso buco sulla fronte. Costeggiamo l’oceano su una strada
talmente stretta che attraversare i diversi ponti di legno si rivela
un’impresa perchè passa solo un’auto alla volta in entrambe le
direzioni.
“Dove diavolo è finito il nostro unico cucchiaio?” mi chiede Laura
mentre scava con il dito nel Philadelphia sulle sponde del lago
Matheson.
“Temo di averlo lasciato come bandiera trionfale in uno degli
ostello assaltati.”
“Tanto meglio, selvagge noi, selvaggio l’ambiente!”
“Facciamo come ieri?”
“Stessa tecnica. Tu implori e io supplico.”
Alla reception del nuovo ostello una signora anziana sta leggendo
un libro alle due nipotine. Le nonne: le nostre vittime preferite.
Dolci, inclini alla pietà e facilmente manipolabili. E infatti….
“Signora scusi se la disturbiamo, ma volevamo chiederle se è così
gentile da permetterci di dormire in macchina nel suo parcheggio.
Non abbiamo tanti soldi però possiamo pagarle qualcosa per farci
una doccia e cucinare un piatto di semolino.” Laura, gli occhi
lucidi fissi sulla vecchietta, le mani quasi congiunte. Senza
neanche farlo apposta il mio stomaco vuoto emette proprio in quel
momento un sonoro boato.
“Povere piccine! Non permetterò mai che dormiate in macchina.
Vi do due letti al prezzo di uno che ne dite?” la signora è
commossa.
“E con le chiavi della stanza avete diritto a uno sconto del 20%
sulle pietre verdi del negozio qui sotto.” ci dice la nonna tornando
dalle sue nipotine.
Non facciamo in tempo a posare gli zaini in camera che delle urla
unniche ci fanno trasalire..Una squadra di rugbisti in trasferta ha
fatto irruzione nell’ostello della nonna che si sta facendo il segno
della croce.
YAP; YAP; VRRROOO; SGRUNF; SGRUNF.
“Ma saranno dotati di favella???” chiedo aprendo la porta della
camera.
“Mi fanno paura. Chiudiamoci a chiave!” Laura è atterrita. Delle
grosse teste ci fissano dal corridoio. Poiché siamo le uniche due
fanciulle sopra gli otto e sotto i sessant’anni è iniziata la danza di
accoppiamento del piccione.
Un ragazzone con un livido viola sullo zigomo destro si lancia in
una brillante conversazione.
“Belle gnocche, belle gnocche con noi fuori. ARRRRFFF.”
ARFFFF. L’eco guerriero dei polli.
Laura sbatte la porta e ci sposta davanti un letto a castello.
“E come faccio ad andare in bagno ora?”
“Fino a domani mattina te la tieni, non si sa mai con quelli in
giro.”
“Laura sono uomini, non gli extraterrestri della Guerra dei
Mondi.”
“Fai come vuoi. Io da qui non mi muovo.” Intanto l’ostello non
trema piú ed ora è il turno del pub all’angolo.
Ci svegliamo di soprassalto nel pieno della notte al ritorno dei
rugbisti. Sono le tre di notte, ma sembra arrivata la fine del
mondo.
“Speriamo che le porte reggano.”

2.4 Beffe del Destino


La mattina dopo entro nel negozio di giada verde sotto l’ostello.
La maggior parte dei ciondoli rappresentano i 5 principali simobli
maori. Il Koru simboleggia crescita ed armonia. Ha la forma di
una foglia di felce, che per i suoi esemplari unici, è uno degli
emblemi di questo paese insieme al super volatile-Kiwi. La spirale
indica il percorso di vita e può essere singola o doppia. La prima
rappresenta la vita di un individuo singolo, mentre la seconda, con
due cordicelle attorcigliate rappresenta l’unione di due anime che
anche se si separano l’una dall’altra, il destino farà sempre
rincontrare. Questo è il simbolo più romantico della cultura maori
e medito per un attimo di regalarlo a Bart. Ma non se lo merita.
Il Manaia è il guardiano spirituale, protegge chi lo porta ed è
rappresentato con una testa di uccello, il corpo da uomo e la coda
da pesce. L’Hei Tiki è invece un talismano maori portatore di
buona fortuna e di feritilità, tanto che la sua forma ricorda quella
di un embrione. I maori si tramandano il ciondolo di giada verde
dell’Hei Tiki di generazione in generazione come tesoro familiare.
L’Hei Matau a forma di Uncino indica prosperità, in omaggio alle
acque pescose che circondano la Nuova Zelanda, e porta buona
salute e forza, oltre che proteggere chi viaggia per mare. Dato che
per arrivare qui ho dovuto sorvolare parecchia acqua, compro
quest’ultimo.
Sentendomi piú forte perchè protetta dal misticismo maori, ribalzo
in Twingo, che torna a macinare chilometri in direzione di Nelson.
Qui lasceremo lo stoico macinino all’aeroporto e passeremo gli
ultimi giorni in ostello prima di dividerci.
“Dobbiamo trovare un bel posto dove rilassarci.”
“Che ne dici del Tasman Bay Backpackers: 10 dollari al giorno
con colazione inclusa, film e dessert ogni sera.”
“Affare fatto. Ci trasferiamo lì da domani mattina, ma stasera
dormiamo in macchina. Dobbiamo salutare adeguatamente la
Twingo.”
Ne parla come se fosse una figlia.
“Niente ostello per sconto doccia e cucina?”
“No, non voglio spendere altri soldi. Parcheggiamo in strada e ci
facciamo un panino con….che cosa è rimasto?”
“Philadelphia”

“Non lo posso più vedere. Al massimo stasera ci infiltriamo in


ostello per un raid alimentare.”
È da giorni che ci muoviamo, accusando freddo e fame e passando
ore in macchina. Tocca adeguarsi, ma sono alla frutta e non
sopporto più Laura.
Attraversiamo ponti di legno traballanti e oltrepassiamo ghiacciai,
foreste e precipizi sull’acqua. Il nostro macinino protesta perchè
quasi senza benzina e non ci sono stazioni di servizio nel raggio di
chilometri. Intanto la pioggia e la velocità sfumano i colori dei
paesaggi rendendoci protagoniste di un mondo a macchie vivide.
Facciamo una sosta a Punakaiki alle Pancake Rocks. Queste
rocce a strapiombo sull’oceano sono famose per la loro forma di
guerrieri che combattono contro le onde e contro il cielo denso di
nubi.
Mentre Laura è impegnata in una stretta curva vedo una figura
nera traballante sulla spiaggia. Il mio cuore si riempie di felicità:
un pinguino! Lo indico a Laura che rallenta e guarda scettica il
puntino che le indico.
Scoppia a ridere: “Alice è un cane, non un pinguino.”
Delusa inforco gli occhiali e focalizzo meglio tanto da scorgere
anche un signore con un guinzaglio in mano.
“Sei proprio cieca!”
“La mia immaginazione è più forte della realtà e quando voglio
vedere un pinguino vedo un pinguino!” ribatto secca.
“Ah, ah, ah questa è buona. Signorina ….come ti chiami di
cognome?”
“Bresciani.”
“Signorina Bresciami!”
“Bresciani. N come Naples.”
Invece di Naples Laura recepisce nipples (capezzoli). “Ok vada
per Bresciani con n come nipples.” sghignazza.
“Naples! Guarda davanti che stiamo sbandando!”
Stiamo finendo contro il cartello che mostra la sagoma del
pennuto: “Attenzione, rallentare. Attraversamento pinguini.”
“Vedi?”
“Va bene Alice i pinguini ci sono, ma quello di prima era un
cane!”
Un singulto del trabiccolo ci fa ammutolire di colpo. Con il fiato
sospeso procediamo lentamente e senza riscaldamento bardate di
sciarpe, k-way e guanti. Ci appelliamo al dio dei viaggiatori e a
quello dei macinini gialli.
Finalmente scorgiamo Nelson sulla solare Tasman Bay e
riusciamo a nutrire l’eroica Twingo.
L’ostello è una villetta con giardino e dall’interno dentro
risuonano voci allegre.
“Sempre carino qui. Andiamo a fare un sopralluogo, voglio
telefonare a Miriam.”
“Hai rubato una tessera telefonica?”
“L’ho comprata cretina.”
“Poi passami la tua donna. Le voglio dire quanto sei
insopportabile.”
Ci ritroviamo in un grande soggiorno con caminetto e profumo di
cioccolata nell’aria.
“Ciao tesoro come stai? Io bene. Fra meno di dieci giorni sono da
te. Cosa? Ah sì sto viaggiando con un’italiana. No, dai non essere
gelosa non è il caso. È proprio strana.” Sento Laura parlare con la
sua donna.
“Sì sì è simpatica, anche se come navigator fa schifo. Sai che
spelling ha fatto del suo cognome?!? Ora ti faccio ridere…”
Un donnone grande e grosso che deve essere la padrona compare
con un cesto pieno di barrette di cioccolata.
Se capisce che siamo delle intruse ci butta fuori. Tento di
mimetizzarmi con la bacheca degli annunci.
“Uno anche a me e alla mia amica per favore!” le grida Laura. La
signora gliene porge gentilmente due.
“Cosa ti stavo dicendo tesoro? Ah sì…”
L’americana è pazza da legare però audace.
“Alice che bello anche tu qui!” il cioccolato si incastra nella
carotide. Timo, il mio compagno di disavventura a Christchurch è
comparso davanti a me.
“Come stai? Ho provato a chiamarti, ma il tuo telefono non
funziona.” mi dice.
“Sto bene, sono in viaggio con…una specie di amica. Piuttosto
cosa è successo a Martin? Mentre andavo via l’ho incrociato
scortato da una poliziotta.”
“Ah sì. Poi è venuto in camera, si è coricato e ha dormito
ventiquattro ore filate! Non ho avuto bisogno di cambiare stanza.”
Poi esclama: “Che bello che sei in questo ostello!. È un posto
stupendo. In che camera sei?”
“Ehm. Dici il numero?”
“Sì, il numero. Che cosa se no?”
Sono stanca e non riesco a improvvisare una bugia.
“Senti Timo dormo in macchina stasera. La ragazza al telefono e
io stiamo facendo un sopralluogo. Domani ci trasferiremo qui per
qualche giorno.”
Il tedesco mi guarda esterrefatto. “Un sopralluogo? Beh, qui si sta
molto bene. C’è gente che doveva fermarsi due giorni e si è
piazzata qui per mesi! Dormite in macchina? Ma ormai siete qui,
non potete pagare la stanza da stanotte?”
A questo punto dovrei spiegargli che siamo sul lastrico.
“Siamo molto affezionate alla Twingo e questa è l’ultima sera che
passiamo con lei.” In realtá la sola idea di stiparmi in quel
trabiccolo puzzolente e stretto mi fa stare male.
Tiro seccata Laura per la giacca. “Saluta Miriam che dobbiamo
andare!”
“Dove?”
“Come dove? In macchina!” le parti si sono invertite.
Sia per non fare filtrare la luce che per non attirare gli sguardi dei
passanti fermiamo due asciugamani sui finestrini e ci corichiamo
nei sacchi a pelo con le sciarpe sugli occhi.
“Che comoditá. Come torniamo domani dall’aeroporto? Ci sarà un
autobus?”
“Niente autobus. Mentre tu rimani qui a sollazzarti io riconsegno
la macchina e torno indietro correndo.”
“Ma saranno venti chilometri!”
“Tu non preoccuparti, solo fidati.”
Il giorno dopo con la schiena a pezzi ci trasciniamo alla reception
dell’ostello e paghiamo per due notti.
Quando Laura torna di corsa dall’aeroporto con una bandana da
Rambo legata sulla fronte mi trova nella stessa posizione in cui mi
aveva lasciato qualche ora prima. Sotto il portico con una tazza di
caffè in mano e un panino imburrato nell’altra.

Ballata della Noia


Una giornata a Nelson per rilassarsi.
A guardare il cielo ed a prendere il sole.
Senza tappe da percorrere e senza affannarsi.
Basta dormire in macchina che la schiena ancor mi duole!
Faccio una camminata ed arrivo all’alloggio che è già sera.
Dentro tutti mangiano in silenzio.
Laura mi porge un pudding tutta fiera.
Lo offre la casa ed è meglio dell’assenzio.
Al calduccio degusto il dolce prelibato.
Da coraggiosa backpacker sono diventata una viziosa.
Mi manca un po’ il bolide ammaccato
Però tutti questi lussi…che serata noiosa!

“Che cosa hai, ti stai annoiando?” mi chiede la mia compagna di


viaggio.
“No, non è questo. Mi sento un po’ pantofolaia.” sospiro.
“Questo dolce è fantastico. La padrona di casa cucina da Dio ed
ovviamente mi adora!”
“Prima ci diamo a viaggi selvaggi e poi tutto a un tratto ci
abbandoniamo agli agi.”
“La tabella di marcia prevede film e pop corn.”
“Laura mi stai ascoltando?”
“Eh? Sì che ti sto ascoltando. Perché secondo te pop corn e gelato
sono i massimi confort?”
“Quelli insieme a un letto comodo ed a una lavatrice!L’odore di
Philadelphia e macchina è scomparso di colpo dai miei vestiti.”
Dico amareggiata.
“E quindi?”
“Domani andrò all’Abel Tasman National Park a camminare un
po’.”
Cinquantun chilometri di riserva naturale si snodano su un sentiero
costale disseminato di spiagge e cascate. Da Motueka fino a
Collingwood, dalla Tasman Bay alla Golden Bay. Per percorrerlo
tutto ci si impiegano tre o cinque giorni e sul tragitto ci sono dei
rifugi in cui passare la notte. Io mi limito a un giorno d’escursione.
“Sei con me o contro di me?” chiedo sorridendo a Laura.
“Questa volta lascio. Saró con te domani ma solo con il pensiero.”
Sulle orme della mia compagna di viaggio e della sua telefonata
alla fidanzata, mi lancio in una criptica email a Vitaly. L’ultima
volta che gli ho scritto un messaggio ero a Queenstown 3 giorni fa,
quindi forse è ora di aggiornarlo.

Maorizzata
Ciao sono viva. Dopodomani torno a Wellington e poi si vedrà
cosa il Caso metterà sul mio cammino (messaggio in codice:
posticipo il volo). Scusa per la scarna comunicazione dei giorni
scorsi ma mi trovavo in luoghi sperduti con due americane
(messaggio in codice: due folli!). Con una di queste ho proseguito
il viaggio di ritorno verso Nord. Una fanciulla a dir poco
avventurosa (messaggio in codice: una rompipalle paurosa). Ora
ci troviamo a Nelson in un comodo ostello a giocare a dama
(messaggio in codice: vegetare come sedani)
Tu tutto bene? (tradotto: prima o poi chiamerò).

Alice

Tra le e-mail ne trovo una anomala: mi hanno preso a uno stage


dagli inizi di ottobre. Sono quasi commossa perchè posso
veramente rimanere qui un altro mese.
Di ritorno a Wellington proverò a cambiare la data di rientro.
“Sai che è prevista pioggia per domani?” Laura mi arriva alle
spalle come un pugnale.
“Sei un uccellaccio del malaugurio.”
“Ma è vero! Quale sarebbe il tuo equipaggiamento? Quel ridicolo
k-way giallo, pantaloni di lino e le scarpette di cartapesta che ti sei
comprata oggi?” La strega si riferisce al paio di scarpe da
ginnastica comprate per quattro dollari in un discount. Sono nere e
con una striscia viola alla Tony Manero. Con quelle addosso però
più che John Travolta mi sento Pinocchio.
Verso le tre di notte vengo svegliata da un violento temporale che
persevera con mia grande disperazione fino alle sei. Tuoni e
fulmini minacciano la mia giornata.
Laura apre un occhio: “Te l’avevo detto.” Mi dice e torna a
dormire.
“Secondo lei pioverà anche a Motueka?” chiedo all’autista del
pulmino.
“E come no?Spesso capita che mentre qui c’è il sole là ci sia una
tempesta di neve!”
“Non capita mai il contrario? Qui tempesta e là sole?”
“Non che né io né i miei avi ne abbiamo memoria.”
“Che bella notizia.”
Gli altri passeggeri sono meglio equipaggiati: scarponi in mammut
estinto, zaino termodinamico, giacca in acciaio inox.
Li perdo appena arriviamo a destinazione e rimango da sola sotto
la pioggia a camminare per dune di sabbia bagnata, foglie morte e
alberi scossi dalla bufera., per tutte le sei stramaledette ore.
Una persona sana di mente e mal equipaggiata come me avrebbe
aspettato tranquillamente il pulmino di ritorno nell’unico rifugio
alle soglie dell’Abel Tasman National Park. Ma purtroppo
appartengo a un’altra categoria: quella dei K-way gialli grondanti
e dei nasi congelati.
Procedo su un sentiero fatto di fango e foglie, intorno a me il
paesaggio avvolto nella tempesta ha il suo fascino. I pochi
viandanti che mi passano veloci accanto mi lanciano occhiate
atterrite. Sarà per il mio look spiritato, le invettive rivolte al vasto
mondo, lo sguardo da killer. L’unica a non lasciarmi sola è questa
tempesta che mi si appiccica addosso facendomi tremare di
freddo.
In condizioni pietose ritorno al posto di partenza dove attende
l’autobus. Non oso pensare a come verrò massacrata da Laura
quando mi vedrà comparire in queste condizioni.
Lei peró ha la buona idea di rimanere seria.
“Guai a te se ridi!” la minaccio con occhi iniettati di acqua tanto
sono fradicia.
“Non è facile trattenersi” emette un grugnito.”Strano però, qui ha
piovuto solo due ore al mattino e poi è uscito il sole”
“Grazie dell’aggiornamento”
“Dai che stasera è la nostra ultima sera insieme. Non sei un po’
triste?”
“Il solo pensiero mi devasta” dico sarcastica.
Domani mattina ci sveglieremo presto per prendere l’autobus fino
a Picton. Da lì io mi imbarcherò per Wellington e Laura andrà a
Kaikoura.
“Non molestare la povera Jenny” le do l’indirizzo del Dolphin
Lodge.
“Sarà lei a molestare me!”

Capitolo 3
Dall’Isola Sud all’Isola Nord

3.1 Ritorno a Wellington


Il giorno dopo do l’addio a Laura con un velo di tristezza. Giorni
addietro aspettavo questo momento con trepidazione, ma ora so
che mi mancherà… almeno per qualche ora. Mi ha ispirato e
incuriosito con la storia della sua vita, le sue passioni totali e le
sue debolezze.
“Promettimi che verrai a trovarmi in Colorado.”
“Certo. Se non altro per dire a Miriam che mi hai sedotta e
abbandonata!”
“Stronza”
Mi imbarco sul traghetto in direzione di Wellington, sperando che
il mio stomaco non debba rivivere l’esperienza delle danze tribali.
Dopo l’assidua pioggia del giorno prima oggi fa caldo e il
traghetto offre una bellissima veduta sui fiordi, sulle isole e
sull’oceano. I colori sono così intensi e accesi: marrone terra,
azzurro cielo, verde montagne, tanto che mi sembra di vivere in un
quadro impressionista. Elaboro un piano di battaglia. Per prima
cosa mi trovo un ostello adatto in cui passare questo mese, poi
vado in agenzia viaggi e posticipo il volo. Fatto questo cominceró
la ricerca del lavoro come cameriera o cabarettista. Sfogliando la
guida degli ostelli opto per il “Rosemere Backpackers’ Hostel”,
economico e con colazione inclusa. Pago subito due notti
all’ostello e vado a trovare Bart allo “Sweet Mother’s Kitchen.”
Lo trovo a chiacchierare con delle ragazze a cui mi presenta come
“l’amica del messaggio.” Il mio: “Ho la colazione che sta facendo
l’haka nello stomaco.” è diventato leggenda perchè sembra tanto
divertente. Bart continua a parlare di me:
“Alice ha deciso di fermarsi a Wellington per alcuni anni...”
“Veramente dovrei ripartire tra pochi giorni. Ho avuto una
proposta di stage a Milano” lo fermo.
Gli occhi di Bart si riempiono di lacrime:
“Ma non avvei deciso di rimanere qui per un po’ di tempo?”
“Ci sto pensando, ma non ho ancora deciso.”
Improvvisamente mi sento stanca e spossata a causa delle troppe
emozioni contrastanti: lo Ying fa a botte con lo Yang, il nero e il
bianco si scontrano. Rimango o parto. Mi sento come una palla da
biliardo che rotola per inerzia su un tavolo inclinato. E se la palla
volesse cambiare il proprio moto, tornare indietro o saltare fuori
dal tavolo?
Sfrego l’uncino maori che porto al collo, sperando che ne salti
fuori se non un genio almeno un briciolo di autodeterminazione.
Mi viene in mente Laura con il suo amore bruciante per Miriam e
il suo desiderio di tornare a casa per lei. La sua citazione preferita
era: “Well behaved women do not make history.” (le donne che
si comportano bene non fanno la storia.) Mi ci attengo
scrupulosamente anche se a volte il mio pensiero va a Vitaly. Non
posso dire che mi stia tempestando di messaggi, anche se quelli
che mi manda a rate sono affettuosi e sui generis, come: “Non ti
maorizzare troppo che il fumo ai funghi ha degli effetti devastanti
anche dopo mesi.”. Mi chiedo se non si sia fatto un infuso di
camomilla di troppo.
Ritorno al Rosemere e mi guardo intorno; tutto sembra tranquillo e
non mi sembra ci sia l’atmosfera di terrore descritta da Bart. Lui
ha abitato in questo ostello circa cinque anni fa per tre mesi: “Stai
attenta che il Rosemere attira i pazzi come il miele con le api.” Mi
racconta ad esempio la storia di un tizio dell’ostello che aveva
preso in ostaggio dei bambini nell’asilo davanti minacciando di
ucciderli se non gli fosse stato dato un lavoro in loco con quelle
stesse povere creature.
Anche la mia per ora unica compagna di camera non sembra folle,
anzi una seria valchiria tedesca di nome Julia che sta facendo uno
stage di sei mesi in un’associazione di volontariato.
Il giorno dopo scopro che solo la Singapore Airlines dall’Italia puó
darmi il via libera per posporre il volo e sono costretta a 12 ore di
attesa a causa del diverso fuso orario.
Bart mi invita a cena da una coppia di suoi amici. Finbalmente il
mondo di Bart, descritto a fatica, ma da me spesso dipinto, si sta
materializzando davanti ai miei occhi.
La coppia abita in cima a una delle colline che circondando
Wellington e da cui si ha una magnifica vista sulla città, sul porto
e sull’oceano. Mentre siamo fermi ad ammirare il paesaggio
avvolti dal buio della sera e a cinquanta metri dalla cena, il
cellulare di Bart squilla. È il ristorante strapieno di avventori e
come al solito la situazione sembra incontrollabile e la tragedia
incombe nell’aria. “Sta cadendo tutto a pezzi. Dobbiamo fare
presto.” grida il mio amico lanciandoci in una corsa disperata giú
dalla collina tanto che per miracolo non viene investito da un taxi
di passaggio. “È questione di un’ora.” mi dice Bart. “Magari puoi
darmi una mano?” Mi viene dato il gravoso compito di stare
accanto al congelatore e di tirare fuori le patate surgelate. Vista
l’incombenza del mio incarico dopo venti minuti scivolo nell’
internet point accanto al ristorante dove scrivo una lettera .
.
Lettera di addio ad un sogno
“Caro Bart,
ti scrivo perché ne ho bisogno come prendere una boccata d’aria.
Ti scrivo per sussurrarti delle parole che saranno come pillole
per il mio animo. Ti urlo parole di carta e cenere che non ti
feriranno, ma rimarranno lì innocue su un tavolo. Un groviglio di
pensieri rarefatti che si dissolveranno in un sibilo. L’inchiostro è
un involucro di quello che sono, una bolla dentro cui viaggia il
mio respiro ed è la mia unica arma di difesa mentre ti aspetto. Ti
aspetto da un anno ormai e anche se sono qui vicino a te continuo
ad aspettarti. Ferma, immobile, paziente, e solo gli occhi vagano
irrequieti. Ti cercano come quando ero in Italia e tu qui. Ti
cercano nel ricordo, frugano tra le email per scovare tue notizie
ed anche se sono a due passi da te continuano a cercarti. Prima
con intensa rassegnazione poi con fievole sorpresa. Ma come è
possibile? Forse non vedi attraverso il mio sguardo, il mio
sorriso, il mio corpo. Guarda più in là c’è un mondo. Ma non hai
tempo, non ora, non domani. Continui la tua corsa ignaro e mi fai
cenni da lontano, dal tuo mondo distante. A due passi da te se
allungo le braccia casco se indietreggio inciampo. Rimango
ferma, ma….”

“Alice vieni. Ho finito. Andiamo a mangiare.” Mi scuoto e lascio


in sospeso quella che solo dopo ho capito essere una confessione
di rinuncia. “Non voglio correrti dietro, non ti aspetto.” L’essenza
malinconica di un’epistola mai consegnata e mai finita.
Riprendiamo il taxi e andiamo dagli amici che nonostante abbiano
giá cenato, ci hanno lasciato due piatti pronti. La coversazione si
focalizza su di me e sulla mia percezione della cultura
neozelandese.
Da una parte i Kiwi sono i Meridionali del globo terrestre: più giù
ci sono solo polo sud e pinguini. Dall’altra sono gli eredi e diretti
discendenti dell’ aplomb anglosassone. Nel loro animo vorrebbero
andare in giro in bombetta nera e armati di sana iprocrisia, ma
invece si ritrovano in shorts e infradito a gesticolare come vigili.
Non mi stupisce che siano parecchio confusi... come lo sono i miei
ospiti che non avendo colto la mia riflessione mi stanno guardando
parecchio sconcertati. A Bart non resta che trascinarmi via, avvolti
da una leggera brezza di mare nella città assopita. Invece di darsi
al romanticismo, Bart inizia una lunga dissertazione dal tema: de
kiwi slang, origine, ascesi e metamorfosi dei vari: “sweet as,
choice, handle the jandal”

De Kiwi slang
Sweet as: è traducibile con “grandioso”,”che figo!” ed un
possibile: “ma vieni!” Letteralmente sta per “dolce come”.
Esempio:
Chi propone: “Andiamo a rotolare giù dalla collina.” o
“Balliamo nudi sotto la luna.” o “Facciamo finta di essere aironi
in amore.”
Chi accetta: “Sweet as!”…da non confondere con l’australiano:
“Sweet ass.” Tutta un’altra storia.
Choice: medesimo significato di grande apprezzamento con una
leggera variante. Alle party-idee proposte chi si trova coinvolto
coglie l’input rispondendo: “Questa sì che è la scelta migliore. La
scelta con la S maiuscola.” Data la pigrizia leggendaria dei Kiwi
il tutto si riassume in un’unica parola: Choice!
“Ma i neozelandesi si fanno tutti questi viaggi mentali?” No,
sono modi di espressione entrati in circolo, plasmati sulla cultura
del posto.
“Handle the jandal”: Letteralmente significa: “Maneggiare il
sandalo” In gergo: “Frena, non fare rumore per nulla. Non
impazzire per una cosa da niente.”
E’ anche il nome di un famoso concorso di videoclip musicali che
ha luogo a Wellington.

Bart si anima a cercare radici gergali perse nella sua lingua e per
fargli piacere gli faccio un sacco di domande. Abbiamo due
prospettive ineguali di una stessa superficie prismatica; lui dentro
un mondo di immagini e parole e io fuori come osservatrice. E
viceversa a volte sono io a imporre la mia anima latina nel
prenderlo per il braccio o cercare il contatto fisico, spaventandolo
a morte.
Ovviamente tra noi non succede nulla; nessuna dichiarazione di
amore folle né alcun tentativo di abbraccio letale, solo qualche
reciproco sguardo affettuoso.
La Singapore Airlines mi fa posticipare il volo di quasi tre
settimane. Così posso iniziare lo stage il 3 ottobre, calcolo.
Tuttavia ignoro che la sorte, e un hombre latino complicheranno
tutto. Metto al corrente i miei genitori del fatto compiuto,e loro
reagiscono con un sospiro rassegnato Mando un messaggio anche
a Vitaly: “Mi hanno preso per lo stage e comincio a ottobre.
Rimango qui un altro po’. Tu tutto bene?”. Il tatto telegrafico che
mi contraddistingue. La sua risposta mi sorprende:
“Non ti preoccupare. Ti meriti una lunga vacanza se hai ottenuto il
lavoro.”
Ha una voglia di vedermi che straborda da ogni centimetro della
pelle.
Mi lancio nelle strade di Wellington per cercare lavoro stringendo
scettica tra le mani qualche curriculum. Cosa potrebbe infatti
interessare al ristorante cinese ChienChien il fatto che ho gestito
l’attività di redazione di Moleskine-appunti erranti, o che mi
sono laureata in Sociologia alla Bicocca di Milano? Non posso
puntare a un lavoro come corrispondente dell’Internazionale tra i
maori, ma a qualcosa che mi permetta di sopravvivere. “Poveri
disgraziati quelli che ti assumeranno come cameriera. Con tutti i
sacrifici che avranno fatto ad aprire il ristorante!” ha commentato
mio padre. Vago per la capitale, guardandomi in giro come un
segugio finché mi decido a entrare in un lussuoso Centro di
Conferenze, uno di quegli ambienti incastonati di specchi con il
personale in divisa, cortese e sorridente, senza colori nè tinte
esistenziali. Mi accoglie un signore grande e grosso che
assomiglia al classico pappone russo da film. Mi dice concitato
che vuole assumermi, mettendomi nel frattempo sotto il naso una
decina di plichi di carta. Quando coglie la mia espressione
perplessa mi dice scrivergli solo due cose: 1) il mio Inland
Revenue Number, 2) il numero del mio conto in banca. Lo guardo
a bocca aperta. Non so neanche cosa sia il In equalcosanumber. E
poi…quale conto in banca??? Il pappone russo si deprime per un
istante ma poi come se fosse un robot che si accende e spegne a
comando riparte in quarta. “Non ti preoccupare, ti assumo. Prima
però devi mandare un modulo al Ministero dell’Economia che ti
spedirà il tuo numero personale e che ti permetterà di aprire un
conto in banca. Senza questi non puoi neanche andare a cogliere le
mele.”. Dal numero che ti affibbiano ne ricavano quanto guadagni:
se sei un agricoltore quante mucche hai e se sei un viandante in
quanti e in quali posti hai lavorato e a quali ortaggi ti sei dedicato.
Sconsolata vago per pub e ristoranti, offrendomi come kitchen
hand, cameriera, bar-woman e trapezista. Senza quel numero i
fogli di carta che raccontano la mia vita rimangano lì immobili e
ignorati. Entro in un ristorante indiano come ultimo tentativo e un
piccolo uomo vestito in bianco e nero, colori internazionali della
categoria camerieri, mi si precipita incontro. Con occhi stanchi e
in modo meccanico mi dice: “Da portar via?”. Gli spiego che non
sono lì per il take away ma per un lavoro, al che i suoi occhi
scintillano in modo strano. Mi dice di ripassare tra due ore per
parlare con il capo. Torno al Rosemere, una reggia in cui
condivido bagno e cucina con circa quaranta persone e la mia
camera è un dormitorio da sei. Anche se per ora siamo solo Julia
ed io, temiamo il peggio a ogni alba.

3.2 Danze fra tavoli


In cucina incontro mamma e figlia. Vengo subito colpita dalla
donna: è bella, sguardo intelligente e tormentato, la bufera nei suoi
occhi marroni, i capelli sono neri e la carnagione leggermente
scura. Potrebbe essere spagnola come sudamericana, ma delicati
lineamenti mi ricordano i popoli del nord Europa. La bimba avrà
dieci-dodici mesi, con la carnagione bianco candida e gli occhi
penetranti della mamma, e sta facendo i capricci perché non vuole
stare nel passeggino. La mamma sta appendendo un foglio alla
bacheca dell’ostello: “Vuoi fare la babysitter a una bimba che
sorride sempre?” Stanno viaggiando da sole e provo subito una
forte empatia per quella donna misteriosa così paziente e calma.
Mi avvicino e mi offro un po’ impacciata di tenere la bambina. La
piccola mi guarda con curiosità mentre la dondolo tra le braccia su
e giù per la cucina. Si chiama Jade come la pietra verde che porto
al collo e la sua mamma invece è Sema, in parte turca e in parte
svizzera. Sono in viaggio già da sei mesi, prima Australia e poi
Nuova Zelanda e si fermeranno a Wellington per pochi giorni per
poi riprendere la corsa. Sono esterrefatta. Non deve essere facile
muoversi con una bimba così piccola e ho l’impressione che le due
stiano fuggendo da qualcosa o da qualcuno. Quante deve averne
viste questa testolina pelata che ora mi sorride dolcemente! Non so
se riuscirei a viaggiare così con mio figlio, ma deve essere
un’esperienza unica che accomuna e rende ancora più intimi.
Poiché devo passare da Tulsi, il ristorante indiano, propongo a
Sema di accompagnarmi.
Sulla soglia trovo il piccolo cameriere di prima mentre sta
fumando. Mi guarda serio e con aria sprezzante mi fa notare che
sono in ritardo e il capo è già andato via. Mi stringo nelle spalle;
saranno i suoi piccoli occhi sottili o la sua bocca aperta in un
mezzo ghigno, ma quest’uomo non mi convince. “Vieni a lavorare
stasera alle sei.” Aggiunge in tono poco cortese appena faccio per
andarmene. “I primi due giorni sono di prova e non sono pagati.
Poi se vai bene ti prendiamo part time. Acconsento perché non ho
alternative, anche se Sema tenta di dissuadermi. “Non lavorare lì.
Non mi piace come quel tizio ti ha trattato, è stato insolente e
maleducato.”
“Sono al verde, senza numero di immatricolazione e qui di
passaggio, non ho tempo di continuare a cercare.”
“Dammi una possibilità e vieni con me in un posto.”
E Sema mi trascina in un ristorante gestito da Hare Krishna. Un
uomo grosso e pacifico ci sorride e ci invita a sederci. Gli spiego
che sto cercando lavoro e lui per tutta risposta mi offre un piatto
stracolmo di odori, spezie e sapori. Troppo speziato per le quattro
pomeridiane.
“Se vuoi puoi lavorare qui qualche ora al giorno in cambio di cibo.
Tutti i guadagni del ristorante vanno al tempio dove tutti noi
abitiamo.”
Dalla cucina sbuca un corpo femminile avvolto in una tunica
colorata e poi uomo alto e baffuto con dei bicchieri in mano. Ha
uno sguardo fatto di fuoco e neve; deciso e mite allo stesso tempo.
In questo posto si respira quiete e armonia, si parla sotto voce, si
ascolta. Tuttavia non posso pagarmi l’ostello in lenticchie piccanti
e manca meno di un’ora al mio primo lavoro da cameriera. Sema
tenta ancora di convincermi a lasciar perdere.
“Di quanto hai bisogno? Ti do io un po’ di soldi per badare a Jade
per qualche ora. Non voglio che ti trattino così.”
Non capisco perché si accalori tanto e perché il suo sguardo sebra
fatto di tempesta e grandine insieme. Tornata in ostello frugo tra i
miei pochi capi per scovare il giusto look da cameriera italiana-in
un ristorante indiano-per neozelandesi. “Indovina dove lavoro
stasera. Non ci crederai mai!” scrivo a Bart, sottintendendo il fatto
che ho deciso di rimanere qualche settimana in più. Il mio amico
viene preso da un semi infarto convinto che vada a ballare al
Mermaid, famoso locale di spogliarellismo. Già mi vede in tanga
sottile e stelline fluorescenti mentre mi esibisco per manager in
business trip. L’equivoco è nato dal fatto che la prima volta di
passaggio a Wellington scherzando sulla mia futura occupazione
là dentro Bart mi si era preoccupato seriamente. “Alice, non è
posto per te quello.” Mi dice facendomi rimanere di sasso. A parte
l’ambiente poco conforme alla mia formazione classica dovrebbe
sapere che non ambisco a spogliarmi per soldi e che il solo
pensiero della danza del palo mi fa scorrere sudore freddo lungo la
schiena. Dopo aver chiarito la situazione esco di corsa dall’ostello
in jeans sbiaditi e felpa verde sportiva, pronta a scalare il Monte
Bianco.
Appena metto piede da Tulsi capisco che sarà una serata
impegnativa. Mi trovo faccia a faccia con un uomo sgradevole con
occhi da rapace. Al mio saluto risponde roteando gli occhi in
segno di fastidio. E’ ancora presto e il ristorante è semi vuoto.
Vengo relegata dietro un bancone pieno di bottiglie di vino, birre,
spumanti, bibite; il paradiso dell’alcolizzato. Per stasera sarò
l’addetta ai cocktails perché: “Non puoi servire ai tavoli vestita
così!” mi fa osservare Naji, il piccolo uomo di questo pomeriggio.
“Da domani pantaloni neri e camicia bianca.” Non solo non mi
pagano, ma mi tocca andare a comprare la divisa internazionale e
praticamente investire sul mio futuro al ristorante indiano. Noto
inoltre che sono l’unica cameriera donna tra uomini indiani,
ciascuno dei quali mi dà mille ordini diversi al minuto senza
preoccuparsi della mia indecisione. Chi devo ascoltare? chi è il
capo qui? Non si capisce nulla e verso le sette comincia ad
arrivare gente e con essa incominciano i guai. Un ragazzo
occhialuto in un hindi-inglese marcato mi spiega velocemente
dove sono le varie marche di vino e birra e come decifrare le sigle
scritte sugli ordini. Non avendo tempo, i camerieri personalizzano
le comande in modo molto fantasioso: BC per bourbon e coca
cola, KF str per la birra Kingfisher, ML per mango e yogurt e
VM per il vino Villa Maria. Gli ordini si ammucchiano sul
bancone velocemente e la loro interpretazione è ostica. Ognuno
aggiunge delle variazioni personalizzate seguendo l’ispirazione
del momento, mentre alcuni clienti vengono al bancone e in
perfetto stile filmico ci si appoggiano con i gomiti e mi chiedono
da bere. Parlano sottovoce o biascicano e faccio fatica a capire
cosa vogliono aggirandomi persa tra gli scaffali di alcolici. Sono
paonazza e goffa e tutto mi gira intorno velocemente:
parole,ordini,richieste. Finalmente alle otto mi scivola accanto un
viso amico, Nico, una ragazza neozelandese che lavora lì già da
sei mesi. Mi spiega come fare i cocktails, i bicchieri che si devono
usare e la disposizione dei tavoli che sembra il frutto di una mente
malata amante della tombola. Non c’è un barlume di logica: dal
tavolo 1 all’8, al 64 passando per il 52. Mi chiedo chi sia l’autore
di tanta arte astratta, finché sbucato dal nulla non lo vedo conferire
concitatamente con Naji. Lui, il gran capo di Tulsi: Monty. Mi
guarda scettico con una smorfia di disgusto che gli increspa la
bocca. Osserva come sono vestita e poi mi sorride flebilmente
prima di tracannare una Corona. Nico mi si avvicina mentre sono
indaffarata a pulire i bicchieri: “Stai attenta a Naji. Spesso sbaglia
gli ordini e poi riversa la colpa su di te davanti a Monty.” Il mio
quinto senso e mezzo ci aveva proprio azzeccato. Nel giro di
mezz’ora mi faccio prendere dal ritmo frenetico: decifro, preparo,
giro, aggiungo alcol, servo i clienti al bancone. Mi piace.
L’adrenalina scorre pulsante in tutto il corpo.

La ballata del cameriere pazzo


Non ti fermare uomo viandante.
Continua a correre da chi ti chiama.
Pensi che il tuo lavoro sia pesante?
Allora versi da bere solo per fama?

Posi gli occhi sulle belle clienti.


Maledici sottovoce chi le porta fuori a cena.
Vorresti esserci tu davanti a quelle curve suadenti.
Ma ti sgoli un’altra birra e per te stesso provi pena.

Essere gentile e cortese ad ogni istante.


Fare il giocoliere con i piatti sulle braccia.
Tu che in mezzo a tutti sei solo un viandante.
Hai sempre paura di qualche figuraccia.

In cucina è un’altra storia.


Un secondo per sfogarti e ripartire.
Sulla scena ti inchini a chi è pieno di boria.
Nel retroscena dici cose che qui non si possono proferire.

I clienti vengono ben vestiti. Spesso si muovono in gregge per


festeggiare compleanni, promozioni, divorzi. Questo è un
ristorante di lusso e a parte un vermicello che devo estrarre dal
piatto di una grassa e basita signora (Suvvia, signora, sempre
carne è, mi verrebbe da dirle) l’immagine è impeccabile. A me
tocca vivere il ben diverso retroscena di questo teatro culinario.
Nel salone camerieri impeccabili servono ai tavoli armati di
suadenti sorrisi. In cucina volano polli, riso e mestoli oltre che
fragorose risate. Mi piacerebbe sapere che cosa si dicono, anche
perchè o mi ignorano o mi rimproverano. Appena tento di metterci
qualcosa di creativo, l’iniziativa viene stroncata sul nascere. “Fai
solo quello che ti diciamo noi.” mi dice Monty alla sua quarta
birra e con occhi appannati non molto credibili. Mentre i miei
colleghi in divisa volano da cliente a cliente, da tavolo a tavolo,
comincia il mio ammutinamento silenzioso e spietato. Tolgo il
dosatore alle bottiglie dei superalcolici. Quell’affare colpisce
mortalmente il desiderio di bere liberando poche gocce per volta,
facendo risparmiare Monty risparmia e mantenendo i clienti sobri.
Magari ordinano insoddisfatti un altro VO: vodka e succo
d’arancia, pagano il doppio e si illudono di diventare almeno un
po’ brilli. Senza il dosatore e con Alice al comando però è tutta
un’altra storia.
Nico è troppo occupata per badare a me e il mio piano criminale
ha subito riscontri positivi. Un donnone con bicipiti grossi come
pali della luce si alza a fatica dal tavolo oscillando verso il
bancone. Mi fa cenno di avvicinarmi e mi sussurra in un orecchio
parole alcoliche come chupiti: “ Cara fammi un altro VO…come
lo sai fare tu.” In questo momento provo una soddisfazione
indescrivibile. Meglio della laurea, meglio delle uscite del giornale
dell’università, meglio di quando il mio migliore amico mi dice
che sono unica (per fortuna perché un’altra come me non la
regge), meglio del complimento sincero di un uomo (quando
mai???). Ho in mano un’arma potentissima ed i clienti pendono
dalle mie dosi, forse anche troppo. Alcuni lasciano il ristorante
cantando allegramente, altri collassano sul tavolo e Monty osserva
perplesso la situazione attraverso la sua sesta Corona. Ormai è un
uomo sbiadito. Peccato che all’apice del mio sabotaggio Naji
venga da me, relegata dietro al bancone, mi sorrida e dica per oggi
basta e che posso andare. Mi aspettano domani per il secondo
giorno di prova. Esco vittoriosa dal ristorante, contenta che alla
fine mi sia stato mostrato un briciolo di rispetto, dopo una lunga
sequenza di sguardi glaciali.
Ora lavoro a Wellington e ne faccio ancora parte, non sono più
solo di passaggio. Comincio a conoscere le strade, i negozi e con
passo rapido attraverso la notte di questo venerdì, sfiorando la
gente euforica. Raggiungo lo Sweet mother’s Kitchen e racconto
spavalda a Bart le peripezie da Ganimede coppiere degli dei. Lui
mi guarda e sorride. Sono sicura che si diverte un mondo a
vedermi descrivere le cose con l’entusiasmo di una bambina.
“Domani vado a un matrimonio fuori Wellington e torneró fra due
giorni. Vuoi venire con me?” Rifiuto: “No grazie. Devo stare qui a
farmi sfruttare dagli indiani. Magari passo prima che tu parti con
delle amiche.” Voglio dimostrargli che non ho bisogno di lui per
adattarmi e per vivere qui, ma che posso integrarmi ed avere la
mia vita.
A Bart non si addice la ballata del cameriere pazzo, perchè lui ama
mettere a suo agio le persone e ogni cliente è un pretesto per fare
due chiacchiere, per scambiare qualche battuta. La sua mente vaga
costantemente alla ricerca di contatti umani e la sua vita è veloce,
piena di scintille che si accendono e si spengono facilmente. Bart
osserva tutto come un bambino, posa e distoglie lo sguardo su
ogni cosa nel giro di pochi secondi.
Torno a casa nella speranza che Sema abbia trovato una babysitter
a cui affidare Jade per qualche ora di sfrenati balli latino
americani. Una sua richiesta a cui non posso sottrarmi anche se
sono allergica a merengue, samba e salsa. Qualsiasi cosa che
comporti ritmo, passi coreografici e piroette da carillon.
Appena metto piede nella cucina dell’ostello mi attende peró una
strana visione. Trincerato dietro a diverse bottiglie di birra vuote
con i gomiti sul tavolo c’è Lusky. È un bizzarro americano sui
trenta- trentacinque anni, che indossa sempre scarpe lunghe e
gialle alla Pippo, magliette logore con cosí tanti buchi che sembra
gli abbiano appena sparato addosso. Ma non è questa la cosa più
strana: porta un cappello di lana lappone che gli copre cappelli ed
orecchie e gli evidenzia il faccione rosso. Sembra che Lusky si sia
insediato in ostello da mesi e che nessuno l’abbia mai visto senza
berretto. Forse sono leggende da ostello, ma l’americano è
abbastanza inquietante. Quando entro alza gli occhi dal libro che
sta leggendo e mi guarda in silenzio per qualche minuto. Mi studia
e mi sfida allo stesso tempo e ho l’impressione che i suoi occhi
sottili vogliano frugare nella mia testa: “Vediamo se hai coraggio.
Vieni a parlare con me.” Quando come un indeciso robot mi siedo
davanti a lui, un ghigno silenzioso si apre sulla sua barba
trascurata. Inizia una conversazione allucinata.

L’uomo dietro al cappello


Lusky: (sorride, biascica, sembra un ruminante) Non ho feedback
qui…ho bisogno di feed back. La gente qui è noiosa. Tu che fai?
Povera me: (occhi spalancati)) Ho appena finito di lavorare…da
Tulsi, il ristorante indiano in Cuba street.
Lusky (ridacchia, parla da solo, si risponde da solo): eh, eh…
Tulsi…povera te.. eh, eh. Triste non avere feedback vero Lusky?
Povera me plus: Ma…perché parli così?
Lusky: Mah…non so… mi aspetto tanto dalle persone. Le studio,
le giudico e mi deludono sempre. Con chi sei in camera?
Povera me al cubo: Con Julia, quella ragazza carina, bionda,
teutonica (magari lo Smeagol qui dirotta la sua attenzione su di
lei)…quella tanto simpatica (in realtá Julia è un po’ metallica e
molto inespressiva).
Lusky: (faccia disgustata, piega le labbra in una smorfia di
avvelenamento da amanite falloide) Che noia Julia. Sì…siamo
andati a fare una passeggiata in montagna una volta e lei mi ha
cantato tutto il tempo canzoni tedesche…che noia!!!Non ha
spessore.
Povera me in fuga: Beh, a me Julia è simpatica ed anche gli altri
ragazzi di qui. Ciao vado a dormire, ho un sonno… a domani!

Retrocedo dal ghigno e da quegli occhi che mi scrutano curiosi.


Bart non aveva proprio tutti i torti in merito a questo posto, che
assomiglia piuttosto a uno studentato e a una casa famiglia. Molti
ragazzi, e non solo viaggiatori, si sedimentano qui per anni e mesi.
La fauna dei viaggiatori è per la maggior parte di origine
teutonica: tedeschi al primo, al secondo e al terzo piano. In cucina
predominano i: Bratkartoffeln, Palatschinken e die Zwiebelsuppe,
un vero trionfo di sapori vichinghi. La comunità germanica si
muove compatta, piena di dignità ed è formata per la maggior
parte da fanciulle. Gli uomini oriundi si muovono impacciati tra le
loro connazionali, risultando tanto interessanti quanto mazzi di
sedamo.

Gli strani ospiti del Rosemere


Julia: di lei ho già parlato. Mia compagna di stanza nonché
ragazza molto carina, alta, bionda, bel corpo. Non il massimo
dell’espansività? È segretamente innamorata di Marcus, vichingo
amante della cultura italiana. Julia mi costringe a scrivergli
lettere in italiano facendogli credere di essere un uomo per
ingelosirlo. “Che bella donna Julia, sono perso di lei…quando mi
guarda mi accendo di speranza e le strimpello un po’ del mio
onnipresente mandolino.”
Susie: l’amica del cuore di Julia. Sono sempre insieme a
complottare piani infidi per uomini tonti. Così almeno mi
immagino dato che parlano in tedesco e non capisco nulla e
magari parlano della ricerca teleologica del Sacro Graal. Susie
ha trovato lavoro a Wellington come imbottitrice di sandwich. Se
ne avanzano li porta in ostello e li mette nel cesto del “Cibo per
tutti” contenente di solito briciole di pane, due granelli di sale e
un malandato spicchio di aglio. Susie è buona. Ci sfama tutti.
Eva: la showgirl di Frankfurt. Allegra, piena di piercing e
tatuaggi cinesi. È un’artista. Passa il tempo a fare fiorellini di
cartone, creare addobbi per i frequenti party.
Ann, Sara, Teresa: non le ho mai viste divise. Lavorano persino
all’unisono in un ristorante olandese alla periferia est di
Wellington e non so quale sia la suddivisione identitaria dei nomi.
Gli altri elementi di lunga data del Rosemere sono tutto un
programma di pazzia viscerale.

Leandro: come ti posso descrivere caro Leandro?!? Nessuna


parola ti potrebbe fare giustizia. Anche se parlerò spesso di te,
delle tue performance da stregone, dei continui tuoi ritorni dalla
vita precedente, del tuo fare lento e della tua faccia da orsetto
lavatore…è difficile disegnarti interamente. Se volete conoscerlo,
prendete il primo aereo per São Paolo do Brasil e quando
arrivate in loco chiedete del mago dei tarocchi. Se non sanno chi
sia allora chiedete di chi è stato un pilota spericolato morto in
una peripezia aerea. Se i brasiliani scapperanno da voi a passo di
samba urlate loro dietro dove potete trovare l’orsetto guerriero. È
sempre il caro Leandro…. nonché mio amante nella vita
precedente quando lui era pilota e io un personaggio politico di
spicco. Non oso mettere in discussione l’esoterismo brasiliano.

L’amante perduto
Leandro: Ma come Alice, non ti ricordi di me??? Sono io,
Leandro, il tuo amante!!!
Alice: ??????
Leandro: ma sì…come puoi avermi dimenticato???
Alice: (scorro mentalmente tutti le feste etiliche opache nella
memoria e frugo tra strati di vodka?). Scusami…ma dove ci
saremmo conosciuti….e quando saremmo stati amanti?
Leandro: Nella vita precedente. Non ti ricordi?
Il brasiliano non sta scherzando, è serio.

David: insieme ad Amanda è il manager di questo posto. A David


piacciono i ragazzi oriundi, li stuzzica e li guarda come se fossero
bottiglie di vino pregiate.
Lizie: una ragazza americana che studia a Wellington e vive al
Rosemere da due anni. L’ostello è la sua casa, David e gli altri la
sua famiglia.

La top quattro dei miei co-inquilini.

Lusky: Lusky non ti guarda, ti ispeziona. Non ti sorride, ti lancia


ghigni affilati come spade. Non ti fa ridere, ti terrorizza. Alla sera
lo trovi in cucina che legge immerso nel buio libri sulla fisica
quantistica o sulle radici della lingua tedesca.. Odia tutti e allo
stesso tempo ama e detesta se stesso . Nel modo di fare mi ricorda
Smeagol/Gollum, l’essere succube dell’anello nell’opera di
Tolkien. Il mio tessssssssorrrrrrrrrro.
Thomas: assomiglia a un gufo che non sa su quale albero
posarsi. Recita di continuo, rifiutandosi di essere se stesso: il suo
essere stravagante e teatrale fa ridere molte donzelle che tuttavia
gli si tengono ben lontane. Infatti il gufo si appollaia sempre sulla
spalla. Te lo trovi dietro che ti spia nell’ombra.. e solo se sei
donna. Se Thomas è con una o più ragazze allora da il meglio di
sé: mostra le piume, spalanca gli occhi, rotea la testa e si esprime
in timide danze di accoppiamento. Se sopraggiunge qualche
elemento maschile allora il Gufo impazzisce silenziosamente. Si
ritira sull’albero e con invidia rapace guarda giù, scruta le
donzelle e gli uomini che parlano tra loro. Non ha nessun amico.
Ama fedelmente ogni donna che gli rivolge un sorriso e due
chiacchiere e odia febbrilmente ogni uomo subentri sulla scena.
Si comporta come un bambino che ha bisogno di attenzioni, come
un attore che ha bisogno di pubblico e come un uomo che ha
bisogno, molto bisogno di stare con una donna. È neozelandese e
vive al Rosemere da un anno.
Ken: come Thomas è neozelandese. Ha quarant’ anni e lavora in
un’impresa di pulizia. Vive all’ostello da anni anche se passa
giorni e notti fuori sulla veranda a fumare e scuotere la testa al
ritmo di una musica che solo lui sente. All’inizio pensavo che
ascoltasse un’implacabile radiolina perché lo vedevo sempre
seduto fuori sulla panchina con gli occhi chiusi a muoversi come
un picchio, con un fare meditativo, concentrato e serio. Invece
Ken ascolta melodie tutte sue dato che non provengono da nessun
apparecchio musicale ma esclusivamente dal suo pensiero. Chissà
quante note gli attraversano il cervello e gli fluttuano intorno.
Vorrei sapere che musica ascolta…
Terry: il non plus ultra del Rosemere. Un’anima tormentata in un
corpo indesiderato, una tempesta di genio e rabbia
incontrollabile. Terry è un ragazzo maori che vorrebbe essere una
donna e si comporta come se lo fosse con furia. È una Drag
Queen che si veste sempre con abiti lunghi, sgargianti, strascichi
da dea egizia. Ha capelli lunghi e neri ed è una prima attrice in
cerca di fama. Monopolizza l’attenzione con gesti teatrali, risate
isteriche, si butta per terra e sfodera una proprietà di linguaggio
micidiale: “Ti seppellirò così in fondo che neanche gli archeologi
riusciranno a trovarti.” aveva detto una volta a Lusky sotto
l’effetto di una sbronza cattiva, molto frequente. Terry beve vino
al mattino e se gli sei simpatico e se sei una donna ti chiama
“Miele, Cuoricino.” e ti bacia lungamente e senza preavviso sulla
bocca, premendo le sue labbra sulle tue in segno di sorellanza. Se
non gli vai a genio ti dá della “Puttana.” Facendo schiocchiare
con ira le dita. Uomo o donna, se gli stai sulle palle sempre
“Puttana” rimani.
Terry ama volteggiare nel mezzo del soggiorno, reggendo in
mano un fiore con fare contemplativo. Quando tutti gli occhi sono
puntati su di lui si ferma, sorride e sottovoce dice: “Ragazzi siate
felici. La vostra Dea è con voi.” Prende in mano il lungo
strascico del vestito e con movenze sinuose si siede al tavolo,
ammiccando e bevendo. Terry è al Rosemere da due anni, divide
la stanza con Lizie, studia e si esibisce.

3.4 Adelante
I fatti di quel sabato mattina mi ricordano delle lampadine
fulminate. Con Sema e Julia dopo aver portato a termine la
spedizione: “Trova una divisa da cameriera per Alice.” andiamo a
prendere un caffè allo “Sweet Mother Kitchen” incrociando un
Bart, come al solito, in fuga. Julia gli sorride con malizia mentre io
lo maledico in silenzio. I vari personaggi di questa strana
avventura si stanno incrociando e mischiando.
Alla sera entro combattiva da Tulsi con il mio nuovo completo da
cameriera modello, ma passo completamente inosservata: né un
“Ciao.”, né un “Come stai?” Riecheggiano solo comandi: “Lava i
bicchieri, apparecchia i tavoli.” Al ritmo frenetico si aggiunge
l’incomprensione linguistica dell’hindi-inglese. Quando i
camerieri mi sibilano veloci ordini, devo darmi delle opzioni.
“Dunque… mi hanno detto di fare: A, B, C. A = portare l’acqua al
tavolo ventidue, B = preparare una coca per il tavolo cinque, C =
andarmene a quel paese…o in cucina.” Il range di comprensibilità
spazia ampiamente e non so quanto resisterò così sottomessa. Non
so quando alla rivolta alcolica silenziosa aggiungerò qualche
invettiva e lancio del pugnale.
Mi do da fare al meglio. Provo anche a mettere qualche piatto in
fila sul braccio scatenando scene circensi che Monty osserva
rassegnato attraverso il vetro della sua sesta Tui. Pulisco lordure
varie, mi aggiro smarrita tra i tavoli che hanno la solita
numerazione da cabala e obbedisco in silenzio. Alla fine della
serata chiedo a Naji a che ora devo cominciare. “Non abbiamo
bisogno nel week-end per cui torna venerdì prossimo.” Mi
risponde, facendomi rimanere di sasso. Dal nervoso mi vengono le
lacrime agli occhi, ma le ricaccio giù con rabbia ed esco.
Comincio a correre verso l’ostello, fermandomu solo per afferrare
una birra. Idiota io e bastardi loro!
Sotto sembianze di tempesta sahariana entro in cucina
spaventando Lusky, che rimane in rispettoso silenzio quando mi
siedo davanti a lui e mi attacco alla birra. “Serata pesante?” mi
chiede flebile Lusky. Come risposta emetto un grugnito. Nel
frattempo Terry è apparso sulla scena con un lungo vestito viola e
delle enormi tette finte che sono o manghi australiani o avocadi
sudamericani. Mi guarda. “Cara sei perfetta vestita così. Datti una
sciacquata che andiamo alla festa di alcuni ragazzi cileni. Quanto
mi piace il sangue latino!” E scompare per le scale. Ri-grugnisco
perplessa: “Vieni anche tu?”
“C’è alcol?”chiede. “E io che ne so?” In realtà lo spero. La veritá è
che l’americano vorrebbe venire ma teme Terry alla follia e
rimane al buio accucciato sulla panca. Dal canto suo Terry odia
Lusky con ferocia.
Mi incammino verso la bolgia serale con Terry, Lizie e Thomas
verso la Terrace, la zona più “in” di Wellington. Come capita
spesso in questa città è una sera ventosa, senza nubi e con la via
lattea impressa sullo sfondo blu.
La casa dove si svolge la festa è una villetta nascosta dal
passaggio pubblico e con un piccolo giardino. Sulla soglia ci
accolgono quattro ragazzi con birra in mano e sigarette in bocca.
Hanno gli occhi fiammeggianti e il sorriso vivace tipici dei sud
americani. Due di loro mi colpiscono perchè molto affascinanti.
Sono particolarmente attratta dagli uomini bruni e scuri di
carnagione mentre i biondi mi ricordano di solito la carta velina,
non troppo eccitanti. I bruni invece hanno fascino, mistero e mi
trasmettono passione e inquietudine. Sarà anche per questo che
tutti i miei ex ragazzi assomigliano per fisionomia a membri del
Mossad, profughi curdi e ayatollah iraniani. Ho avuto una sola
volta e per poco tempo un ragazzo svedese, biondo e pallido,
ricordato da mio padre con infinita compassione maschile.
I due ragazzi che mi ispirano pensieri e azioni nefaste sono cileni
come la maggior parte degli invitati/intrusi alla festa. Uno si
chiama Carlos e ha più alcol in corpo di un babà napoletano.
Carlos mi ripete in continuazione l’unica parola che conosce in
italiano:“Maledetta” che alterna all’unica frase: “Non capisci
niente.” Intermezza il tutto con un ricorrente interrogativo: “Un
beso?” Mi diverte. L’altro ragazzo mui caliente è alto, ben fatto e
porta i baffetti alla Castro. Al contrario di Carlos è silenzioso,
ubriaco perso ma calmo. Mi sorride timidamente. Si chiama
Cristiàn.
Il vento neozelandese mi spinge dentro casa finalmente fuori dalle
grinfie di Carlos e fra quelle di altri sei cileni. Un tizio mi afferra
per il braccio, mi barcolla addosso e alitandomi in faccia un mix di
vino, sangria e birra mi dice: “Balla con me bella donna. Mi piaci.
Da dove vieni?” Questo ragazzo in impermeabile giallo, gli
occhiali da primo della classe e un ciuffo di capelli che gli copre
entrambi gli occhi non mi molla più. Disperata mi guardo intorno
e vedo Thomas che appoggiato al muro mi guarda. “Thomas
dammi una mano, liberami.” lo supplico mentre l’ubriaco tenta di
trascinarmi nel bel mezzo del soggiorno. “Mi dispiace. Io non
sono Thomas. Sono solo un’entità, non esisto.” risponde triste il
Gufo. Il mio campo visivo avvista Terry che si sta esibendo in una
danza da Geisha davanti agli occhi attoniti di sbronzi e meno
sbronzi. Vederlo ballare così deve avere l’effetto di una doccia
fredda. “Da dove vieni bella chica? Sei tedesca?” continua
l’Impermeabile giallo. “E dai è la seconda volta che me lo chiedi.
Sono italiana. I-T-A-L-I-A-N-A.” Mi guarda con affetto etilico: “
Lo sai che adoro le donne tedesche. Eine kuss?”
“Gaspar lasciala stare. Non vedi che le dai fastidio?” Una voce
chiara e non intossicata dietro di me. Mi giro e vedo un ragazzo
alto, magro con l’aria sognante. Gentilmente mi allontana dalla
presa del polpo, seguito da un breve scambio di botta e risposta tra
i due in spagnolo. Lo scoppio di una rissa tra un ragazzo argentino
e uno cileno per una donna neozelandese ci distrae. Partono mani,
minacce, apprezzamenti della reciproche madri, una bella rissa in
stile latino con gente intorno che separa i due duellanti
aumentando il caos. I corpi in lotta sono sempre più vicini al mio
naso e mentre faccio supposizioni sociologiche rischio di
prendermi un pugno. Mi salva per la seconda volta il ragazzo alto
con l’aria sognante il quale mi afferra per il braccio: “Meglio se ci
togliamo da qui.” La rissa scema velocemente come un alveare di
api scacciate da uno spray mortale. I corpi tornano distinguibili.
Cristiàn guarda la scena dalla soglia e scuote la testa lanciando
un’occhiata interrogativa al mio salvatore. Poi svanisce nella sera
e nel vento.
“Mi chiamo Alejandro e vengo da Santiago del Cile. Che degenero
qui!”. Si presenta. È un bel ragazzo, ma si vede che è più piccolo.”
“Quanti anni hai?” lo scruto. Arrossisce “Venti.” Un bimbo
praticamente, anche se è simpatico ed è l’unico qui che possa
sostenere una conversazione sobria. Mi dice che dopo aver finito
le superiori ha deciso di passare un anno in Nuova Zelanda e che
lavora per poche ore al giorno in un bar a Wellington.
“Mia madre piange ogni volta che la chiamo.”Sorride rassegnato.
“Ma che ci posso fare? Vorrei anche viaggiare nell’isola Sud, ma
non ho abbastanza soldi per muovermi da Wellington.”
“Trovati un lavoro full time allora.”gli suggerisco mentre mi
guardo intorno. Temo un vigliacco assalto di Gaspar.
“Mi va bene lavorare poche ore al giorno. Non ho voglia di fare di
più.” Alejandro si stringe nelle spalle come per dire: “Che ci posso
fare se sono pigro?’’
“Allora bella tedesca vuoi ballare conmigo. Ti farò girare la testa.”
Ecco Gaspar alla riscossa. Da come cammina la testa deve girare
molto a lui. Come un carosello. Sia Gaspar e Alejandro si
bloccano quando vedono Terry piroettare verso di noi, fluttuare
con un garofano in mano preso non so dove e lanciare loro
occhiate piene di malizia. “Ma è una donna?” Mi chiede Alejandro
basito. “Beh…no, è Terry” rispondo, confondendoli ancora di piú.
Non so come mi trovo Terry a un centimetro dalla mia faccia, è
ubriaco. “Sei così bella cara. Hai due occhi stupendi” Appunto, è
ubriaco. Da così vicino vedo che ha un ombra di peluria sotto il
labbro. In questo preciso istante è così vicino che penso voglia
fare l’Hongi, l’usanza maori di naso contro naso. Ed invece Terry
mi bacia delicatamente sulle labbra per quelli che sembrano
secondi eterni, poi mi sorride e fluttua via. Alejandro e Gaspar mi
guardano con due facce contratte dall’imbarazzo.
“Ti ha baciato una donna! Sei lesbica? Wow. Mucho gusto.”
commenta Gaspar.
“Ma non hai capito che è un uomo?!?” gli risponde secco
Alejandro.
“Ho bisogno di una boccata d’aria.” fuggo fuori. Carlos e Cristiàn
stanno ancora fumando e gesticolando. Appena mi vedono cala il
silenzio. Carlos ha un sorriso ebete dipinto sul volto e ricomincia
con la solita litania del “Maledetta-non capisci niente- un beso?”
Non mi risulta più molto caliente, ma solo buffo. Cristiàn sta
andando via, ha uno zaino sulle spalle e una giacca marrone. Gli
lancio un’occhiata di sfida: “Dimmi qualcosa…sei capace solo di
guardare di soppiatto?” Lui intuisce, sorride, mi si avvicina e mi
sussurra all’orecchio: “Ciao ragazza dagli occhi blu. Ci vediamo
giù, ci vediamo all’inferno.” poi se ne va.
So che sono arrossita, so che ho il sangue che si è trasformato in
lava magmatica, so che ho lo spirito in ebollizione. Spero di non
vederlo più. Almeno per un po’ basta con gli uomini e soprattutto
con quelli che potrebbero scatenare fulmini e saette. In casa la
situazione è al massimo del degenero.

Scene di notturna follia


Uomini che rincorrono donne.
Donne che rincorrono uomini.
Gaspar steso sul tappeto assomiglia ad un criceto investito da un
pick up.
Terry ci prova con un irlandese.
L’irlandese vuole chiamare la polizia.
Alejandro è abbracciato ad una ragazza.

Il tutto non mi fa un grande effetto, anzi mi sa che andrò a casa.


“Dove vai? Ti amo!!!” Carlos annuncia dietro di me in tono
drammatico. “Va beh, allora dimenticami. Tanto domani non ti
ricorderai più di me.” gli dico.
Alejandro si svincola dalla ragazza e mi viene incontro.
“Scambiamoci i numeri. Ti posso vedere domani pomeriggio? Ti
va di prendere un caffè insieme?” A che gioco sta giocando? C’è
in palio il premio per il Don Giovanni dell’anno? mi chiedo.
Mi viene un’idea. “Va bene mandami un messaggio domani
pomeriggio.” L’indomani inviterò anche Sema con la bimba
all’appuntamento. Già mi immagino la faccia del cileno. Mi
incammino verso casa che in teoria sarebbe a cinque minuti da
qui. Peccato peró che mi perda completamente e finisca in una
zona erbosa e isolata alla periferia cittadina. Da qua però si ha una
vista spettacolare sulla città dormiente. Siamo solo io, il vento, il
mare in lontananza e le stelle, nessuno né per condividere tale mix
romantico, né per darmi indicazioni stradali. Quando raggiungo la
veranda dell’ostello vedo Ken seduto sulla panchina. “Serata
impegnativa, eh?” Mi chiede avvolto in una coperta grigia.
“Parecchio.” Mi addormento sognando di essere in un luogo caldo
con Terry vestito di rosso fuoco che dolcemente mi dice:
“Benvenuta all’inferno dolcezza.”

3.5 La storia di Sema


La sveglia mi riporta in vita dall’inferno all’ostello. Come al solito
è puntata spietata sulle otto a causa del mio ricorrente
appuntamento con la colazione. Questa storia sta diventando uno
stress. La colazione che in realtà consiste in ciotole canine pieni di
grigi cereali e caffè solubile è prevista dalle sette e mezza alle
nove, da lunedì a domenica. Alle nove in punto il sadico David
recupera le ciotole lasciando a bocca asciutta i troppo assonnati
ospiti.
Con passo incerto, ma un obbiettivo nell’animo e nel cuore,
rimbalzo giù dalle scale. Troppo tardi: sono le nove e un minuto.
David mi guarda severo e punta il dito verso l’orologio appeso alla
parete. “Ma quanto sei bastardo. Non ti fai un minimo di
scrupolo!”Per tutta risposta mi squadra con aria divertita: “Serata
impegnativa ieri, eh?”
Rimango in cucina a fissare il vuoto per qualche ora sentendomi
come la campana di una chiesa che è stata suonata a festa per tutta
la giornata.
Terry fa la sua comparsa in cucina verso le dieci. È vestito come
ieri sera, ha in mano un bicchiere di vino e ha gli occhi color
porpora. Mi viene il sospetto che sia appena tornato.
“Cara ti sei persa la fine gloriosa del party”. Con una mano
ricaccia indietro i capelli. Sembra un pavone avvinazzato. Il
canovaccio terriano ora prevede che io dica: “Cosa è successo
quindi?” spalancando gli occhi e pendendo dalle sue labbra. “È
scattata la caccia all’alcol. Abbiamo svuotato il frigorifero finché
una tizia che abitava lì non si è messa a urlare barbaricamente e a
piangere…” Terry fa una smorfia di disgusto. “Ci ha praticamente
sbattuto fuori casa. Guarda dolcezza, una zotica amorfa che non ti
dico. Pure grassa ed esteticamente poco digeribile!” Proferite
queste parole mi fa un inchino e scompare nella sala TV.
Sema con i capelli arruffati viene a cercarmi. “Mi guardi un
attimo Jade così faccio doccia e colazione?” La mia amica mi
incuriosisce, così misteriosa e viaggiatrice. Di solito non mette
Jade nel passeggino, ma la avvolge in una resistente stoffa che poi
si lega sul petto o sulla schiena, con un metodo imparato dalle
donne in Kenya. La piccola Jade mi guarda con occhi da furetto e
sorride sdentata. “Dovresti venire con noi” Mi suggerisce Sema
“Mancherai tanto ad entrambe.”
Decidiamo di scalare il monte Vittoria da dove c’è una vista a 360
gradi su tutta la capitale. Occorre salire per un’ora e mezza per
arrivare a destinazione. “Sei sicura di farcela?” chiedo a Sema
quando la vedo fasciarsi la figlia sulla schiena. Le balenano gli
occhi: “Voglio arrivare in cima. Da lì mi guarderò intorno e
deciderò la prossima meta.” Lei e sua figlia sono libere da
qualsiasi tipo di vincolo, persino dalle mappe. Per decidere: solo
un paesaggio fatto di colline e oceano, verde e blu.

Con affetto per Sema e Jade


Vai dove ti portano i tuoi pensieri ventosi.
Segui una linea sottile e sfocata che solo i tuoi occhi vedono.
Fatti portare dalla tempesta che hai dentro amica mia.
Con tua figlia che cresce in ogni posto.
Con tua figlia che impara nuove parole in strane lingue.
In silenzio ti fermi e ti guardi attorno.
Ammiri quello che ti circonda.
Sei a tuo agio.
È tutto puro respiro come sei tu.
È tutto una flebile sinfonia che conosci bene.
Mi commuovo a vederti silenziosa davanti ad un dipinto futuro.
Hai paura di fermarti, di smettere di guardare oltre un oceano di
immagini?
Allora fascia stretta tua figlia amica mia.
Continua a muoverti leggera tra tante facce ferme.

Quando arriviamo in cima faccio una foto a mamma e figlia


mentre di schiena osservano quello che le circonda. Queste due
creature unite in un dolce abbraccio sono così piccole davanti
all’immensa natura neozelandese, così disarmanti che il paesaggio
le avvolge. Ne fanno parte come pastelli colorati su una tela
enorme.
Sema è ancora girata di spalle quando comincia a raccontarmi una
storia triste. La sua.

Fuga in due
In Svizzera mentre ero incinta sono stata picchiata dal mio
compagno e padre di Jade. Due volte mi ha spinta dalle scale.
Non ho però mai detto niente né a mia madre né a mia sorella.
D’altro canto loro non mi hanno mai chiesto nulla.
La Svizzera è una nazione che ti fa sentire freddo dentro, ognuno
così falso e attento solo alle apparenze. Tutti se ne fregano di
come stai. Persino i tuoi stessi parenti.
Dopo che è nata Jade ho deciso che non potevo più continuare a
vivere lì. Tutta la mia famiglia si era schierata contro di me
quando ho annunciato di voler lasciare il mio compagno.
Allora ho deciso. Ho comprato un biglietto aereo per Brisbane,
ho avvolto mia figlia nella fascia, ho lasciato un biglietto a mia
sorella e a mia madre e me ne sono andata.
Non ci voglio più tornare in Svizzera. Continuerò a viaggiare
finché non troverò il posto adatto in cui vivere.
Con la mia famiglia non ho più contatti. Non mi capiscono e
soprattutto non mi conoscono.
Per loro sono come un’estranea.

Penso ai miei genitori che mi hanno sempre appoggiato, spinto a


viaggiare e ad avere tanti interessi. Se non ci fossero loro perderei
le mie radici, non avrei più punti di riferimento. Se sto male o
sono triste so che posso sempre tornare dalla mia famiglia ed
essere accolta con calore.
Sema ora è una nomade senza patria con un passato da cancellare
e un futuro senza contorno.
“Non preoccuparti. Ce la caveremo.” La mamma sorride alla figlia
che dorme appoggiata al suo collo.

Mentre scendiamo verso la città Bart mi chiama: “Ti va di lavorare


domani al Sweet mothers’ Kitchen?” Accetto, anche se lui peró
non ci sará. Mi arriva anche un messaggio di Alejandro, il latin
lover cileno che mi invita per un caffè. Metto in pratica il piano
subdolo e invito anche Sema con la bimba. “Sei sicura?. Non vuoi
rimanere da sola con lui?” Mi chiede perplessa la mia amica. “Non
ci tengo. Gli dirò che vengo con due amiche.” Allorché l’ignaro
Alejandro risponde che coinvolgerà un amico. Ci pregustiamo la
faccia dei due e mentre ci dirigiamo al luogo dell’appuntamento
incontriamo la Triade Nibelunga: Ann, Sara, Teresa. Le
inseparabili. Le coinvolgiamo nel boicottaggio. Da lontano scorgo
Alejandro che sta parlando con il suo malcapitato amico che è di
spalle. Quando si gira vengo presa da tachicardia galoppante
trovandomi davanti a Cristiàn. Devo soffocare una rivolta dei miei
prima miti e domati ormoni che ora come un branco di tigri
vogliono uscire dalla gabbia.
Mentre i cileni ci fissano attoniti, Sema ha la prontezza di spirito
di mettermi Jade tra le braccia: “Puoi tenere tua figlia ora?” I due
diventano statue di sale. Hanno la bocca talmente spalancata che ci
potrebbe passare una nave da crociera. “Sapete è dura essere una
madre single. Per fortuna ho tante amiche che mi aiutano.”
Commento, tradita dalla risata di Sema che ci smaschera.
Alejandro e Cristián emettono in risposta suoni flebili e nervosi.
L’atmosfera si rilassa anche se la presenza di Cristiàn mi agita.
Non solo scopro che è cileno come Alejandro.
Non solo scopro che vengono entrambi da Santiago.
Non solo scopro che condividono la stessa camera in un altro
ostello.
Ma sono anche molto amici.
Sema propone di andare a ballare latino americano.
“Come siete messi ragazzi con samba e salsa?” chiede allegra.
Alejandro fa un cenno con la testa verso il suo amico.
“Io non sono molto bravo, ma Cristiàn se la cava benissimo, è un
ballerino nato.” Emetto un sibilo di stizza. Ci mancava: bello,
pericoloso e ballerino. “Perché non ci prendiamo un tè o una bella
cioccolata da qualche parte?” propongo poco convinta.
“Cos’è non sai ballare? Ti insegno io.” mi dice sottovoce Cristiàn
guardandomi con quei tizzoni ardenti e quei baffetti sottili.
Maledetto! Per fortuna qualche Dea ellenica ha pietà di me e
troviamo il locale sud americano chiuso. Attraversiamo quella
fredda domenica sera in cerca di un posto tranquillo. Sono apparse
le prime stelle perfettamente nitide. Il gelo ha l’effetto di una lente
d’ingrandimento sul cielo e sulle stelle, amplificandole come suoni
luminosi. Dal porto giunge l’odore inconfondibile dell’oceano, un
profumo di acqua e sale insieme. Cristian, Alejandro ed io
camminiamo lenti godendoci ogni attimo, ogni parola scambiata,
anche se parlo soprattutto io dei miei sogni e del mio viaggio.
Alejandro è interessato e mi sommerge di domande: ma quando?,
dove?, perché? e poi? come un bambino nella fase dei “perché”
mai sazio di risposte. Cristiàn rimane in silenzio fumando e
guardandomi come se fossi una scultura contemporanea di difficile
comprensione. Scopro che ha ventotto anni ed è in Nuova Zelanda
da quasi un anno. Ha lavorato come garzone in alcune fattorie,
come pulitore di molluschi, come aiuto in un garage. Ha raccolto
kiwi, prugne, mele e pere. Ha fatto uno spogliarello in una fabbrica
di ostriche per guadagnare qualche soldo. Il tutto spostandosi
continuamente, di ostello in ostello, da paesaggio a paesaggio. È
Alejandro che racconta la vita recente dell’amico facendo da
canalizzatore delle storie vissute. Cristiàn lo guarda tra
l’imbarazzato e il sorpreso. “Hai fatto uno striptease in una
fabbrica di ostriche?” gli chiedo a volo radente. Lui aggrotta le
ciglia e parla a bassa voce in tono cadenzato: “Alcune backpackers
che lavoravano nella fabbrica mi hanno dato cinquanta dollari per
dieci minuti di spettacolo. Hanno fatto una colletta.” Gli faccio
notare che cinquanta dollari non sono proprio il massimo e lui mi
risponde scoppiando a ridere: “Sì ma non era integrale…altrimenti
sai quanto mi avrebbero pagato!”Ha una risata tonante, franca e
allegra simile a un petardo che ti scoppia a fianco quando meno te
lo aspetti.
Camminiamo talmente lenti smarriti nei nostri racconti, che
perdiamo Sema, Jade e la Triade. Ci guardiamo intorno, ma le
ragazze sono sparite. Allora decido di portare i miei nuovi amici
all’ostello per offrire loro una tazza di tè. Però prima li avverto:
“Ragazzi nel nostro ostello non c’è gente molto normale, non
fateci caso.”
“Beh anche nel nostro ci sono dei personaggi loschi.” dice
Alejandro “Un uomo neozelandese che odia i tedeschi, un
brasiliano pericoloso e un americano ossessionato dagli scacchi. E
noi!”
“Già voi dovete essere il pezzo forte della collezione.” sorrido
guardando Cristiàn. Sono rilassata nei suoi confronti. Ho deciso
che continuerò coraggiosamente sulla via della purificazione e
della castità.
Al Rosemere aleggia pesante una suspense da film horror: sta per
succedere qualcosa di non piacevole, temo. Ci sono due nuove
ragazze tedesche che rimangono sedute guardinghe in cucina
temendo il peggio. Devono avere già incontrato Terry, Ken,
Lusky.
“Non è brutto questo posto ed è più grande del nostro. Oltretutto è
molto più centrale.” commenta Alejandro guardandosi intorno
ammirato dalla popolazione femminile. Pensando alle dimensioni
di Wellington, girabile a piedi, il concetto di centrale è un po’
ridicolo; per raggiungere un posto da un capo all’altro si
impiegano al massimo trenta minuti. Il giovane cileno sta per
aggiungere qualche altra nota positiva quando una bufera di neve
norvegese sotto forma di Terry sconvolge la quiete. È ubriaco, ha
una sbornia cattiva e violenta. Entra in cucina e comincia a
insultare tutti lanciando sguardi cattivi e misantropi acuminati
come saette. Se la prende specialmente con Lusky che è seduto a
leggere. “Togliti da qui brutta merdaccia. Questo è il mio posto!”
“Ti prego Terry non essere cattivo.” l’americano supplica.
Più che essere imbarazzato è mortificato. Se potesse penso
vorrebbe rintanarsi tutto nel cappello come un’ostrica spaventata.
“Ti ho detto di spostarti. Vattene, mi fai schifo. Guardarti mi
disgusta.” Terry gli sputa addosso veleno. Non è più in sé. Vorrei
difendere il povero Lusky, ma gli occhi di Terry mi
immobilizzano: sono un concentrato puro di disperazione e
tragedia. Le due malcapitate tedesche sono terrorizzate, Cristian e
Alejandro esterrefatti. Noi veterani dell’ostello abituati a tali scene
in silenzio continuiamo a comportarci come se niente fosse.
Troppo paurosi per difendere Lusky, troppo temprati per scappare.
La situazione degenera come una scintilla di fuoco sul tappeto.
Terry afferra un coltellaccio da cucina e comincia a correre
furibondo attorno al lungo tavolo di legno dove la gente tenta di
cenare.
“Ahhhhhh vi ucciderò tutti, voi inutili esseri umani privi di
dignità. Vi sacrificherò a me stessa, alla vostra Dea.”
A questo punto afferro la tazza di tè e sibilo ai due amici:
“Andiamo fuori sulla veranda.” Non si sa mai cosa Terry possa
combinare. Vi è un fuggi fuggi generale, la gente si disperde come
fumo al vento. Mentre emigriamo incrocio le due tedesche che
come molle impazzite saltellano ovunque: “Gehen wir weg. Hier
sind alle verrückt!” (Andiamocene via. Qui sono tutti pazzi.)
singhiozza una disperata. “Prendiamo subito gli zaini e corriamo
via, chi se ne frega dei soldi.” risponde l’altra ed evaporano come
Alka Seltzer.
I due cileni da bravi uomini di mondo senza proferir parola si
siedono in veranda a sorseggiare la loro bevanda calda. Sono
gentili perché notano il mio imbarazzo e fanno finta di nulla.
“Ehm Terry non è sempre così”. “Già. O ti bacia sulla bocca
vestito da mignotta giapponese o tenta di ucciderti.” commenta
Alejandro serio. La loro attenzione viene catturata da Ken che
seduto accanto a noi muove la testa come se fosse un frullatore in
funzione. Cristiàn con le sopracciglia a novanta gradi mi guarda:
“È proprio un posto di instabili! Mai visto prima un tale miscuglio
di follia collettiva.”
“Beh qui non ci si annoia mai però.” Per fortuna Julia con
sembianze da angelo alto e biondo appare accanto a noi
sollevando l’animo dei due cileni, anche lei in fuga. Finalmente
interviene David a calmare Terry. Gli si para davanti:
“Per favore calmati. Andiamo a vedere un film.” lo prende per
mano e lo porta dolcemente verso la sala TV. Tutti noi tiriamo un
sospiro di sollievo. Intanto la presenza di Julia ha reso giulivo
Alejandro che lancia proposte azzardate.
“Potremmo organizzare una cena io e Cristiàn al nostro ostello.
Fra una settimana è il giorno dell’Indipendenza cilena e noi
facciamo sempre una gran fiesta.”Cristiàn gli lancia un’occhiata
preoccupata.
“In Cile il diciotto settembre le persone escono per strada, bevono,
mangiano, ballano. Costruiscono persino delle capanne di frasche
apposta per farci dentro il barbecue.” ci racconta Alejandro
sognante. Il giovane cileno parla pieno di trasporto e di orgoglio
nazionale.
Penso all’Italia. L’unica volta in cui mi sono sentita veramente
patriottica è stata non tanto tempo fa durante quella calda sera di
inizio luglio. La sera in cui il mio paese intero è esploso in boati
commossi, felici e festanti e le strade si sono riempite di vita. La
sera in cui tutti noi abbiamo perso voce, magliette e anche qualche
pantaloncino. Una notte in cui tutti abbracciavano tutti, tutti erano
protagonisti di un grande ritrovo, tutti erano Campioni del Mondo.
Tuttavia a parte quella sera indimenticabile le nostre feste
nazionali scivolano via veloci tra chi va in piazza a manifestare e
chi rimane a casa a protestare in silenzio contro le manifestazioni.
Il venticinque aprile invece di unirci ci divide. Il due giugno passa
inosservato. Invece i cileni nella ricorrenza annuale
dell’indipendenza dalla Spagna nel 1810 festeggiano come se
avessero vinto i Mondiali. Ogni anno.
Non voglio perdere quest’occasione di aggregarmi alla comunità
cilena e mi mostro entusiasta all’idea del banchetto. Cristiàn
invece è sempre più preoccupato.
“Sì, un momento. Cosa pensi di cucinare Alejandro amico mio?
Bisogna organizzarci.”
“Facciamo così. Voi ci invitate a questa super mangiata e io vi
invito domani a cena.” Propongo temeraria. A questo punto
sbucano sulla mia spalla due creature: l’angelo ed il demone.
L’angelo mi implora: “Alice che fai? Lo sai che sei una catastrofe
ai fornelli. Non sai cucinare, fai star male i tuoi amici, molta gente
ha smesso di frequentarti dopo aver assaggiato le tue infernali
pizzette. Molta gente ha smesso di respirare dopo aver mangiato il
tuo risotto. Alice ti prego, fermati. Non fare un danno, non
stroncare sul nascere questa bella amicizia.”
Il diavolo mi istiga: “Dai Alice, dai che li facciamo secchi!!! Le
pizzette…fai le pizzette che ci divertiamo. Ah, ah, ah.”
Come dare torto all’angelo alias la mia coscienza? Ormai è troppo
tardi.
“Ottimo! A che ora domani sera? Noi portiamo il vino.” dice
Alejandro “Ci sarai anche tu Julia?” le chiede con gli occhi
palpitanti: “Sì certo.” risponde da gran diva la tedesca. “Però io
non ho tempo per fare la spesa. Fai tutto tu Alice?” mi guarda con
un’espressione da cactus assiderato.
Mentre i due ragazzi ritornano al loro ostello prendo risoluta una
decisione: farò un semplice piatto di pasta e non lascerò che il
demone della cucina sperimentale si impossessi di me. È
finalmente scesa la quiete su questa specie di casa degli orrori.
“Ah dimenticavo.” Julia mi dice mentre saliamo in camera. “E’
arrivata un’intera famiglia di filippini. Sono stati derubati a Nelson
e ora stanno tornando a Auckland per rifare tutti i documenti”.
L’unica cosa che resta loro è la macchina parcheggiata sotto
l’ostello e sorvegliata strenuamente dai figli.
Per tutta la notte i due ragazzi vegliano dalla finestra sulla vettura
di famiglia come si farebbe con un figlio piccolo febbricitante.
Peccato che la lascino aperta per vigilare meglio e io e Julia
rischiamo di beccarci una broncopolmonite. Al mattino mi sveglio
molto presto, infreddolita ed emozionata a causa del lavoro nel
ristorante di Bart. Ho ancora circa tre ore prima di iniziare e ne
approfitto per fare una doccia contemplativa, una colazione
meditativa e una telefonata riflessiva a Vitaly.
Lo zarevic e la geografia mancata
Vitaly: Alicetta!!! Che bello sentirti. Dove sei?
Alice: In Giappone… ma no sono in Nuova Zelanda!!!
V: Come vanno le cose in Nuova Guinea?
A: Nuova Zelanda,,Vitali, Nuova Zelanda.
V: Sei ancora tra gli indigeni in Nuova Caledonia?
A: Sai dove è la Nuova Zelanda? (notare che sono partita da più
di un mese).
V: Mmmm non so esattamente. Da qualche parte nell’oceano.
A: Quale oceano?
V: Beh uno profondo.
A: Ma scusa, non hai guardato dove mi trovo sul mappamondo?
Mia madre segue i miei spostamenti sull’atlante.
V: Ma la mamma è la mamma. Ma come fai a comunicare con gli
indigeni?
A: Guarda che qui la lingua nazionale è l’inglese!!!
V: Ma dai? (sento palpabile la sua totale caduta dalle nuvole).
A: Ebbene sì. In Nuova Zelanda si parla in inglese. Guarda
quante scoperte oggi!

Ne segue una polemica sul fatto che dopo cinque anni di università
sia qui a fare la cameriera. “Ma chi se ne frega!!!” sbotto io: “Tu
ristudia la geografia e poi ne riparliamo”.
La conclusione assume una nota tragicomica.

V: Lo sai che sto cercando casa? Mi scade l’affitto tra poco.


A: A beh…
V: Senti Alicetta quando torni dalla Nuova Mauritania cerchiamo
casa insieme?
A: (La Nuova Mauritania?? Cercare casa insieme??? Troppi
frullati oggi) Però io sto bene qui in ostello (arranco ed
annaspo).
V: Mica vorrai vivere in ostello per sempre??
A: Qui in Nuova Zelanda TUTTI vivono in ostello (un’ immagine
comunista da kolchoz e sovchoz).
V: Ti stai maorizzando troppo (voce sul triste passivo).
A: Sì, Sì, infatti mi sono tatuata sul viso e su tutto il corpo segni
guerrieri. Devo andare a lavorare ora.
V: Ok, ok va bene. Ti sei tatuata veramente???
A: Solo Nuova Mauritania sulla fronte.
V: Ahhhhhh
A: Sto scherzando
V: Ahhhhh
A: Ciao Vitaly
V: Ciao

Siamo persi in due mondi paralleli, nel senso che non si


incontrano mai. Una storia discioltasi in partenza.
Oggi è una bella giornata di sole. Tutta Wellington si prepara a
correre verso la primavera con l’aria limpida e il vento
magnanimo.

Capitolo 4
Giornate agitate

4.1 Tra tacos e quesadillias


Sui tavolini all’aperto sono seduti alcuni clienti che prendono il
sole come lucertole abbagliate. Entro, saluto Leila, una delle
cameriere e con fare esperto vado a raccogliere i bicchieri. Uno di
loro mi dice: “Ottime le uova. Complimenti”
“Sono la nostra specialità” mento spudoratamente, perché non so
neanche quale sia il menù.
“ Ah, è lei la proprietaria?” il tizio viene ingannato dal mio
accento latino. Bart ha optato misteriosamente per un ristorante
messicano.
“No, lavoro qui come cameriera da cinque minuti”.
Gonfio il petto come un gallo, questo vuol dire che sono molto
professionale.
L’atmosfera di questo posto mi piace: l’ambiente è rilassato e
accogliente e i clienti sono per lo più habitué.
Arriva Diane, cugina del mio amico e co-proprietria del ristorante.
Mi guarda preoccupata mentre traballo con un caffè-latte verso un
atterrito vecchietto. In Nuova Zelanda ci sono diversi tipi di latte,
caffè, cappucci, mokaccini: flat white, trim coffee, cappuccino con
cacao,con cannella. Non sapendo fare neanche un caffè scrivo
diligentemente quello che mi viene chiesto sulla comanda e la
consegno a Leila. Lei è velocissima: aggiunge e toglie la schiuma
in simbiosi con la tecnologica macchina da caffè, sembrando un
piccolo polipo con tentacoli laboriosi.
Al posto di un’anonima cassa c’è un computer centrale, che
trasmette gli ordini presi a mano alla cucina o al bar. Questo vuol
dire che occorre fare una costante caccia al tesoro sul monitor che
ha diverse schermate per ogni menù, per ogni tavolo, per ogni
salsa. È un casino e per metterci le mani bisogna avere un corso da
Mac Gyver.
“Doppio tacos con pollo e una birra Tui per il tavolo due”: prima il
numero del tavolo, poi il menu tacos, poi il sottoinsieme pollo, poi
si esce dalla schermata menu e si affronta quella “bibite”, poi birre
e infine la marca Tui. Si spediscono gli ordini e veloci come flash
back si torna alla schermata iniziale. Si digita “conto” e con la
modalità di pagamento inizia un’altra procedura infernale.
La situazione si complica quando un’anziana signora mi si
avvicina mentre sono da sola dietro il bancone: “Vorrei un flat
white (flat white = caffè latte, e fin qui ci sono) con del trim milk.
“Trim milk?” ripeto come un pappagallo con la raucedine
“Trim milk!” risponde la signora esterrefatta.
“TRIM milk” scandisco le parole.
“Non sai cos’è?” le sue sopracciglia sembrano spiccare il volo.
“Non ne ho la minima idea.” Dico quasi afona.
Per fortuna arriva Diane a salvare me e la nomea del ristorante. Il
malefico Trim Milk non è altro che latte scremato.
Il locale comincia a riempirsi verso mezzogiorno e Leila, Diane e
io diventiamo tre palline da squash rimbalzanti fra clienti e pareti.
Loro corrono con quattro piatti su entrambe le braccia, io con uno
per entrambe le mani. Leila e Diane ci sanno fare, cortesi ed
efficienti, però pensano che sia scema. Mi ripetono veloci la stessa
cosa tre volte di fila: “Prendi quel piatto, prendi quel piatto, prendi
quel patto”. Oppure: “Al tavolo nove, al tavolo nove, al tavolo
nove”. Sortiscono l’effetto contrario e mi ritrovo a fare come da
Tulsi e ricorrere a diverse opzioni (A, B, C). La maggior parte ci
azzecco e allora Leila mi premia con la sua espressione preferita:
“It’s all good”che equivale al nostro : “Tutto bene”.
Mentre prendo la comanda da due giovani donne, una di loro mi
chiede: “Come pronunciate voi questo piatto: Quesadillias?”
La guardo: “Noi chi scusi?”
Lei ripete: “Voi al vostro paese…. voi messicani”.
Un’altra ingannata dal mio accento.
“Veramente non sono messicana, sono italiana.”
“Ah, mi scusi allora.” sorride la donna: “Potrei avere una
“quesadillias con spinaci? Gracias!”
Nel vedere che prende 2 dollari e me li mette in mano rispondo:
“De nada” e da lì abbandono ogni feeling patriottico e indosso
abiti ispanici in una sinfonia di Hola! Todo bien? Buenos dias a
todos!
Mi fermo a parlare al tavolo con una famiglia americana: genitori,
una ragazza di vent’ anni di nome Nina e due bambini piccoli.
Sono emigrati dagli Usa in Nuova Zelanda dopo aver ottenuto il
permesso di soggiorno, e hanno deciso di vaggiare per qualche
mese nell’isola Sud. Nina invece ha deciso di fermarsi a
Wellington e lavorare in qualche bar. “Non offrirti come
cameriera da Tulsi, il ristorante indiano in Cuba street.” l’avverto
seria.
Alla fine del turno Diane mi dice: “Domani ti insegno a fare i
pagamenti con la carta di credito.” Suona come una minaccia, ma
sono contenta di venire a lavorare anche il giorno dopo. “Penso
però che potresti venire di pomeriggio, quando c’è Bart. Ti chiamo
stasera per confermarti.” Il solo pensiero di lavorare con il mio
amico in giorno dopo mi fa sudare freddo.
“Se hai fame, vai in cucina e ordina quello che vuoi.” Non me lo
faccio ripetere.
La cuoca è una giovane irlandese che prepara delle torte favolose,
con la specialità di quella al rabarbaro, mentre il lavapiatti di turno
è un musone ragazzo francese, così torvo che sembra stia tirando il
collo a una gallina. Si chiama Didier e si trova a Wellington per
amore, dopo aver deciso di seguire la sua ragazza neozelandese.
Quando scopre che sono italiana si incupisce ancora di più per
ragioni calcistiche come gli appena passati Mondiali e la testata di
Zidane a Materazzi.
Dopo mangiato saluto tutti e vado a fare la spesa. Ho pochi soldi e
posso permettermi dei misteriosi involtini turchi, sugo, spaghetti e
gelato. Spero che i miei ospiti capiranno. Nel supermercato un
signore addetto alla degustazione dei vini mi porge un bicchiere.
“Sa, sono italiana.” dichiaro con aria sapiente. “Vieni dalla
Sicilia?” mi chiede, una delle domande più frequenti. “No, dal
nord, da Milano. “Ah, sei fortunata allora. Sai, la Mafia…”
bisbiglia guardandosi intorno.
Mi viene il sospetto che si dia troppo a Bacco. Qui hanno un’idea
pittoresca e circense della Mafia: un branco di gente pericolosa ma
sostanzialmente divertente, un’immagine che The Sopranos,
telefilm su una famiglia mafiosa del New Jersey, contribuisce a
rafforzare.
Ho dimenticato il passaporto e non riesco a dimostrare alla
commessa scettica che ho più di diciotto anni, ragione per cui sono
costretta a tornare in ostello. Sulle scale un’ombra mi scivola
dietro le spalle, mi giro e vedo Thomas in stile Mr Burns dei
Simpsons, che sfregandosi le mani mi guarda in silenzio.
“Che c’è?”
“Dove vai?”
“In un posto. Vuoi accompagnarmi?”
Thomas da Mr Burns si trasforma in Gufo. Gli occhi gli diventano
enormi, apre la bocca come per emettere un verso.
“Ceeeeeertoo che voglio accompagnarti!!” Thomas sibila. Ormai
sono diventata oggetto del suo desiderio come qualunque altra
creatura di sesso femminile, animale o vegetale, su questa terra.
Per strada il Gufo mi fa un sacco di domande:
“Perché devi comprare il vino? Devi dare una cena? Con chi?
Sono tuoi amici? Sei fidanzata? Con chi? Lui chi è?”
Una mitraglietta di intrusione allo stato puro.
“Se vuoi puoi unirti a noi stasera per mangiare il gelato.”
“Signorina mi fa vedere il passaporto per favore?” la voce della
cassiera da Mills, il paradiso degli alcolizzati.
La guardo accigliata, ma tiro fuori il documento.
“Scusa quanti anni mi dai? Così per curiosità.”
“Non saprei, meno di venti però.” Risponde sorpresa nel verificare
che ho superato da anni la soglia dei diciotto.
Thomas ne approfitta per provarci: “Hai la pelle così giovane che
sembri una ragazzina.”
“Questo complimento può attaccare con le donne in menopausa
non con me.”
Bart mi chiama mentre sono ai fornelli.
“Sei stata grande oggi al ristorante. Mia cugina mi ha raccontato
tutto!” la sua voce è piena di energia.
“Grazie. Sei al lavoro?” gli chiedo.
“No, sono a casa. Stanotte devo scrivere un tesina sulla mitologia
maori da consegnare domani.” la voce assume un’inflessione di
stanchezza.
“Non riesci proprio a venire da me a cena? C’è un po’ di gente
(forse tutto lo studentato dato che nessuno qui riesce a farsi i cazzi
propri).” sottolineo che non siamo da soli altrimenti non lo vedo
più fino al 2011.
“No, no sono incasinato. Mi dispiace. Che cosa mi perdo?”
Che cosa ci guadagni dovresti chiedermi, ma le mie in-capacità
culinarie gli sono ignote.
“Involtini turchi, pasta al pomodoro e gelato.”
“Che sfiga. Mi dispiace. Ci vediamo domani. Tanto se lavori al
pomeriggio dovrei esserci.”
“Va bene, a domani.”
“Un bacio.” e mette giù.
Quando parlo con lui mi rimane sempre un sapore amaro negli
occhi e nel cuore.
Tento di non pensarci e convinco Julia ad aiutarmi. Le chiedo di
posizionare esteticamente gli involtini turchi sul letto di insalata.
“Ma non ci vuole molto senso estetico” commenta lei rigida come
un robot.
“ Pensa di dipingere, pensa di creare.”
“Sempre cibo già pronto rimane.” sottolinea caustica quel “già
pronto”.
“Allora io adagio e tu tagli le cipolle.”
Dopo un’epopea culinaria resa tediosa dal continuo ronzio della
voce di Julia (“ Ma perché metti così tanto sale? Perché metti così
poco sugo? E le cipolle come le tagli? E perché le tagli così?)
finalmente è tutto pronto. Gli altri abitanti del Rosemere si
aggirano intorno come belve affamate, tranne Lusky che dopo
aver lanciato una smorfia di disgusto si siede sulla panca a
leggere. Gli vorrei dire di portare se stesso e il suo sudicio
cappello a fare un giro ma non posso, perché siamo costretti a
condividere un solo tavolo e due misere panche e non posso
mettere un cartello: “Divieto di passaggio causa cena privata in
corso.”
Spero solo che Terry non torni troppo presto. Thomas entra in
cucina richiamato non dalle cipolle bruciate, ma dalla presenza
femminile. Poi è il turno di Leandro, il mio perduto amante
sfortunatamente ritrovato. Lusky.
Appare anche Susie e non posso fare a meno di invitarla ad unirsi
a noi.
“Grazie ho già mangiato” declina candida. Come vi ho già detto
Suzie è buona. Un budino alla vaniglia con il sorriso, peccato che
dopo un po’ ti senti sazio.
Finalmente con circa venti minuti di ritardo arrivano i due cileni.
Alejandro è elettrico e decide di assumere il ruolo di gigione della
serata. Duro compito visto l’ambiente, la mia pasta e quell’idiota
di Lusky che lo fissa come se fosse E.T. travestito da Madama
Butterfly.
Cristiàn è invece più silenzioso, affascinante e tenebroso del
solito. Quando lo vedo i miei ormoni si cangiano nei tifosi della
Fossa dei Leoni durante il derby Milan-Inter.
Tento di fare finta di niente, ma lui mi guarda con due occhi ad
alto voltaggio magnetico.
Ci sediamo a tavola, invitati e intrusi. Non riesco a mangiare con
Lusky, Thomas e Leandro chini sui piatti dei miei amici. “Ragazzi
facciamo così, mangiamo tutti insieme il gelato. Che ne dite?” Il
Gufo e il brasiliano mi guardano adoranti e annuiscono.
Lusky risponde arrogante:
“Chi ti dice che voglia qualcosa da te?”
“Mi sembra che la pasta faccia schifo”. Ha due occhi piccoli e
cattivi.
“Allora puoi tranquillamente andarti a fare una doccia dato che
anche tu fai parecchio schifo.”
“Ti senti tanto superiore perché organizzi le cene con i tuoi
amichetti?” replica Lusky alzando la voce.
“Non per le cene, ma perché uso il sapone almeno una volta al
giorno!” ringhio.
“So io dove dovresti metterti il sapone.”
“Non accetto suggerimenti, soprattutto da una specie di fungo
prataiolo complessato come te.”
Per fortuna interviene Cristiàn con fermezza. Si alza da tavola
torvo con gli occhi socchiusi.
“Smettetela voi due. Noi siamo qui per mangiare e stare in
compagnia.” rivolto a Lusky: “Se a te non va bene puoi anche
andartene. Altrimenti stai qui in silenzio e poi mangi il gelato con
noi.”
Che hombre. Tra l’altro con quei baffetti assomiglia a uno
spacciatore colombiano.
Il Fungo prataiolo tace. Non è il caso di mettersi a discutere con
uno più alto e forte di lui.
Finalmente possiamo cenare, anche se si verifica uno strano
fenomeno. La conversazione parte allegra con l’antipasto. I miei
amici sono incuriositi dagli involtini turchi e li degustano con
piacere. Il vino scivola giù leggero.
Con la pasta l’allegria generale scema di botto, come una pioggia
torrenziale che lascia il posto al sole e al caldo. In compenso
finiamo velocemente il vino. Per fortuna i due cileni hanno portato
del vino da tavola in un cartone con rubinetto, stile Tavernello
tossico.
La faccia di Cristiàn si trasforma in quella di San Sebastiano
martire e capisco che è per via della mia pasta.
“Se vuoi lasciala.”
“ È che non ho tanta fame stasera”
Con il passaggio al gelato l’atmosfera si riscalda di nuovo e
diversi spifferi di conversazione circolano intorno al tavolo. Lusky
parla con Cristiàn, Alejandro tenta di parlare con Julia, la quale se
ne infischia e ridacchia con Susie. Cristiàn a sua volta vorrebbe
chiacchierare con me, ma io mi sono impegolata in una
discussione folle sui tarocchi con Leandro. Thomas torvo, tace ed
ascolta.
“Sono stato allievo del più grande maestro di tarocchi del mondo.”
mi svela pieno di mistero l’ex pilota redivivo.
“ Interessante. Io però non credo ai…” il brasiliano non mi fa
finire.
“Non dire nulla. Già so quello che hai in mente” chiude gli occhi e
annusa l’aria come un segugio “Tu non credi ai tarocchi!”.
Che intuito! “Quindi tu leggi i tarocchi e conosci la vita
precedente e futura delle persone. Sei una specie di Portinaio delle
anime.”
Leandro sorride felice, poi di colpo si fa serissimo e socchiude
ancora gli occhi. Temo il peggio.
“Mia amata. Vedo la tua aura tutto intorno. È forte e luminosa.
Sei una guerriera con il cuore d’oro, come me. Posso leggerti i
tarocchi uno di questi giorni?” Leandro ha trentadue anni, ma ne
dimostra dieci in meno. Ha quest’aria da peluche fradicio che ti
spingerebbe ad adottarlo o a regalarlo a qualche bambino.
“ Va bene Leandro, quando vuoi.”
Vedo Cristiàn che mi guarda scuotendo la testa come per dire:
“Che conversazione scema!” Sarà il mio poco allenato intuito
femminile o è geloso?
La fine della serata mi risulta sfocata come un immagine mal
catturata dall’obiettivo. Mentre saluto i due cileni, Cristiàn, che è
rimasto in silenzio quasi tutto il tempo, mi critica:
“Che conversazione idiota con quel tizio di San Paolo. Sai che i
brasiliani sono tutti pazzi!”
Lo guardo con una finta sorpresa: “Non mi dire che sei geloso? E
poi questa tradizione esoterica fa parte di un bagaglio culturale
ricchissimo.”
“Tutte cavolate, è solo per attirare la tua attenzione.” risponde
Cristiàn stizzito. Poi abbassando la voce: “Volevo parlare un po’
con te.”
Ora sono io che lo guardo come se fosse una scultura astratta.
Incrocio le braccia: “Noi possiamo sempre vederci giù,
all’inferno!”.
Lui accenna un sorriso dolce: “Hasta luego mia Reina” e segue
Alejandro nella notte.
Chissà quante povere fanciulle appassionate cadono nella trappola
di questo matador silente e fascinoso. Ho deciso: non sarò tra
quelle.
Devi essere un gran picaflor-latin lover- mio caro Cristiàn, ma io
sono abituata alla fuga, praticamente una maratoneta.
Prima di rifugiarci nei rispetti piccoli kolchoz-dormitori Lusky mi
mette una mano sulla spalla.
“Brava, mi complimento. Quei due ragazzi sono proprio
simpatici.”Mentre eravamo a tavola l’americano ha dato fondo alla
sua scorta di birra senza offrirne. Ora puzza come se fosse caduto
in un barile di Speights Gold Medal.
“Quanto onore.”
“Anzi sto pensando di trasferirmi nel loro ostello, al Beethoven
House. Sicuramente avrei più feed-back”.
“ Mi sembra una buona idea. Ne saranno TUTTI entusiasti…non
so al Beethoven ma QUI sicuramente.” gli rispondo dolce come
un peperoncino calabro.
La stanchezza cala sugli animi che si rilassano e allentano le
difese.
Solo Ken rimane sulla veranda ad ascoltare nuovi ritmi.

4.2 La nazione disegnata


La mattina dopo, alle nove in punto, Bart mi chiama con il tono
tipico da tragedia imminente: “Alice! Ce la fai ad essere al
ristorante fra trenta minuti? Mi dispiace, ma è successo un casino,
poi ti spiego.”
Come al solito non mi spiegherà nulla.
Visto l’intontimento mattutino e l’effetto del Tavernello della sera
prima rotolo per inerzia fino allo Sweet mother’s Kitchen. Un altro
frenetico slalom tra clienti impauriti mi aspetta.
Oggi va decisamente meglio a parte alcuni clienti che saranno
venuti una sola volta venti giorni fa e che sorridendo mi chiedono:
“Il Solito”. Che ne so a QUALE solito si riferiscono? Espongo il
dilemma a Diane.
“Torna indietro e dici educatamente ai clienti che non puoi
ricordarti i soliti di tutti quelli che vengono!” risponde. È una
donna decisa che fa patire persino il povero cuoco di turno (il
quale continua a borbottare: “Mai lavorare sotto le donne, sono
delle tiranne” versando lacrime amare nella già aspra torta al
limone).
Diane mi mette davanti alla cassa: “Ora fai un pagamento con la
carta” e se ne va lasciandomi davanti a una ragazza dai capelli
rossi che mi porge esitante la Visa.
Al primo tentativo sto per fare un errore salato: un cappuccio di
venti dollari. “Veramente…” mugugna la Rossa quando si accorge
dell’errore.
“Ha ragione, mi scusi.” arrossisco e ci riprovo. Schiaccio qui,
digito là sotto gli occhi atterriti della ragazza, ma infine domo
l’infernale macchinetta.
Accadono altri quattro eventi degni di nota.
1) Capisco rice al posto di fries e un distinto uomo d’affari si vede
arrivare una ciotola di riso scotto invece che un piatto di patatine
fritte con ketchup e guacamole. È talmente distinto che non fa una
piega.
2) Torna la famiglia americana del giorno prima. Quando mi vede
esulta. Mi hanno già adottato.
3) Una turista tedesca mi dice: “Continua a sorridere così, rendi
questo posto speciale.” Sto per risponderle: “Fuggiamo insieme
mia bella vichinga!”
4) Il cuoco maltrattato è coadiuvato da un secondo chef brasiliano
e dal solito imbronciato Didier. L’aiuto cuoco brasiliano è un
ragazzo con sorriso furbesco di nome Nicolau, che ama prendere
in giro il francese.

L’ira di Napoleone
Nicolau: Davvero sei Italiana?! Complimenti allora.
Alice: Per che cosa…ah sì! Il calcio. Grazie, grazie. Voi rimanete
i migliori comunque. Quante volte avete vinto la Coppa del
mondo?
Nicolau: Cinque volte in tutto. Voi invece quattro mi pare.
Alice: Già. Era dall’82 che non vincevamo.
Nicolau: Siete stati grandiosi!
Alice: Impariamo da voi brasiliani Signori assoluti del calcio
Didier: Ma la finite!!!! Siete tronfi come dei pavoni. Tu che sei
italiana dovresti stare solo zitta! (il francese sta lavando un piatto
con tanto ardore che sembra voglia specchiarsi)
Nicolau: È inutile che borbotti come una pentola di fagioli. Sei
solo invidioso. Non è che adesso ci prendi a testate (riferendosi
malignamente alla famosa testata di Zidane a Materazzi).
Il francese prende malissimo lo scherno e ci fissa con gli occhi
iniettati di orgoglio patriottico.
Didier:Avremmo potuto vincere se quell’italiano idiota non
avesse pesantemente insultato il..

“Basta voi tre.” interviene Diane. “Vediamo di sbrigarci con piatti


e comande.”
Didier mi lancia uno sguardo vendicativo: “Dovrai pure passare
per la cucina prima o poi.” sibila.
Afferro due piatti e non vista da Diane gli faccio la linguaccia. Poi
ritorno sulla ribalta.
Quando mancano pochi minuti alla mia libertà giornaliera Sema e
Jade entrano nel ristorante.
“Siamo venute a prenderti” annuncia Sema.
“Il tempo di mangiare qualcosa e ce ne andiamo.”
Chiedo al cuoco di farmi un tacos e non faccio caso alla smorfia
ghignante di Didier.
Mi siedo al tavolo con le mie amiche. Jade tende felice le braccine
verso di me. Sema ha l’aria stanca e mi fissa a lungo. Ora che ci
penso è da due giorni che non la vedo, da quando è scomparsa con
la Triade per le vie di Wellington.
“Dove eravate finite l’altra volta?” le chiedo.
“Dove siete finiti voi” sottolinea la mamma. “Mi sono girata e voi
eravate svaniti.”
Fa una pausa imbarazzata e china gli occhi. Poi li ripunta su di me
come un telescopio. “Sai ho pensato che volessi stare sola con
quei due ragazzi.”
La guardo così basita che non mi accorgo neanche del subdolo
Didier con il tacos in mano con occhi scintillanti colmi di
vendetta.
“Sema come puoi pensare una cosa simile? Insomma dovresti
averlo capito che non sono una mangiatrice di uomini. Faccio
fatica a giostrarmi con uno figurati due!” presa dall’indignazione e
dal disappunto addento il tacos con rabbia. Un enorme boccone.
“E poi siete voi che avete cominciato la corsa dei cento metri. Ma
vi sembra il modo di camminare?Siamo latini noi, abbiate pietà!”
Dopo questi giorni di empatia e di intensa sintonia, lei veramente
pensa che sia una ninfomane allo sbaraglio?!? Così mi delude.
“Hai ragione. Scusami. Non so come mi sia venuta questa idea.” la
mia amica accenna un timido sorriso.
Di colpo una fitta mi attraversa il palato e scende giù per l’ugola
fino ad esplodere nello stomaco. Strabuzzo gli occhi colta di
sorpresa. Da dove viene tutto questo bruciore? Una seconda fitta e
poi una terza hanno l’effetto di dinamite nelle mie viscere.
Capendo qual è la fonte di quell’inferno apro la bocca e sputo il
tacos nel piatto. Per il resto che ho mandato giù è troppo tardi, sì è
già trasformato in miccia incandescente. Il detonatore altro non è
che peperoncino piccante messicano. Il piromane, uno sciovinista
francese.
Ad aiutarmi accorre Diane che pensa stia soffocando e mi dà delle
botte pazzesche sulla schiena. Jade intanto ha sgranato gli
occhioni marroni e dalla paura si sbrodola addosso, trasformandosi
in una fontanella di saliva.
“ Ma cosa ti è successo?” mi chiede Diane: “Stavi per soffocare!”
Dalla cucina risuona una risata malvagia, quella serpe erede di
Napoleone.
“Ha chiamato Bart.” tenta di rivitalizzarmi la cugina mentre mi
porge un bicchiere d’acqua: “Chiede se vuoi venire con noi
all’inaugurazione su invito a una mostra d’arte. Se ti interessa fatti
trovare qui al ristorante alle sei.”
Mi chiedo come faccia Bart a imbucarsi sempre e ovunque.
Con l’animo rasserenato e il respiro ritrovato torniamo al
Rosemere.
Oggi Julia tornerà solo verso le sei e ho la camera tutta per me per
la prima volta. Mi sfilo i vestiti alla velocità di un razzo e vado a
farmi una lunga doccia. Già pregusto di prendere in prestito l’Mp3
della coinquilina e ballare nuda sul letto. Avvolta solo
nell’asciugamano torno in camera, ma appena apro la porta
un’amara sorpresa mi attende.
Non so quante donne possano chiamarla “amara” dato che ha le
sembianze di un angelo biondo, ma come ho già detto non mi
piacciono i Biondi.
Neanche se, come questo, sono alti, ben fatti e hanno gli occhi
azzurri.
Appena lo vedo mi scappa un “NOOOOO.”
“Ciao, sono il vostro nuovo compagno di stanza.”
Osserva il mio unico indumento: l’asciugamano. “Bella
accoglienza qui.” commenta. Replico con qualcosa a metà tra un
ruggito e un singhiozzo. Prendo i vestiti e torno a cambiarmi nelle
docce che ora sono tutte occupate. Vivere in ostello è un vero
stress.
Quando torno in camera il nuovo ragazzo si presenta.

Matthias
Bello, alto, biondo, giovane. Ha vent’anni. È tedesco ed è partito
qualche mese fa da Berlino.
Anche lui un backpacker come gli altri, anche lui all’avventura.
Stessa storia.
È senza soldi ora. Gli ha spesi tutti in birra e divertimenti a
Nelson.
Stessa storia.
Ha quest’aria da panda con la congiuntivite che di solito piace
molto alle donne.
Non a me però, senza mistero.
Ha il fascino di un cetriolo annacquato.
Il carisma di un cestino di vimini.
Parla tanto, ma non dice niente.
È divertente come un tonno in scatola.
Forse perché ha cominciato a raccontarmi la storia della sua vita
e non si ferma più.
Matthias sicuramente piacerai un sacco a Julia e a David.
Lui va pazzo per i Biondi.

Bart, Diane ed io andiamo alla mostra d’arte. Il mio amico mi


spiega che l’artista è una sua amica d’infanzia, Sandy. È una
pittrice e scultrice che a girato il mondo in cerca di ispirazione ed
è tornata in patria perché voleva concentrarsi sulla storia del
proprio paese, sulle sue origini e trasformarle in simboli visivi.
“Vedrai che mostra unica.” mi anticipa Bart.
Questa si svolge all’interno di un negozio di mobili rari: tavoli in
legno intagliato, poltrone dell’età elisabettiana, comodini costosi
come Porche.
Appena entriamo capisco che avrei dovuto vestirmi un po’ meglio;
il mio stile Scalata del Monte Bianco spicca come una macchia
viola su una tovaglia bianca. Meno male che il mio amico forma
un’altra macchia dello stesso purpureo colore
L’ambiente è molto chic. Eleganti signori e signore conversano a
bassa voce con calici di vino in mano seguiti da zelanti camerieri.
Rimango estasiata da un’arte originale. I quadri sono delle mappe
geografiche, storiche, culturali della Nuova Zelanda in quanto
“Aotearoa”- la Lunga Nuvola Bianca. Parlano dell’arrivo della
popolazione polinesiana e poi di quello degli inglesi.
Tre binomi: arte-cultura, pittura-lingua, colore-mappa si fondono
armoniosamente insieme sulla tela proitettandomi in un mondo distante.
Quello creato da Sandy. Improvvisamente una tela attira la mia
attenzione: il Trattato di Waitangi scritto in inglese e in maori. Mi viene
in mente il vecchio narratore di Rotorua e la sua amarezza nel
raccontarmi come il suo popolo avesse firmato la perdita delle terre per
un problema di traduzione. Il Trattato di Waitangi è composto da tre
articoli. Il primo determina chiaramente il passaggio di sovranità dal
popolo maori al Regno Unito, mentre il secondo e il terzo
rispettivamente riconoscono ai maori pieni diritti sulle loro proprietà
quali terra, foreste e garantiscono tutti i privilegi del fare parte del
Regno Unito.

Primo articolo del Trattato di Waitangi


Article The First Ko Te Tuathai

The Chiefs of the


Confederation of the Ko nga Rangatira
United Tribes of New o te wakaminenga
Zealand and the separate me nga Rangatira
and independent Chiefs katoa hoki ki hai i
who have not become uru ki taua
members of the wakaminenga ka
Confederation cede to tuku rawa atu ki te
Her Majesty the Queen Kuini o Ingarani
of England absolutely ake tonu atu - te
and without reservation Kawanatanga
all the rights and powers katoa o o ratou
of Sovereignty which wenua.
the said Confederation
or Individual Chiefs
respectively exercise or
possess, or may be
supposed to exercise or
to possess over their
respective Territories as
the sole sovereigns
thereof.
.

Primo Articolo - I Capi della Confederazione delle Tribù Unite


della Nuova Zelanda e gli altri Capi prima indipendenti ma ora
membri della Confederazione, cedono a sua Maestà la Regina
d’Inghilterra totalmente e senza riserva tutti i diritti e i poteri di
Sovranità che la cosiddetta Confederazione o Capi Individuali
rispettivamente esercita o possiede, o dovrebbe esercitare o
possedere sui rispettivi Territori come uniche autorità sovrane.

L’uso di determinate parole è stato causa di incomprensione e


malintesi. Per esempio, il termine: “sovereignty”, sovranità, è stato
tradotto in maori come “kawanatanga”, governo. I Capi Tribù
hanno creduto di rinunciare all’autorità politica sulle proprie terre,
ma in cambio al diritto di essere ancora padroni delle proprie
attività economiche. Ancora adesso il Trattato è causa di
controversie e discussioni tra la popolazione indigena e gli inglesi.

“Sembri così interessata ai miei lavori” l’artista, una giovane


donna piena di carisma e fascino, mi sorride.
“Sono belli e così particolari” farfuglio.
“Sei l’amica italiana di Bart, vero?”
Annuisco.
“È buffo sai. Sei l’unica persona che si sta veramente immergendo
nella mia arte” fa una pausa e indica il movimento degli invitati
intorno al buffet. “Gli altri sono troppo impegnati a immergersi nel
cibo!”
“Altro tipo di arte, quella culinaria”
“Già, voglio regalarti qualcosa” Sandy ha in mano dei piccoli
plichi tenuti insieme da un sigillo. Me ne porge uno.
“Dentro ci sono alcune riproduzioni in cartolina delle mie opere,
tutti i titoli dei miei quadri, alcune delle mie fonti.”
La guardo con stupore. Questi plichi costano circa venti dollari
l’uno.
“Grazie, ma sei sicura? Non so come ringraziarti”
“Sono io che ti devo ringraziare, perchè mi rendi un’artista felice”
scompare con grazia.
Torno ad ammirare la mia opera preferita: New Aotearoa
sull’arrivo di Cooks in Nuova Zelanda nel 1769. Il costo è di
2.600 dollari neozelandesi. Se vado avanti cosí, me lo potró
permettere solo nella prossima vita.
“Allora ti piace la mostra?” Bart è alle mie spalle.
“È incredibile. La tua amica è incredibile.” rispondo distratta.
“Hai comprato il plico?Volevo regalartelo io”
“Non l’ho comprato. Me l’ha regalato Sandy” glielo porgo.
Bart spalanca gli occhi:
“Come, come? Questo te l’ha dato Sandy?!? Ma se non l’ha
regalato neanche a me!”. È perplesso e un po’ deluso.
“Si vede che non ti sei immerso completamente nelle sue opere,
mio caro.”
Tutti gli invitati se ne vanno. Rimaniamo solo Bart, Sandy ed io.
Mentre la aiutiamo a chiudere la galleria vedo un viso conosciuto
che mi osserva immobile dall’altro lato della strada. È Alejandro.
Gli faccio segno di entrare, ma lui esita guardando con terrore il
tavolo costoso dietro di me.
Devo uscire fuori. “Che ci fai in questo posto?” mi chiede.
“Una mostra d’arte. Guarda che il tavolo non ti morde se entri!”
“Non è quello. Che posto lussuoso accidenti!” il giovane cileno ha
un cappello a fungo calato su orecchie e occhi. Sembra un
apprendista scassinatore.
Anche Bart esce e Alejandro si tranquillizza. Il Kiwi sembra
invece il RE degli scassinatori con una giacca nera da
motociclista, i capelli sparati per area e l’orecchino sul lobo
destro.
“Vi va di venire a bere qualcosa allo Sweet mother’s Kitchen con
Sandy e me?” propone il Kiwi.
“Come no!” sorride Alejandro.
Al ristorante sono di casa ormai, entro ed esco dalla cucina come
fa Bart. Ho uno scopo peró: voglio vedere se quella specie di serpe
francofona è ancora lì.
Invece al suo posto c’è un ragazzo di Milano che scopro abita
dietro casa dei miei genitori e che si rifiuta di parlare con me in
italiano.
“Perchè parlate in inglese se siete entrambi italiani?” mi chiede
Alejandro in spagnolo.
Quando non vogliamo farci capire dai neozelandesi, i cileni mi
parlano in spagnolo e io rispondo in italiano.
“E che ne so, mi sembra molto gasato” rispondo.
“Ma in che lingua state parlando?” Bart ci guarda con orbite
spalancate quanto la galassia solare.
“È il: CILITANO, amico. Qualcosa tra il cileno e l’italiano.”
Sandy dà a tutti un passaggio a casa perchè Bart sembra essersi
preso un accidente. Continua a tossire e ha gli occhi rossi. Gli è
scesa la voce e sembra parlare dal sottosuolo.
“Domani rimani a casa e non fare stupidate. Ci penso io al
ristorante.” Provo a rassicurarlo.
Chissà come mai Bart viene assalito da uno scoppio violento di
tosse.

Venerdì mattina vengo svegliata dalla voce roca di Monty. “Ci sei
stasera?” Per un attimo non so cosa rispondergli. Vorrei fargli
un’esaustiva pernacchia, ma opto invece per una mite conferma,
per due ragioni. In primis per i soldi. Pochi, molto pochi ma
sempre soldi. Non so neanche quanto ma Nico mi aveva parlato di
dieci dollari all’ora. In secundis per la prima volta mi pagheranno.
Dopo aver lavorato gratis per due sere non posso dare loro la
soddisfazione di avermi COMPLETAMENTE spremuto come un
limone. In piú anche Diane mi chiama, dicendomi che oggi non
hanno bisogno di me al ristorante, facendo crollare speranze di
ulteriori guadagni.
Scendendo le scale mi imbatto in Amanda che mi porge un
biglietto da parte di Sema.
“Se ne è andata, non l’ha detto a nessuno ma ha lasciato questo per
te.”
La mia amica ed io abbiamo lo stesso stile della fuga silenziosa,
senza abbracci, lacrime, o saluti.
Nessuno però l’aveva mai fatto con me fino ad ora e devo
ammettere che fa male. Mi siedo in veranda vicino a Ken a
leggere.

Poche righe
Cara amica, ricominciamo a correre. Via verso il Sud alla ricerca
dei fiordi per Jade e delle montagne per me. Lascio Wellington
con tristezza. Per i ragazzi dell’ostello, per le torte meravigliose
dello Sweet mother’s Kitchen, per il porto illuminato.
Per te mia cara che mancherai ad entrambe. Jade ti cercherà in
ogni nuovo volto sperando di riconoscere il tuo sorriso. Io non
dimenticherò la quiete che per poco abbiamo condiviso.
Siamo simili noi due, anche tu fuggi via silenziosa seguendo
l’istinto.
Allora non essere arrabbiata con me, so che puoi capirmi.
Come la sorella che avrei voluto avere. Come la sorella che avrei
voluto dare a Jade.
Solo poche righe per sorriderti da lontano.
Poche righe per augurarti di essere felice.
Continua a viaggiare e pensa a noi.
A Sema e Jade.
Con affetto

Le lacrime mi bruciano negli occhi, ma rimangono sospese e non


vogliono scendere. Persino Ken ha smesso di dondolare la testa e
mi osserva in silenzio.
“Ken sono triste” gli dico.
“Non devi esserlo. Vedrai che LUI torna e lascia l’amante.”
“Lui chi?” gli chiedo.
“Non è la lettera di un uomo quella che leggi?”
“Non proprio.”

“Mia amata! Oggi non mi sfuggi.” Ken ed io sobbalziamo.


Leandro apparso dal nulla è davanti a noi. Ha in mano una scatola
e mi guarda con fare solenne.
“Vieni dolce fanciulla che ti leggo i tarocchi.” Ormai è troppo
tardi per simulare un attacco di peritonite e rassegnata seguo l’ex
pilota in cucina.
“Ti parlerò del tuo futuro e della tua Aura guerriera.” Leandro
allinea i tarocchi sul tavolo. Sono carte costose, ben dipinte e
curate. Il brasiliano chiude gli occhi. I miei invece sono spalancati.
“Vediamo un po’. L’amore…” sta facendo tutto lui. Gira le carte e
ne estrae tre. Ne seguono alcuni versi: “Ahhhh, Uhhh, mmmmh,
orrghh”. “Che succede?” mi preoccupo un po’.
“Sei bella incasinata con gli uomini.” mi mostra le carte. Tre
figure di donne: una su un trono, una con una specie di bastone in
mano e una che danza.
“La regina sul trono significa: abbondanza. Vuol dire che al
momento pensi a due-tre uomini e non sai cosa fare.”
Il che potrebbe essere anche vero. Bart rimane una cicatrice
cosparsa di sale e Vitaly rappresenta un rapporto da idratare.
Leandro procede serio. Capisce di aver segnato un punto.
“Poi c’è la trasformazione. Vedi questa donna con il bastone. Vuol
dire che tra poco incontrerai un uomo di cui ti innamorerai. Un
altro uomo.” Il brasiliano scruta le carte come se fossero delle rare
miniature. Arriva Thomas che appena mi vede con Leandro si
contorce in un’espressione di fastidio e scompare subito. La tipica
espressione da clistere.
Intanto mèdito. Dove vuole arrivare il mago? Ho il vago sentore
che ci stia provando.
“La terza carta è il simbolo…” Leandro fa una pausa: “…
dell’amore completo. Sarai felice con questo uomo a cui ti darai
totalmente. Sei fortunata!”.
Rimango qualche secondo in silenzio. “Magari l’uomo di cui mi
innamorerò follemente è brasiliano?”
“Beh sì! Penso di sì. Siamo già stati amanti una volta!” lo sguardo
di Leandro trasuda miele.
“La vita precedente rimane precedente per qualche ragione.” Non
riesce a provarci in modo normale.
“Eppure i tarocchi non sbagliano mai, non sono io che li controllo.
Comunque ora che siamo soli devo dirti una cosa.”
Dovevo rimanere con Ken in veranda.
“Tu mi piaci. L’universo vuole che noi stiamo insieme, che
torniamo ad essere amanti. È l’armonia di tutte le cose.” Leandro
si dichiara.
“Senti. Facciamo una pausa Leandro. Visto che siamo già stati
amanti perché non diventarlo di nuovo…nella vita futura. La
prossima intendo. Così ci prendiamo una vita di pausa per nuovi
incontri e nuove esperienze. Che ne dici?” faccio fatica a rimanere
seria. “ Ti ho anche detto che ho un ragazzo russo.”
Leandro non molto convinto ci pensa su: “Allora vuol dire che ti
aspetterò. Inoltre a me piace molto la cultura russa”.
Salto sulla sedia. Forse ho capito male, ma il brasiliano accenna a
un mènage á trois.
“Va bene. Magari un giorno nella prossima vita.”
“Che ne dici di domani?”
“Domani è un po’ presto. Ho detto nella vita futura!” in che razza
di conversazione mi sono invischiata.
Il brasiliano tace guardando le sue donne dei tarocchi. Rifiuta di
credere che voglia rompere l’armonia dell’universo. “Rispetto la
tua decisione. Andiamo avanti a conoscere il futuro.” dice greve.
Secondo le carte avrò un roseo futuro. Il lavoro che farò non solo
mi piacerà ma mi permetterà di viaggiare. Diventerò ricca e godrò
di ottima salute. Abbastanza scettica chiedo a Leandro dei miei
genitori.
“Non ti preoccupare” mi risponde deciso il brasiliano: “Anche loro
avranno un sacco di soldi e viaggeranno molto.” Se lo interrogassi
sulla mia quasi centenaria nonna probabilmente mi direbbe le
stesse cose. Avrà soldi e girerà il mondo.
Mi viene il dubbio che la mia famiglia ed io rapineremo una
banca.
“Ma sei sicuro di dare la giusta interpretazione?” sono sempre più
perplessa.
“I tarocchi non sbagliano mai ed io neanche. Certo che dovresti
fidarti dell’energia del cosmo..” frase che tradotta terra a terra sta
per: “Diventiamo amanti subito e facciamolo qui in cucina!”
“Sì, sì, ho colto il concetto. Non è la vita giusta questa te l’ho già
detto. La prossima.” taglio corto e torno in camera.
Sulle scale Thomas si para davanti.
“Cosa fai stasera?” mi chiede truce. “Ti va di uscire stasera con
me, Julia e Susie? Andiamo a teatro.”
“Vi raggiungo quando stacco da Tulsi, verso le undici e mezzo.”
“Va bene.” Abbassa triste la testa, come se stesse perdendo le
piume e se ne va.

Alle sette sono al ristorante. Un’ora più tardi rispetto alle scorse
volte così Tulsi risparmia. L’atmosfera è tesa. Appena avvisto
Monty capisco che è nervoso. Il cameriere magro con gli occhiali
mi si avvicina: “Nico si è licenziata.” Un brivido freddo mi
attraversa il corpo. Vuol dire che sono l’unica addetta ai cocktails.
Nico se ne è andata senza preavviso e questo ha fatto arrabbiare il
capo. Mi chiedo cosa pretenda se tratta i camerieri come guanti
monouso. Inoltre da Tulsi non è necessario né l’Inland number, né
il conto in banca e si è pieni sostenitori del lavoro in nero.
Con questi pensieri in testa porto delle birre a un tavolo di giovani
uomini. Neanche a farlo apposta rompo un bicchiere mandando
Monty su tutte le furie.
Mi prende per un braccio: “Che cavolo fai? Mi vuoi sabotare
anche tu? Guai a te se succede ancora.” Il bastardo non solo mi
minaccia ma mentre parla sputacchia salsa piccante ovunque. Mi
sembra Jade quando ha paura e si sbrodola tutta, solo che
quest’uomo non ha un decimo della sua grazia.
La mia ira sale. La sento crescere nello stomaco e cerco invano di
bloccarla. La situazione precipita.
Due anziani signori mi chiedono di avere altro riso in bianco.
Vado in cucina e lo estraggo da un pentolone abbandonato. Ne
metto un bel po’ nel piatto e lo porto ai clienti. Non mi viene
neanche in mente che l’extra ciotola di riso sia da pagare.
Dopo pochi minuti Monty mi blocca ancora il braccio in una
morsa a tenaglia: “Allora è vero che mi vuoi rovinare disgraziata!
Cosa ti salta in mente di regalare così il riso alla gente. Guarda che
costa!” Neanche gli avessi rubato quel grosso anello di diamanti
che porta al mignolo.
Ormai l’ira mi asserraglia il cuore. Se arriva al cervello e lo
espugna non ci sarà più nella da fare, scoppierò.
Passo tre ore di inferno tra gli ordini confusi da Naji, duemila
bicchieri da pulire e bottiglie di spumante da aprire. Mi parte
anche un tappo di champagne che fa gridare una ragazza isterica.
Mi giro e vedo Monty che non mi guarda, mi sbrana. Inoltre faccio
un po’ di confusione con le comande: alcune invece di
consegnarle al laido cassiere le butto. Naji se ne accorge e le
recupera in silenzio perchè proteggendomi fa il suo interesse. È lui
che mi ha arruolato qui.
Quando il locale si svuota cerco di mettere a posto il mio piccolo
ufficio da alchimista: il tavolo dei cocktails. È a questo punto che
noto su un piattino un limone tranciato in fette enormi. Queste
fette dovrebbero scivolare nelle bottiglie di Corona, ma così
tagliate non passerebbero neanche per il Canale della Manica. Da
scrupolosa cameriera li rimodello in pezzi più piccoli.
“Che diavolo fai?” alla mia sinistra scoppia un tuono. “Quel
limone l’ho tagliato io. Come ti permetti stupida?!” Monty mi
ringhia addosso.
Allorché non mi tengo più.
Con decisione lancio il coltello che ho in mano nel cestino del
ghiaccio, facendo sobbalzare l’indiano.
“Questo limone era tagliato da schifo. Non ci sarebbe mai passato
in nessuna delle tue dannate bottiglie di CORONA.” Sibilo come
un bassotto asmatico, lo punto come un cobra affamato e alzo la
voce alla parola “Corona.” Una poco velata minaccia di dare in
escandescenze davanti agli avventori rimasti.
A Monty si formano tante grinze agli angoli della bocca come se
si stesse decomponendo, poi si guarda veloce in giro. Per fortuna
la gente non si è accorta di nulla, troppo intenta a mangiare il riso
fossile.
“Per favore non urlare.” il capo assume un’espressione docile e
remissiva. Prova a sorridermi: “Fai come vuoi. Sei tu l’addetta ai
cocktails.”
Sono troppo fumante per rispondergli. Continuo ad accoltellare
limoni per altri dieci minuti prima di calmarmi. Gli altri camerieri
si sono barricati in cucina.
Verso le undici Naji mi dice di smontare. “Siediti, ti porto
qualcosa da mangiare. Sei stata brava oggi.” Monty appoggiato al
bancone trangugia la sua amata Corona. L’ottava se non ho
contato male.
È la terza volta che lavoro qui ed è la terza volta che mangio riso e
pollo. La stessa ricetta e la stessa salsa. Ceno in silenzio perché
voglio andarmene da qui al piú presto.
Prima di uscire però mi piazzo davanti a Monty.
“Domani a che ora?” gli chiedo fredda.
“Domani no. La prossima settimana, martedì o mercoledì. ”
risponde ubriaco.
“Quando mi paghi?”
“La prossima settimana”
“Quanto?”
“Lo stesso che davo a Nico. Dieci dollari all’ora.”
Finalmente sono fuori. Respiro aria e non cibo indiano. I miei
vestiti puzzano di curry e dal e mi sento come se fossi stata
intrappolata in un pentolone.
Raggiungo Thomas e le due amazzoni davanti al teatro.
“Dobbiamo aspettare anche Leandro. L’ho invitato a uscire con
noi.” dice Julia.
Thomas elegante per il balletto si fa torvo. Sospiro. Una serata con
il Gufo, Julia, Susie e il Mago dei tarocchi. Ora capisco perché le
persone iniziano a fare uso di stupefacenti.
A passo molto lento ondeggiando in quella sua giacca nera di pelle
che lo rende ancora più basso compare Leandro, sempre con un
sorriso sornione e gli occhi semichiusi. Appena lo vedo l’anima mi
si rischiara. A differenza di Thomas, il brasiliano emana
un’energia positiva, che ti rende allegro solo a guardarlo. Sembra
protetto da un bozzolo di serenità.
Il Gufo invece è un buco nero armato di irrequietudine. Difficile
non sentirsi soffocare vicino a lui.
Entriamo in un oscuro buco-pub di nome Tunnel.
L’ambiente interno si ispira al film di Tarantino: “Dal tramonto
all’alba.” Una band sbucata direttamente dall’Ade si esibisce sul
palco. Il cantante si esprime in singulti e ruggiti. Dentro non si
vede praticamente niente, ma sembra di sentire gli ultrasuoni,
tanto che mentre siamo seduti a un tavolo stile bara a un tratto
vediamo i nostri bicchieri sobbalzare.
“Hai visto come spacca questa musica?” mi fa concitato Leandro.
Più che spaccare perfora i timpani. Prendo un VO: vodka and
orange juice, anche se un tè verde sarebbe più alcolico. O mi
hanno rifilato la tisana della nonna oppure sono io che ho abituato
troppo bene i clienti di Tulsi.
Intanto un tizio alto, magro e con la giacca a riccio piena di aculei
ci prova prima con Julia, poi con Susie e infine con me. Ci sta per
provare anche con Leandro, ma si rende conto in extremis che non
è poi così ubriaco. In quel frastuono mi chiama Bart,
costringendomi a uscire perché qui dentro non riesco neanche a
sentire il mio respiro.
Il Kiwi è a casa raffreddato: “Hai sentito il terremoto?! Pazzesco
qui a casa si sono messe a tremare le pareti. Non ti sei spaventata,
vero?”.
Deduco che i bicchieri non erano posseduti quindi dal demone
della musica.
“Veramente non ce ne siamo neanche accorti.”
“Come non hai sentito nulla?!?. Ma se tremavano i muri!”
esclama pieno di disappunto. “Dove diavolo sei?. Non mi dire che
da Tulsi non ti sei accorta di nulla. Lì hanno i muri fatti di cartone
tanto sono spilorci!”
“Sono al Tunnel.”
“Ahhhh adesso ho capito tutto. Lì non sentiresti neanche i
bombardamenti” fa una pausa sorpreso. “Ma ti piace quel posto?”
“Quando sarò nell’Inferno dantesco in uno dei tanti gironi
sicuramente lo apprezzerò di più.”
Il Kiwi ride: “Sei proprio buffa. Dai vado a dormire ora.”
Non so quanto abbia colto del mio riferimento letterario, ma al
mio amico ricordo sempre piú un manga giapponese.
Non che la cosa mi dia fastidio, anzi lo apprezzo. A volte però
vorrei che mi dicesse qualcosa del tipo: “Sei super sexy!” oppure:
“Se ti guardo troppo mi trasformo in un lupo mannaro.”
I miei amici mi raggiungono fuori.
“Andiamo a ballare in un locale che conosco.” suggerisce Julia.
Poi rivolta a me con un mezzo sorriso: “ Sta proprio davanti al
ristorante indiano in cui lavori.”
È una persecuzione. Tuttavia Wellington è talmente piccola che
quasi tutti i locali si concentrano in Cuba Street.
Vorrei eclissarmi e andare a dormire, ma Thomas mi sta
appollaiato sulla spalla e sembra lanciare la campagna: “Adotta un
gufo solitario.” Magari fosse: “Adotta un cileno affascinante.”, ma
purtroppo mi devo accontentare. Mi chiedo cosa stia facendo
Cristiàn in questo momento. Probabilmente sarà nel girone dei
lussuriosi con qualche fanciulla.
Leandro ormai è partito a passo di samba in strada.
“Noi latini abbiamo il ballo nel sangue.” ammicca il brasiliano.
Il locale è piccolo e stra pieno. Non ci si può quasi muovere. Se mi
fossi immersa nell’olio di oliva forse adesso riuscirei a scivolare
tra la folla. La musica è un mix tra R.n.B e minus techno, una
combinazione allucinante.
Thomas si accascia tristemente su uno sgabello, Julia e Susie
sedute ad un tavolo si camuffano con la tapezzeria.
Leandro si butta in mezzo alla pista, comentandosi nel: ballo di
Miyagi.
Il vuoto intorno.

Il ballo di Miyagi
Ecco qualcosa che ti renderà famoso.
Come? Segui Mr Leandro dalle mille vite e sei subito leggenda.
Ti piazzi al centro della pista in una discoteca iper piena,
ovviamente senza toglierti la giacca di pelle che hai addosso.
Lancia un grido da pellerossa zoppo.
Piega la schiena come se avessi un attacco di lombosciatalgia.
Allunga le braccia il più possibile ed incomincia a muoverle in
modo concentrico. Come se disegnassi con un bastone tanti cerchi
sull’acqua.
Dai e togli la cera come lo storico maestro in Karate Kid: Mr.
Miyagi da cui il nome.
Sempre in questa posizione piega le gambe e avanza per la sala
da ballo annaspando.
Muoviti molto lentamente come una lumaca in preda ad una forte
emicrania.
Socchiudi gli occhi e annusa il sudore dei danzatori come se
fossero tanti tartufi. Sentiti un segugio!
Vaga ramingo per la discoteca con le mani che sfiorano il
pavimento.
Non ti fermare.
Neanche se qualcuno ti urla dietro.
Neanche se ti rompono una bottiglia in testa.
Neanche se arriva la polizia.
Tu continua.
Ed è già moda.

Il ballerino continua a farmi cenni di unirmi a lui nella danza della


cera.
Comincio a ballargli vicino sperando che parta per un altro dei
suoi giri coreografici. Invece mi si appiccica addosso come
gomma americana. La danza di Miyagi lascia il posto a
un’improvvisata lapdance. Io dovrei essere il palo su cui il furbo
amico vorrebbe strusciarsi. Solo ora noto con terrore che il
brasiliano ha più birra nelle vene che sangue. Cerco una via di
fuga, cerco gli altri ed avvisto solo Thomas.
“Thomas dove sono Julia e Susie?”
“Sono tornate all’ostello.” la voce atona.
Provo a sfuggire alle grinfie di Leandro e adotto la tecnica della
molla vagabonda. Comincio a saltare per tutta la sala, ma Leandro
non demorde. Ha ripreso la danza di Miyagi con grande
disappunto di tutti e mi segue.
“Ma che diavolo fate?”
“Guarda questi pazzi! Non ci lasciano ballare.”
“Spostatevi! Dove credete di essere?”
Il vociferare generale aumenta pieno di indignazione e lamento e
non hanno tutti i torti..
Non ci resta che sparire. Trascino Thomas e Leandro fuori dalla
discoteca. Il primo è in stato catatonico, il secondo troppo attivo.
“Ehhhh nessuno batte noi latini. Abbiamo la musica nel sangue.”
si gloria l’ex pilota.
“Più che nel sangue nella birra.”
“Eh?”
“Niente, niente.”
Torniamo nella casa comune, Leandro a passo di samba, Thomas a
passo di zombie, io a passo da maratoneta.Voglio solo dormire.
Sulla veranda incontriamo Ken.
“Serata impegnativa, eh?” mi chiede.
“Come al solito, Ken, come al solito.”

Sabato lavoro solo poche ore al mattino allo Sweet mother’s


Kitchen insieme a Becky, una ragazza incinta molto simpatica per
cui Mattia, il lavapiatti di Milano si è preso una cotta : “She is so
nice.”
“Why do you speak in English with me all the time?” rispondo da
italiana a italiano in inglese.
“Well, why not!” la risposta del mio connazionale.
Due cretini. Two idiots.
La famiglia americana è diventata cliente fissa. Mi ricordo il
“solito” di ciascuno di loro. Nina sta ancora cercando lavoro.
“Ho lasciato il curriculum al Mermaid. Ho pensato: dato che adoro
ballare alle feste so che me la posso cavare piuttosto bene.” È
seria.
“Nina ti prego, guarda che là il problema non è ballare, ma
spogliarsi davanti a uomini bavosi.”
“Ma non possono toccarti e poi ti pagano molto bene.”
Forse non ho capito bene. Nina è veramente entrata al Mermaid e
ha parlato con qualcuno.
“..un uomo elegante sui quaranta. Gli ho lasciato il mio numero.
Dici che ho fatto male?”
“Direi che se ti chiamano tu non ci vai!”
“Se mi chiamano mi accompagni tu lì? Non conosco nessuno qui a
Wellington.” Mi guarda mesta.
E che il Mermaid sia! Prometto a Nina che nel caso andrò con lei.
“Passa di qui quando ti danno una risposta.”, sperando che questa
non arrivi mai.
Stacco nel primo pomeriggio e vado a fare un giro al porto. È una
calda giornata primaverile e le navi luccicano ferme sull’acqua
aspettando di solcare l’oceano.
Noto in lontananza due persone in piedi con le mani dietro alla
schiena che osservano una grande nave mercantile attraccata. I due
tizi rimangono immobili come alberi che aspettano ossigeno. Uno
di loro ha una ben visibile giacca gialla.
Avvicinandomi vedo che sono giovani uomini e uno di loro mi è
stranamente famigliare.
Il ragazzo con la giacca gialla mi vede e senza muoversi mi
sorride sornione. Allunga un braccio e mi fa cenno di avvicinarmi.
Quella lentezza è un’etichetta inconfondibile.
“Che ci fai qui?” gli chiedo. Anche il suo amico si è girato a
guardarmi con un movimento da guinness dei primati: sarà durato
dieci minuti.
“Adoro le navi. Veniamo qui ogni mattina a guardarle.” mi
risponde Leandro.
E’ cosí che il brasiliano passa le giornate, anche se si era
ripromesso di cercare lavoro. Forse ci aveva provato nella vita
precedente; sicuramente non in questa.
“Ti presento il mio amico brasiliano Olavo. Anche lui vuole
rimanere qui per un po’ di tempo”.
Olavo potrebbe avere sui trentacinque anni, ha uno sguardo mite e
gli occhi sfuggenti.
“Ho conosciuto lui e altri connazionali alla festa dell’Indipendenza
brasiliana il sette settembre. Ci siamo trovati tutti in Ambasciata.”
fa una pausa e socchiude gli occhi. “Ho detto a Olavo e ad altri
due amici di trasferirsi al Rosemere. C’è un sacco di bella gente
lì.”
Spero solo che i suoi amici non siano stati anche loro miei amanti
nella vita passata. Spero soprattutto di non essere stata troppo
attiva nella vita passata.
“Ragazzi, voglio camminare un po’. Venite con me?” propongo.
Entrambi mi guardano sconvolti. Come se davanti alla Madonna
delle Rocce di Leonardo avessi detto: “Va beh, vado al bagno.”
“No, no. Noi rimaniamo qui a guardare le navi.” Leandro mi dice
serio.
Li saluto e proseguo da sola.. Dopo cento metri mi giro e li vedo
ancora lì immobili con gli occhi rivolti ai giganti fermi.
Due anatre stanno prendendo il sole sulla passeggiata. Una è
bianca e rivolge il becco verso il cielo come una diva sotto i
riflettori. Cerco nello zaino se ho qualche cracker avanzato da
gettarle. In quel mentre una bicicletta mi schizza vicino veloce. Per
poco non mi travolge. Sopra di essa viaggiano due ragazze e un
ragazzo. Sembrano fuggiti dal qualche circo Orfei. Il loro bolide è
un motociclo basso e rosso e tutti e tre ci stanno sopra ad incastro.
Il ragazzo ha un’aria inquietante. Alto, magro, tutto vestito di nero
con un cappotto lungo addosso e un cilindro da Cappellaio Matto
in testa. Ha del pesante trucco nero intorno agli occhi e le unghie
dipinte.
Non è però il suo aspetto che mi inquieta. È il suo ghigno e i suoi
occhi. Sono profondi e cattivi. Scende dalla bici e si avvicina
all’ignara anatra bianca. Non ho il tempo di capire che cosa voglia
fare che il pennuto è già in trappola. Il ragazzo l’ha catturato e lo
preme con forza contro il petto.
“Ora ce la portiamo a casa e la mangiamo.” mi fa l’occhiolino.
“Dammi il tuo zaino. Ce la ficchiamo dentro,” dice rivolto a una
delle amiche.
“Che stai facendo?” gli chiedo con un filo di voce.
“Non lo vedi? Ora la portiamo a casa e la mettiamo in pentola.” mi
risponde scanzonato.
L’anatra sembra un condannato a morte che sa di non poter
scappare. Non sbatte le ali, nè emette alcun verso.. La ragazza
toglie l’aria al povero animale chiudendo la zip.
“Ti piacerebbe che qualcuno ti bollisse o ti cucinasse?”
“Certo che no. Io però posso fare quello che voglio con chi
voglio.” mi fa una smorfia e insieme alle sue amiche salta sulla
bicicletta e riparte quasi travolgendo una signora.
Mi riprometto di recuperare l’anatra in qualche modo: i tre sono
troppo spavaldi e sicuramente commetteranno qualche errore.
Aumento il passo finchè duecento metri avanti scorgo la stessa
bici abbandonata in mezzo alla passeggiata. Dei tre ragazzi non
c’è ombra. Un gruppo di persone è intento a guardare in direzione
di un catamarano attraccato, su cui il tizio con il cilindro si sta
arrampicando, seguito dalle due amiche. Lasciato a terra vicino
alla bici c’è lo zaino in cui è rinchiusa l’anatra. Lo afferro e
scappo.
“Ehi dove cazzo va quella con il mio zaino!” la ragazza urla dal
catamarano.
“Merda! la mia anatra.” sibila il tizio con il cilindro.
Mi giro e vedo che tentano di ritornare alla bicicletta. La gente nei
paraggi guarda attonita ora me, ora loro. Le loro teste sembrano
palline da ping pong.
Corro finchè non ri-avvisto Leandro e Olavo ancora statici a
guardare le navi.
“Coprimi.” bisbiglio a Leandro.
“Eh?”
“Dai Leandro apri la giacca e coprimi mentre faccio una cosa.” mi
rannicchio ai suoi piedi e gli tiro una manica.
Il brasiliano spalanca perplesso il cappotto come se fosse Dracula
in decollo. L’analtra sbuca fuori dalla sua prigione e sbandando si
tuffa in acqua. Leandro rimane fermo con la giacca aperta, come
un maniaco in contemplazione.
“Puoi chiuderla ora. Grazie mille”
Mi squilla il telefono. “Ciao bella, ho provato a chiamarti prima,
ma non mi rispondevi. Eri impegnata?” la voce di Bart.
“Ero in biblioteca.” mento.
“Perché non passi ora a casa mia? Parliamo un po’ e poi rimani a
cena.”
“Va bene, grazie. Arrivo subito!” sono quasi commossa dalla
proposta. Magari questa è una di quelle rarissime sere in cui Bart
non studia né lavora.

La casa del mio amico è disseminata di biglietti in maori.


“Ho deciso che me ne andrò qualche giorno su una bellissima
spiaggia vicino a Napier. Me ne starò lì in un punto isolato con la
tenda e passerò il tempo a declamare poesie e versi maori al cielo
ed al mare. Solo così proverò quello che loro provano,
quell’attaccamento primordiale alla terra e alla natura.”
Mi commuove sempre il trasporto con cui crede in quello che fa. I
racconti dei suoi viaggi e del suo vagabondare sono intessuti di
sensazioni, emozioni, paure e solitudine. Voglia di gridare,
scoprire, tornare a casa, rimanere fermo, continuare a muoversi.
Sono note pulsanti.
“Mi sono messo in una specie di guaio e non so come uscirne.”
mi sorride un po’ imbarazzato.
“Cosa è successo?”
“Ho fatto un patto di sangue con alcuni australiani incontrati in
Europa qualche anno fa. Abbiamo deciso che ci saremmo rivisti in
Australia il ventun ottobre del 2006, in un posto vicino a Brisbane.
Abbiamo scritto il patto e schizzato un po’ del nostro sangue sul
foglio.”
Gli rivolgo uno sguardo carico di affetto. Solo lui può fare queste
cose.
“Ho già pagato il volo e starò via quattro giorni.” fa una pausa: “Il
problema è che proprio il giorno in cui dovrei partire ho gli ultimi
due esami di fine semestre.”
“Non puoi presentarti alla sessione successiva?” gli chiedo.
“Scherzi!” salta su come una molla. “Sono gli ultimi esami
dell’anno. Se non mi presento devo ripeterlo.”
“Allora datti malato con tanto di certificato medico, oppure
rinuncia al viaggio!”
“Ma ho promesso! Devo presentare un scusa efficace per
l’università. Il problema è che in classe siamo davvero pochi, una
ventina.”
Adesso rasentiamo l’assurdo. Per il patto di sangue che ha fatto
due anni prima è disposto a ripetere l’anno accademico!
“Ci devo pensare bene.” poi scuote la testa per scacciare questi
pensieri fastidiosi come mosche. I capelli gli stanno crescendo e
gonfiando sempre di più. Fra qualche mese avrà in testa qualcosa
di simile a un airbag. “Dai mettiti qui comoda che vado a prendere
la cena”. Rimbalza via.
In casa rimango solo io, avvolta nel silenzio e in una giacca
abbandonata che trovo sul letto. Al Rosemere bisogna dormire
sempre con un occhio aperto e l’altro pure per via del quotidiano
Armageddon. Mi addormento.
“Alice, sono le sette e la cena è pronta. Ho una fame!” Bart mi
scuote leggermente. “Puoi continuare a dormire dopo se vuoi.”
Fuori è buio. In un’ora la luce del sole è evaporata.
Per svegliarmi, il mio amico mi spinge quasi a forza un boccone di
una strana cosa rossa in bocca.
“Che roba è?” chiedo mentre mastico poco convinta.
“È dal. Ho preso un menu take away dall’indiano qui sotto.”
Mando giù a fatica. Non ne posso piú di cibo indiano.
“Non sei andato da Tulsi vero?” lo guardo di sbieco.
“Accidenti è tardi. Devo correre al ristorante” Bart scatta in piedi
di colpo con chicchi di riso sul mento che gli disegnano una barba
bianca. “Tu puoi stare qui.”
“No, no, torno all’ostello.” e conoscendo il suo solito scatto mi
metto scarpe e giacca. Sono ben addestrata e in meno di un minuto
siamo fuori di casa. Il mio amico ha due calze di diverso colore,
ma è inutile farglielo notare.
“Ti accompagno al lavoro?” mentre parlo vedo che lui salta sulla
bici.
“Mi dispiace. Sono in ritardo. Devo volare.” Dice partendo al
galoppo.
Come al solito, altro che miracolo, solo quotidiana
amministrazione. Non capisco perché ogni volta mi illudo di
passare un po’ di tempo con lui in tranquillitá.
Torno al Rosemere, dove ogni giorno capita qualcosa di bizzarro e
irritante. Neanche oggi è un’eccezione.
Camera mia è vittima di una vera e propria invasione vichinga. A
Julia e Matthias si è unito un ragazzo taciturno che è già al
Rosemere da qualche giorno.
“Ho cambiato stanza perché in quella di prima non potevo
dormire.” mi spiega il nuovo coinquilino, che è in partenza il
giorno dopo per chissá dove.
“Come mai?”
“C’è un tizio che russa in modo tremendo. Sembra avere un’intera
orchestra di percussionisti concentrati nell’ugola.”
Secondo leggende da ostello sembra che sia Lusky che Thomas,
compagni di camera, abbiano entrambi russate violente. Chi viene
destinato nella loro camera per castigo divino è condannato
all’insonnia eterna. Immagino quindi che sia uno dei due.
“È l’americano con il cappello o il Gufo?”chiedo piena di
curiosità.
“Non ero in camera con nessuno dei due. È quel brasiliano piccolo
che parla in modo molto lento. Non mi ricordo il suo nome…”
“Leandro!”
Appuro quindi che il brasiliano mette a dura prova non solo di
giorno ma anche di notte i nervi dei suoi camerati.
Vado a dormire perchè l’indomani mi aspetta un turno allo Sweet
mother’s Kitchen dalle nove alle due del pomeriggio. Sono entrata
ufficialmente nella squadra di Bart e Diane.

4.3 Vendetta verde


La mattina dopo mentre medito se chiamare i genitori o meno
davanti al telefono dell’ostello, David arriva e si siede vicino a me.
“La soluzione migliore è spostare tutti i russatori nello stesso
dormitorio. Li esiliamo là e limitiamo l’insonnia collettiva.” Mi
espone il suo piano..
“Vuoi mettere Leandro insieme a Thomas e Lusky. Non è una
combinazione esplosiva?”.
Lui mi guarda con i suoi occhi intelligenti e cinici: “Non devono
fondare una loggia massonica, devono solo dormire nella stessa
camera.”
Vado a lavorare con pochissima voglia che mi passa totalmente
quando esco. Fa caldo, il sole è accecante e il cielo terso. C’è
vento come al solito, ma sopportabile. Preferirei prendere un
qualsiasi traghetto, respirare aria pura e fare un giro in una delle
isolette abitate solo da pescatori davanti a Wellington.
Chino sul lavello in cucina, come se stesse dando l’estrema
unzione ai piatti, c’è Didier, che mi lancia uno sguardo pieno di
indifferenza. I miei occhi fino a un secondo prima semichiusi si
spalancano. Per tutta la mattina penso al modo di fargliela pagare,
finchè vedo abbandonato in un angolo un bicchierone di caffè
latte.
“Per che tavolo è?”
“No, no aspetta! È per Didier. Puoi portarglielo in cucina per
favore?” mi chiede Leila impegnata a fare cappucci.
“Ceeeerto che glielo porto!!!” sibilo con perfidia. Mi guardo in
giro cercando un’arma poco contundente, ma letale, come una
vaschetta di guacamole avanzato. I suoi ingredienti, avocado,
pepe, limone, cipolla sono micidiali dentro al caffè latte.
Sicuramente Didier gradirà un esperimento di nouvel cousine. Con
una precisione da alchimista verso a piccole dosi la salsa
messicana nel bicchiere e mescolo. Sul fondo si forma uno strato
un po’ verdastro, allora ci giro intorno un tovagliolo ripiegato a
fascia ed entro in cucina.
“Prendilo in mano tendendo il tovagliolo perchè scotta.”
suggerisco amorevolmente al francese. Il quale avrebbe dovuto
insospettirsi ma oggi è parecchio rincoglionito. Avrà avuto una
“nottata impegnativa” come direbbe Ken.
Dopo pochi secondi dalla cucina proviene un tuonante:
“MERD!!!”. Leila accorre in cucina allarmata.
“Che succede Didier? Ti sei tagliato?”
“Macché. Ho bevuto una cosa disgustosa! Mi viene da vomitare!”
“Cosa hai bevuto?” insiste Leila. Io faccio finta di niente mentre
entro in cucina a prendere i piatti.
“Il caffè latte che mi avete fatto. Fa schifo! Ho in bocca un
saporaccio.”
“Guarda che ho preparato io quel caffè latte e non è possibile che
sia disgustoso.” Leila è paonazza. Dirle che non è capace di fare il
suo lavoro equivale a fare riflessioni poco carine sulla madre. Le
sono venuti due occhi da lince e Didier sembra rimpicciolirsi.
“Non intendevo questo. Io….” Mi guarda mentre prendo delle
posate e gli viene un atroce sospetto. “Brutta disgraziata, mi hai
messo qualcosa nel bicchiere.” urla furioso.
Prendo il corpo del delitto. “Se non ne bevi più lo butto.” dico a
Didier.
“Io ti…io ti…Te la faccio pagare.”
“Tu non la fai pagare proprio a nessuno. Piantala di comportarti
come un pazzo e rimettiti a lavare i piatti” Leila gli ordina.
“Ma…”
“Ma niente. Abbiamo perso già abbastanza tempo. Vieni Alice!”
Leila gira le spalle e torna in sala. Io la seguo sempre con il
bicchiere in mano. Mi giro e faccio una linguaccia all’avvelenato.
Quando verso le due possiamo tirare il fiato, Leila mi chiede a
bruciapelo:
“Che cosa hai messo nel bicchiere di Didier?”
Mi giro per vedere se il nemico è in agguato: “Guacamole.”
“Guacamole?!? Nel caffè latte?!?” Leila gonfia le gote per
trattenersi. Sembra un folletto dispettoso.
“Sei terribile. Questo rimane un nostro segreto.”
Depisto la conversazione. “Leila questo pomeriggio vorrei andare
ad esplorare una delle isole davanti alla città. Quale mi consigli?”
“Matiu Somes! Prendi il traghetto dal porto e in venti minuti sei lì.
È un posto incredibile.”
Matiu Somes Island è un’isola molto piccola. È stata usata come
zona di quarantena per uomini e animali e come campo di
detenzione durante la Seconda Guerra Mondiale. Oggi è una
riserva naturale e il suo habitat è strettamente salvaguardato. Non
vi si possono introdurre animali cibo, carta, materiali di ogni
genere e ci vivono più di cinquecento specie di invertebrati.
Mentre aspetto di salpare scorgo Leandro e Olavo avvicinarsi al
nostro molo. Camminano piano e in silenzio. Leandro si ferma a
confabulare con il nostro traghettatore che è ancora a terra e cerca
di scovare altri passeggeri. È un signore grosso con barba bianca e
pale da neve al posto delle mani. Se i brasiliani mi vedono addio
pomeriggio solitario di contemplazione.
Scivolo sotto la panchina davanti allo sguardo esterrefatto di una
coppia inglese. Da qui sorveglio la situazione come una volpe tra i
cespugli. Il nostro Caronte gesticola, ride e indica l’orizzonte al
mio amico. Ha proprio deciso di convincere i due a imbarcarsi.
Olavo rimane dietro a Leandro con le mani in tasca. Entrambi
annuiscono alle parole del grosso uomo. Poi si guardano come per
decidere. Mi rannicchio sempre più sotto la panca.
Per fortuna Olavo sbadiglia. Per fratellanza anche Leandro
sbadiglia. Per amicizia anche il traghettatore sbadiglia. Con il
risultato che noi salpiamo e i due brasiliani rimangono sul molo a
sbadigliare e guardarci allontanare.
La città rimpicciolisce sempre di più e con lei le colline e i palazzi,
formando un puzzle vivente, un insieme di pezzi che stanno
insieme per incastro. Intorno l’oceano luccicante sembra una
parure di gocce d’acqua. Ci avviciniamo a Matiu Somes.
“Per girarla tutta ci vorrà un’ora e mezzo.” mi spiega Caronte
quando attracchiamo. “Vi vengo a prendere tra tre ore. Se mi
ricordo.. Ah, Ah, Ah” scoppia a ridere sotto la sua barba folta.
Mi siedo su una panchina solitaria. Sono completamete da sola.

Riflessi nell’acqua.
Un disegno geologico perso nell’oceano.
Colori dipinti tra due superfici azzurre.
Un punto silenzioso su cui fluttua l’orizzonte.
Prospettive intrecciate della stessa composizione.
Lontano da tutto.
Solo il suono del mare, il vento che sibila, la natura in sé.
Lontano dal metallo e dal rumore,
Una dimensione ricamata a misura d’uomo.
Solo io ed il sibilo del silenzio.
Solo io e qualche gabbiano confuso dal Nord.
Solo io e qualche lacrima.
Perché tutta questa bellezza mi commuove.
Mi riempie di luce.
Mi droga di odori.
Mi sdraio per respirare il calore del cielo.
Mi addormento sognando di essere su una nave spaziale.
…..
Mi sveglio sotto il cielo sfumato d’arancio. E….

Merda!!! È il tramonto e io ho dormito per circa due ore. Guardo


l’orologio. Fra dieci minuti passa Caronte a recuperarmi!
Comincio a percorrere a ritroso il sentiero su cui risuonano solo i
miei passi. Già mi vedo a costruire una capanna di frasche (non ci
sono neanche quelle!) per la notte e allevare gechi durante il
giorno.
Raggiungo il molo proprio mentre il traghettatore fa per
andarsene.
“Ehi ci sono anch’io!” emetto un urlo flebile. Non ho più fiato. Il
grosso Caronte mi osserva perplesso. Poi scoppia in una risata
simile a un boato. “Scommetto che ti sei addormentata!”
“No, ero immersa nella lettura e non ho fatto caso all’ora.” mento.
L’uomo scoppia in un’altra fragorosa risata e mi batte una mano
sulla spalla. Ora so cosa si prova a essere un punching-ball.
Tornando verso Wellington le case e il porto si tingono di rosso. Il
grande puzzle si fa sempre più imponente fino a svelare tutta la
vita che racchiude gelosamente come un tesoro. Anche l’acqua si
tinge di nuovi riflessi, di nuove prospettive della stessa
composizione.
Mentre saluto Caronte e scendo a terra mi squilla il cellulare. È
Diane dallo Sweet mother’s Kitchen. Ha una voce stanca e un po’
turbata.
“Alice è venuta a cercarti la ragazza americana questo pomeriggio.
Penso si chiami Nina. Mi ha detto che bisogna fare quello che tu
sai domani perché lei deve recarsi in quel luogo. Quindi passa lei
da qui verso le tre e poi andate dove sapete. Che diavolo stai
combinando?”
“Io?!? Niente. Non sto combinando niente.”
“Non me la racconti giusta. Non vi ficcate in qualche guaio.
Guarda che quella ragazza, Nina, avrà al massimo diciotto anni!”
“Appunto. È per questo che ha bisogno di una figura di
riferimento più grande, che sappia consigliarla.”
“E chi sarebbe? Sono curiosa di sentirlo.”
“Io?”
“Ah!” Diane riattacca immediatamente.
Entrando dalla veranda dell’ostello vedo un individuo di spalle,
alto e con un cappello da scassinatore che guarda dentro dalla
finestra della cucina.
Gli picchietto leggermente l’indice sulla schiena, facendolo saltare
dalla paura. È Alejandro con l’aria stravolta e gli occhi spiritati.
“Non farlo mai più.” ansima. “Stavo guardando se eri in cucina.”
È da un po’ di tempo che non lo vedo, come se lui e l’altro hombre
fossero evaporati.
“No, ho avuto un po’ da fare” si giustifica serio il cileno.
Ne deduco che è stata aperta la caccia alle femmine.
Offro a Alejandro la famigerata zuppa della domenica. Oltre alla
colazione, ogni domenica David e Amanda improvvisano ricette a
discapito della popolazione del Rosemere. Povero Alejandro,
questa è la volta di una brodaglia rossiccia destinata alla progenie
del Conte Draculia.
“Domani è il diciotto. Vieni al nostro ostello che prepariamo
qualcosa da mangiare? Ci sarà un po’ di gente.” sorride: “Tra cui i
tuoi amici Carlos e Gaspar. Poi alcune ragazze cilene e gli altri
camerati dell’ostello. Vieni verso le sei e mezza cosí aiuti me e
Cristiàn a preparare tutto.”
“Va bene. Dopo il lavoro devo passare a fare una cosa.” penso con
angoscia all’appuntamento con Nina e il Mermaid del giorno
dopo.
Così domani rivedrò l’hombre caliente. Sento già gli ormoni
ruggire. State buoni, vi tengo d’occhio.
Nina appare sulla soglia dello “Sweet mother’s Kitchen” alle tre,
puntuale come un plotone d’esecuzione. Porta un giaccone lungo
aperto e una minigonna molto mini e poco gonna. Lo spessore
equivale alla fascia da doccia di mia madre. Calze a rete. Scarpe
rubate alla genitrice con tanto di trampoli a spillo. Quando si
avvicina al bancone guardandosi alle spalle con la paura di essere
pedinata dalla mamma, mi spavento ancora di più.
Ha un trucco esagerato e sembra che l’abbiano presa a botte.
Inoltre sui capelli avrà messo qualche strana sostanza a presa
rapida, tanto da sfidare ogni legge della fisica.
“Andiamo?”mi sibila emozionata.
“Dammi un minuto. Aspettami fuori.” le risibilo in risposta. Non
voglio che Diane o Leila la vedano così conciata. Comincerebbero
a fucilarmi di domande.
Una volta passando davanti al Mermaid Bart aveva accennato a
certi giri loschi.
“I proprietari sono due fratelli poco raccomandabili.” aveva detto.
A rendere il tutto più angosciante c’è il vento di Wellington,
violento come non mai ci soffia addosso rabbioso impedendoci di
camminare. Pochi metri si trasformano in una scalata del Golgota.
Finalmente ci troviamo davanti alla porta nera con le curve
disegnate di una donna nuda.
“Dai Nina, lasciamo stare.” tento di essere autoritaria, ma mi esce
una vocina lieve.
“Cosa vuoi che ci capiti. Al massimo salutiamo e ce ne andiamo.”
risponde lei decisa.
Una specie di armadio ambulante ci viene incontro. “Siete
entrambe qui per il lavoro?”
“No, no, solo io. Lei è una mia amica. Mi ha accompagnato”. Nina
parla con calma e in modo spigliato. A me invece si è atrofizzata
la lingua.
Attraversiamo un cunicolo claustrofobico fatto a specchi e
sbuchiamo in un’enorme sala illuminata solo da alcuni lampi rossi.
Seduti in prima fila davanti al palco più grande ci sono due uomini
silenziosi. Vestiti allo stesso modo e con gli stessi occhi da
predatori.
“Chi è Nina delle due?” chiede quello di destra.
“Sono io.” risponde esitante l’americana.
“Ti va di farci vedere cosa sai fare?”
“Devo ballare?”
“Ballare e spogliarti.” precisa quello di destra. “Sali sul palco
davanti a noi.”
“Daniel ti metterà su un po’ di musica.” il buttafuori scompare
dietro alle pesanti tende viola.
Parte una canzone che riconosco: Hot stuff di Donna Summer.
Sudo freddo mentre Nina comincia a muoversi a ritmo. Balla
bene, si china, si rialza e gira intorno al palo improvvisando.
Poi si toglie il maglione rosso e rimane in reggiseno. Scuote i
capelli biondi e tenta di essere seducente.
Solo che proprio in quel momento scoppio a ridere. È tutto
ridicolo perché fuori posto. Come un film di David Lynch in cui le
identità dei personaggi vengono stravolte e la trama va in
frantumi.
Rido perché Nina che si agita in reggiseno è comica, perché è
come un chicco di riso nella brodaglia preparata da David. Non
c’entra niente.
Nina si ferma e anche lei scoppia a ridere.
Il gelo intorno. Donna Summer continua a cantare.
“Scusatemi. Non capisco cosa ci faccio qui.” dice l’americana ai
due uccellacci e scende dal palco.
“Andiamo.” e la precedo velocemente verso l’uscita.
“Che scema che sono.” si rimette il maglione.
Il buttafuori ci apre la porta e sorride.
“Non è proprio il mio posto questo.” Nina si stringe tra le spalle.
“Lo sospettavo.” risponde l’armadio umano.
Siamo tornati tra le braccia del vento. Braccia che ci stringono e ci
ostacolano, ma mai letali come quelle del Mermaid.
“Devo scappare! Mia madre mi starà aspettando.” ha gli occhi
socchiusi per le goccioline d’acqua trasportate dal mare. “Grazie
Alice, sei un’amica!” mi abbraccia con affetto.
“Di niente. Quando vuoi passa al ristorante, facciamo due
chiacchiere.”
Come risposta mi fa l’occhiolino e si allontana.
“Nina, quanti anni hai?” le grido dietro.
Il vento mi porta la sua risposta: “Diciotto appena compiuti”.
Almeno è maggiorenne.

L’ostello dei cileni, il Beethoven House, è una villetta immersa nel


verde e nascosta agli sguardi umani. Per trovare l’entrata bisogna
aggirare l’ostello tra erbacce amazzoniche e intrufolarsi dal retro,
da cui si passa alla cucina e alla sala.
Trovo Alejadro sul terrazzo al piano superiore mentre scherza con
una ragazza. Da qui Wellington appare infiammata dalla luce dei
suoi palazzi. “Ti presento Franziska. È tedesca e fuori di testa.”
“Alejandro mi prende sempre in giro. Pensa che quando è arrivato
mi piaceva un sacco. Ora che ho scoperto com’è, non piú.”
“Come sarei?” la guarda ironico il ragazzo.
“Tu e il tuo amico siete pericolosi per il genere femminile.”
Franziska si rivolge a me: “Stai attenta mi raccomando, sono due
latin lover.”
Come se non lo sospettassi già.
“Ma piantala. Non è vero. Per te tutti gli uomini sono pericolosi.”
“Ho avuto brutte esperienze con il genere maschile.”
Passi dietro di noi sul corridoio.
“Ecco l’altro Don Giovanni.” commenta la tedesca.
“Rientriamo a salutarlo!” gioisce Alejandro. Assomiglia ad una
moglie devota che accoglie il maritino.
Cristiàn tenta con difficoltà di aprire la porta della camera. Deve
aver bevuto parecchio.
Ci vede e spalanca le braccia. Con euforia si rivolge ad Alejandro:
“Pàisa, Viva Chile!”
Si abbracciano e intonano l’inno nazionale.

Himno National de Chile


Dulce Patria, recibe los votos
Con que Chile en tus aras juró
Que o la tumba serás de los libres
O el asilo contra la opresión.
Mentre cantano saltano per il corridoio.
Ha cesado la lucha sangrienta;
Ya es hermano el que ayer invasor;
De tres siglos lavamos la afrenta
Combatiendo en el campo de honor.
El que ayer doblegábase esclavo
Libre al fin y triunfante se ve;
Libertad es la herencia del bravo,
La Victoria se humilla a sus pies.
…….
“Allora che cos’è tutto questo casino?” Si spalanca la porta di una
camera e un uomo robusto con occhiali e barba bianca compare
truce sulla soglia. Ha lo sguardo di uno che si prepara al massacro,
ma appena vede i visi festanti dei due cileni si tranquillizza.
“Ah siete voi. Pensavo fossero i soliti tedeschi di merda.” L’uomo
avrà sui sessant’ anni e un atteggiamento da guerrigliero. Appena
vede Franziska si rabbuia.
La ragazza reagisce all’insulto.
“Quanto sei stronzo Don. Sei solo un povero, vecchio deficiente.”
I complimenti si sprecano e si respira odio.
“Calma, calma ragazzi. Oggi nessuno deve litigare. È la festa
d’Indipendenza cilena e vi invito tutti a bere un bicchiere di vino e
festeggiare con noi.” Cristiàn riappacifica gli animi mettendo un
braccio intorno alle spalle di Don.
“In più ho un’altra bella notizia.” prosegue l’hombre caliente.
Lascia due secondi di suspense e poi improvvisa un breve balletto:
“Mi sono licenziato!”
Deve aver bevuto veramente tanto.
“Ho smesso di lavorare in quel parcheggio puzzolente e fra
qualche giorno lascio Wellington e riprendo a viaggiare. Ho messo
via abbastanza soldi.”
Cristiàn è un esploratore, non riesce a stare fermo e anche lui
come Sema fiuta l’orizzonte. Poi parte senza meta e con tanta
calma. Senza impegni con la tenda sulle spalle e in autostop
raggiunge spiagge, montagne e foreste. La natura è il suo regno.
“Prima vado alla scoperta della Coromandel Peninsula, a est di
Auckland e poi proseguo per il Northland.” ha gli occhi sognanti
di un bambino.
Il Northland, zona a nord di Auckland è famosa per le miglia di
sabbia bianca che costeggiano l’oceano. Un luogo isolato e di
difficile accesso senza strutture, ma solo sabbia, acqua e stelle.
La regione di Coromandel è invece piena di parchi e grotte da
scoprire e sto pensando seriamente di passarci qualche giorno
prima di prendere l’aereo da Auckland.
“Quando pensi di andartene?” gli chiede Alejandro un po’ mesto.
Per un mese hanno condiviso tutto: amore per la stessa patria,
camera in ostello, donne…con buona probabilità le stesse. Per il
giovane cileno è come se partisse un fratello.
“Fra tre giorni. Il giorno prima della mia partenza facciamo una
super festa d’addio.” sbanda un poco perdendo l’equilibrio:
“Ragazzi sono ubriaco. Ho bevuto con Carlos al lavoro per
festeggiare.”
Mi immagino come sia ridotto Carlos. Beso, maledetta, beso…
Non capisci niente!
“Bueno!Cosa cuciniamo per la nostra Alice?” Alejandro gli chiede
preoccupato.
Allorché, come un falco ferito che cade per terra e si ritrova
sommerso da foglie, Cristiàn si guarda in giro perplesso. Mi
osserva e aggrotta le ciglia.
“Ti ricordi di me? Sono la ragazza italiana.”
“Certo che so chi sei solo non sapevo venissi a cena.” biascica.
“ Ti devo essere molto simpatica.”
Cristiàn non risponde. Scende le scale ondeggiando: “Vediamo
cosa c’è in frigo.” Seguito da Don.
“Quel bastardo neozelandese ce l’ha con i tedeschi e nessuno sa
perché. È uno sporco razzista” Franziska parla con rabbia e torna
nella sua camera. “Vi raggiungo dopo. Intanto mandate via quel
nonno avariato.”
Alejandro si rivolge a me: “Don sostiene che i tedeschi siano
invasori per natura. È convinto che in pochi anni conquisteranno la
Nuova Zelanda e manderanno in esilio i legittimi abitanti.” Poi mi
prende per un braccio dolcemente e mi guarda fisso: “Guarda che
tu piaci molto a Cristiàn.” Mi fa un occhiolino che per me è come
un pugno allo stomaco.
Non contenta mi faccio del male: “In che senso gli piaccio?”
“Nel senso che gli gusti mucho. Ci proverebbe ma è troppo
timido.”
Sento puzza di trappola maschile.
Mentre Cristiàn cucina e Alejandro recupera litri su litri di
Tavernello tossico esco sul piccolo giardino del retro, che avevo
scambiato prima per boscaglia. Ci vorrebbe infatti il machete per
farsi strada.
Una figura femminile viene verso di me. Quando provo a metterla
a fuoco lei si ferma e lancia un grido di gioia.
“Non mi dire che stai qui?” le chiedo.
Ora capisco perché Bart conosce tutti e perché impiega trenta
minuti a fare cinquanta metri salutando a destra e a sinistra.
Sono a Wellington da neanche due settimane e incontro spesso
gente che conosco.
“Vivo qui con la mia famiglia!” risponde Nina raggiante. “Però
loro domani partono e vanno a farsi un lungo giro nell’isola Sud.”
“E tu?”
“Rimango qui.”
“È pronto. Venite?” la voce di Cristiàn. Ha cucinato purè di
patate, cipolle soffritte e una specie di bistecca cotta nel burro.
Niente dieta vegetariana. Niente dieta- punto.
“Ci vuole un brindisi!” Alejadro si alza in piedi: “Al Cile!”
Mi guarda: “Al core, abaho, al centro i para dentro.” intanto
mima i gesti con il bicchiere in mano, come uno schermitore abile
maneggia la spada.
Il giorno dopo mi sveglierò con queste parole in testa e con
Matthias che mi chiede se sono ancora viva. Troppi brindisi al
Cile.
Arrivano gli amici, e tra loro anche Carlos e Gaspar. Da sobri sono
irriconoscibili.
“Gaspar non mi saluti?” mi paro davanti.
Il cileno mi guarda come se fossi pazza.
“Eh? Ci conosciamo?” chiede gentile.
“Gaspar non ti ricordi? Alla festa sulla Terrace volevi
disperatamente ballare con me. Sono la finta tedesca!”
Gaspar si acciglia. Rimugina sul “perché” e sul “per come”. Il
particolare della “finta tedesca” lo mette ancora più in confusione.
Farfuglia un “Non mi ricordo.” e si defila.
Carlo mi studia in silenzio.
“E tu ti ricordi di me?” lo punzecchio.
“Certo. La ragazza italiana.” risponde con mia grande sorpresa.
“ Mi hai giurato amore eterno quella sera.” scoppio a ridere.
“Me lo ricordo. Ero ubriaco, ma tu sei l’unica persona di cui mi
ricordavo il giorno dopo.” Lui segna un punto e io arrossisco.
Vedo Gaspar arrancare verso di noi. Abbassando lo sguardo mi
dice: “Ti chiedo scusa. Alejandro mi ha detto che è tutto vero, che
ti ho importunato la sera della fiesta. Non mi ricordo.” è
mortificato. “Di solito non bevo. Non so cosa mi sia preso.” Un
lampo gli attraversa la mente: “Allora non sei tedesca?”
“No, italiana, mi dispiace.”
Il giungla-giardino si popola di invitati. Cristiàn ha sistemato lo
stereo in cucina e ha aperto le finestre. Il risultato è una discoteca
tra gli arbusti. L’hombre caliente impugna una chitarra e si
esibisce anche in un assolo in chiave rock da brivido. Mi
aggrappo al braccio di Alejandro. “Tienimi!” gli sussurro.
“Ti gira la testa?” mi chiede lui premuroso.
“Tu tienimi senza fare domande.” Complice il vino malefico
percepisco la metamorfosi da foca monaca a giaguaro della
savana.
Non posso peró fare la zecca con il povero Alejandro per tutta la
serata, anche perchè quando passa una bella ragazza lui mi guarda
supplice: “Liberami ti prego.” sembra dirmi con quegli occhi da
bassotto infelice. Mi attacco allora a Nina e a sua madre, entrambe
molto alticce. Poi cominciano i brindisi al Cile: 1, 2, 3,4,5…finchè
decido di buttare il vino tossico tra le ben curate piante.
“Sono venute su così bene perché ci mettiamo dentro i mozziconi
di canne” mi rivela Den, il ragazzo che gestisce l’ostello,
riferendosi a quella sottospecie di Cefalotus follicularis, pianta
insettivora che sto ammirando.
“Ah però!”
All’improvviso due braccia forti mi cingono da dietro
abbracciandomi. È in maglietta ed è molto più alto di me. Faccio
un debole tentativo di liberarmi.
“Dove ti eri cacciata? Mi stai evitando?” Cristiàn mi sta
bisbigliando in un orecchio. Rimaniamo in quella strana posizione.
Lui da trappola e io da topolino di laboratorio.
“Evitarti io?! Nooooo.” sono un fascio di nervi. Più tento di
divincolarmi, più lui mi stringe.
“Perché non parti con me?” comincia a dondolarmi tra le sue
tenaglie.
“Ci sto pensando.” Non sono io a parlare, sono quei traditori dei
miei ormoni che mi stanno manovrando.
“Non devi pensarci. Partiamo fra tre giorni. Ho la tenda e
possiamo fare l’autostop. Noi due da soli.” Tenda, Cristiàn ed io.
Un trinomio pericoloso.
Su ciascuna spalla compaiono l’angelo e il diavolo.
L’angelo: “Mi puoi dare retta una volta? Guai a te se parti con
questo Tenda infuocata.”
Mi viene il sospetto che l’angelo non sia altro che mia nonna in
missione segreta.
Tenda infuocata però si addice a Cristiàn.
Il diavolo: “Lascia stare quella specie di vecchia bacucca che sta
sull’altra spalla. Dai retta a me, parti subito con questo hombre.
Datti ai piaceri più sfrenati, perdi l’aereo e passaci la vita in tenda.
Dai che ci divertiamo!”
“Ti raggiungo fra una settimana da qualche parte a Coromandel.
Oppure aspettami e partiamo insieme.” Rispondo flebile al cileno.
Decisione strategica. Partendo fra sette giorni ne potrò passare con
lui solo tre prima di tornare ad Auckland per prendere l’aereo
limitando i danni.
“No dai, parti con me subito. Cosa devi fare qui a Wellington? Ti
voglio portare in posti spettacolari.”
“Come si dice aspettami in spagnolo.”
“Espèrarmi. Perché?”
Poiché ha allentato la presa mi divincolo e mi giro a guardarlo. È
abbastanza ubriaco e ha gli occhi tra il lucido e l’appannato.
“Espèrarmi.” lo fisso con un’espressione finalizzata alla
liquefazione.
“Ti prego, ti prego! Non so resistere ai tuoi occhi.” Piagnucola.
Non ho pietà e persevero. Lo colpisco al cuore con un
altro:“Espèrarmi.” “Ahhhh.” il cileno agonizza. Per fortuna arriva
Alejandro a salvarlo.
“Ragazzi rientriamo a magiare il dolce di Mañuelita.”
Cristiàn mi lancia uno sguardo martire. “Io ci devo ancora andare
all’inferno, tu però ci sei cresciuta!”
Dalla soglia colgo lo sguardo deluso di Franziska. “Ti avevo
messo in guardia.” sembra dirmi.
I miei due amici mi riaccompagano all’ostello.
“Allora mi aspetti?” chiedo a Cristián sulla soglia della veranda.
Lui sorride dolce: “Allora parti con me?”
“ E se ti raggiungessi?” gli chiedo.
“ Se mi raggiungi, ti aspetto. Devi però cambiare il tuo biglietto
aereo una seconda volta”
“Per te?”
“Per te stessa.” Detto questo Cristiàn mi bacia a rallentatore sulla
guancia. I suoi baffi prudono sulla mia pelle. Alejandro si guarda
in giro fischiettando.
“Vedremo se ti comporti bene.” Gli rispondo secca.
Scoppia a ridere di gusto. Entro in casa con questo allegro boato
nelle orecchie e nel cuore.

Capitolo 5
Adii ed incontri

5.1 Il ruggito di San Paolo


Alla mattina uscendo dalla doccia mi imbatto in David che sta
fiutando l’aria come un setter irlandese.
Si avvicina, prima annusa me e poi la porta della mia stanza.
“Che stai facendo?”
“Tu non sei.” dice guardandomi sorpreso.
“Eh?”
“Veramente, pensavo fossi tu e quella strana tedesca.”
“Noi fossimo cosa?”
Per tutta risposta David si poggia un dito sulle labbra in segno di
silenzio e mi sussurra: “Stai zitta e annusa. Non senti nessun odore
strano?”
Proprio in quel momento una forte zaffata mi sconvolge le narici,
diffondendosi per il corridoio. Tutto il Rosemere si è svegliato
stamattina respirando Marijuana. “Pensavi veramente che fossimo
io e Julia? Perché poi? E Matthias non potrebbe essere?”
David mi guarda con aria di rimprovero. Ha un debole per il
biondo oriundo.
“Lascia stare Matthias, la perfezione fisica fatta uomo. Non
farebbe mai qualcosa del genere, lui!” mi osserva come un radar.
“Tu invece se sei così al naturale senza farti le canne c’è da
preoccuparsi. Comunque, che aspetti ad aiutarmi? Io annuso le
camere dalla sette alla dieci. Tu dalla undici alla quattordici”
“E poi?”
“Quando senti un odore più forte in prossimità di una porta mi
chiami. Poi bussiamo alla porta e facciamo una strage!”.
“Ma non ti sembra di esagerare?”
Mi guarda adirato. “No, ma ti rendi conto. Questi si saranno fatti
minimo cinque canne e non me ne hanno offerta neanche una!!!”
Ora capisco la sua rabbia.
“Però, sei un intenditore.” noto.
“Ti dimentichi dove vivo e lavoro cara. Dovrò pure sopravvivere
qui dentro!”
Poi parte a dare un’annusata alla camera sette. Quella di Lusky,
Thomas ed ora anche di Leandro.
Un po’ imbarazzata comincio a svolgere il mio incarico. Alcuni
backpackers dalla soglia del bagno ci osservano lavandosi i denti.
Uscendo dalla stanza Leandro per poco non stampa un bel bacio
sulla bocca di David.
“Oddio.” il brasiliano è attonito. Si protegge la bocca con
l’asciugamano che porta in spalla. Rivolto a David: “Scusa.”
“Ma che schifo. Mi manca solo baciare il Mago dei tarocchi!!”
Finalmente troviamo la camera incriminata: la numero dodici.
“Sono loro. Chi c’è qua dentro?”
“Americani. Quattro tizi arrivati ieri dal Montana.” pronunciando
“Montana” David assume un’espressione disgustata. Lui è del
New Jersey.
“Quelli del Montana sono sempre fumati. Cosa altro possono fare
in quel loro staterello sfigato??!”
Busso alla porta. Prima timidamente poi decisa. Nessuno risponde.
“Aprite! Polizia!” urla David. Nessuna risposta.
“Non puoi aprire con il passpartout?” gli suggerisco.
“No, ho un piano. Li aspetto al varco. Quando scenderanno in
cucina avranno una brutta sorpresa: Me!” e scoppia in una risata
da cornacchia isterica.
Vado a farmi una doccia alla Marijuana.
Passeranno giorni prima che l’odore scompaia del tutto.
Ne passeranno altri prima che gli ospiti del Rosemere non ne
sentano più la mancanza. Ne passeranno molti altri prima che
Leandro smetta di aprire titubante la porta della camera tenendosi
l’asciugamano sulla bocca.

Oggi non lavoro da Bart, ma stasera Monty ha richiesto la mia


presenza dalle sette e mezza. Finalmente oggi mi pagherà. Con
quei soldi comprerò il biglietto dell’autobus fino a Thames, la
prima città di Coromandel. Ho deciso. Partirò fra sei giorni
viaggiando di notte da Wellington a Thames. Passerò poi i
rimanenti tre giorni su qualche spiaggia. Se sarò con Cristiàn mi
piacerebbe spostarmi in autostop, altrimenti meglio l’autobus. Bart
ama raccontarmi storie inquietati su guidatori assassini che amano
cibarsi di giovani autostoppisti.
“Non fare l’autostop da sola. È pericoloso. Molti uomini ti
darebbero un passaggio per poi provarci. Fa parte
dell’immaginario collettivo neozelandese.”
Mi chiedo che diavolo di immaginario collettivo abbiano. Non mi
pare che mostrare il pollice sia in realtà una proposta di
aggiornamento del Kamasutra.
“In media quattro autostoppiste all’anno vengono trovate morte
sul ciglio dell’autostrada.” mi spiega il mio amico. “E in alcuni
casi anche uomini.” Bart è un veterano. Ha girato tutta la Norvegia
e metà Europa in autostop. Ha avuto anche degli incontri
spiacevoli. Per questo motivo segue il suo personale: “Manuale
dell’autostoppista.” che include poche, ma essenziali regole.
“Prima di tutto sorridi e metti a tuo agio la persona che ti ha dato
un passaggio. Ricordati che sei suo ospite. Se il guidatore vuole
parlare, assecondalo sempre. Se vuole tacere tu taci sempre calmo
e tranquillo. Presentati: chi sei, dove vai.”
“Se chi ti offre il passaggio non ti convince tu declina l’offerta,
cortesemente, ma con decisione.”
Ripenso all’avventura di Laura ed Erin con il pirata della strada.
“Nel tuo caso è meglio se trovi un amico con cui viaggiare. Anche
se non siete una coppia la gente vi vede insieme e si fida di più. Se
poi vi vede con gli zaini si convince che siete veramente due
backpackers e sarà più disponibile a darvi dei passaggi.”

Coordinate mobili
Vite che si incrociano per pochi chilometri.
“Ehi amico lo vuoi un passaggio?”.
“Grazie dove vai?”
“A sud e tu?”
“Allora anch’io a sud!”
Una vita che ne aspetta un’altra sul ciglio della strada.
Mentre piove o c’è il sole.
Senza fretta.
Un percorso disegnato su coordinate mobili.
Un viaggio puro, un’essenza inquieta che trova pace.
Trova pace quando corre in compagnia di uno sconosciuto.
Con qualcuno che non vedrà mai più.
Solo un momentaneo soffio di vita insieme.

Raggiungo un altro punto fermo. Se dovessimo viaggiare per poco


insieme non succederà niente fra me e Cristian. Erigerò una
barriera di vestiti nella tenda, mi laverò poco, farò finta di
addormentarmi subito. Russerò stile aspirapolvere. Inoltre durante
la festa di addio al cileno non berrò neanche una goccia, non mi
farò avvicinare, non lancerò battute maliziose. Starò seduta tutto il
tempo a fare da tappezzeria. Seria e compunta.
Prendo tutte queste decisioni mentre erro per Cuba street
godendomi un po’ di sole. Mi arresto quando passo davanti a un
negozio di tatuaggi.
Un uomo maori enorme sta fumando fuori dal negozio. È in
maniche corte e ha braccia grandi come tronchi d’albero. I capelli
neri lunghissimi gli scendono sulla schiena e i suoi piccoli occhi
mi osservano ironici. Mi colpiscono le sue braccia tatuate.
Probabilmente sotto la maglietta ogni centimetro della sua pelle è
dipinto. Non ho mai visto una così naturale tela umana. Sembra
essere nato con questi lunghi disegni sul corpo: linee che si
intersecano, che disegnano cerchi, che fluttuano sulla carne. Ai
funerali della regina maori Bart mi aveva spiegato il significato
dei tatuaggi: “Raccontano la storia della persona, la sua vita, le sue
esperienze e il suo cammino.” Una biografia incisa sulle braccia,
le gambe, il torso. Un quadro animato.
“Ti piacciono i miei tatuaggi? Ne vuoi uno?” mi chiede l’uomo
maori.
Sfioro la giada verde che porto al collo. “Sì. Vorrei tatuarmi
questo.” glielo mostro. “Lo vorrei proprio così.”
“Ti costerà cento dollari” risponde secco.
Trattengo il respiro per un attimo. “Va bene. Quando puoi
farmelo?”
“Questo venerdì. Vieni verso le cinque.” spegne la sigaretta e la
butta nel bidone della spazzatura. Mi fa l’occhiolino e rientra nel
suo laboratorio artistico.

Bart mi chiama poco dopo: “Alice ho una proposta per domani


sera. C’è la premiazione dei videoclip neozelandesi di cui ti ho
parlato: Handle the Jandal. Sto andando ora a comprare i
biglietti. Vieni? Domani alle 19.”
“Quanto durerà?” sto già pensando alla promessa festa d’addio di
Cristian.
Il Kiwi è un po’perplesso: “Circa due ore. Perché? Hai già altri
impegni?
Con giubilo femminile gli rispondo: “Beh sì. Ho una festa domani
sera. Vuoi venire?”
“Grazie. Verrei volentieri, sono contento che tu abbia degli
amici.” Bart è sincero e io mi sento deficiente.
“ Stasera vado a lavorare da Monty. Ho deciso che sarà l’ultima
volta.”
“Non dovresti andarci neanche oggi.”
“Stasera vado. Nel caso non mi pagasse verresti con me uno di
questi giorni a prendere i soldi?”
“Non ti preoccupare. Per te questo ed altro…A proposito, domani
mattina puoi venire allo Sweet Mother’s Kitchen verso le nove?”.
Torno al Rosemere. Aprendo la porta della camera vedo un uomo
robusto in mutande sul mio letto che si sta infilando i calzini. Lo
fisso a bocca aperta. In una frazione di secondo mille domande mi
sfrecciano in testa:
“Chi cazzo è questo?” ,“Cosa ci fa sul mio letto in mutande?”,“Ma
è la mia camera ?”
Il tizio si accorge di me ferma sulla soglia, si alza e si presenta
tendendomi la mano.
“Sono Marcus Cobra e vengo dal Brasile. Sono amico di
Leandro!”
“Leandro questa me la paghi!” sibilo tra le labbra.
“Eh?” chiede Marcus in camicia e boxer bianchi.
“Scusa ti puoi mettere i pantaloni?”
“Ah sì.” il brasiliano si risiede sul mio letto.
“Magari te li puoi mettere sul tuo letto?”
“Ah sì hai ragione.”
Un po’ goffamente sale sul letto a castello. Quello sopra il mio. Mi
godo una visione entusiasmante: un uomo in mutandoni bianchi
che dimena pericolosamente il sedere sulla vacillante scaletta.
Marcus mi dice che è venuto qui da San Paolo per un corso di
inglese e mi mostra orgoglioso il suo certificato di fine corso.
“Prima stavo in un altro ostello con Olavo. Poi abbiamo
conosciuto Leandro e lui ci ha parlato di questo posto pieno di
belle ragazze. E da quello che vedo non mentiva.” mi squadra
ammiccando.
“Anche Olavo è qui?”
“Sì. Magari poi verranno altri amici brasiliani. Dobbiamo essere
uniti.” ride.
Già mi vedo tutti gli amici in mutande nella mia camera.
“Leandro, Leandro questa me la paghi…oh, se me la paghi” e
biascicando anatemi vado a lavorare.
Oggi però da Tulsi non c’è nessuno. Monty ha fatto male i calcoli
e in particolare si è dimenticato che stasera giocano gli All Blacks
contro gli Old Tasman Devils australiani. Ciò implica che se un
bar o un ristorante non ha almeno quattro schermi tutti trasmettenti
in simultanea la partita di rugby, allora può anche chiudere.
L’intera popolazione neozelandese a quest’ora si è rintanata da
qualche parte a soffrire e gioire con la squadra nazionale. Faccio
male però a farmi beffe del capo indiano mentre non avendo nulla
da fare palleggio un limone tra le mani. Infatti dopo un’ora di ozio
Monty si avvicina e mi dice: “Puoi anche andare ora. Non c’è
nessuno stasera.”
“Non poi mandarmi via così quando non ti servo.”
“Sì che posso, non c’è nessun contratto tra noi.” sibila il bastardo.
Tiro un profondo sospiro. Non ho voglia di arrabbiarmi oggi né di
litigare.
“Va bene. Dammi i soldi. Questo è il mio ultimo giorno!”
“Non posso pagarti oggi. Ho lasciato il foglio dei tuoi turni a casa.
Vieni domani.”
Lo scannerizzo. “ Ma se mi devi trenta dollari o giù di lì! Che
cavolo ti serve il foglio dei turni?!”
Monty mi guarda divertito: “Non posso pagarti così credendoti
sulla parola. Torna domani nel primo pomeriggio.” Si gira e
scompare in cucina.
Per la seconda volta lacrime amare mi bruciano negli occhi.
Umiliazione e rabbia si fondono gravandomi sul cuore,
esasperandomi.
Alle otto e mezza esco dal ristorante a testa bassa. Torno
all’ostello torva e poco incline alla quotidiana cuccagna. Ho fatto
male i conti perchè mi sono dimenticata di Eva, la tedesca
festaiola.
“Alice, spero che tu sia dei nostri venerdì! Compio gli anni e sto
organizzando una festa galattica. Cibo e sangria inclusi.”
“Ah.” il mio asciutto commento.
Prosegue esaltata: “Inoltre sarà una festa in maschera. Tutti
dovranno vestirsi da hawaiani. Hai qualcosa di colorato da
mettere? Qualche nastrino o fiocco?”
“Certo vado sempre in giro con uno zaino pieno di festoni
multicolore.” Dico sarcastica.
Eva però continua a non farci caso. “Va bene, perfetto. Allora ci
vediamo sulla veranda questo venerdì alle sette.” poi mi lancia uno
sguardo pieno di malizia: “Puoi portare i tuoi amici cileni se vuoi.
Ho visto che ne hai un paio niente male!”
Mi divincolo dalla conversazione e salgo in camera. Stranamente
Julia, Matthias e Marcus sono fuori e presa da questa dolce
sensazione di privacy mi addormento verso le nove.

Una notte spinata


Sto camminando su un sentiero buio pieno di spine.
Mi guardo indietro con paura.
Forse qualcuno vuole farmi fare una brutta fine.
O forse ho solo bisogno di andare in cura.
Nel sogno tengo in mano delle forcine.
Con quelle provo a fare un buco in alte mura.
Cerco di scavalcarle ma poi si trasformano in un crine.
Non ce la faccio e cado indietro in mezzo a tanta sozzura.
Giovani ragazze gridano intorno vestite da sposine.
Tra le braccia una tiene una piccola creatura.
La piccola tende verso di me le sue braccine.
Io vengo divorata da una sotterranea increspatura.

Mentre scivolo uno schianto folle mi assorda.


Mi scuote con rumore.
Ma quando finisce questa notte balorda?
Quanto cessa questo continuo fragore?!?

Una specie di Ensemble strumentale per segheria elettrica mi


perfora i timpani. Mi sveglio. Da dove viene questo concerto per
trombone rauco? È Marcus che sta russando. Mai sentito niente di
così terrificante prima d’ora.
“Basta! Matthias fallo smettere.” piagnucola Julia dal suo letto.
“Questo ha un russare che taglia i tronchi.” commenta Matthias.
Un “andante ma non troppo” per trapano e martello pneumatico
uniti in una sinergia mortale. Proprio sopra di me.
Gli tiro dei calci sul fondoschiena. Il brasiliano invece di svegliarsi
emette gemiti di piacere alternati allo sbalzo sismico delle sue
narici.
Allora il tedesco si alza e lo scuote con forza. Il suo russare
diventa a sobbalzi. Finché Marcus si sveglia. “Eh? Uh?” mugola
sorpreso nel vedere il viso di Matthias cupo come un temporale.
“Marcus, non riusciamo a dormire a causa del tuo russare!”
“Ah scusate. Ho il setto nasale deviato. Adesso mi faccio lo
spray?”
“E non potevi farlo prima??!” grida Julia.
“Mi sono dimenticato. Ora risolviamo tutto.”
Peccato che lo spray amplifichi il russare di Marcus. Ora ce lo
abbiamo in Dolby Surround. Matthias, Julia e io passiamo la
notte a inveire. Leandro questa me la paghi, o se le la paghi!
Alle cinque di mattina, dopo una notte insonne, mi trascino nella
Tv lounge con l’idea di dormire lì.
Appena apro la porta della sala una zaffata aromatica mi rintrona.
Sembra di essere a Woodstock. Un nube di Marijuana aleggia
tutto intorno e attraverso di essa scorgo tre figure con hula hop al
posto degli occhi. Sono gli americani a cui David dà la caccia.
Stanno giocando a carte.
“Ehi, ragazzi scusate. Non volevo disturbarvi. Mi sdraio sul
divano e dormo un po’.”
“Pace sorella.” mi risponde uno.
I tre mentre giocano a poker scatenano l’inferno in terra.
“Ma che fai, bari??!”
“Io?!? Sei tu che ti sei preso la mia regina?”
“Ma quale regina se hai solo un due di fiori in mano?”
Complici alcol e fumo urlano e sbraitano. Vengo svegliata dopo
un paio di ore dall’aspirapolvere che David brandisce come una
spada. Si vede che è di cattivo umore.
“David non riesci a spostare Marcus in un’altra stanza? Magari
con Leandro, Thomas e Lusky. Russa da far paura!”
“Alice ho un sacco di casini da risolvere. Sono arrivati altri due
tizi stamattina e per domani aspettiamo venti piccoli allievi di
Judo e i loro allenatori. Non so ancora dove metterli.”
“Che viene a fare qui la squadra di Judo?”
“A visitare questa specie di caffè letterario che è il Rosemere.”
risponde l’americano “ Che ne so cosa ci vengono a fare.”
Sfodero un’arma vincente: “Comunque caro David se non
risolveremo questa storia di Marcus il più presto possibile avremo
tutti facce pallide, smunte e occhiaie viola con sfumature blu sotto
gli occhi.” Lo fisso: “Per tutti intendo io, Julia… e Matthias”.
Ho colto nel segno. Al solo pensiero che il suo concupito oriundo
assuma fattezze da vampiro David rabbrividisce.”Vedrò quello
che posso fare.”
“Sei riuscito a scovare i tuoi tre connazionali cannaioli?”
“No quei delinquenti mi continuano a sfuggire”
“Erano qui alle cinque. Stavano fumando di tutto e di più.”
“Maledetti. Questa me la pagano!” l’americano afferra
l’aspirapolvere e fugge via.
Mi faccio una doccia. Tra meno di un’ora devo essere allo Sweet
Mother’s Kitchen. In bagno scruto allo specchio i miei occhi gonfi
come airbag e il viso sciupato. Accanto a me Leandro con il rasoio
in mano e il viso coperto di schiuma si sta facendo la barba.
Mi saluta allegramente. Lo guardo con un radar a infrarossi.
“Buon giorno un corno! Il tuo amico Marcus non ci fa dormire.
Russa talmente tanto che si potrebbe confondere con uno
tsunami.”
Leandro mi guarda desolato. “Mi dispiace. Non lo sapevo. Cosa si
può fare?”
“Eliminarlo?”
Il brasiliano si gratta la testa e poi la sua bocca si allarga in un
sorriso. “Ho trovato. Posso fare cambio con Marcus. Io vengo in
camera tua e lui nella mia.”
Mi viene un sospetto. Vuoi vedere che l’ex pilota ha escogitato un
piano diabolico per spostarsi nella mia camera?!! Sono forse
megalomane a pensarlo, ma stiamo parlando di uno che sostiene di
essere stato mio amante nella vita passata.
“Ti ringrazio dell’offerta, ma così non si risolve niente. Lo sai che
certa gente è emigrata altrove a causa del tuo russare?”
Mi rivolge uno sguardo agonizzante. Capisco di averlo ferito a
morte. “Io russo?”
“Beh, un pochino. Come tutti infondo.” Cerco di migliorare la
situazione.
“Io russo?” ripete.
“Dai Leandro non è una cosa così drammatica.”
Il brasiliano si trascina in camera con la schiuma ancora sul viso.
“Io russo?”
Gli urlo dietro: “Però nella vita precedente non russavi!!! Neanche
nella prossima secondo me!”
Mi giro e vede un uomo sui trentacinque anni che mi guarda
sbalordito.
È uno scrittore inglese che sta scrivendo un libro sulle abitudini
alimentari dei neozelandesi. Si chiama Berry e sembra simpatico
come un calabrone intrappolato nell’orecchio.

Oggi al ristorante è tutto tranquillo.


Diane si avvicina: “Ha chiamato Bart. Ha detto che ha comprato i
biglietti per il festival di videoclip musicali che si terrà stasera:
“Handle the Jandal.”
“A che ora inizia?”
“Alle otto?”
“Bene. Ci vediamo fuori dal teatro per quell’ora.”
Invece arrivo in ritardo a spettacolo giá iniziato. Due giovani
uomini sul palcoscenico introducono i videoclip che stanno per
andare in onda, con musica e montaggio neozelandese. Il pubblico
impazzisce: beve, ride ed esulta. E’ impossibile scorgere Bart in
questa bolgia umana.
I videoclip suscitano in me diverse sensazioni: disgusto, noia e
incredulità. Musica e scene sono un’accozzaglia di suoni elettrici,
immagini angosciose e colori violenti. Li trovo tutti di cattivo
gusto e mentre il pubblico esulta io mi rannicchio sempre di più
sulla poltrona.
Alla fine del primo tempo ci viene detto di votare per il migliore.
Il piú acclamato è: “Fuck you Orlando”. La trama racconta di un
uomo disperato perché la sua fidanzata l’ha tradito con l’attore
Orlando Bloom.
Il protagonista tende una trappola a Orlando, lo lega alla doccia
del suo bagno e lo sevizia. Infine gli mangia gli intestini a forma
di salsicciotti legati tra loro e il fegato che altro non è che una
bistecca pronta. La musica ripete uno straziante: “Fuck you
Orlando.” Grottesco.
Mentre fuggo dal teatro prima dell’inizio della premiazione
incontro Leila.
“Se cerchi Bart è al ristorante che beve con degli amici.”
“Mio caro sto andando alla festa di cui ti ho parlato. Vieni?” lo
raggiungo.
Il mio amico è particolarmente ebbro: “No grazie. Esco con mia
cugina. Rimaniamo in zona. Ci raggiungi dopo?”
“Non penso, magari ci vediamo domani.” Mentre mi allontano
sento i suoi occhi fissi su di me. Mi giro e vedo che mi guarda con
uno strano sorriso ebete.
Dovevi svegliarti prima bello mio. Ora è troppo tardi.

Forse vorresti
Troppo tardi per inseguirti, per tenere il tuo passo, per aspettarti.
Forse vorresti ibernarmi fra quattro mura. Congelarmi fino a
quando non cambierai prospettive e priorità.
Forse vorresti tenermi in un cassetto. Custodirmi finché non
arriverà il tuo momento. Un filtrare continuo di secondi e di
pensieri. Un lento vibrare del tempo.
Forse mi vorresti qui per mesi ed anni. A sorriderti in una
giornata buia, a farti ridere quando sei stanco.
Forse vorresti perché tutte queste cose non me le dici. Non mi
chiedi niente.
Forse vorresti che il mio amore bastasse per due. Come un
enorme ombrello che ripara entrambi in una notte di pioggia.
Non lo è. Anzi si rintana come una bestia ferita. Tutto questo
nulla lo disturba.
Forse vorresti che accettassi le briciole del tuo tempo, gli avanzi
della tua compagnia.
Forse vorresti non spiegarmi mai e nutrirmi di dubbi.
Purtroppo la bestia si è disciolta nel vento. Ed il vento si muove.

Arrivando al Beethoven House i miei pensieri vengono interrotti


bruscamente.
Tutti gli ospiti dell’ostello e altri backpackers fanno cerchio
intorno a Cristiàn che ride felice.
Appena mi vede mi viene incontro. “Allora siamo d’accordo. Ci
vediamo a Thames in Coromandel fra quattro giorni. Ti aspetterò
lì fino a lunedì sera. Decidi tu quando partire.”
È incredibile come il vino trasformi quest’uomo. Da timido e
chiuso a Don Giovanni incallito dissacratore di virtù femminili. Lo
guardo preoccupata.
“E dai! Non fare quella faccia. Non voglio mica perseguitarti. Se
vuoi in tenda erigiamo un muro di vestiti da mettere in mezzo.” e
sbotta in una sonora risata.
“Inoltre voglio darmi alla purificazione durante il nuovo errare.
Basta sigarette, cigarillos e alcol. Meglio darsi ad altri piaceri.”
continua malizioso.
“Stento a immaginare quali.” rispondo.
La fiesta collettiva si sposta al Big Kumara, discoteca a cento
metri dal mio ostello. Con grande disappunto mi ritrovo l’unica
donna con quattro pazzi furiosi: Cristiàn, un inglese, un braziliano
ed un sudafricano. Sulla strada per il ballo Alejandro dopo avermi
sussurrato: “Io vado. Ho un appuntamento.” è scomparso nella
notte.
Deduco che ci sia di mezzo una donna, una delle tante.
Sulla pista Cristiàn mi si piazza davanti e mi tira a sé. Io mi
divincolo e adotto la tecnica anti Leandro. Comincio a saltellare
ovunque. È inutile. Il cileno mi placca sempre. Come un toro che
punta il mantello rosso. Balliamo a distanza ravvicinata. I suoi
occhi sono meteorite. I miei cercano la fuga. A peggiorare la
situazione interviene il brasiliano che urla a me e a Cristiàn:
“Coraggio ragazzi!Prendetevi una stanza!”
Cristiàn non ci fa caso. Io arrossisco. Tenta di abbracciarmi, ma
mi dimeno come un tubetto scivoloso e gli sguscio tra le mani. Mi
sorride. Questa specie di battaglia impari lo diverte molto. Per
fortuna non prova a baciarmi.
Quando alle sei di mattina usciamo dalla discoteca mi sento
stremata. Non vedo l’ora di andare a dormire. Cristiàn però insiste
nell’accompagnarmi al Rosemere.
“Ma a che ora devi partire?” gli chiedo.
“Fra due ore. Non intendo dormire nel frattempo!”
“Guarda che riesco a tornare a casa da sola,”
“Meglio che ti accompagni. Magari incontri qualche
malintenzionato.”
“Il solo malintenzionato che c’è qui sei tu!”
“Non hai tutti i torti” si liscia i baffetti.
Sulla veranda del Rosemere Ken dimena la testa come al solito.
Invito Cristiàn ad entrare per una tazza di tè.
Un’ampia pentola sui fornelli attira subito la nostra attenzione. Ci
avviciniamo per scoprirne il contenuto: zuppa ai funghi. Il
proprietario si è dimenticato di marcare la proprietà, quindi la
zuppa diventa automaticamente di tutti e di nessuno. Ne
mangiamo tre scodelle.
Prima di andare via Cristiàn mi dice: “Allora ti aspetto a Thames.
Tu però dovresti posticipare il volo. Tre giorni a Coromandel sono
davvero pochi, soprattutto se vogliamo muoverci in autostop.”
Effettivamente non ha tutti i torti. Pensandoci mi distraggo e
abbasso le difese. Mi accorgo troppo tardi che il cileno ha
pericolosamente avvicinato il suo viso al mio e sta per baciarmi.
L’odore di funghi aleggiante corona il momento.
Proprio quando le sue labbra sono a un centimetro dalle mie
sentiamo dei passi sulle scale.
Ci giriamo. L’attimo è svanito e al suo posto è apparsa una delle
tedesche che ci guarda imbarazzata. Bofonchia un “scusate” e
scappa via, una caterva di sandwich da imbottire e impacchettare
la aspetta.
Per fortuna non devo andare a lavorare oggi. Rialzo le difese e
guardo accigliata il cileno. Il quale mi fa una carezza sulla
guancia: “Mi Reina ci vediamo giù. Ci vediamo all’inferno.” Lo
vedo allontanarsi con passo tranquillo e sicuro. La luce dell’alba
disegna i contorni del suo corpo. Soffia una leggera brezza che
viene dall’oceano foriera di una nuova marea interna. Un presagio
di quanto siano misteriose le strade che percorriamo. Tuttavia la
respiro a pieni polmoni e chiudo gli occhi.
Ora mi sento al sicuro. Protetta dalla luce del nuovo giorno, una
sensazione passeggera. Stanca me ne vado a dormire. Sogno di
entrare in una tenda che è una trappola animata e da cui non riesco
più ad uscire.

5.2 Il ragazzo delle pietre indiane


Un’altra notte passa all’insegna di un concerto per demolizione.
Pesanti gru, macchinari vari ed attrezzi demoniaci escono dalla
bocca di Marcus. I calci non servono. Lo spray neppure.
“Non ne posso più. Se David non gli cambia stanza io me ne vado.
Trovo un altro ostello.”strilla Julia.
“Lunedì ho un colloquio come lava piatti. Non posso presentarmi
con questa faccia da morto vivente.” si dispera Matthias.
“I miei tic da tre sono raddoppiati a sei. ” sentenzio rassegnata.
Al mattino siamo dei cadaveri. Occhi a palla e smunti. Marcus
invece si alza fresco e ben riposato.
Mentre sono impegnata a pescare i cereali nel latte, Matthias fa
pressione su David.
“Va bene ho capito Matthias, ma oggi non posso farci niente. Sono
arrivati altri tre ragazzi ieri. Per stasera è tutto pieno. Domani la
situazione dovrebbe sbloccarsi. Ti prometto che farò il possibile.”
Un uomo piccolo e compatto si siede vicino a me.
“Serata impegnativa, eh?” mi chiede allegro.
“Direi piuttosto nottata.” rispondo posando i miei occhi stanchi su
di lui.
Il tizio comincia a riversarmi addosso la storia della sua vita. Si
chiama Benjamin, è un fotografo freelance inglese che ha
attraversato il mondo. Se non fosse che sono di umore nero e che
faccio fatica a connettere renderei la conversazione più attiva.
Invece la riduco a disperati grugniti.
Il povero Ben dopo quindici minuti si alza: “Scusa, vedo che non è
il momento. Magari riproviamo più tardi.”
“Sgrunf.”
Mi armo di penna e taccuino e comincio a scrivere seduta sulla
panca. Per sopravvivere in questo posto occorre conoscere le
psicosi di ciascuno. Chi condivide gli spazi comuni con me da
qualche settimana sa che è inutile tentare di parlarmi mentre
scrivo.
Persino Lusky e Thomas mi stanno alla larga in quei momenti.
Raramente alzo la testa per vedere chi è entrato in cucina, finchè
in uno di questi raid visivi colgo un personaggio particolare, una
nuova nota di colore. È un ragazzo alto e magro che sta
armeggiando con i fornelli. Ha la carnagione color cioccolato al
latte, gli occhi neri e sognanti. I suoi capelli sono ricci, neri e
ribelli e sembrano i musicisti di un’orchestra lasciati senza
direttore.
Ricambia il mio sguardo per qualche secondo e poi gira la testa.
Risprofondo nelle note di viaggio.
“Scusa ti posso chiedere quanto hai pagato quella giada verde?” Il
ragazzo dai capelli neri e folti si è seduto sulla panca davanti a me.
Ha uno sguardo intelligente e penetrante e sembra voglia tuffarsi
nella mia anima. I suoi occhi sono tranquilli e melanconici allo
stesso tempo. Assomiglia a un marinaio che ha girato il mondo e
che è stato cambiato da tutto quello che ha visto, a un pezzo di
legno che è diventato un violino.
“L’ho pagata quaranta dollari.” rispondo.
Lui sfrega la pietra marrone che porta al collo, che sembra un
talismano.
“Faccio delle collane come questa con delle pietre speciali che ho
trovato in India.”
“Belle. Ne hai delle altre?”.
“Certo, ne ho un’intera scatola in camera. Voglio provare a
venderne alcune nei negozi di Wellington.”
“Ottima idea. Quanto chiedi?”
“Venti dollari l’una. Ogni pietra ha un suo significato, un simbolo
dotato di una particolare energia.”
Lo guardo scettica. Il ragazzo è un businessman.
“Di dove sei?”
“Sono israeliano. Ho lasciato Tel Aviv circa un anno e mezzo fa
per andare in India.” fa una pausa. “Avrei dovuto starci tre mesi e
poi tornare a casa. Passato quel periodo, ho chiamato mia madre e
le ho detto che non sarei tornato molto presto.”
“ E poi?”
“Poi sono stato altri tre mesi in India. Dopo sono andato a New
York per lavorare e ci sono rimasto cinque mesi. Da New York
sono venuto in Nuova Zelanda. Questo lunedì parto per l’Isola
Sud.”
Mi guarda in modo sognante, ma deciso. “Poi tornerò a New York
per guadagnare un po’ di soldi. Dopo vedrà Dio, mi rimetto a lui
come sempre.” Parla in modo sincero e spontaneo.
Intanto anche Julia è comparsa in cucina.
Il ragazzo delle pietre indiane sorride: “Mi chiamo Amihai. E tu?”
Mi presento: nome, nazionalitá, status familiare, nubile orgogliosa
di esserlo.
Poi il ragazzo va a prendere le collane per mostrarmele.
“Stai qui. Non scappare.” mi dice.
Appena il ragazzo esce dalla cucina Julia mi fissa incredula.
“Chi è quel tizio?”
“Il ragazzo delle pietre indiane.”
“È indiano?”
“No, israeliano.”
La tedesca mi scruta seria e poi commenta: “A te piacciono tutti i
fuori di testa.”
“Lo trovo interessante.”
“Piuttosto, scendi sulla terra con quell’espressione sognante e
parliamo di cose serie.”
“Sai che stasera c’è la festa di Eva. Ho comprato anche per te dei
nastri colorati hawaiani per fare un po’ di colore intorno al collo.
Dobbiamo solo andare a comprare il vino in cartone.”
Tremo per tre motivi.
Mi chiedo da quando Julia e io facciamo le cose insieme. Spero
non abbia litigato con Susie e che non abbia dirottato il suo fiato
felino su di me.
“Mi spiace Julia, ma alle cinque vado a tatuarmi. Poi il dolore
lancinante non mi permetterà di muovermi.” La tedesca rimane
impassibile. “Bene, verrò con te oggi per . tenerti la mano
nell’apice della sofferenza. Sono tua amica no?”
A me sembra sadismo.
Amihai è tornato tenendo fra le mani una scatola di velluto rosso.
“Come mai hai comprato i nastri colorati anche per me?”
“Me l’ha chiesto Eva. Le ho promesso di aiutarla nell’impresa
disperata di dare un aspetto decoroso alla festa e soprattutto agli
invitati. Tu sei uno dei casi “L”. Quindi c’è bisogno del mio
intervento.”
“L?” chiede curioso il ragazzo delle pietre indiane.
Julia lo scruta seria: “L di lost. Perso.”
Amihai scoppia a ridere scuotendo la testa. Poi rivolto a Julia:
“Perché? Cos’ha la tua amica di lost?”
La tedesca risponde pronta: “Se ne frega dell’etichetta.”
“Quale etichetta?” chiedo confusa.
“Quella sociale!” mi sibila Julia.
Ora capisco. Eva ha paura che le faccia fare qualche figuraccia
con i vari maschietti raccattati che porterà. Ha paura che mi metta
in un angolo ad agitare la testa insieme a Ken o che mi appollai su
un ramo insieme a Thomas o che cominci a grattarmi la testa in
cerca di pidocchi insieme a Lusky. Mi rendo conto di non essere
molto popolare.
“Diamo un’occhiata alle collane e poi escogitiamo un modo di
ingentilirmi.” La supplico.
Amihai estrae circa quindici collane nere con al centro pietre di
diverso colore.
Ce ne sono rosse, verdi e blu, tutte particolari e con delle striature
lucenti.
Lui ne pesca una verde chiamata: “Green zebra”e me la porge:
“Questa infonde determinazione e fiducia in se stessi. Non hai
bisogno di nessuna etichetta.” La compro subito.
“Oggi è la vigilia del capodanno ebraico, è il 5767 ed è Rosh
haShana, che letteralmente vuol dire Testa dell’anno. Sai per caso
dove sia la sinagoga qui a Wellington?”
“Non ne ho idea, ma posso chiedere. Quindi non ci sarai alla festa
qui in ostello stasera?” gli chiedo un po’ delusa.
“Ci saró, non posso perdermela. Troppe buone premesse.”
Prima di separarci gli chiedo come si dica “grazie” in ebraico.
“Toda.”
“Toda per la collana allora.” ed entro in camera sicura di aver
segnato un punto a mio favore.
“Perché hai quell’espressione strana sul viso?” una voce sotto le
coperte. È Matthias che approfitta dell’assenza di Marcus per
dormire.
“Sono due notti che non dormiamo. Devo sembrare un po’
allucinata”
“Quello lo sei sempre. No, sembra che tu abbia fumato qualcosa!”
“Solo un infuso di erbe indiane.” infilo la giacca e vado a trovare
Monty.
“Il capo è appena andato via. Torna domani alla stessa ora.” Il
cassiere mi guarda con sottile gioia.
“Come è andato via? Doveva pagarmi?” sono incredula.
“Si vede che si è dimenticato. Ha altre cose più importanti da
fare”.
Tutta questa scena per trenta miseri dollari.
Mi siedo su una panchina rimanendo lì immobile come una
bambola di pezza.
L’unica soluzione è chiamare Bart.
“Ciao, ti posso chiedere un favore?”
“Dimmi tutto.”
“Potresti venire con me domani a prendere i soldi da Monty?
All’orario di pranzo.”
Va bene. Nessun problema.”
Bart è proprietario di un ristorante e conosce tutti, basterà la sua
presenza.
“Non devi fare niente. Solo starmi vicino in silenzio.”
“Ok, non ti preoccupare. Domani vieni a lavorare allo Sweet
mother’s Kitchen?. Solo per poche ore, dalle nove a mezzogiorno”
“No problem.” una fiammata in testa. Domani è sabato e io ho
l’aereo per Milano il prossimo venerdì mattina. La fiamma diventa
un incendio di decisioni. Irruente. “Bart, ascolta domani è il mio
ultimo giorno al ristorante. Parto domenica sera.”
“Dirò a Diane di prepararti i soldi.” la sua voce calda e un po’
assente: “Quando torni?”
“Amico mio fra neanche una settimana torno in Italia.”
Un secco “Ah” dall’altra parte del telefono.
“Bart? Sei ancora lì?”
“Sì ci sono. Devo andare ora. Ci vediamo domani. Passo al
ristorante e poi andiamo da Tulsi.”
“Va bene. A Domani.”
Per un attimo sento ancora il suo fiato sospeso poi riattacca.
Rimango sulla panchina a fissare il vuoto con aria corrucciata.
Finchè una voce accanto mi fa girare: “Hey qualcosa non va?”.
Amihai si siede vicino. Ha raccolto tutti i suoi riccioli in un
cappello a strisce colorate.
“No, va tutto bene. Che ci fai qui?”
Fa un gesto vago nell’aria. “Ho appena venduto dieci collane a
quel negozio lì”. Me ne indica uno a cento metri gestito da un
minuto signore cinese.
“Se non hai niente da fare, ti va di aiutarmi a cercare la sinagoga?
Penso di sapere dove si trovi.”
Mi porta davanti a un cancello di ferro con un cartello:
“Synagogue”, sinagoga. Amihai preme il citofono e poco dopo
una ragazza con l’aria sospettosa viene ad aprire.
“Scusa sei ebrea?” le chiede diretto il mio amico.
“Sì perché? Sono la figlia del rabbino.” risponde un po’
aggressiva.
“A che ora è la cerimonia stasera?”
“Alle sei.” E cosí dicendo richiude il cancello e se ne va.
“Che simpatia!” commento.
“Mah, non posso biasimarla però. Con questa barba ho l’aria
trascurata. Vado in ostello a radermi e a mettermi un po’ a posto.”
Si tasta la barba nera con le dita. “Perché non vieni anche tu alla
cerimonia stasera. Potrebbe interessarti.”
“Mi piacerebbe, ma non vorrei mai fare qualcosa di inadeguato.”
I suoi occhi neri mi scrutano. Scuote la testa: “Non penso
riusciresti neanche se lo volessi. Comunque non è niente di
eccezionale. Entri e ti siedi con le donne. L’unica cosa: non
portare lo zaino.”
L’esperienza mi incuriosisce, ma mi sono dimenticata della parte
di me piú masochista “Accidenti. Alle cinque ho l’appuntamento
con il tatuatore.”
“Un tatuaggio?!?Pensa che noi non ne possiamo avere.” mi spiega
Amihai. “Quando muori devi presentarti davanti a Dio puro senza
incisioni sul corpo.”
“Quindi nemmeno i piercing.”
“Neanche i piercing, anche se io ne ho fatto uno quando avevo
quindici anni.”
“Ma scusa, anche quella è un’abrasione del corpo.”
“Beh, ma si può togliere e poi si cicatrizza.”
“E la circoncisione? Quella è una lieve amputazione”.
Amihai mi guarda titubante: “Quella è tutta un’altra storia. Ti
assicuro però che c’è tutto!”
Rido. “Non ne dubitavo.”
“Dove vuoi fare il tatuaggio?”
“Non lo so.” confesso. “Sarà una decisione estemporanea.”
L’israeliano ci pensa su: “Perché non sulla caviglia? Penso sia una
bella parte del corpo.”
Non male come idea.
Mentre torniamo al Rosemere discutiamo sulla vita, sulla morte, e
soprattutto sulla fede. Lui mi dice che si mette nelle mani di Dio
per qualsiasi cosa. Questo gli dà coraggio, lo stimola a non
perdersi d’animo anche nelle peggiori condizioni. Se soffre la
fame e il freddo non si sente mai solo, come se avesse sempre un
compagno di viaggio. Crede anche nel destino. Mi racconta che in
India gli è esplosa una bomba a cinque metri di distanza. “Se fossi
morto, beh, quello sarebbe stato il mio destino. Invece non era
ancora la mia ora. Forse perché dovevo venire qui e conoscerti.”
Parla seriamente. “E tu? In cosa credi?”

In cosa credo
Dio per me è forza, energia, simbiosi di emozioni.
Si manifesta in un abbraccio, nella montagna nebbiosa di Milford
Sound, nel sorriso dei miei amici.
Si manifesta in una sinfonia melodica, nelle lacrime e nel dolore.
Dio è un caleidoscopio. Un coacervo di strade di cui noi non
vediamo la fine ma viviamo gli incroci.
Si manifesta sulla spiaggia illuminata dal sole morente, dal
rapporto caldo con un'altra persona, dagli occhi di Amihai neri
come l’abisso.
C’è un senso stupendo in tutto questo, una miriade di significati
simili a tante goccioline d’acqua che scivolano su uno specchio.

Un specie di boato proviente dal mio stomaco frena le mie


riflessioni. Sono quasi le quattro e non abbiamo ancora mangiato.
“Ti posso preparare qualcosa?” mi chiede Amihai.
“E me lo chiedi? Che bello, nessuno cucina mai per me!” giubilo.
“Va bene. Inventerò qualcosa.”
Seduto sulla panca in cucina Thomas assume un’espressione
allarmata quando Amihai e io entriamo. L’espressione si tinge di
scuro quando si accorge che l’israeliani sta cucinando anche per
me. Mi si avvicina: “È il tuo ragazzo?” sibila.
“ E’ solo un amico.”
“Hai una facci strana. Sognante e svampita.” Mi scruta.
“Sarà perché non dormo da due notti e sto per impazzire.”
Dopo un ottimo pranzo vegetariano, Amihai va a preparsi.
“Ti aspetto allo sinagoga. Tu entra senza farti problemi.”
“Se non dovessi farcela ci vediamo dopo qui alla festa?”
“Sicuro, non ti lascio tutto il divertimento” Sorride.
Alle cinque puntuale come una scarica elettrica appare Julia.
“Allora andiamo? Sono in ansia per te, chissà che dolore
allucinante!”
“Se questo è il tuo modo di starmi vicina, grazie ma vado da sola.”
Ed invece entrambe imbocchiamo Vivian Street fino all’incrocio
con Cuba street.
“Sai stavo pensando…” Julia mi guarda maliziosa. “Se domani si
liberasse un letto nella camera dell’israeliano potresti trasferirti lì.
Sono sicura che la cosa non ti dispiacerebbe.” Ammicca sexy
come una trota salmonata ed io la ignoro.
“Julia penso di tatuarmi l’uncino sulla caviglia.”
Entriamo nell’antro del maori, che è impegnato a incidere
un’aquila sulla spalla di una donna.
Mentre aspettiamo Julia entra in fibrillazione.
“Guarda che sono io che devo tatuarmi. Non tu!”
“Oddio, oddio, che impressione!!! Ma tu non hai paura?? Non sei
agitata?”
“Ti ringrazio per il supporto morale.” La mia mente tuttavia è
lontana. Veleggia tra cerimonie ebraiche e pietre indiane, si
sofferma per un attimo confusa su un hombre cileno, ma poi cerca
rifugio in una sinagoga.
Finalmente è il mio turno e mentre il tatuatore procede con l’ago
elettrico tra le mani Julia lancia un grido di gioia. La guardiamo
con occhi sgranati.
“Ma quella foto significa che sono venuti tutti qui!!!” Julia ne
indica eccitata una appesa al muro, che ritrare quattro visi
sorridenti.
“Sì sono venuti tutti e nove a farsi tatuare.” Risponde il maori che
ritenta di affondare l’ago nella mia caviglia.
“Wow! Tutti e nove!” Cosa si sono fatti tatuare?” chiede animata
la tedesca.
Il maori la guarda divertito: “Il numero nove. Ognuno in una
diversa parte del corpo. Se questa è la tua successiva domanda.”
Osservo anch’io la foto. Le quattro facce note appartengono a
Frodo, Sam, Marry e Pipino. Alias Elijah Wood, Sean Astin,
Dominic Monaghan e Billy Boyd.
Julia comincia a fotografare la foto, lo studio e il tatuatore, tutto
questo mentre lui mi sta scavando la pelle.
“Come sono? Sono simpatici? Dove ognuno dei nove si è fatto
tatuare il numero? E Legolas alias Orlando Bloom com’è?” le
domande a valanga della mia camerata.
Lui risponde cortese e a proposito dell’affascinante elfo dice: “È
l’unico che se ne stava sulle sue, un po’ arrogante e snob. Tutti gli
altri invece sono persone molto alla mano.”
Mi viene in mente il videoclip: “Fuck you Orlando”, quello per cui
ho votato durante Handle the Jandal.
Zoppico via contenta con il mio piccolo uncino arrossato. È troppo
tardi per andare alla sinagoga e in più il segugio tedesco non mi
molla. Mi trascina a prendere il vino, poi tornate a casa mi
costringe a provare i nastri hawaiani che ha comprato per me. Un
orrore. Ho un boa constrictor intorno al collo. Mi guardo allo
specchio. Struccata, con un nemico soffocante al collo, lo sguardo
da spirito irritato ed il solito maglione verde, capelli per aria. Una
nota stonata.
“Ti prego! Non ti presenterai con quella faccia??!! Susie mi
rimprovera.”
“Ho solo questa.”
“Sei un’impresa disperata.”
Spero che Amihai torni presto. Contorcendomi nel cobra giallo
precipito nella festa come un bambino che prima di tuffarsi dal
trampolino chiude gli occhi. Quando li riapro vedo degli strani
animali.

Meduse gelatinose
Sulla veranda uno strano circo. Tante camicie rosse a fiori
bianchi. Ragazze avvolte in parei o in asciugamani.
Serpenti colorati intorno a braccia, collo, mani e piedi. Rap
tedesco in sottofondo. Sono tutti lì tranne Terry.
Lusky si è annodato dei lacci colorati sulle orecchie. Sembra
cerume multicolore.
Thomas ha un braccialetto blu molto effeminato al polso. Si è
messo un finto torso muscoloso sul suo striminzito, che sembra
l’armatura dell’uomo ganzo. Osceno.
Ken si è saggiamente nascosto da qualche parte.
David è allibito come me.
La Triade oriunda e altre tedesche fanno la guardia ad una micro
torta alle mele. Talmente micro che solo tre puffi potrebbero
dividersela equamente.
Eva sta molestando un uomo ubriaco neozelandese, regalandoci
una visione da vietare ai minori di anni quaranta.
Leandro e Marcus fanno gli splendidi. Certo loro sì che sono in
forma, loro sì che dormono. Oscillano come altalene.
Matthias ha un braccio sulla spalla di Susie ed uno su quella di
Julia. Vanno in giro così e formano un strano mostro a tre teste.
Non si capisce quale sia quella che funziona.
Forse è per questo che David è sconvolto.
Berry l’antipatico scrittore è completamente ubriaco. Mi vede:
“Vieni, fatti abbracciare!!!”

“Ma chi ti conosce” rispondo. Lui avanza con le braccia tese. Mi


tolgo il pitone colorato e glielo lancio in stile lazzo al collo.
“Divertiti con questo.”
Sto per andarmene quando in un angolo vedo due enormi pentole
piene di punch. Mi arresto presa dalla lussuria etilica. Divento
mansueta, forse anche troppo. Non ci vuole molto per capire che a
parte il cibo e il bere questa festa è destinata all’S.P.Q.R.
Sbadiglio Perpetuo fin Quando Rimani.
A parte risa concitate, danze improvvisate e molestie perseverate è
tutto a intermittenza. Forse mi sono abituata troppo bene con le
feste dei cileni. Mi chiama Alejandro.
“Alice c’è una festa qui al Beethoven stasera. Vieni?”.
“Forse ti raggiungo. Anche qui hanno organizzato un party.”
“Notevole?”
“S.P.Q.R.”
“Ah! Ci si vede qui allora!”
Per fortuna arrivano Benjamin, il fotografo e Hagai, un ragazzo
israeliano di passaggio. Di Amihai neanche un ricciolo.
Anche Hagai è in viaggio da qualche anno e mi racconta le sue
tappe: “In Egitto dovevo parlare in inglese perché parlo l’arabo
meglio di molti europei. Si capisce che sono israeliano e non
volevo rischiare, non siamo molto amati in certi paesi.” Un sorriso
amaro.
Mi spiega che nel suo paese il servizio militare dura tre anni.
“Questo aggiunto al fatto che non si vive molto bene ci spinge a
viaggiare per anni. Un sacco di connazionali lo fanno. Amihai ed
io non siamo gli unici.”
Gli chiedo perché non è andato alla Sinagoga stasera. Fa una
smorfia: “Non ne avevo voglia. Preferisco stare qui e parlare con
delle persone simpatiche.” Deduco che Hagai sia credente ma non
troppo.
Benjamin invece mi descrive le sue avventure da fotoreporter in
Cina. “Non mi sono cambiato la biancheria intima per un mese e
ho tenuto su lo stesso paio di mutande. Quando le ho tolte si sono
disintegrate.” La sua faccia perfettamente tonda assomiglia al sole
d’agosto italiano.
Alle undici sono quasi rassegnata a ritirarmi, ma Terry fa la sua
comparsa seguito da Amihai.
La drag queen è in ottima forma. Indossa un ambito attillato rosso
con uno strascico chilometrico. La scollatura sul petto è ampia e
due enormi tette finte svettano orgogliose. Dovrei rinforzare
anch’io il mio minuscolo decolté con un paio di avocado maturi.
Terry ha i capelli neri lunghi sciolti e indossa sandali con il tacco;
una bella ragazza se uno ignora la celata sorpresa.
“Ma quello è un uomo o una donna?” mi chiede Hagai. Amihai è
venuto a sedersi vicino a noi. “Mi stavo chiedendo la stessa cosa!”
Terry rallegra la serata, si esibisce in show scoppiettanti, bacia
chiunque sulla bocca e ride di gusto.
“Come è andata alla Sinagoga?” Hagai chiede al ragazzo delle
pietre indiane.
“Bene, il rabbino mi ha invitato a cena.” si rivolge a me: “Ti
sarebbe piaciuto.”
“Lo so, scusami. Ci sono stati dei contrattempi.” Tra cui quello di
un pastore tedesco che mi seguiva come se fossi una pecora
ribelle!
Poi iniziano strane conversazioni tra i personaggi. Amihai viene
coinvolto da Leandro in una discussione sull’esoterismo che li
vede tubare come colombe per ore.
A volte incrocio gli occhi dell’israeliano che mi osservano con
dolcezza.
Benjamin sta tenendo a Marcus una lezione di grammatica inglese.
Hagai serio racconta a Julia del suo periodo in Nepal. Io affronto
con Thomas una diatriba sul suo finto busto da fusto.
“Ma non ne hai bisogno!”
“Sì che ne ho bisogno. Dovrei portarlo sempre sotto la felpa.”
Anche Ken si è seduto in veranda vicino a noi e tutti rimaniamo
ammaliati da Terry che spopola.
Finché la situazione precipita. Verso le due un uomo simile a un
mastino napoletano irrompe tra la gente danzante. È furente e
invece di parlare abbaia.
“Basta! Finite questo casino! I bambini non riescono a dormire.”
Deve essere uno degli allenatori della squadra di judo.
Lusky che ha una sensibilità pari a quella di una tarantola
comincia a discutere: “Ma noi qui siamo nel bel mezzo di una
festa e non spegniamo tutto solo perché lei ci minaccia.” Il
mastino potrebbe tranquillamente spezzargli le ossa.
“Piantala Lusky. Non dire stupidate.” Urla qualcuno
all’americano. Il tizio arrabbiato avanza.
“Ascolta brutto deficiente. Ripeti quello che hai detto ed io ti
spacco quella ridicola testa su quella pentola. Poi ti stacco le
orecchie insieme a quei nastri così carini e ti faccio rimpiangere il
giorno in cui hai deciso di diventare un pezzo di merda.”
“Ehi piano con le minacce.” interviene David. Tentiamo di sedare
la situazione, ma ci impelaghiamo in un conflitto di interessi.
Esplode un altro dramma che spegne il primo.
Ad un tratto Terry diventa una furia. Si dimena, grida e piange.
“Gli omofobici qui non sono tollerati. Se ne devono andare,
oppure me ne vado io. Ora, stanotte.”
Poi scappa in cucina, seguito da Eva.
Rimaniamo tutti come sospesi. Anche il mastino è ammutolito.
“Che cosa è successo?”
“Lo scrittore ha cominciato a offendere pesantemente Terry. Ha
detto che gli omosessuali non dovrebbero vantarsi di esserlo e che
sono stupidi.” spiega Julia.
Berry è ubriaco e sta da solo in un angolo come se niente fosse.
Lo guardiamo tutti con odio.
“Come fai a dire certe cose?” gli chiede qualcuno.
Lui alza le spalle: “Beh è la verità. Quell’omosessuale è veramente
fastidioso.”
Mi avvicino a Berry con sangue incandescente nelle vene:
“Ascoltami razza di cretino. L’omosessuale ha un nome e si
chiama Terry. Se fossi in te spererei di essere più simile a lui
invece di essere una persona meschina e viscida. In questo posto
noi siamo schifofobici. Vuol dire che la gente come te qui non la
vogliamo. Vattene!”
“Ehm, Alice?” David dietro di me: “Questo dovrei deciderlo io.”
“Scusami, mi sono lasciata trasportare.”
Berry mi fissa con sguardo ebete. Non ha capito nulla di quello
che gli ho detto.
Terry riappare con gli occhi gonfi. Farfuglia:
“Me ne vado David, me ne vado da qui.” e corre via. David ed Eva
si precipitano all’inseguimento.
Tornano dopo dieci minuti amareggiati e con il fiatone. Hanno
perso l’amico in una notte buia e senza stelle.
Si spegne tutto. Luci, allegria, animi e umori. A testa bassa
ognuno torna nelle proprie camere.
“Mi dispiace tanto per Terry. Non deve essere facile lottare contro
te stesso e contro il mondo ogni giorno in cui ti svegli.” dico ad
Amihai.
“Più problemi ne ha chi deve fare i conti con la propria
ignoranza.” mi risponde riferendosi allo scrittore. “Tipi come lui
rimangono soli. La peggior punizione.”
“Chissà se Terry torna a casa stanotte.” Sospiro e auguro la
buonanotte ad Amihai.
In camera non sento nessun trapano elettrico in funzione eppure
scorgo nel buio la sagoma di Marcus sul letto.
“Marcus?” bisbiglio incredula.
“Sono sveglio. Non riesco a dormire, penso a Terry. Mi dispiace
per quello che è successo.”
“Non ti preoccupare. Vedrai che torna presto.” lo rassicuro.
“Lo credi davvero?”
No. Non lo credo.
“Dormi Marcus. Hai fatto lo spray?” come se si risolvesse
qualcosa.
Per fortuna Hagai mi ha prestato i suoi tappi per le orecchie. Mi
addormento prima del brasiliano.
Anche questa notte sfuma in un incubo da sveglia. Non solo
Marcus sta dirigendo versi inumani per ronfamento, ma il pensiero
di Terry mi rende inquieta. Alle sette in prenda a una forte
agitazione scendo a fare colazione. La cucina è invasa dai piccoli
combattenti molto addormentati e dai loro allenatori molto
nervosi. Il mastino sta discutendo con David:
“Vogliamo indietro i nostri soldi per tutto il casino che avete fatto
ieri sera! Ma che diavolo di posto è questo!” Lui ringhia, ma
David non si fa impressionare. Si vede che è preoccupato per
qualcos’altro.
“Mi dispiace, ma non possiamo ridarvi i soldi. Se vuole lamentarsi
può chiamare il proprietario.” David taglia corto e mi si avvicina.
“Sono preoccupato. Terry non è tornato. È stato fuori tutta la
notte. Al cellulare non risponde, non vorrei che gli fosse capitato
qualcosa. È così fragile.”
Mi fa un cenno di seguirlo nella sala TV. Qui Lizie, la migliore
amica di Terry è in piedi e di spalle davanti alla finestra.
Quando si gira la sua espressione mi commuove. Ha gli occhi di
una madre che non sa dove sia il figlio. La piega triste delle labbra
indica speranza. La fronte corrucciata il desiderio di capire cosa
sia successo e perché.
“Non so dove sia. Mi sento così male perché ieri non ero qui.”
“Non ti ha chiamato?”.
“Mi ha solo mandato un messaggio: andiamocene dal Rosemere.
Quando ho provato a chiamarlo il telefono era spento.”
Lizie mi guarda con i suoi enormi occhi neri: “È vero ciò che quel
tizio ha detto a Terry?”
“Sì.”
“Allora David sbattilo fuori di qui. Ora e subito!” parla con tono
duro e autoritario.
“Questo ostello è sempre stato un rifugio, una casa per chi non si
sentiva accettato e per chiunque avesse problemi a confrontarsi
con il mondo esterno. Io, tu David, Thomas, Terry e persino quel
matto di Lusky. Qui ci siamo sentiti protetti.” Lizie abbassa lo
sguardo. “Non possiamo accettare una cosa del genere. Mandalo
via, David. Ti prego.”
“Va bene. Lo faccio subito.”
Terry riappare sulla veranda alle otto e mezzo. In tempo per
vedere Berry che se ne va in silenzio. La drag queen è pallida,
puzza di alcol e ha perso le sue tette finte. Eppure quando mi vede
sorride:
“Tesoro sono tornata a casa. Mi mancavate troppo.” Lo abbraccio.
“È bello averti qui.” Mi fissa malizioso:
“Miele ma chi è quel bel ragazzo con i capelli neri ricci che ti
adora?”
“Dici? È solo un amico.”
“Un amico che si è preso una bella cotta.” ride.
Ritrovato l’equilibrio generale un sabato luminoso rischiara lo
spirito degli ospiti del Rosemere. David mi ferma:
“Senti oggi si sono liberati alcuni posti letto, tra cui due nella
camera del tuo amico israeliano. Vuoi spostarti lì?”
Come ho giá detto all’ostello la privacy è un sentimento alieno.
“Va bene, grazie David”.
“Non vorrai andartene domani. Domenica non è un bel giorno per
partire.”
Esito. Ho promesso a Cristiàn che sarei stata a Thames lunedì
mattina. Nel mentre una voce un po’ nasale e bassa mi augura il
buongiorno. Amihai dietro di me con l’aria assonnata si guarda in
giro.
“Stai andando a lavorare?”
“Sì. Torno fra tre ore. Ci sei? Posso cucinarti un piatto di pasta?”
rispondo.
“Wow. Certo! Mi troverai qui.” Mentre parla tenta di domare la
sua ciurma ricciuta.
“Penso proprio che partirò lunedì sera. Hai ragione. Domenica non
è un bel giorno per partire.” Bisbiglio a David.
Allegra raggiungo il ristorante. Oggi è il mio ultimo giorno allo
Sweet mother’s Kitchen.
Saluto tutti: Leila e Becky sono commosse, Diane melanconica:
“Ci mancherai. Spero tu possa tornare presto da questa parte del
mondo.” Sospira: “Perdona Bart, non è cattivo e tu lo sai. Quando
capirà cosa ha perso sarà troppo tardi e farà ancora più male.”
“Non ti preoccupare Diane, ormai è passato. Gli auguro di essere
felice con tutta l’anima.”
Didier non c’è oggi altrimenti gli avrei fatto un ultimo scherzo
d’addio. Al suo posto c’è il milanese con cui parlo in inglese.
“Spero di non vederti a Milano, ma da qualche altra parte nel
mondo.” gli dico.
“Sweet as.” Mi risponde in stile kiwi.
Finito il turno, saluto gli habitué con un: “Torno a Città del
Messico! Hasta luego!” Bart divertito mi aspetta per andare da
Tulsi.
Quando Monty mi vede con lui sussulta. Fissandolo come un toro
inferocito dico a Bart: “Stammi vicino. Non dire nulla. Faccio io.”
“Vorrei i miei soldi.”
“Va bene, ma ora? C’è tanta gente. Non potete tornare alla
chiusura?” implora. Ha il tono dolce e remissivo che usa con i suoi
clienti. I camerieri ci guardano come se fossimo fantasmi.
“Voglio i miei soldi. Ora.” ripeto.
“Ok, Ok. Sedetevi un attimo. Ora faccio il conto di quanto ti
devo.” È viscido e servile. Una persona ben diversa da quella che
mi ha trattato come un asciugamano monouso. Solo perché Bart è
con me.
“Che calcolo devi fare! Non prenderci per stupidi.” Il mio amico
mi tira per la manica dolcemente: “Dai Alice sediamoci un attimo.
Sono sicuro che non dovremo aspettare molto.”
Alcuni camerieri passano e mi salutano cortesi. “Come stai? Cosa
fai?” li guardo con disgusto.
“Bart giuro che mi hanno trattato come una cacca!”
“Non giurare, purtroppo ti credo!”
Monty infine mi dà il misero salario.
“Addio e cerca di tenere più pulite le cucine.” il mio ultimo saluto
a un uomo odioso. Ho alzato un po’ il tono in modo da essere
perfettamente udibile dai clienti.
Fuori Bart mi mette un braccio sulla spalla.
“Brava! Mi sei piaciuta! Non pensavo potessi essere così decisa.”
“Non mi conosci.” commento.
“Già, forse no. Ti va di venire stasera a sentire Andrew suonare?”
Andrew è il suo coinquilino, un tizio simpatico che è sempre in
giro con il basso. Il suo gruppo si esibisce per la prima volta
stasera in un locale chiamato The Crow. “All’incrocio tra Vivian e
Tory street. Vieni con i tuoi amici verso le nove.”
Lo saluto e ritorno in ostello. Sono decisa a cucinare per Amihai
un piatto di spaghetti di epica memoria e non come quello che
avevo rifilato ai cileni.
Mi metto ai fornelli e mentre invoco il Dio Gusto David mi
informa ammiccante che posso travasare me e il mio zaino nella
camera dell’israeliano. Un posto più piccolo con soli tre letti
occupati: i nostri e quello di Benjamin. Amihai mi mostra la sua
macchina fotografica camera fotografica comprata in Nepal.
“Con questa puoi spiare la gente negli palazzi.” dice orgoglioso.
E infatti la punto su un palazzo rosa davanti al nostro celebrando il
funerale della privacy. Il mio amico mi mostra anche una
collezione di circa duecento cd che con la macchina fotografica
costituisce la maggior parte del suo bagaglio.
“Senza la mia musica non posso viaggiare. Preferiso ridurre i miei
vestiti al minimo indispensabile.”
“Ehi, piccioncini venite con Julia, Matthias e me a fare un giro sul
lungomare?” la voce di Julia irrompe acuta mentre pranziamo.
“Andate al porto?”.
“No, prendiamo il treno e raggiungiamo un posto a venti minuti da
Wellington dove sembra ci sia una bella spiaggia. Vi va?”.
“Sweet! Dateci dieci minuti.” risponde l’israeliano.
Salutiamo Hagai che è in partenza per Nelson. “Magari ci vediamo
lì” dice al suo connazionale. Rivolto a me: “Noi ci vedremo da
qualche parte nel vasto mondo se Dio vuole.”
Amihai ed io guidati dai tre oriundi prendiamo il treno fino a
Princess Bay e da qui ci dirigiamo verso la spiaggia.
Un sole rosso
Seguiamo un sentiero e tagliamo per i campi proprio mentre il
pomeriggio sfuma nella sera. Ci siamo solo noi alla ricerca
dell’oceano.
Camminiamo in silenzio. Julia canticchia tra sé. Susie avanti a
tutti corre cercando il tramonto. Matthias si guarda in giro. Non
mi importa dove arrivo e se troviamo la spiaggia, ma vorrei solo
incorniciare questo momento. Pace e tranquillità intorno a noi.
Amihai è perso nel suo mondo. Tiene gli occhi ora per terra ora li
alza al cielo.
Intanto raggiungiamo la sabbia e l’oceano. Sopra di esso un sole
rosso aspetta di scomparire. Ci dà il tempo di ammirarlo, di
toglierci le scarpe e di lasciare le nostre impronte. Solo un attimo
per fissare il disco color sangue su questa superficie fatta di
bruma.
Surfisti al largo. Sospesi tra rosso e blu, tra cielo e mare.
Rimangono lì ed aspettano l’onda che li porterà più vicini alle
nuvole. Amihai raccoglie una conchiglia e me la porge
timidamente. Illuminato da questo sole morente è ancora più
bello.
Seduti su un muretto i tre tedeschi bevono birra. Ognuno respira
gli ultimi raggi di questa spiaggia.

Tornando indietro ci perdiamo. Julia e Matthias si mettono a


discutere, Susie si dispera, Amihai ed io tentiamo di trovare la
strada per la ferrovia. “Al massimo faremo l’autostop.” Propone
l’israeliano poco preoccupato. I tedeschi continuano a litigare: “È
colpa tua se ci siamo persi!”
“No tua, bisognava andare dall’altra parte!!”
Stufo del loro accusarsi Amihai entra in un ristorante indiano.
“Ma che fa il tuo amico?” mi chiede Susie incredula. “Non
sappiamo dove siamo, rischiamo di perdere l’ultimo treno e lui si
ferma a mangiare??”
“E io che ne so? Lo conosco da appena due giorni!”
L’israeliano esce con due enormi focacce e me ne porge una.
“Questo tipo di pane si chiama Roti. È con l’aglio.” Chili di aglio.
“Ehm, non vorremmo interrompere l’idillio, ma ci siamo persi e
l’ultimo treno per Wellington è tra quindici minuti.” Julia é
isterica.
Amihai la guarda serio:
“La stazione ferroviaria è da quella parte. Basta chiedere.”
Lui ed io davanti e gli altri tre dietro, incupiti. Arriviamo appena
in tempo e alle otto siamo a Wellington.
Decidiamo di calmare gli animi andando a fare il tifo per Andrew,
il coinquilino musicista di Bart. Passo all’ostello per invitare
Thomas a venire con noi, ma lui come al solito è appollaiato in
cucina da solo.
La scena che si presenta è surreale. Le tre comari dietro di noi
ridono e scherzano in dialetto teutonico. Davanti Il Gufo cammina
alla mia destra e lancia occhiate torve ad Amihai che è alla mia
sinistra.
Mentre sono impegnata a decifrare una cartina stradale sento la
voce di Thomas: “Con tutti questo tedeschi sono proprio contento
di non trovarmi in piena Seconda Guerra Mondiale e soprattutto di
non essere ebreo! Chissá come mi avrebbero fatto arrosto”.
Sobbalzo.
“Veramente, IO sono ebreo!” la voce perplessa del ragazzo delle
pietre indiane.
“Ah!” Thomas è colto di sorpresa. Per fortuna non l’ha fatto
apposta.
“Bella sfortuna essere ebrei però!” aggiunge.
Ri-sobbalzo e gli lancio un’occhiata fulminante.
“Dipende dai punti di vista.” risponde Amihai riflessivo.
Siamo giunti all’incrocio tra Vivian e Tory street, ma a parte il
locale di salsa in cui voleva portarmi Sema non c’è nulla.
Perlustriamo la zona, ma senza risultati. Tendiamo i timpani per
cercare di cogliere qualche nota rock. Matthias annusa l’aria
perché se c’è della birra nelle vicinanze lui riesce a capirne la
provenienza. Tutto inutile.
Infine un ragazzo con le mani in tasca e il look da concerto ci
passa davanti.
“Ehi! Sai dove si trova il The Crow” gli chiediamo.
Il tizio ci fa cenno di seguirlo. Sotto il posto di balli sudamericani,
nascoste alla vista pubblica e ad occhi senza raggi infrarossi, ci
sono delle buie scale che portano a un seminterrato.
“Questo ci vuole sacrificare a Satana!” commenta Thomas
spaventato.
Scese le scale ci troviamo davanti a una porta rossa. Il nostro
accompagnatore casuale la spinge e veniamo catapultati in
un’alcova piccola, rimbombante e affollata.
“L’inferno deve essere più o meno così.” commenta Matthias.
Amihai si è già avvicinato al bancone del bar. “Tu che prendi?” mi
chiede.
“Una birra, ma non voglio che me la offri tu.” con gli occhi cerco
Bart. Non me lo immagino proprio in un posto del genere.
“Tranquilla, questi sono i tuoi soldi. Quelli che mi hai dato per la
collana.”
“Allora prendo due birre.”
Tento di destreggiarmi tra una folla oscillante. Infine lo vedo. Bart
insieme a un amico è in piedi appoggiato al muro. Il mio amico è
vestito da cowboy: camicia a righe, jeans e fazzoletto rosso
intorno al collo. “Guarda che l’arena è da tutt’altra parte.” lo
apostrofo.
Gli presento i miei amici e appena vede Thomas rimane sorpreso.
Mi prende in disparte. “Ma lo sai che quello è un mio compagno
di corso?” bisbiglia: “Seguiamo insieme letteratura inglese. In
classe lo abbiamo soprannominato: Il Gufo”.
“Abbassa la voce! Non vorrei che ti sentisse.” Thomas si è
appollaiato sgomento su una poltrona. Se ne sta lì tutto solo e
lancia sguardi di odio a Bart che continua a ridere.
“Alice, quel tipo è pazzo. Non ci posso credere che ci vivi
insieme.”
Parla così perché non ha conosciuto gli altri.
Il Kiwi si calma quando vede arrivare Amihai con le birre. Lo
scruta con curiosità.
Intanto Andrew con il suo gruppo è salito sul palco e hanno
attaccato un ritmo veloce e duro. Il coinquilino di Bart non se la
cava male, ma è un po’ bloccato nella sindrome da palcoscenico:
ha la postura di chi sta per fare una gastroscopia. Mentre il
neozelandese e l’israeliano conversano tra loro e i tedeschi sono
impegnati in una Formula Uno alcolica, vado a sedermi vicino a
Thomas.
Mi sembra naturale che Bart ed io lo abbiamo ribattezzato
entrambi nello stesso modo senza saperlo. Le movenze sono
quelle e le fattezze pure. I suoi occhi da rapace mi fissano tra il
morboso e l’implorante. Si esibisce in un monologo filosofico, una
specie di danza del piccione solitario.
“Se rinasco voglio essere un armadio.” mi confessa mesto.
“Perché un armadio?”
“Perché la gente lo riempie, ci fruga dentro. I bambini ci si
nascondono per non farsi trovare. Poi è pieno di vestiti profumati.”
Non so come, ma percepisco una certa vena perversa nella
metafora.
“Io vorrei essere un microonde invece.” Gli rivelo.
Thomas mi osserva raggiante. Ci rimbalziamo scemenze come
giocando a ping pong.
“Tutti vogliono bene al microonde. Ci scaldano i cibi, lo tengono
ben pulito. È il fulcro della cucina, la sua anima. In più non è mai
solo perché ci sono le molecole che agiscono sugli alimenti.” Ho
un’idea un po’ contorta della fisica degli oggetti moderni.
Andrew ha finito la sua esibizione. Scende dal palco con fare da
surfista esperto. Un gruppo in stile gotico con la cantante che
emette grida acute da parto prende il posto.
Bart ed Amihai parlano fittamente tra di loro. Uno offre da bere
all’altro ed entrambi sono così concentrati che sembrano chiusi in
una bolla complice. Il massimo per me sarebbe che si scoprissero
gay e scappassero insieme. Mi darei alla clausura fulminante.
“Che bella serata. È stato un piacere.” dice il Kiwi spostando il
suo allegro sguardo da Amihai ai tedeschi mentre torniamo a casa
Poi si rivolge a me: “Allora parti domani sera? Hai deciso?” Sento
gli occhi dell’israeliano fissi su di me mentre Thomas mi stringe il
braccio.
“Ahi, Thomas. No, ho deciso di partire lunedì sera. Nessuno parte
mai di domenica.”
“Perché non si può partire di domenica?” chiede Julia.
“Perché porta sfortuna.”sbuffo.
“Non sapevo fossi superstiziosa” rincara Susie.
“Infatti non lo sono. Soltanto alcuni giorni al mese, come oggi.”
Sconfortati dall’illogicità i tedeschi si arrendono alla non
evidenza.
Sono un po’ imbarazzata perché è la mia prima notte con Amihai.
In letti separati e con un terzo coinquilino, ma nella stessa stanza.
Ciò implica che devo,piena di vergogna, sfoggiare il mio pigiama
rosso a pois bianchi ammazzasesso. Decido di risparmiare
all’israeliano la visione e di escogitare un piano diabolico.
Mentre Amihai sale le scale per andare a dormire adduco la
necessità di rimanere un po’ in cucina a parlare con Thomas.
“Mi vuole bene e ha bisogno di parlare. Solo che se rimani anche
tu lui dà fuori di matto. É geloso.”
“Hai proprio un’anima luminosa.” Mi risponde.
Ma quale anima luminosa! Tutto è finalizzato a farmi sgattaiolare
in camera a luci spente e con lui già addormentato in modo da
mettermi il deprimente pigiama e sprofondare sotto le lenzuola.
Non sono in grado di sostenere un’eccitante conversazione con
Thomas, ma il Gufo si è illuso che abbia deciso di concedermi a
lui. Quindi quando dopo cinque minuti gli auguro la buonanotte
lui mi segue su per le scale fino in bagno con gli occhi più gialli
che mai. Mi inquieta.
Tento di mantenere la calma e mi lavo i denti con Thomas che mi
fissa sulla soglia.
“Ma ti piace così tanto lo spettacolo?” gli dico con la bocca piena
di dentifricio. Me la sono proprio cercata.
Lui non risponde e continua a fissarmi. Allora mi irrito. Afferro lo
spazzolino e lo uso come una fionda mirando in faccia. In un
secondo Thomas si ritrova con tanti puntini bianchi sul viso e
rimane come paralizzato.
“Oddio, scusami. È che se fai così mi angosci.” sentendomi in
colpa gli porgo la mia arma impropria. “Dai fai lo stesso con me.
Spruzzami di dentifricio. Me lo merito!”
Lui mi guarda perplesso, poi prende lo spazzolino e osservando la
mia fronte come se fosse un cecchino si vendica.
Sembriamo entrambi vittime di una malattia terribile e
sconosciuta: la dentifricina.
“Buonanotte Thomas e scusami.” Provo a focalizzarlo attraverso
le macchioline bianche sugli occhi.
“Di cosa? È stato divertente.” mi restituisce lo spazzolino. Prima
di scendere le scale si gira: “Mi mancherai tanto.”
Mi pulisco e in silenzio apro la porta della camera. Per la prima
volta dopo parecchi giorni intorno a me ci sono solo silenzio e
buio. Niente più concerti per trapano o sega elettrica. Scorgo due
sagome nei letti. Di una si vede distintamente il contorno tondo
della faccia. Dell’altra, completamente rintanata sotto le coperte,
emergono solo dei riccioli nomadi.
Mi infilo il pigiama veloce.
“Alice?” Amihai squadra perplesso me e il mio completo da notte.
Il mio piano è fallito miseramente.
“No, non sono Alice. Sono il fantasma di Bugs Bunny.”
“Ma che bel pigiama!” sussurra divertito. “La forma è tutta un
programma, ma al buio non vedo il colore”.
“Rosso vergogna. Dai lasciami stare! Buonanotte”.
“Non fare così, so come farmi perdonare.”
I miei occhi maliziosi fanno capolino dalle lenzuola.
Il mio letto e quello di Amihai sono attaccati formando una L .
Dove c’è il mio busto lui ha la testa. Mi raggomitolo in modo da
poter toccare i suoi capelli.
Gli tiro un ricciolo anarchico. “Che hai in mente? Guarda che c’è
anche il fotografo.”
“No stai tranquilla, sono un bravo ragazzo. Voglio solo raccontarti
una storia.”
“Ah!” non nego che ci rimango un po’ male. Tutta colpa del
pigiama. Un uomo me lo vede addosso e sente subito il bisogno di
leggermi una fiaba. Bel risultato.
Amihai mi prende una mano e me la accarezza. “Ti racconto la
storia di Shiva e di suo figlio Ganesh, quello con la testa di
elefante.”
Mi addormento subito sulle note della sua voce bassa e calma.
Resisto fino a: “C’era una volta…” Poi sentendomi coccolata cado
in un coma bellissimo.
Al risveglio la prima vista sul mondo non è niente male. Magari
l’imprinitng fosse stato così. Benjamin non c’è ed Amihai in piedi
sta armeggiando con un piccolo stereo portatile. È in mutande e il
suo corpo magro è disegnato da muscoli agili, la sua pelle scura è
lucida. Mentre lo osservo di nascosto scopro dove ha il misterioso
piercing.
“Ma non ti fa male avere l’orecchino lì?” non riesco a trattenermi.
Lui fa spaventato un balzo all’indietro. Mi guarda sorpreso.
“Da quanto tempo sei sveglia?”
“Da un po’. Dimmi, dormi sempre così?”
“Sì non indosso pigiama deformi!”
Svio la conversazione: “Perché hai fatto il piercing lì?”
Si copre con una maglietta e un paio di pantaloni. Il mio
entusiasmo svanisce.
“Così. Un posto poco visibile. Ero giovane quando l’ho fatto.”
Mi osserva e scuote la testa.
“Senti ma tu a che punto della storia ti sei addormentata?”
“Dopo il: c’era una volta.”
“Ah ecco. E io che te l’ho raccontata quasi tutta. Quando ti ho
sentito russare ho pensato stessi scherzando.”
Una rivelazione terrificante. “Eh?? Io non russo!”
“Invece sì, te lo giuro.” commenta serio: “La donna più sexy da
avere a fianco.”
“Va bene, russo e ho un pigiama che dovrebbe essere vietato dalla
legge! Se non ti piaccio puoi anche dirlo!”
Lui rimane calmo e mi guarda con un’espressione divertita.
“Già. Mi piaci talmente poco che ora vado a prepararti la
colazione.” sorride dolcemente ed esce dalla stanza.
Prima di richiudere la porta dietro di sé aggiunge: “Così puoi
toglierti quel pigiama senza che nessuno lo veda!”
La domenica e il lunedì si tingono di un idillio a due.
Non succede niente di lussurioso, solo camminate mano nella
mano, cenette preparate da lui e gustate da me, musica e tanto
parlare.
Mi sono completamente dimenticata di Cristiàn e anche di Bart a
cui facciamo una veloce visita domenica sera.
Il Kiwi offre a me ed a Amihai dell’anguilla fatta in padella. Lo
guardo severa. “Amihai non può mangiarla! E’ vietata dalla sua
religione.”
“Oh scusami, mi dispiace. Non sapevo!” dice Bart confuso.
“Tranquillo, sono io che non te l’ho detto.” risponde Amihai
abbracciandomi. Bart assume un’espressione amara. “State bene
voi due.” Ci caccia via gentilmente alludendo a una stanchezza
eccessiva. Mi promette di venire all’ostello l’indomani prima della
mia partenza.
Al Rosemere tutti prendono atto della situazione. Le varie
valchirie sghignazzano, Matthias si lancia in battute censurabili. È
triste perché non ha ottenuto il lavoro come lava piatti e non ha più
soldi per la birra, ma almeno ora dorme. Marcus è stato esiliato
con Thomas, Leandro e Lusky. Il risultato: il Gufo e l’americano
si lamentano perché non riescono a dormire.
“Quei due brasiliani fanno un baccano infernale!” si lamentano per
la prima volta coalizzati tra loro.
Thomas mi tiene il muso da quando ha visto me e Amihai sul
divano a guardare i Simpsons. Non stavamo facendo nulla di
peccaminoso, ma l’israeliano aveva il capo sul mio grembo e io
giocavo con i suoi ricci. Al Gufo è preso un colpo. Si è rintanato
su un ramo e mi parla a fatica.
Anche Leandro mi guarda come se fossi una moglie fedifraga. Lui
e Marcus ci hanno incontrati per strada mentre camminavamo
mano nella mano. Il piccolo orsetto lavatore è rimbalzato indietro
dallo stupore e dalla delusione.
Prima della mia partenza mi ha salutato così:
“Tu hai un’aurea forte e come me sei una guerriera. Siamo
destinati a stare insieme e quando te ne accorgerai sarò qui ad
aspettarti.” Annuisco poco convinta.
Andiamo a trovare Alejandro al Beethoven. Anche lui si stupisce
dell’affinità tra me e il ragazzo delle pietre indiane.
Mi prende da parte. “Simpatico l’israeliano, ma domani ti incontri
con Cristiàn?”
“Sì. Qual è il problema? Riesco a resistere al fascino del tuo
amigo.”
Il giovane cileno mi guarda perplesso: “Se lo dici tu.”
Mi promette che verrà a salutarmi alla stazione.
“Stai attenta a quell’uomo, stai attenta a quell’uomo.” mi ripete
Franziska la tedesca tra i singhiozzi riferendosi all’hombre
caliente. Preoccupata cerco con lo sguardo Amihai. Quando lo
trovo due occhi dolci mi sorridono con affetto. Mi tranquillizzo e
ritorno al mio paradiso temporaneo.

Poche ore
Amihai mi attrae come una calamita e dolcemente come tutto
quello che fa. Ha la passione di un uomo, il sorriso di un bambino
e gli occhi del sognatore senza età. Ha fede e bellezza. Tutto in lui
si esprime attraverso il movimento, la musica, il suono delle
parole. È un uomo coraggioso e pieno di sfumature variopinte.
Fragile e forte. Un vagabondo che cerca rifugio. Un sospiro
divertito sul mondo che mi riempie di gioia.
Sensazioni passeggere dato che sto per partire e solo poche ore
prima di separarci e seguire rotte diverse. Perché questo succede
a chi capita in mezzo a strani incroci. A chi si trova in un
qualunque giorno di settembre in un ostello a Wellington.
Lontano da casa ma proiettati come molle alla ricerca di
qualcosa di nuovo. Poi si prosegue.
Uno a Nord ed uno a Sud. Niente di più facile, niente di più
difficile.
Se fossi partita tre settimane fa non l’avrei conosciuto. Tante cose
non sarebbero successe anche se scorrono veloci come fiumi.
Per poche ore condividi tutto: stanza, cibo, affetto. Poi ti dissolvi
in piccole bolle. Continui a viaggiare con il cuore gonfio e pieno
di quei ricordi che si moltiplicano ogni chilometro percorso..
Sono le cinque di lunedì e fra tre ore ho l’autobus. Amihai ed io
stiamo ascoltando musica israeliana.
“Non capisci proprio nessuna parola?” mi chiede lui speranzoso.
Una lingua ostica. “No, mi dispiace. Cosa stavi dicendo?”
“Che ho un amico che vive sulle sponde del Lago di Tiberiade.
Quello su cui secondo i cattolici ha camminato Gesù.”
“Chiedi al tuo amico di spedirti un po’di litri d’acqua del lago. Tu
vieni in Italia e la vendiamo.” Scherzo, ma non troppo.
Lui rimane in silenzio per qualche minuto:
“Mi piaci perché sei più pazza di me. Come ti vengono queste
idee?!? Chi potrebbe compare l’acqua di un lago sporco?”
“Beh, collezionisti, credenti o credenti collezionisti, chi colleziona
credenze, ecc.” un piano ingegnoso mi balugina in mente: “Sai
quanta gente va in Israele e porta a casa un po’ di terra locale?!
Noi porteremmo alle persone che hanno paura di viaggiare nella
tua terra la loro acqua santa. Un servizio praticamente a
domicilio.”
“Se chiedo a mia madre di spedirmi l’acqua di Tiberiade penserà
veramente che in India mi sono fatto troppe canne! Ma siete messi
così male voi cattolici?”
“Ma che c’entra! Noi non venderemmo acqua del rubinetto, ma
acqua certificata direttamente da Israele!”
“E come si fa a certificarla?” i suoi occhi da businessman si sono
illuminati.
“E che ne so? A questo devi pensare tu. Io mi occupo del
packaging.”
Amihai sta zitto e mi fissa serio. Siamo seduti uno accanto
all’altro sul pavimento.
“Stavo già pensando di venire in Italia e stare con te. Potremmo
andare a vendere l’acqua su una bancarella davanti a quella chiesa
grande da dove parla sempre il Papa.Come si chiama?”
“San Pietro. Bell’idea, così ci arrestano. Magari possiamo metterla
insieme alle collane che fai tu su eBay”.
“Veramente vuoi venire in Italia per me?” gli chiedo.
“Il mio sedere è già lì. A novembre ritorno a New York per
lavorare qualche mese e a gennaio ho il volo per Amsterdam.
Dall’Olanda posso cambiare il biglietto aereo e venire in Italia.”
Sobbalzo. “Perché hai il volo per Amsterdam? No, aspetta, non
voglio saperlo.” Un uomo ramingo.
“Perché da Amsterdam ho il volo per Nuova Deli.”
L’avevo detto che non volevo sapere. “E quindi? Milano dove la
incastri?”
“Da Amsterdam verrei a Milano. E poi rimarrei lì con te.” mi
accarezza i capelli.
Colpi leggeri alla porta. È Bart. Mentre i due uomini della mia vita
parlano tra loro, provo a mandare un messaggio ad Alejandro, ma
sono talmente tanto sulle nuvole che in realtà lo invio a Cristiàn.
Ne esce fuori un breve cortometraggio degli equivoci.
Per la mia partenza posticipata ho raccontato una scusa plausibile
all’hombre caliente: il tavernello neozelandese mi ha messo k.o.
“Non posso partire in queste condizioni.”
“Va bene ti perdono. Ti aspetto allora martedì mattina.”
Il cileno rimane a ben ragione basito nel ricevere il seguente
messaggio, il primo di una serie di incomprensioni.
Premessa: Alejandro mi manda questo messaggio: “Passi al
Beethoven prima della tua partenza? Così ti saluto.”

Cristiàn è perplesso.
Al messaggio di Alejandro rispondo: “Sono qui anche con Bart.
Possiamo incontrarci più tardi?” Lo invio però a Cristiàn.
Il quale non capendo mi scrive:
“Scusa? Non capisco. Vieni o no?” Lui si riferisce a Thames, la
cittadina nella regione di Coromandel dove dovremmo
incontrarci.. Pensando sempre di parlare con Alejandro
puntualizzo:
“No (nel senso non vengo al Beethoven). Vuoi che ci incontriamo
alla stazione dei pullman alle 7.30?” Intendo stasera alla stazione
dei treni di Wellington da cui partono anche gli autobus.
Cristiàn: “Quando? Stasera? Domani mattina?” Si chiede intanto
chi cavolo è questo Bart che viaggia con me.
Io seccata: “Oggi, parto oggi. Te l’ho già detto.”
Cristiàn: “Guarda che gli autobus arrivano al centro
informazioni turistiche che è davanti al mio ostello.”
Conoscendo il loco geografico del Beethoven e sapendo bene che
è lontano dalla stazione ferroviaria e dei pullman replico: “Ma
che dici! Quella dei treni!”
Cristiàn: “Ma quale terminal?”
Io: “Il numero nove.”
A questo punto sembra che il cileno in grande stato confusionale
sia uscito dal suo ostello nella minuscola cittadina di Thames e sia
andato a cercare il fatico terminal dei bus numero nove,
scoprendo l’esistenza solo del numero uno. A complicare le cose,
scrutando l’orizzonte non scorge neanche l’ombra di autobus in
avvicinamento. Così come non si intravede né la mia sagoma né
quella del misterioso Bart.
Preso dallo sconforto Cristiàn mi chiede via messaggio: “Quando
sarai a Thames?Non stasera quindi.”
“Domani mattina alle 9.30.”
L’hombre caliente scuotendo la testa ritorna ai suoi alloggi ed
annota scrupolosamente la conversazione sul suo taccuino.
Rieleggendola tenta per ore di trovare un filo logico.

Ricevo un messaggio dal vero Alejandro: “Ti vengo a salutare in


stazione.” Non realizzo l’equivoco o forse ci faccio poco caso.
Mancano venti minuti alla partenza e sono ancora in ostello. Uno
dei tanti viandanti munito di macchina si offre di accompagnarmi.
Amihai mi stringe la mano: “Se avrai bisogno di qualsiasi cosa
correrò subito in tuo aiuto.” mi sussurra. “Ti raggiungerò, non
preoccuparti.”
Bart mi prende lo zaino. Ha un’aria triste. Io sto bene. Mi muovo,
riparto. Sono una sognatrice. Sono venuta in Nuova Zelanda
cercando un’illusione, un’ombra sul muro. La mia essenza non
cambia, forse ha delle bruciature in più, alcuni tagli che si devono
rimarginare, ma in questa notte stellata mi accorgo che è rimasta la
stessa. Solo più decisa e più definita. Saluto tutti e Thomas
addolorato mi mette tra le mani il suo braccialetto blu. “Scrivimi!”
Sono commossa. Mi mancherà lui, mi mancheranno gli altri.
Hanno lasciato un segno. Sono cresciuta con loro e con tutte le
persone che ho incontrato. La mia casa, la mia famiglia, i miei
amici e i compagni di viaggio. Una realtà nuova che è diventata
tutta mia.
In macchina attraversiamo Wellington per l’ultima volta: negozi,
persone, in lontananza il porto e infine la stazione. Tanti ricordi si
affollano nella mia mente come un ritrovo di nubi passeggere.
Sono stata qui solo poche settimane, ma sembrano anni.
Bart e Amihai mi accompagnano al terminal.
Un gioco crudele. Il secondo addio a Bart, il primo a una nuova
passione. Sembrerà superficiale, ma è tutto vero, sentito, pulsante.
Il Kiwi ha gli occhi lucidi. Due lacrime gli scivolano giù per le
guance. Non piango, lo abbraccio. “I love you” gli sussurro. Non è
una dichiarazione d’amore, ma un sentimento che mi scava
l’anima fino ad arrivare alle radici della terra. Una forma intensa e
assoluta di affetto. Bart lo capisce e mi risponde con una voce
roca: “Anche io”.
E per Amihai? Niente parole, niente promesse né lacrime. Un
bacio pieno di grazia come quello che si scambiano i bambini. Un
bacio che per me esprime tutto: istante, emozione, desiderio,
solitudine. Calore e unione stretti insieme da due fili di pelle in un
profumo di scoperta.
“Aspettami in Italia.” mi dice il ragazzo delle pietre indiane.
Questa frase l’ho già sentita dalla mia bocca dodici mesi prima e
rivolta a Bart. “Aspettami in Nuova Zelanda.” Il Kiwi ci guarda
con un sorriso amaro. Non penso sia geloso, ma solo triste. Ci
stiamo perdendo per la seconda volta ed ora in un oceano più
vasto.
Salto sull’autobus e il conducente mi mette una mano sulla spalla
mentre lo sportello si chiude. Alejandro non è arrivato in tempo
per salutarmi. Lo vedo che corre come un matto verso il pullman
già in partenza.
“Sei fortunata ad averne due!” il commento del guidatore che ha
osservato la scena in modo appassionato.
“Due che forse non vedrò mai più. È più una maledizione che una
fortuna” osservo.
Mi rannicchio sul sedile e presa da un raptus di sensazioni mando
uno strano messaggio a mio padre: “Posso sposare un ebreo?”, che
mi risponde con un comprensivo: “Shalom”. Mi assopisco
sognando un’impossibile storia d’amore, mentre sto andando
lontano. Sempre più lontano.

Capitolo 6
In cerca di un passaggio

6.1 La lunga corsa


A Thames è scoppiata la primavera con il caldo e lucenti colori.
Un sole accecante, e non solo quello, accoglie il mio sbarco.
Cristiàn in maniche di maglietta, pantaloncini corti e sguardo
ombroso sta fumando una sigaretta. È veramente sexy. Guardo
prima lui e poi quello che ci circonda: sole, profumo di verde e
fiori.
“Fammi chiamare la Singapore Airlines per posticipare il volo”.
Le mie prime parole.
Lui sorride contento. “Come mai hai cambiato idea?”
“Non si può stare in questa regione solo per pochi giorni.”
Nel cuore rimane vivida l’immagine e l’odore di Amihai. Se fosse
qui con me sarebbe stupendo, ma quello è il cuore non il sangue.
Dal surriscaldarsi di quest’ultimo salta fuori il mio diavoletto.
“E dai Alice! Un’avventura passionale e libidinosa con questo
ragazzo che non vedrai mai più.”
Sicuramente non lo inseguirò fino in Cile.
“Ma dico! Ieri sera tubavi con l’israeliano e ora rischi di mandare
volo e stage a un altro paese a causa di questo bell’imbusto.” Urla
il mio povero angelo frutto di un’educazione un minimo
calvinista.
“Che rompipalle di angelo! Guarda che lui non è un bell’imbusto e
comunque non succederà niente.” Il mio commento.
“Brava prendilo per i fondelli questo imbecille!” risponde il
diavolo facendo la linguaccia al suo antagonista.
“Non sto scherzando, sono serissima. Non succederà niente con il
cileno. So trattenermi e so come tenerlo a bada.”
I due tacciono per qualche secondo poi scoppiano a ridere
contemporaneamente.
“Non ci credete? Vedrete!”
“Con chi stai parlando?” Cristiàn camminando davanti con lo
zaino sente strani borbottii.
“Con nessuno. Non ti preoccupare.”
“Se posticipi il volo come fai con lo stage?”
“Dirò che ho perso l’aereo.”
“Quando dovrebbe iniziare?”
“Fra quattro giorni.”
Chiamo la Singapore Airlines. “Hey, è ancora la Bresciani qui!
William ho vinto la scommessa. Mi devi cinquanta dollari.”
La voce della banconista di Auckland dall’altra parte del telefono.
“Il vostro paese è troppo bello. È difficile andarsene!”
“William, altri dieci dollari perché ha detto quella frase.”
Mi viene cambiato il volo per la seconda volta. Quello nuovo
irrimandabile è fissato per il sei ottobre con arrivo a Milano il
sette. Dovrò convincere la ditta a posticiparmi l’inizio dello stage
al nove. Mando un messaggio telegrafico ai genitori: “Posticipato
volo alla settimana prossima. Giuro!”
Non rispondono. Penso che anche loro abbiano scommesso
qualcosa a riguardo.
Il cileno mi offre la colazione in ostello. Prima di metterci in
marcia da bravo uomo di casa prepara le provviste.
“Pronta a viaggiare in autostop e a campeggiare sulla spiaggia?”
mi chiede.
“ Pronta!”
Ci incamminiamo sulla strada che da Thames porta a Tairua sulla
costa orientale. Ci mettiamo comodi e sorridiamo mostrando i
pollici. Fa caldo e sembriamo due campagnoli di ritorno
dall’aratura. Per circa quaranta minuti nessuno ci carica. Sarà forse
perché Cristiàn si sbraccia in scene amatoriali: rincorre le
macchine, manda baci, mi indica ai guidatori come merce di
scambio, improvvisa balletti ancheggianti.
Di questo passo non si fermerà neanche un convento in trasferta.
Finalmente una coppia del posto si ferma: “Noi stiamo andando a
Pauanui che è a cinque minuti di traghetto da Tairua. Vi diamo un
passaggio volentieri.”
In questi casi il viandante deve adeguarsi e noi accettiamo
volentieri.
La coppia ci spiega che Pauanui è una specie di riserva turistica
per ricchi. La Monte Carlo neozelandese con tanto di distese di
campi da golf, ville futuristiche e antifurti nucleari.
Intanto sui sedili posteriori il cileno adotta la tecnica mesolitica
dello stiracchiamento. Le sue braccia si tendono verso le mie
spalle simulando uno stretching repentino.
“Che stai facendo?”
“Io? Niente perché?”
Ritorna in posizione compunta. “Senti, ma il misterioso Bart dove
lo hai lasciato?”
“Eh?”
“Sì, il tuo amico con cui dovevi arrivare ieri sera. Mi hai mandato
una serie di messaggi incomprensibili.”
“Allora li ho mandati a te!” Risolviamo l’equivoco.
A Pauanui la coppia ci saluta:
“Mi raccomando, chiamateci se avete dei problemi. Se volete
campeggiare state attenti, rischiate una multa iper salata.”
“Sapete se c’è un campeggio qui in giro?”
“L’unico è a un paio di chilometri da qui andando verso l’attracco
dei traghetti.”
Un cartello sulla spiaggia dei ricchi manda in fibrillazione il mio
amico: “Si possono raccogliere fino a cinquanta molluschi.”
“Abbiamo la cena!” Esulta il mio amico.
Armato di un coltello scuoiaghepardi Cristiàn si arrampica sugli
scogli in cerca di cibo terrorizzando tutta la fauna marina finchè
un granchio non gli pizzica il piede scatenando un nubifragio di
“Mucha mierda.” In compenso nessun mollusco.
Il tramonto seduce la spiaggia.
“Cerchiamo un posto dove montare la tenda? Sono stufa di vederti
lottare con un branco di cozze.”
“Va bene, ma ti avverto che non abbiamo molto da mangiare. Le
provviste erano a tempo: in cinque ore sono già finite.”
“Come se fosse una novità.”
Sotto il peso delle nostre case ambulanti percorriamo circa cinque
chilometri e ansimando passiamo davanti a enormi ville.
“Se dormiamo qui domani ci ritroviamo con tanti buchi nella
pancia. Ci sparano a vista!”
“Cerchiamo un posticino isolato e se non lo troviamo andiamo in
campeggio. Tanto dovrebbe essere da questa parte.” Infatti
troviamo un camping in stile Barbie: bungalow agghindati con
gelsomini, tende lucidate di recente, roulotte profumate al
bergamotto.
“E questo sarebbe un campeggio?!? Mi fa un po’ senso.”
La simil-avventura per gente ricca, come un viaggio nel deserto
con codazzo di camerieri, facchini, guide.
Il prezzo del Barbie camping è quindici dollari a testa per notte per
una tenda! Tanto quanto spendevamo al Rosemere con colazione
inclusa.
“La cucina è già chiusa e non possiamo farci neanche una tazza di
tè.”
“Temo che anche la doccia sia a pagamento.”
“Ma non possiamo neanche dormire qui fuori nei paraggi! Non c’è
un angolo pubblico in cui montare la tenda e sulla spiaggia si sta
alzando un forte vento.”
Optiamo a malincuore per il campeggio. La doccia anche se gratis
è impostata su tre minuti a persona. In tenda mangiamo cioccolata
alla luce della torcia da minatore di Cristiàn e guardiamo la scia di
luce della via lattea.
“Stare in tenda è come viaggiare su un’astronave spaziale.”
commenta pensieroso il mio amico.
“E questa da dove salta fuori?”
Diventa timido. “Beh, da me!”
Sotto lo sguardo di fuoco di quest’uomo c’è un’anima impacciata
e dolce.
“Quindi com’è essere un Don Giovanni?” lo provoco.
“Ti giuro che non lo sono. Può sembrare all’inizio perché mi piace
scherzare, ma quando si tratta di concludere taglio sempre la
corda. ”
Mi guarda da sotto i baffi. “Per esempio con te non ci ho mai
provato.”
“Hai tentato di baciarmi.”
“Un tentativo blando però.”
“E cosa volevi fare altrimenti?”
“Lasciamo perdere.” Si sdraia nel sacco a pelo e si gira dandomi le
spalle. Dopo due minuti comincia a russare. Un trattore guasto.
Non tanto come Leandro e Marcus, ma abbastanza potente.
Rimango ad ammirare la volta celeste pensando al mio israeliano
provando continue fitte al cuore ed agli occhi. Ora dovrebbe essere
a Nelson pronto per fare il mio stesso giro in senso contrario.
Sarebbe meglio seppellirne il pensiero e lasciarci crescere sopra
strati di terra, ma non è per nulla semplice. Tutte le cose più belle
non sono semplici da raggiungere e da conquistare.
L’email di Amihai che leggo il giorno dopo nella reception del
campeggio non facilita le cose. Brucianti lacrime mi rotolano sulle
guance fino in bocca.

Con te
Ciao Alice spero tu sia riuscita ad arrivare fino a Coromandel e
stia bene. Mi manchi e continuo a pensarti. Mi nutro dei pochi
ricordi che abbiamo insieme. Ti cerco.
Su questo traghetto da Wellington a Nelson.
Nel letto vicino al mio al Rosemere.
Tra i visi che incrocio.
Voglio stare con te. Dopo tanto nomadismo ho capito che la cosa
importante è stare con chi si ama. Pensare insieme, costruire
insieme, vivere insieme.
Io tutto questo voglio farlo con te. Anche se ci vorranno mesi,
anche se dovrò passare un po’ di tempo negli Stati Uniti per
mettere da parte un po’ di soldi. Anche se ci sono confini tra noi.
Spero che tu non mi dimenticherai. Vorrei che tu fossi sincera.
Mi vuoi vicino a te?
Non vedo l’ora di abbracciarti di nuovo e guardarti da vicino.
Ti amo.
Amihai

La voce di Cristiàn che mi chiama per prendere il traghetto mi


irrita. In questo momento vorrei che scomparisse.
“Ehi, ma dove ti eri cacciata? È da un pezzo che ti cerco.” Ha già
smontato la tenda assumendo la sua posa classica da conquistatore
con una mano sui fianchi.
“Sembri uno gigolo.”
“Chi ti dice che non lo sia o che non lo sia stato?”
“Ecco appunto.”
“Ma sei arrabbiata?” pigola il macho.
“No, no. Andiamo.”
“Dove vogliamo andare?” chiedo arrivati a Tairua.
“Dunque, dunque, direi di dirigerci a nord fino ad Hahei, che è
considerata una delle spiagge più belle di tutta la Nuova Zelanda,
ricoperta completamente di sabbia bianca.”
“Magari troviamo anche un campeggio meno di lusso.”
Cristiàn profumato di merluzzo fritto ed io pallida per il moto a
singhiozzi del traghetto ci mettiamo in posizione
supplicapassaggio. Dopo cinque minuti si ferma un vigile del
fuoco e il cileno mi spinge avanti per le trattative.
“Mica ci posso andare io! Sono tutti uomini. Tu ti avvicini
sorridendo dolcemente e chiedi se possiamo avere un passaggio
fino a …”
“Hahei? Va bene. Non sto andando proprio lì, ma è solo a venti
chilometri da dove abito.” dice il guidatore.
Come Bart insegna, non possiamo fare altro che metterlo a suo
agio: mentre sul sedile davanti io intrattengo il guidatore Cristiàn
dietro dorme.
“Quindi tu sei italiana, lui cileno e vi siete conosciuti qui. Ma da
quanto state insieme?” chiede il salvatore. Per fortuna l’hombre
sta russando sonoramente.
“Non stiamo insieme, siamo solo amici.”
“Siete amici e avete una sola tenda?”
“S-sì, ma non c’è niente di male!” E’ risaputo, in Nuova Zelanda
dovrebbero rendere obbligatorio nelle scuole un corso sulla
privacy.
“Se lo dici tu. Ecco, siamo arrivati ad Hahei. Vi lascio al
campeggio, perché è severamente vietato montare la tenda in
spiaggia ”.
“Secondo te esisterà un negozio di alimentari in questo paesino
sperduto?” mi chiede Cristiàn guardandosi intorno. Siamo capitati
in una megalopoli: il campeggio, cinque case, una panetteria già
chiusa, un ristorante.
“Come si fa, come si fa? Qui rischiamo di saltare la cena!” si
dispera l’amico.
“Beh, entriamo in un ristorante e chiediamo delle uova.”
“Ah no! Io queste figure de mierda non le faccio.”
“E dovrei farle io?!?”
“L’idea è tua.”
Con le braccia conserte e il baffo arricciato dal disgusto si rifiuta
di seguirmi.
Riesco ad abbindolare il padrone del ristorante, il quale nel
conoscere la mia nazionalità si commuove: “Che carina! Un
italiana!”
Stesso stile del bambino allo zoo: “Che carina! Una giraffa.”
Invece di protestare sono pronta a esibirmi nella tarantella quando
mi vengono offerte ben sei uova.
“Brava, brava. Certo che ne hai di pelo sullo stomaco.” Mi
accoglie allegro l’hombre.
Messosi ai fornelli Cristiàn si lancia in un’ode culinaria al Cile:
tutto nel suo paese è il massimo e ogni tipo di alimento vegetale e
animale viene esportato da lì.
“Ammetterai almeno che la pizza migliore è quella italiana,
oppure è anche quella cilena?”
“Sono stato in Italia e posso risponderti oggettivamente.” dice
serio mentre si rolla una sigaretta. “Quella italiana non è male, ma
quella migliore è fatta a San Paolo in Brasile.”
“Lo sai che stai rischiando grosso?” siamo tornati in tenda e la
notte si riempie di brina. Mi copro con tutto quello che trovo nel
mio zaino e aggiungo anche due maglioni e la giacca in pelle di
Cristiàn.
Il russare dell’hombre si fonde con il rat-rat-rat dei miei denti.
Il giorno dopo facciamo un’escursione fino a Cathedral Cove,
una riserva marina sulla dorata Mercury Bay raggiungibile
seguendo un percorso a piedi di qualche ora. Durante il cammino il
cileno ispirato dalla bellezza del luogo e dalla maglietta che porta
con la scritta: “Tutto quello che desideri per Natale: me” diventa
tentacolare. Mi cinge le spalle, mi prende la mano nei punti
difficili (non esistenti!) e mentre prendiamo il sole su una spiaggia
isolata mi fa un massaggio al collo. In uno sforzo sovraumano di
resistenza mi divincolo buttandomi in acqua edaffondando una
razza che dolorante si rifugia tra la sabbia.
“Facevi meglio a stare qui e a farti massaggiare.” L’hombre
caliente in occhiali da sole e costume si staglia contro il sole.
Grotte bianche fanno da eco ai nostri passi. Tutto a un tratto tra il
vociare del vento e il tramonto sulle rocce e sul mare, Cristiàn
comincia a cantare una delle mie canzoni preferite.

Besame Mucho
Besame, besame mucho
Come si fuera esta noche la ùltima vez…

Besame, besame mucho


Que tengo miedo perderte,
perderte des pues….

Canta bene, è intonato con una voce lievemente roca. Non solo
vacillo, ondulo come un pendulo.
“Che c’è? Non ti piace questa canzone?” mi chiede.
“No, no mi piace. Ho solo un po’ di mal di pancia.” In realtà sono
gli ormoni che ballano il tango, ma se capisce che ha colpito nel
segno per me è finita. Sedotta e risedotta.
“Vorrei esporti un pensiero che mi assilla da ieri.” Così dicendo si
gratta la testa. “Dato che noi due stiamo bene insieme, ridiamo,
parliamo, viaggiamo …stavo riflettendo che potremmo stare anche
meglio di così.”
“Ovvero?”
“Hai capito no?” Farfuglia.
“Sii più esplicito.”
“Insomma tu mi piaci e se avessimo un’avventura in questi giorni
non ci farebbe che bene.”
“Sesso incluso?”
“Eh? M-ma che domande sono?!? Comunque sì. Incluso.”
Come linea di difesa schiero Vitaly sul campo. Il mio cavallo di
fiducia.
Appello all’onore
Vedi mio hombre caliente
Io ti desidero anche immantinente
Ma non posso cedere a un sentimento possente
Perché devi sapere che hai un concorrente
O meglio un tizio a te precedente

È rimasto in Italia il tapino


Che a nome Vitaly timbra il cartellino
Non mi sembra quindi molto carino
Che io gli piazzi due corna in testa in modo repentino
E lo pugnali alla schiena come un freddo assassino

Insomma capisci mio bel cileno


Occorre tenere il sangue a freno
Non è bello all’onore venir meno
Anche se con il russo non vedo un futuro pieno
Così come non avrò mai la quarta di reggiseno

Preso ad ascoltare la mia cantilena Cristiàn cucina una poltiglia


letale composta da riso sciolto, grumi di formaggio e fagioli
piccanti.
“Però avrei una teoria.”
“Sentiamo.”
“Da quello che ho capito questo tizio non ti manca. Non vi vedete
da due mesi, vi sentite raramente e non ne sei innamorata. Quindi
tu non lo consideri più il tuo ragazzo, motivo per cui non è
cornuto. Se ti mancasse e lo tradissi lo sarebbe.”
Effettivamente non ha tutti i torti. Mi manca e lo tradisco: è
cornuto. Non mi manca e lo tradisco: non è cornuto. È abbastanza
pertinente. Ci rifletto su talmente tanto che mi addormento sotto i
soliti strati di vestiti.
Anche stasera vinco la battaglia contro i miei ormoni tanghéri
poiché il cileno è rimasto nella sala TV a guardare un programma
sui delfini.
Il percorso in autostop prosegue fino a Whitianga.
“Da qui dove siamo diretti?” chiedo al compagno di viaggio. Mi
fido delle sue scelte e delle sue mete perchè so che a lui piacciono
i miei stessi posti, selvaggi ma bucolici.
“Kuaotunu Bay all’estremità est. Pochi centri abitati, oceano e
pace. C’è solo un capeggio.”
Mentre camminiamo cercando il posto ideale per mostrare il
pollice ci imbattiamo in un uomo atletico che tenta di disincastrare
le chiavi dall’interno della macchina.
“Vuole una mano?” chiede Cristiàn.
“Grazie ragazzi. Se mi aiutate vi do un passaggio” dice.
L’uomo è originario di Perth in Australia, ma è emigrato da anni
in Nuova Zelanda.
“Si sta bene qui. C’è più erba.” constata.
Subito Cristiàn gli chiede di che tipo di erba stia parlando
ammiccandogli furbescamente.
“Sono un poliziotto.” La secca risposta.
Quando riusciamo nell’impresa armati di spranghe e fili di ferro
l’australiano ci porta fino Kuaotunu Bay. “Quindi voi due non
siete una coppia, ma dividete la tenda? Un po’ difficile da
credersi.”
“Lo dico anch’io.” mormora Cristiàn.
La nostra nuova meta è un posto dimenticato da qualsiasi Dio,
semi Dio, divinità, circondata solo da scogli ed acqua.
L’unico negozio con qualche prodotto alimentare è la reception
del campeggio gestito da un’anziana signora e da suo marito, che
convince il cileno ad andare a pescare con lui nel pomeriggio. Li
vedo diventare due sagome di scuro sfumate dai colori del
tramonto.
“Meglio un cattivo giorno di pesca che un buon giorno al lavoro.”
sentenzia serio il pescatore.
“Credi veramente a quello che mi hai detto circa il tradire chi non
ti manca?” chiedo al cileno.
“Veramente no. Ho detto una cavolata.”
“Ah, ecco.”
“Comunque sono sincero!”
Non è questo il pensiero che mi assilla; devo chiamare la ditta
dello stage e dire alla mia responsabile che ho perso il volo da
Auckland rimandando l’inizio di una settimana.
“Signora posso fare una telefonata dalla reception? Ho la tessera
telefonica” dico alla proprietaria. Qui sono le dieci della sera, in
Italia le dieci del mattino.
“Certo, nessun problema.”
“Non si spaventi se comincio a fare cose strane tipo fingere che la
linea sia disturbata.”
“Devi per caso dire a qualcuno la bugia dell’aereo? Che l’hai
perso e che non torni più?” mi chiede impassibile.
“Sì. Penso di non essere l’unica vero? Caso mai se può darmi una
mano…”
“Tipo?”
“Tamburellare sul tavolo, fare un po’ dei rumori da aeroporto.”
“Mi chiedi la cosa più semplice del mondo.”
“Beh, quello che può fare! Allora è pronta? Compongo il
numero.”

Rumori di aereo
Drin, drin…
“Pronto?”
VRRRRRRR
“Pronto Samantha mi senti?”
DENG, DENG, DENG
“Sì. Ti sento un po’ male, ma dove sei?”
MA CHE??!
“Sono in aeroporto. Ho avuto un po’ di problemi.”
PRRRRRRRRRRRR
“Cosa è successo?”
“La Singapore Airlines non mi ha messo nell’elenco dei
passeggeri e risulto in quella di venerdì prossimo. L’errore è loro,
ma non ci possono fare niente.”
PING, PING, PING
“Ah, quindi sei ancora là. Quando riesci a tornare?”
“Lunedì nove sono in ufficio.. Te lo giuro anche a costo di
farmela a nuoto.”
TRING, TRING, TRUNK
“Va bene, non ti preoccupare. Ci vediamo settimana prossima.”
MMMMM
“Grazie e scusami. Ciao.”
MIAO, MIAO
“Ciao.”

Didascalia suoni in ordine di comparizione:


VRRRRRRR: rumore di aereo proveniente dalla mia bocca.
DENG, DENG, DENG: la signora tamburella una penna sul
tavolo come una forsennata.
MA CHE??!: il marito della signora che si trova davanti ad una
scena del genere.
PRRRRRRRRRRRR: sbattimento sul muro di un pacchetto di
biscotti da parte della signora.
PING, PING, PING: il marito della signora che sbatte due tazze
l’una contro l’altra energicamente.
TRING; TRING; TRUNK: da fuori rumori sinistri ben piazzati e
di oscura provenienza.
MMMMM: prolungato grugnito nasale del pescatore.
MIAO, MIAO: l’inopportuno gatto tigrato.

Conclusione: un bel casino poco armonico ma molto partecipato.

Ringrazio gli attori non protagonisti e prima di uscire di scena


chiamo mio padre.

San Tommaso
“Ciao papà!”
“Alice? Che è successo?”
“Niente. Ti chiamo per dirti che ti voglio bene.”
“See, mi prendi per scemo?? Di cosa hai bisogno?”
“Di una copertura. Se chiama la compagnia dello stage conferma
che la Singapore Airlines mi ha messo sull’aereo sbagliato.”
“Ah, ah, ah. Ma ci hanno creduto?”
“Così sembra.”
“Dove sei e soprattutto CON chi sei, figlia libertina”.
“Sono in un paese sperduto lontano dal mondo conosciuto da
qualche parte. Per appagare la tua irriverente curiosità sto
viaggiando con un amico cileno.”
“Amico??? Si chiamano così ora?? Allora anche il Cile è da
depennarsi dalla lista.”
“Quale lista? Ma papà ti sembra il caso? Per chi mi prendi! Se ti
dico che è un amico. Non mi credi?”
“Se è un amico io sono dimagrito trenta chili e mi sono ricresciuti
i capelli.”
“Lasciamo stare. Ah, ho deciso di essere vegetariana”
“Però mangi carne cilena?!!”
“Dopo questa ti saluto. Ciao.”
“Ciao cocca.”

Bene, tutto sistemato. Prima o poi dovrò chiamare Vitaly per dirgli
che sono viva e che domani non atterrerò a Milano. Sicuramente
se lo sarà segnato sul calendario tra una nota: “Comprare tisana al
mirtillo.” e una: “Fare il bucato.”
Sono perfida, ma sotto ci sono strati di amarezza. Un’altra
relazione senza senso e temporanea che evapora da entrambe le
parti con la semplicità dell’acqua per la pasta. Mi chiedo quando
mi sentirò ancora bambina, innamorata, felice e forte. È da tre anni
che sono sull’orlo del disinteresse sentimentale e appena trovo
qualcuno che mi accende, lui scompare. Bart, Amihai. Mi manca il
ragazzo delle pietre indiane, il suo modo incuriosito di guardarmi,
la sua forza, la sua dolcezza.
Sulla veranda Cristiàn fuma la sigaretta del mattino. Guardandolo
un pensiero mi sfreccia a velocità treno nel cervello: sto per
cedere.
Non oggi però, sono ancora in tempo. Con un “tutto risolto” tengo
a bada le tigri della Malesia e lo lascio in bianco rinchiudendomi
ermeticamente nel sacco a pelo.
“Dormito bene?? Ti sei addormentata di colpo ieri!” il cileno mi
scuote con odio la mattina dopo.
“Z-zzz. Eh? Smettila! Sono sveglia. Che hai?” gli chiedo, anche se
conosco la risposta.
“Che ho?!? C’è che ti ho fatto un preciso discorso e tu mi rispondi
con la storia della tua vita e..”
“E non può fregartene di meno!”
“Non ho detto questo. Solo che tu hai glissato alla grande senza
darmi nessuna risposta. Insomma lo sai che tra noi c’è feeling. C’è
sempre stato fin da quando ci siamo conosciuti. Quindi dato che il
russo non mi sembra rappresentare un problema…”
“Tu cosa vuoi da me? Un po’ di ginnastica?” gli dico dopo aver
smontato la tenda e ripreso a camminare.
“Non voglio un po’ di ginnastica. Tu mi piaci dal primo momento
in cui ti ho vista. È normale che se siamo solo io e te qui,
viaggiamo insieme, siamo in tenda insieme vorrei avere un altro
tipo di rapporto. Stiamo insieme come una coppia finché non ci
separiamo.” Sul ciglio della statale mi fissa con quei carboni
scintillanti. “Sarei un bugiardo se ti dicessi che non voglio fare
l’amore con te. Ci penso ogni notte.”
Oddio. Penso alla nonna, respiro profondamente.
Al bivio tra Coromandel Town o Whangapoua non sappiamo
quale scegliere.
La prima è la cittadella più grande della penisola e si trova sulla
costa ovest, il secondo è un minuscolo paese sulla costa est,
solitario e isolato. Gonfie nubi si appostano come avvoltoi sopra le
nostre teste e ci scaricano contro una violenta pioggia.
Di macchine in giro neanche l’ombra.
“Testa o croce per dove andare.”
Mentre Cristiàn si fruga in tasca per cercare un dollaro non troppo
annacquato, una rombante macchina che sembra provenire da una
dimensione parallela ci passa davanti e fa retromarcia.
“Ehi fratelli volete uno strappo? Vado a Coromandel Town.” Un
ragazzo con degli enormi occhiali da sole si sporge dal finestrino.
“Vi piace la mia Holden Caprice australiana. E’ la mia bambina!”
annuisce orgoglioso cogliendo i nostri sguardi esterrefatti. Non
possiamo non accettare il passaggio di questo tizio molto
particolare.

Il rap del guidatore


Sweet as bro, good hey.
Sono Jim e faccio il deejay.
In Coromandel sballata cittadella.
Faccio rombar il motore quando vedo una donzella.
Mi piace fare il meccanico nel tempo perso.
E partecipo ai rally, lo confesso.
Se vedo un opossum lo spiaccico al suolo.
L’ora della birra è quella che più adoro.
Questa c’è sempre durante il giorno.
Magari insieme mi sparo un bel porno.
Sweet as bro vi porto al campeggio.
Sapete di rispetto certo non scarseggio.
Vi tratteranno come ospiti di riguardo.
E ci guadagnate anche una birra in omaggio.

Jim pensa di essere alla guida di un razzo stellare invece che di


una macchina.
“Che ore sono?” chiede il cileno pietrificato.
“È l’oradellabirra! Yeah!” sgomma sull’asfalto bagnato. “Allora
vi porto al mio campeggio preferito. Dista quattro chilometri dalla
cittadina, ma volete mettere lo scenario!”
“V-va bene.” Spero solo che gli opossum oggi siano rintanati nei
loro rifugi.
È uscito il sole che ci riscalda mentre montiamo la tenda su un
punto isolato sopra alla spiaggia, solo noi in un campo di
margherite bianche e gialle.
È inevitabile che a questo punto succeda di tutto, anche se sento di
poter attribuire parte della colpa alle patatine messicane comprate
ad Hahei. Risultano avere sui miei ormoni lo stesso effetto di
quattro bicchieri di vodka.
E’ la fine dell’inibizione e inizio di un uragano godereccio.
Rimaniamo chiusi in tenda per due ore, una tenda saltellante che
nonostante i paletti sembra dotata di vita propria.
Ora da bravo macho si sta fumando una sigaretta post fuochi
d’artificio. Un sorriso soddisfatto sulle labbra. “Dai dammi un
voto!”
“Sette meno, meno. Si può fare di meglio.”
“Cooosa!!!
“Si vede che sei fuori allenamento.”
“Muy bueno. Tan bien. Vedrai stasera dopo la mia zuppa di pesce
e ostriche.”
Mentre in cucina Cristiàn monopolizza i fornelli, faccio
conoscenza con gli altri compagni di cucina: tre ragazzi israeliani
ed un australiano ubriaco. Mi chiedo cosa stia facendo Amihai in
giro per l’Isola Sud? Starà tentando di sopravvivere a se stesso
così come io tento di sopravvivere all’alito del barbiere di Sydney
in vacanza con la figlia di nove anni che gli porta birra ogni dieci
minuti.
“Se volete vi posso lasciare una bottiglia di bourbon a metà perché
domani parto e non ho voglia di portarmela dietro.”
“Non si rifiuta mai niente….”
“…e noi non ci offendiamo.”
Messa da parte la passione pomeridiana il cileno ubriaco si
addormenta di colpo diventando molto molesto per i timpani.
Russa a pieni narici, mettendoci pathos e sentimento.
Gli tiro un potente calcio. “Che cazzo???? Che pasa??” si sveglia
di soprassalto.
“Russi talmente tanto che sto diventando sorda.”
“Io russo?”
“Vedi qualcun altro in questa tenda oltre a noi?”
Dopo un secondo ricomincia il concerto e decido di farmi un giro
fuori nella notte piena di stelle con un cielo ammantato di fascino
e sogni. Fra una settimana non sarò più qui, sarò altrove sotto un
cielo arido. Stanotte è il primo ottobre, il compleanno di mia
madre. Cristiàn viene svegliato per la seconda volta durante la
notte, ma questa volta da qualcosa di più fastidioso di un mio
calcio: una telefonata della mamma.

Cocco di mamma
“Mi Querrrrrrrrrrriddddddddo, piccino mio, donde estas mi
corazon? Manchi alla tua mamma. Te extraño y te pienso!!!” Una
cornacchia con il fiatone.
“Sì mamma, sì anch’io. Stavo dormendo però.”
“Anch’io cosa??”|
“Anch’io tutto il tuo bla, bla, bla, mamma.”
“Sniff, sniff. Chi c’è lì con te. Sento odore di donna!””
“Mierda! Ma che cosa sei un segugio mamma??!”
“Lo sento. Lei chi è? Vuoi ancora bene alla tua mamma??’”
“Sì, sì non ti preoccupare. È una ragazza italiana con cui sto
viaggiando. Un’amica.”
“Che pasa? Mi prendi per loca?”
“Ciao mamma, buonanotte. Hasta luego.”
“ Ma mi queri...”
Non fa in tempo a finire la frase che suo figlio le attacca il
telefono in faccia.
“Mi madre è una rompipalle!”

Smontiamo la tenda sotto la pioggia battente preparandoci a


partire.
“Mancano ancora tre giorni prima della tua partenza qundi direi di
andare nel Northland.” La regione a nord di Auckland che si
estende fino alla punta della Nuova Zelanda, fino alla Nine Mile
Beach, una lunga striscia di dune sabbiose. Il perfetto habitat per
l’hombre caliente.
“Fin lì per me è troppo lontano ed è difficile ottenere un
passaggio. Dirigiamoci verso Auckland intanto.”
Dal campeggio un grosso pescatore ci offre la corsa di ritorno a
Thames. Questa volta costringo il cileno a sedersi davanti e a fare
conversazione.
“Ragazzi, perché non aprite una fabbrica di molluschi nei vostri
paesi? In Cile poi potrebbe essere un bel business.” bofonchia il
guidatore.
“Penso ci sia già qualcosa di simile.”
“Forse sì, ma certo non con le nostre strategie, con la nostra
tecnica. Pensa che…”
Così inizia una filippica lunga un’ora e mezzo di guida. Mi
addormento sulla scia della parola: “cozze” per svegliarmi con
quella di: “capesante” e vedere lo sconvolto Cristiàn lottare contro
una letargia mortale. Finalmente il pescatore ci lascia all’inizio
dell’autostrada che collega Thames ad Auckland.

6.2 Il venditore di vini

Al freddo
Un pollice inclinato come un soldato ferito. Le gocce d’acqua gli
cadono sopra come una cascata di pugnali. Il pollice resiste
intirizzito e si rianima davanti ai fari della macchina di
passaggio. Quando questi scompaiono inghiottiti dal temporale il
povero soldatino si rifugia nella tasca dei miei pantaloni.

“Siamo qui da quaranta minuti e non si è ancora fermato


nessuno!” Il cappuccio del k-way limita la prospettiva. Il mio
corpo è diventato un ghiacciolo sopra cui sono stati buttati vestiti
fradici.
“Dovresti toglierti il cappuccio. La gente non si ferma se non ci
vede in faccia.” Sibila la figura accanto a me.
Evito di girarmi. “Perché non ti togli tu il cappuccio?”
“Perché non sono una fanciulla con gli occhi azzurri e lo sguardo
mesto come te. Nessuno si fermerebbe.”
Tento di sorridere al pick up che si avvicina, ma il suo guidatore
invece di rallentare, accelera.
“Riusciremo a essere ad Auckland stasera?” chiedo al mio
compagno di viaggio.
“Non vedo alternative.”
La dura vita dell’autostoppista.
Sbuffo e con un gesto butto i miei capelli in pasto alla pioggia.
Tento di sorridere al pick up che si avvicina. O meglio al suo
guidatore. Il quale rallenta un attimo e poi ci sorpassa facendoci
un segno di scuse con la mano.
A causa del freddo il mio amico ed io abbiamo dipinti sul viso dei
ghigni inquietanti. Se mi vedessi da fuori accelererei senza esitare.
“Chissà se riusciremo a essere ad Auckland stasera.” chiedo alla
figura alta accanto a me che sfodera a sua volta un supplice pollice
bagnato.
“Non vedo alternative.” La risposta.
La dura vita dell’autostoppista.

Siamo arrivati all’inizio di questo libro e al pollice bagnato


assediato dall’acqua.
“Dai Christiàn impegnati. Magari si ferma qualche fanciulla.”
“Ok. Sta a vedere.”
Il cileno con baffi e capelli appiccicati al viso si sfila il cappuccio
e impavido assume la sua posizione di conquista: sorriso di fuoco,
spalle dritte e una mano sul fianco destro. Scatenando la mia
ilarità e il suo disappunto si ferma un ragazzo indiano.
“Mai visto un modo così originale di fare l’autostop, dovevo
fermarmi.” ci dice.
“Le tue idee del cavolo! Guarda cosa mi fai fare! Ora ti siedi tu
davanti.” sibila il mio amico
Approdati ad Auckland optiamo per il primo ostello che troviamo
sulla via.
“Prendiamo una camera tutta per noi?” mi chiede il cileno con
occhi vivaci.
“No, costa troppo. Tieni a bada Cristiàn Sito per una notte.” Il
mio amico si riferisce al suo fedele compagno con questo
nomignolo: “Il piccolo Cristiàn”.
Mi guarda come un cane bastonato. “E dove vuoi dormire?”
“In una camerata.”
Più precisamente una da venti letti monopolizzata da giapponesi in
visita e da un signore che emette rutti coreografici. L’hombre
felice di dormire finalmente in un letto si spoglia integralmente e
si infila sotto le coperte.
“Ma che fai? Con tutta la gente che c’è.”
“Capirai quanto mi interessa. Vuol dire che saranno invidiosi.”
Strano personaggio. Oscilla tra il timido e l’esibizionista non
avendo ha vie di mezzo. Controllo la posta e scopro che Amihai
sta facendo un digiuno di ventiquattro ore e che Vitaly si sta
chiedendo dove sia finita.
Lo chiamo.
“Pronto?”
“Pronto Vitaly?”
“Si chi è?”
“Sono Alice.”
“???”
“Alice, quella della Nuova Mauritania.” Sento palpabile la sua
perplessità.
“Alicetta!!! Dove sei adesso?? Ma non dovevi tornare sabato? Mi
sono stufato di andare alle feste da solo.” piagnucola.
“Ho posticipato l’aereo per una serie di ragioni che non sto a
spiegarti ora.”
“Quando torni?”
“Fra quattro giorni ho l’aereo.”
“Allora ci vediamo presto! Ti devo raccontare un po’di cose.”
“Va bene. Ciao.”
Non mi sento neanche in colpa per il prolungato tradimento.
“Vieni, ho fatto un po’ di riso.” Cristiàn si è risvegliato dal coma
nudista e si è messo a cucinare. “Tutti pensano che io sia un Don
Giovanni come dici tu. Invece non è vero, sono molto timido.”
“Ho visto.” lo prendo in giro.
“Sul serio. Altrimenti con te ci avrei provato molto prima, per
esempio quando siamo venuti Alejandro ed io a cena. Invece sono
stato tutta la sera in silenzio.”
“Perché?”
“Per due motivi. Il primo era che Alejandro ed io avevamo una
strategia miseramente fallita. Lui avrebbe conquistato Julia ed io
te. Però durante la serata non sono riuscito neanche a dirti due
parole. Ero imbarazzato dalla pressione dell’impresa.”
“Ok. Il secondo motivo?”
“La pasta che hai cucinato faceva schifo.”
“Ehhhh??’”
“Te lo devo dire. Era proprio una poltiglia inodore e insapore. Ed
io che mi aspettavo di gustare una vera ricetta italiana. Si vede che
sei negata.”
“Non hai tutti i torti. Domani fin dove arriviamo?” svio
l’argomento.
“Cercherei di raggiungere Paihia sulla Bay of Islands sulla costa
nord-est. Sono circa 240 chilometri da Auckland.”
“Il problema è capire dove poter fare l’autostop.”
“Non ti preoccupare. Ho un’idea.”
Grazie all’ “idea”, per uscire dal centro ci impieghiamo due ore.
Le indicazioni sbagliate di una ragazza dell’ostello e il tentativo di
parlare Esperanto con un autista cinese ci mandano fuori strada.
Appena raggiunta l’autostrada un severo cartello ci si para davanti:
“È vietato fare l’autostop. Pena: multa di 150 dollari.”
“E se ci beccano?” chiedo preoccupata.
“Naaaa. Non ti preoccupare bambina, non passa nessuno. Piuttosto
iniziamo il nostro lavoro quotidiano” dice il mio amico sfoderando
il pollice.
Dopo neanche cinque minuti una macchina ci vede e rallenta.
Come al solito non porto gli occhiali da vista e agito il braccio in
direzione del cortese guidatore.
Il cileno rimane immobile.
“Ma che fai! Vuoi farci arrestare?!?”
Il veicolo infatti è una volante della polizia .
“Dile que estamos esperando a un amigo.” sibila il cileno in
spagnolo, sperando di non farsi capire dal poliziotto che sceso
dalla macchina si dirige verso di noi con aria truce.
“Ma sei scemo? Siamo qui con zaini in spalla, aria persa e pollice
implorante! Chi vuoi ingannare?” optiamo per una reazione
drastica e definitiva. Supplichiamo.

Un occhio chiuso
Signor Poliziotto non ci metta in prigione.
Noi nel viaggiare ci mettiamo passione.
Se ci fa la multa non possiamo pagare.
In patria abbiamo la famiglia da sfamare.
Se ci lascia andare promettiamo.
Che nei guai più non ci cacciamo.
Ce ne andiamo tranquilli da qualche parte.
E cerchiamo un passaggio in direzione Marte.
Signor Poliziotto non ci infanghi la pedina.
Come facciamo a dirlo alla cara e lontana mammina?!?

“E va bene! Basta che la smettiate con questa lagna! Non vi faccio


la multa anche perché non sembrate due che navigano nell’oro. Vi
porto all’inizio della provinciale e potete fare l’autostop da lì.” Ci
carica sulla volante.
“Lo sapete che in alcuni paesi è totalmente vietato fare
l’autostop??”
“Nei nostri è all’ordine del giorno.” mentiamo.
Il poliziotto ci lascia nel posto più infausto che ci possa essere; una
curva fangosa dove mai nessuno sarà così pazzo da fermarsi.
Finalmente un ragazzino rapper con tanto di pupa seduta accanto,
inchioda rischiando un tamponamento a catena. Ci dà uno strappo
fino a Kaiwaka, mentre rollando una sigaretta dopo l’altra tiene il
volante ora con i gomiti ora con le ginocchia, facendoci passare
intensi momenti mistici.
Un giovane uomo con Red Bull in mano ci raccoglie da Kaiwaka e
ci lascia a Whangarei. Questo giorno sembra non finire mai, tra
autostrade, macchine e guidatori occasionali.
Il nostro nuovo guidatore si lancia in un monologo corrosivo che
devo sorpirmi interamente visto che sono sul sedile davanti:
“Faccio traslochi per i ricchi che dall’estero vengono ad abitare
qui. I bastardi. Loro si che hanno soldi. Io invece se voglio farmeli
devo sgobbare come un asino.” Il suo tono monotono si intervalla
a scarichi vocali di ira. “È tutta colpa dei cinesi. Fra un po’
invaderanno la Nuova Zelanda. Bastardi. Dobbiamo fermarli. I
maori? Bastardi pure loro. Mi hanno incendiato la macchina ieri.
Se sono sicuro? Certo. Chi altro può essere stato se non quei
bastardi?”
Per fortuna un venditore di vini tranquillo e affabile ci dà l’ultimo
passaggio da Whangarei a Paihia.
“A volte sono con dei clienti che invece di degustare si ubriacano
completamente. Il problema è farli sganciare! Le scene più belle
capitano a Wellington” ci racconta del suo lavoro.
“Se rifornisci alcuni ristoranti della capitale magari conosci lo
Sweet mother’s Kitchen” gli chiedo.
“Certo che lo conosco! Diane è la mia ex. Siamo rimasti molto
amici e a loro faccio grandi sconti sul vino.”
“Sweet as! Allora conosci anche Bart! Sono sua amica e per un
po’ ho lavorato lì.”
“Choice! Che coincidenza.” esclama il tizio che si chiama John.
Cristiàn osserva la scenetta in silenzio. Nella sua testa bacata si
starà chiedendo: “Ma chi diavolo è questo Bart?!?É la seconda
volta che lo sento nominare! É un incubo.”
John chiama il mio amico.
“Hey Bart, indovina chi c’è in macchina con me? La tua amica
Alice!”
Ora sarà il il Kiwi a pensare: “Oddio il mio incubo.”
Rimane sotto shock. John me lo passa al telefono. “Non ci posso
credere che sei in macchina con lui! Sei stata fortunata, è una
grande persona.”
“Sì, ha caricato due matti come noi.”
“Viaggi con il tuo amico cileno?”
“Già. Tu che stai facendo?”
“Sto andando a fare un po’ di shopping con Diane, che mi sta
aspettando. Ti chiamo prima che tu parta.”
“Va bene, grazie. A dopo allora.”
Lo sappiamo entrambi che non è vero. Non sentirò la sua voce
forse mai più. Il suo tono tra lo stanco e il curioso, tra il vivace e il
passionale. Riattacco.
Paihia assomiglia a un villaggio vacanze pieno di negozi, ristoranti
e banche. John ci lascia davanti ad un ostello-villetta: “Il Captain
Bob’s Backpackers.”
L’abbiamo fatto dannare cercando un posto carino dove rimanere
le ultime notti, in cui affittiamo una stanza matrimoniale tutta per
noi. L’hombre cileno ha occhi pirotecnici.
“Wow! Sento il sangre ribollire nelle vene.”
Ribolle talmente tanto che deve aver fatto corto circuito: in meno
di cinque minuti si mette a russare profondamente.
Partendo in esplorazione dell’ostello trovo in salotto alcuni ragazzi
che ascoltano musica classica leggendo Hegel e mi guardano con
un interrogativo: “Orbene?” stampato sulle dotti fronti.
Posto che vai, gente che trovi. Questo con i tocchi marino-artistici
e l’atmosfera calma fa sgorgare l’arte e l’humus culturale che c’è
in ognuno di noi. Il Rosemere con le sue correnti perfido
ascensionali, le sue scariche elettriche e il suo odore costante di
vodka e birra scatena il diavolo imprigionato in ogni anima.
Oppure sono proprio le persone a essere in qualche modo attratte
dal posto, come api al miele.
Fluttuando sulle note della Jupiter mozartiana uno dei
backpackers ripone la: “Fenomenologia dello spirito” e si versa un
bicchiere di vino. Quanto lo invidio. A noi toccano noddles
preconfezionati e due uova.
“Ma domani che è la nostra ultima sera insieme ci facciamo una
scorpacciata di cozze e vongole.” esclama l’uomo caliente al suo
risveglio.
“Vuol dire che mi porti al ristorante? Che bello!” esclamo
elettrizzata.
“Ma sei matta?! Domani mattina andiamo a estirpare i molluschi
dagli scogli con le nostre mani e il mio coltello svizzero. Poi tu li
pulisci e io li cucino.”
L’entusiasmo crolla. “Almeno una bottiglia di vino possiamo
comprarla o dobbiamo andare a vendemmiare di persona?”
“No, quella possiamo comprarla” ma ci sta pensando su il
bastardo.
“Guarda che stavo scherzando sulla vendemmia!”
Passiamo un po’ di tempo sulla veranda ad ascoltare il rumore
dell’oceano. Un suono melodico che fra pochi giorni non sentirò
più, così come certi profumi, certi sapori. Non vedrò più gli stessi
paesaggi. A Cristiàn racconto dei miei genitori, dei miei amici,
del…
“…E con il cornuto che cosa farai?” mi chiede a bruciapelo.
“Si chiama Vitaly. E poi secondo il tuo saggio discorso non è
affatto cornuto.”
“Ti ho già detto che ho sparato una scemenza. Cornuto lo è, baby.
Ma come resistere al fascino cileno?!? Come darti torto?”
“Come resistere al sangre caliente e alla russata potente?”
“Non me ne passi una eh?”
“Tento di preservare un minimo di coerenza.”
La realtà è che sto tornando a casa. Vecchie e nuove esperienze,
persone, vite. Sto tornando e non lo avrei mai detto. Ho pensato di
rimanere qui per amore, ma questo è evaporato ancora prima di
condensarsi. Torno con un mondo nuovo dentro e con scintille di
ispirazione.
Mi addormento velocemente non lasciando il tempo a Cristiàn di
gridare all’assalto armato solo di un paio di boxer.
L’indomani il cileno esamina la mappa alla ricerca del posto
migliore per depredare le cozze. Individua dopo calcoli complicati
e domande contorte ai passanti il punto migliore, Russels: una
piccola isola a dieci minuti di traghetto da Paihia con una bella
spiaggia e alcuni sentieri tra i boschi. Tuttavia sdraiarsi al sole e
camminare sono a beneficio della gente normale. A noi tocca la
pesca da scoglio. Il cileno si toglie i sandali e con il coltello tra i
denti si aggira tra le rocce.
“Cristiàn non sappiamo neanche quando arriva l’alta marea.”
“Ho controllato. Tra due ore. Dobbiamo sbrigarci. Cosa aspetti?
Coraggio guarda quanto c’è da mangiare!” E così dicendo
comincia a tagliare i fili erbosi che ancorano la patella alla roccia.
Rischio più volte di cadere in acqua. Ho i piedi congelati e questa
cozzamachia mi sta uccidendo. Un gabbiano divertito ci segue
scagazzandoci intorno. L’hombre invece è nel suo habitat naturale.
Salta infoiato da uno scoglio all’altro, da cozza a vongola
compiendo una strage. I corpi delle vittime vengono messi tutti
nella tasca del suo K-way che diventa una mors olfati.
“Ma prima l’acqua ci arrivava alle ginocchia?” osservo perplessa.
“Merda! L’alta marea! Sono passate più di due ore” dice
ripercorrendo a ritroso gli scogli con balzi veloci.
“Ehi! Aspettami!”
“Muoviti, l’acqua sta salendo.”
Completamente fradici raggiungiamo la strada proprio in tempo
per non essere trascinati via da una corrente assassina. Sul
traghetto di ritorno la puzza delle prede ci rende padroni di
un’intera fila di panche causando il fuggi fuggi generale.
Riusciamo a lasciare traumatici ricordi anche qui.
Al supermercato il mio amico parla con tono mesto: “Ognuno
compra le proprie provviste. Stiamo per dividerci. Mi mancherai,
mia amante italiana.”
Rido. “ Ti vedo bene a recitare in qualche telenovela sud
americana.”
“Ma guarda che dico sul serio!”
Si liscia i baffetti. Assomiglia molto all’icona dello spacciatore
colombiano. Gli manca solo il cappello bianco ad ampie falde. Ora
fa l’offeso e mi mette a pulire tutti i maledetti molluschi mentre lui
prepara i toast.
La mia è un’epopea non da poco. All’interno delle cozze e delle
vongole sono incastrarti alcuni residui di erba e di peli. Tirarli
fuori e aprirli mi costa forza, tempo, pazienza, maledizioni e
diversi tagli. Il proprietario dell’ostello mi prende in disparte.
“Dove avete trovato quei molluschi così grossi?” bisbiglia non
facendosi sentire da Cristiàn.
“Se mi aiuta glielo dico.”
“Troppo pericoloso. Il tuo amico me la farebbe pagare.”
“Se mi dà una bottiglia di vino glielo rivelo.”
“Affare fatto.”
In generale i neozelandesi adorano procacciarsi il cibo da soli,
tanto che la mia informazione vale una botta di vita.
“Chi ti ha dato quella bottiglia?” mi chiede sospettoso il cileno.
“Cosa? Questa? Mmmm… me l’ha data la ragazza cinese. Ha
detto che lei non beve.”
“Non avrai rivelato il luogo dei molluschi al padrone?!?”
“IO??? Noooooo. Come ti viene in mente una cosa simile!”
La cena è a base di riso in bianco con molluschi al pelo.
“Ti avevo detto di toglierli! Che schifo!”
“Dai beviamoci sopra!”
Complici vino, cozze e tutto il resto facciamo l’amore con
passione e fantasia.
“Ah! L’ultima volta!” sospira Cristiàn.
“Perché dopo ti fai prete??”
“Non pensare che mi dimentichi di te. Rimarrai incisa nel mio
corazon, come un tatuaggio.”
“Magari ci ritroviamo presto da qualche parte nel mondo”.
“Sarebbe bello.”
“Cristiàn mi canti per l’ultima volta Besame Mucho?”
Lui appoggia un gomito sul cuscino e mi guarda con occhi di
fuoco. “Fai la dura, ma sotto sotto sei una ragalona.”
“Una che?”
“Una ragalona. Una ragazza a cui piacciono le coccole.”
Sorridendomi si schiarisce la voce: “Besame, besame mucho….”

La mattina dopo mi assale la melanconia. Non ho voglia di


lasciare questo paese e tornare a Milano. Facciamo gli zaini e
prima di separarci ci fermiamo un po’ sulla spiaggia.
Cristiàn mi piace, è sexy, divertente e un gran viaggiatore. Il suo
ricordo avrà sempre un posto dentro di me. La mia mente però
ritorna al ragazzo delle pietre indiane, al suo fascino e alla sua aria
scanzonata sul mondo. Tutta un’altra storia, un’altra poesia.
Magari nella prossima vita.
Cristiàn mi dà l’addio in modo impacciato:
“Beh che ti posso dire? È stato un piacere conoscerti.” Entrambi
scoppiamo a ridere.
“Anche per me è stato un piacere, hombre.”
Mi bacia per l’ultima volta sulle labbra e sulla fronte.
“Ci vediamo giù, ci vediamo all’inferno.” l’ultima carezza e
l’ultimo sorriso.
“All’inferno.”
Poi io mi dirigo verso l’autobus per Whangarei e lui verso la
provinciale.
Ora che sono da sola torno alla monotonia del bus, del biglietto e
della voce appisolata del conducente.
Ora sono abbastanza serena. Ho appuntamento il giorno dopo con
la Singapore Airlines e probabilmente farò perdere un po’ di
scommesse ai suoi impiegati.
Magari un giorno tornerò in Nuova Zelanda, anche se ci sono
anora così tanti posti da vedere, esplorare, e da vivere.
Finalmente intravedo dal finestrino Auckland, cullata dal
tramonto. Una Regina agghindata di luci.

Ritorno
È troppo tardi per cambiare idea.
Ogni volta che torno è sempre più doloroso. Ho dentro un prisma
di sensazioni, che è difficile condividere.
Siamo nati curiosi, avventurieri e nomadi
Un codice genetico sacrificato per una capanna di spilli.
Mesi e forse anni prima di rifare le valigie.
Prima di sentire la mancanza del mondo.
Ed ogni volta che torniamo lo raccontiamo con cautela, come un
tesoro nascosto.

Mentre sul letto in ostello mi agito sognando famigliari che mi


aspettano al varco il pi-pi del cellulare mi sveglia. Un messaggio
di Cristiàn: “L’inferno non è poi così lontano. In tua compagnia
sarà ancora più infuocato. Il tuo amante cileno.”

Epilogo
La Singapore Airlines festeggia

Mi aspetto una specie di standing ovation all’aeroporto.


Banconiste che stappano bottiglie di champagne, hostess che si
abbracciano commosse, piloti che si stringono la mano
compiaciuti.
Va bene, va bene, me ne vado.
Aspettando l’imbarco due impiegate dell’ufficio turistico
neozelandese si siedono vicine e cominciano a farmi mille
domande sul mio viaggio.
“Stiamo facendo un sondaggio sui viaggiatori in Nuova Zelanda.
Dove vanno, quali attività li attira di più, quanto spendono, come
girano.” Più che un questionario sembra l’Iliade rivisitata. Per
rispondere devo spiegare alle due signore tutti gli squilibri che mi
hanno spinto ad andare avanti e indietro senza nessuna logica
apparente.
Man mano che narro gli ultimi due mesi e mezzo di vita le loro
facce assumono un espressione sbigottita. Finchè una di loro
chiudendo il computer mi chiede: “Ma perché?”
“Perché no?” rispondo alzando le spalle. Allora racconto loro di
Bart, di Amihai, delle due americane, del Rosemere, di Cristiàn,
delle feste, dei voli mancati. Dico loro che ho seguito tanti flussi
di persone e che mi sono lasciata trasportare. Perplesse le due
impiegate mi regalano un cd sul turismo neozelandese.
“Nel caso tu voglia tornare con la mente per un momento qui.”
“Grazie, ma non ne avrò bisogno.”
Poi ci sono solo le nuvole, l’aereo e d’improvviso l’enorme Ayers
Rock australiano, il masso emerso quasi per magia dalla pianura
deserta. L’Uluru, la montagna caduta dal cielo degli aborigeni.
Ripercorro il tempo a ritroso mentre dentro di me imperversa un
temporale con tanto di fulmini e lampi, che non si calma neanche
quando atterro a Milano.
I genitori mi cercano con gli occhi: mia madre si sbraccia, mio
padre fa finta di non conoscerla.
“Quando riparti?” mi chiedono in stato di allerta.
“Spero presto, ma prima voglio scrivere.”
“Cosa?”
“Un libro. Avete sentito Vitaly?”
“Guarda che è il tuo ragazzo non il mio!” commenta mio padre.
“Bella quella collana” mia madre si riferisce alla creazione di
Amihai che indosso.
“Sweet as! È fatta a mano dal ragazzo delle pietre indiane.”
“Da chi?E cos’è sweet as?”
“Beh, forse tutto.”
.

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