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Sorvolando i continenti
Al freddo
Un pollice inclinato come un soldato ferito. Le gocce d’acqua gli
cadono sopra come una cascata di pugnali. Il pollice resiste intirizzito
e si rianima davanti ai fari della macchina di passaggio. Quando
questi scompaiono inghiottiti dal temporale il povero soldatino si
rifugia nella tasca dei miei pantaloni.
Lettera ad un sogno
Caro Bart non posso dimenticarmi di te. È passato quasi un anno,
ma quei pochi momenti che abbiamo passato insieme sono stati
come legna buttata nel fuoco. Un fuoco fatto di passione,
ispirazione, avventura e desiderio. Credo che il meglio della vita
avvenga ad un incrocio. Quando casualmente ti trovi a fianco
qualcuno con una vita e una storia, come è successo a noi a Riga.
Ti sento vicino, sei mosso dalla mia stessa inquietudine, qualcosa
che è forza e dannazione insieme. Il resto è scomparso. Il mio
paese, la tua lingua, la mia cultura, le tue tradizioni. Gli incroci
non durano molto, ma scavano dentro come pennarelli indelebili.
Tu sei tornato a casa, in Nuova Zelanda e io ho ripreso a vagare
sentendomi più forte e coraggiosa.
Prima o poi verrò a trovarti in quella tua terra lontana. Lontana
come un sogno che evapora alle prime ore del mattino. Di ogni
mattino.
Capitolo 1
Bart e la regina
Parenti acquatici
Sono in un acquario. Davanti a me c’è una vasca piena di pesci
buffi: una razza con un vezzoso gonnellino, un piccolo squalo con
veletta nera, ed un polipo ha con i tacchi a spillo per ogni
tentacolo.
“Tesoooro così lontana sei andata. Come sei cambiata!” la razza
mi trilla apprensiva.
“Piantala mamma lo sapevi!” le rispondo.
“Non parlare così a tua madre! Ti do una pedata” infuria il
polipo.
“Ma che ci fai con i tacchi a spillo papà?”
“Nipotiinaaa mia, torna dalla tua nonnina e trovati un bravo
maritooo” lo squalo si strugge.
“Se dici così non torno più.” Provo a scappare, ma sono su un
tapis roulant. Continuo ad avere addosso lo sguardo serio dei I
parenti al di là del vetro.
Il Marae
La Comunita’ aspetta al freddo e in silenzio l’inizio della
cerimonia. Gli occhi sono puntati sui capi tribù, sui leaders
spirituali e politici che si apprestano a parlare. A un tratto uno
dei piu’ anziani si alza e comincia ad intonare un lamento triste e
dolce. Centinaia di teste si piegano all’unisono e piangono la
loro regina.
L ’emozione generale mi avvolge. Si stringono le mani, poi
chiudono gli occhi e premono leggermente naso contro naso per
qualche secondo.
“Quello e’ l’Hongi” mi spiega Bart.
I capi tribù parlano a turno. Alcuni di loro brandiscono un
bastone e lo agitano mentre cantano; sembrano stregoni con la
barba lunga e gli occhi magnetici. Raccontano un mondo antico,
custodito dalla Madre Terra.
Vago tra i visi commossi, gli occhi chiusi, le nenie di addio, i danzatori
di haka. Intorno a me tutti parlano il: “Te Reo Māori” che sta
vivendo un periodo di rinascita grazie soprattutto
all’esistenza di un canale televisivo con la maggior parte
dei programmi in lingua maori e al fatto che nel 1987
questa sia diventata una delle lingua ufficiali della Nuova
Zelanda, anche se solo il 4% della popolazione la parla ancora. Intanto
alcuni uomini danzano mostrando il bianco degli occhi, tirando fuori la
lingua e battendo energicamente le mani sul corpo e i piedi per terra. E’
l’Haka guerriera che rappresenta una specie di sinfonia di cui le parti
del corpo costituiscono i diversi strumenti. Le mani, le gambe, gli
occhi, la lingua sono come un’orchestra che agisce compatta
nell’esprimere in base all’occasione e alla cerimonia sentimenti quali il
coraggio, la felicità o la tristezza. Qui i danzatori salutano con profondo
dolore la loro regina.
Bart mi posa un braccio sulle spalle.
“Ti va di andare? Siamo qui già da un bel pezzo”
“E la regina?” lo rimprovero.
Sorride: “Lasciamola con il suo popolo.”
Ce ne andiamo insieme a Ashley e al suo ragazzo.
“Ok il piano e’ questo: spiaggia di Raglan, campeggio notturno e
domani ritorno a Wellington.” propone il mio amico.
“Perfetto. Conosco un paio di posti spettacolari qui in giro” dice
Amiri.
Mentre il mio amico sfreccia sulla strada le due colombe tubano
dietro e io impreco in silenzio davanti. Troppo carini e
imbarazzanti per due come me e Bart con qualche questione da
risolvere.
Arriviamo a Raglan al tramonto. Cinque surfisti in acqua
aspettano l’onda perfetta in silenzio tra cielo e mare. Il freddo e il
gelo filtrano attraverso le loro tute, nubi nere li minacciano. Loro
però rimangono immobili sullo specchio immenso dell’oceano.
Bart è silenzioso e sta collezionando enormi conchiglie. “Fra un
po’ accompagno Amiri ed Ashley a Hamilton. Vanno a una festa e
noi andiamo a riprenderli domani.” Si inginocchia sulla sabbia e
guarda lontano.
“Dove dormiamo noi? In macchina?” gli chiedo.
“Ho portato la tenda. Possiamo montarla qui vicino. Eviterei
l’ostello, come sai non sono il tipo. Mi conosci”.
In realtà non molto vorrei dirgli.
“Sono contenta di essere qui con te”
“Anch’io sono felice. Ti piacerà questo paese anche se è stato per
la maggior parte distrutto da noi pakeha. Da quelli come me, come
i miei genitori, come mio nonno. Tuttavia io dentro sono maori e
faccio parte della grande cultura indigena. Quella della natura,
delle leggende, della purezza.”Parla in tono cupo. “Il mio
bisnonno è stato tra i primi inglesi ad arrivare qui e a promettere ai
maori una falsa equità. Dall’altra parte mia madre non accetta che
io studi le origini di questo paese e considera gli indigeni
inferiori”.
“Penso che per conoscere le proprie origini si debba sapere da
dove si viene. Non e’ obbligatorio qui studiare lingua e cultura
maori a scuola?”
“No, non lo e’ e questo mi amareggia e mi irrita. Riesci a
capirmi?”
Sì.. So come la tua anima irrequieta si agita. So che hai deciso di
avere una missione: sentirti parte integrante di questo paese.
Maori e inglese allo stesso tempo senza che le due identità
facciano a pugni. Vorrei riuscire a dirti che sono qui per te. Ora
mi schiarisco la voce e ci provo.
“A proposito di capire…”
“Ragazzi andiamo mangiare qualcosa? Ho lo stomaco in rivolta”
Ashley ci saltella vicino.
“Va bene. Andiamo” Il mio amico si alza. “Che stavi dicendo
Alice?”
“Nulla di importante.”
Il loro concetto di cibo e’ abbastanza diverso dal mio. I miei
compagni di viaggio si avventano su strati di pesce fritto e su
patatine collose. Se l’unto che ho sulle mani fosse sangue verrei
incolpata di una carneficina.
Dopo aver accompagnato le colombe alla festa, ritornati sulla
spaiggia montiamo la tenda al buio.
“Una luce no?” chiedo rischiando un salto all’asta con la paleria.
“ Se passa la polizia e ci vede ci becchiamo una multa salata. È
vietato campeggiare qui!”
Non so neanche esattamente dove sia qui. Vedo solo la linea di
contorno di alcuni arbusti e sento il ritmico cullarsi delle onde
sulla spiaggia… e delle voci.
“C’è una festa. Senti che casino!! Andiamo?” Ho sempre amato i
falò, le sere davanti al mare, impronte di mille passi sulla sabbia e
rivoli di vino.
A Vitaly non potrei neanche proporlo, ma Bart e’ diverso.. E’ un
vagabondo spirituale, un Dharma Bums alla Kerouac. …
“Se vuoi vai tu. Non ho voglia di unirmi a una festa di ragazzini.
Ho sonno.” taglia corto lasciandomi con un muso lungo fino al
Polo Sud.
La sua tenda è monouso. In due dovremmo stare appiccicati o uno
sopra all’altro. Vuoi vedere che il satiro qui aveva organizzato
tutto???, penso indossando il mio pigiama rosso ammazzasesso. Se
non succede niente ora le condizioni sono due: o è diventato gay
lui o sono diventata lesbica io.
Dopo avermi dato una pelle di pecora contro l’umidita’ del suolo e
due coperte Bart si gira dandomi la schiena e comincia a russare.
È diventato gay! La terza possibilità si insinua nel mio cervello
come un serpente velenoso: Non ti vuole, cocca. Cerco di
scacciarla e mi concentro sul sibilo del vento e sulle voci allegre
del falò. Loro sì che si stanno divertendo. Dal nervoso mollo un
calcio al mio amico.
“Eh?” biascica svegliandosi.
“Niente, dormi. C’è poco spazio qui.” e mi giro a mia volta
dall’altra parte. Almeno ci provo in questo loculo bisogna giocare
a Risiko. Un gioco di strategia in cui Bart mi ha battuto occupando
i ¾ di spazio. Sono costretta a rimanere immobile come una lastra
di vetro; anche respirare porta via spazio.
Mi sveglio per un forte scossone alla tenda. Il Kiwi sobbalza
schiacciandomi con tutto il suo peso “Hey voi. Scusate se vi
sveglio ma vi conviene smontare la tenda e filare perché una
pattuglia della polizia passa ogni mattina di qui a controllare.” una
voce roca.
“Grazie” bisbiglia Bart che esce come un missile dalla tenda.
Sembra quasi che abbia paura di me. In meno di cinque minuti
abbiamo impacchettato tutto in macchina, anche se io sono ancora
in pigiama.
“Che bel pigiama!” ride il Kiwi. Molto sexy”.
“Lo metto quando non mi serve essere sexy” lo fulmino. Sono
nera. Prima mi rifiuta e poi mi prende in giro.
“Touchè” mormora. “Ti porto a fare colazione”
Nel tragitto Bart si shciarisce la voce.
Tre anni
Ho passato due anni a esplorare l’Europa. Per un anno non ho
sentito la mancanza di nessuno, ne’ familgia ne’ amici. A volte mi
venivano degli spifferi di freddo nel petto come se avessi lasciato
tante porte aperte e tanti discorsi in sospeso. Ho tenuto duro e ho
continuato a viaggiare. Dopo un anno e mezzo avevo nostalgia
del mio paese: le sue contraddizioni, i colori e la poesia. Ho
stretto i denti e alla fine sono tornato a casa stremato con tanta
voglia di mettermi in gioco qui a casa. Studiare, avere il mio
ristorante, scavare fino alle origini mie e della mia famiglia.
Ora ho delle priorità che sto concretizzando e la vita amorosa
non è per il momento tra quelle. Non ho la testa di pensarci. Tutto
il resto mi assorbe come una spugna rigonfia di acqua che diventa
pesante ogni giorno di più.
Non so cosa tu voglia da me, ma sono felice di averi qui, anche se
ho poco tempo da darti....
Mi vuoi aspettare tre anni?
Telefono casa
“Pronto.” La voce gentile e squillante della mia mamma.
“Mamma sono io.”
Silenzio dall’altra parte.
“Mamma sono tua figlia!”
“Ciao cara!!!Come stai!” l’ugola ha un’impennata tanto da farmi
vibrare il timpano. “Walter, tua figlia in linea!”
Immagino mio padre fare un balzo semi felino dall’amato
condizionatore alla cornetta. Ora li ho entrambi in mondo-udito,
uno in sala e uno in stanza a parlare simultaneamente.
“Rosaria ora tocca a me dire qualcosa!” sentenzia serio il
genitore dopo il monopolio vocale della genitrice: “Come stai?
Dove sei? Torni? Seguo i tuoi spostamenti sull’atlante.” ecc, ecc.
“ Abbiamo già affittato camera tua!” sghignazza Walter.
“Non gli credere. Non è vero!”. Mia madre ci casca sempre.
“Qui tutto bene, ragazzi, non vi preoccupate.”
“E Bart?” sollecita mia madre.
“Sta bene.” una lieve fitta al cuore.“Vi devo salutare ora. Vi
chiamo presto. Ve lo prometto”.
“Ma senti ancora Vitaly o è già migrato in Siberia?” chiede mio
padre.
Ecco cosa dimenticavo! “Non ne ho la piu’ pallida idea.” E qui
tra baci virtuali, lacrime materne e scherzi paterni riattacco.
Senza pace
Te ne sei andata mentre stavo male. Male da morire.
Per me c’eri solo tu
Mi avresti salvato.
Accanto a te dormivo, speravo, sognavo.
Ed ora tutto si è distorto.
Uno specchio malato ed un’anima arida.
La mia. La tua.
Per me c’eri solo tu.
Mi avresti salvato.
…………………..
Wonder woman
Trent’anni, giornalista. Scrive articoli sullo sviluppo sostenibile e
sull’ambiente, vive in Colorado alla base delle montagne.
Una valchiria, un amazzone, un caporale, un cyborg.
Le sue passioni sono tre. Scalata libera, fotografia, Miriam.
Miriam è la sua donna, la sua amata, la sua musa.
“Sono pazza di lei. Non vedo l’ora di rivederla. Sto contando i
giorni.” estrae la sua foto dal diario e ce la mostra.
La sua ragazza ha vent’anni, ha i capelli rossi e gli occhi verdi. È
bellissima.
“La mia amante, la mia bambina, la mia migliore amica. Per lei
ucciderei. Fermati Erin, Dio! guarda che spettacolo!”
Ballata fangosa
Sono fradicia e trasudo fango.
Ho rametti incastrati nelle scarpe.
Ma con questa pazza a lungo non ci rimango.
Nella testa deve avere una piantagione di rape.
Piagnucolo e mi lamento.
Ho perso anche il segno rosso.
Quanto tornerei bambina per un momento.
Un moscone morto mi si spiaccica addosso.
Il guidatore
Erin ed io sul ciglio della strada. Odio fare l’autostop, non mi
sento sicura e non mi fido della gente. Erin però mi convince: “Ci
puoi scrivere un articolo sopra.” Allora siamo qui, sorriso
accattivante e capelli al vento finché una Mitsubishi Magma
accosta. Un signore sulla quarantina abbassa il finestrino. Porta
dei grossi occhiali neri e delle visibili macchie scure gli segnano
il viso. Penso subito che abbia qualche malattia infettiva e tiro
Erin per una manica. Il segnale: “Non salire!” lei mi indica il
cielo. Sta arrivando un temporale e non abbiamo altra scelta.
“Ci può dare un passaggio fino a Dunedin?”
Il tizio abbozza un ghigno, ha le labbra blu. Salgo di dietro e mi
tengo vicino lo zaino. Ho il coltellino svizzero a portata di mano
nel caso dovessimo difenderci. Questo tizio mi angoscia. Appena
Erin si siede davanti lui sgomma via a tutta velocità. Accelera al
massimo facendo lo slalom tra le macchine nella corsia.
Erin si gira e mi guarda spaventata. Che cavolo sta facendo?
Così ci uccidiamo!
“Non potrebbe rallentare un po’ per cortesia?” gli chiede.
Per tutta risposta lui contrae le labbra in un sorriso e le sue
macchie si accartocciano ancora più in evidenza.
“M-ma Dunedin era dall’altra parte. Noi dobbiamo arrivare a
Dunedin!!!” dice Erin con un filo di voce.
“Devo fare una deviazione. Poi vi porto a Dunedin.” la voce
metallica del tizio squarcia la nostra nube di paura.
Arriviamo ad Alexandria, una piccola città nel mezzo di niente.
Quando ci fermiamo davanti ad una fattoria isolata un gelido
pensiero mi attraversa la mente: è finita. Una signora in
grembiule ci viene incontro.
“Peter che sorpresa! Come stai? E queste signorine?
Backpackers immagino. Venite dentro che vi offro una tazza di
tè.” Confuse seguiamo la signora, che ci accoglie in una bella
casa. Scopriamo che Peter, il guidatore taciturno, è il fratello
della padrona di casa rimasta vedova da poco.
“Mio fratello è tanto bravo. Mi viene spesso a trovare anche solo
per qualche ora.”
Erin mi lancia uno sguardo di vittoria del tipo: “Vedi, te l’avevo
detto.”
Sempre in silenzio Peter ci porta a Dunedin e ci lascia davanti ad
un ostello. “Questo costa poco ed è pulito.” Così dicendo riparte
a tutta velocità.
Maorizzata
Ciao sono viva. Dopodomani torno a Wellington e poi si vedrà
cosa il Caso metterà sul mio cammino (messaggio in codice:
posticipo il volo). Scusa per la scarna comunicazione dei giorni
scorsi ma mi trovavo in luoghi sperduti con due americane
(messaggio in codice: due folli!). Con una di queste ho proseguito
il viaggio di ritorno verso Nord. Una fanciulla a dir poco
avventurosa (messaggio in codice: una rompipalle paurosa). Ora
ci troviamo a Nelson in un comodo ostello a giocare a dama
(messaggio in codice: vegetare come sedani)
Tu tutto bene? (tradotto: prima o poi chiamerò).
Alice
Capitolo 3
Dall’Isola Sud all’Isola Nord
De Kiwi slang
Sweet as: è traducibile con “grandioso”,”che figo!” ed un
possibile: “ma vieni!” Letteralmente sta per “dolce come”.
Esempio:
Chi propone: “Andiamo a rotolare giù dalla collina.” o
“Balliamo nudi sotto la luna.” o “Facciamo finta di essere aironi
in amore.”
Chi accetta: “Sweet as!”…da non confondere con l’australiano:
“Sweet ass.” Tutta un’altra storia.
Choice: medesimo significato di grande apprezzamento con una
leggera variante. Alle party-idee proposte chi si trova coinvolto
coglie l’input rispondendo: “Questa sì che è la scelta migliore. La
scelta con la S maiuscola.” Data la pigrizia leggendaria dei Kiwi
il tutto si riassume in un’unica parola: Choice!
“Ma i neozelandesi si fanno tutti questi viaggi mentali?” No,
sono modi di espressione entrati in circolo, plasmati sulla cultura
del posto.
“Handle the jandal”: Letteralmente significa: “Maneggiare il
sandalo” In gergo: “Frena, non fare rumore per nulla. Non
impazzire per una cosa da niente.”
E’ anche il nome di un famoso concorso di videoclip musicali che
ha luogo a Wellington.
Bart si anima a cercare radici gergali perse nella sua lingua e per
fargli piacere gli faccio un sacco di domande. Abbiamo due
prospettive ineguali di una stessa superficie prismatica; lui dentro
un mondo di immagini e parole e io fuori come osservatrice. E
viceversa a volte sono io a imporre la mia anima latina nel
prenderlo per il braccio o cercare il contatto fisico, spaventandolo
a morte.
Ovviamente tra noi non succede nulla; nessuna dichiarazione di
amore folle né alcun tentativo di abbraccio letale, solo qualche
reciproco sguardo affettuoso.
La Singapore Airlines mi fa posticipare il volo di quasi tre
settimane. Così posso iniziare lo stage il 3 ottobre, calcolo.
Tuttavia ignoro che la sorte, e un hombre latino complicheranno
tutto. Metto al corrente i miei genitori del fatto compiuto,e loro
reagiscono con un sospiro rassegnato Mando un messaggio anche
a Vitaly: “Mi hanno preso per lo stage e comincio a ottobre.
Rimango qui un altro po’. Tu tutto bene?”. Il tatto telegrafico che
mi contraddistingue. La sua risposta mi sorprende:
“Non ti preoccupare. Ti meriti una lunga vacanza se hai ottenuto il
lavoro.”
Ha una voglia di vedermi che straborda da ogni centimetro della
pelle.
Mi lancio nelle strade di Wellington per cercare lavoro stringendo
scettica tra le mani qualche curriculum. Cosa potrebbe infatti
interessare al ristorante cinese ChienChien il fatto che ho gestito
l’attività di redazione di Moleskine-appunti erranti, o che mi
sono laureata in Sociologia alla Bicocca di Milano? Non posso
puntare a un lavoro come corrispondente dell’Internazionale tra i
maori, ma a qualcosa che mi permetta di sopravvivere. “Poveri
disgraziati quelli che ti assumeranno come cameriera. Con tutti i
sacrifici che avranno fatto ad aprire il ristorante!” ha commentato
mio padre. Vago per la capitale, guardandomi in giro come un
segugio finché mi decido a entrare in un lussuoso Centro di
Conferenze, uno di quegli ambienti incastonati di specchi con il
personale in divisa, cortese e sorridente, senza colori nè tinte
esistenziali. Mi accoglie un signore grande e grosso che
assomiglia al classico pappone russo da film. Mi dice concitato
che vuole assumermi, mettendomi nel frattempo sotto il naso una
decina di plichi di carta. Quando coglie la mia espressione
perplessa mi dice scrivergli solo due cose: 1) il mio Inland
Revenue Number, 2) il numero del mio conto in banca. Lo guardo
a bocca aperta. Non so neanche cosa sia il In equalcosanumber. E
poi…quale conto in banca??? Il pappone russo si deprime per un
istante ma poi come se fosse un robot che si accende e spegne a
comando riparte in quarta. “Non ti preoccupare, ti assumo. Prima
però devi mandare un modulo al Ministero dell’Economia che ti
spedirà il tuo numero personale e che ti permetterà di aprire un
conto in banca. Senza questi non puoi neanche andare a cogliere le
mele.”. Dal numero che ti affibbiano ne ricavano quanto guadagni:
se sei un agricoltore quante mucche hai e se sei un viandante in
quanti e in quali posti hai lavorato e a quali ortaggi ti sei dedicato.
Sconsolata vago per pub e ristoranti, offrendomi come kitchen
hand, cameriera, bar-woman e trapezista. Senza quel numero i
fogli di carta che raccontano la mia vita rimangano lì immobili e
ignorati. Entro in un ristorante indiano come ultimo tentativo e un
piccolo uomo vestito in bianco e nero, colori internazionali della
categoria camerieri, mi si precipita incontro. Con occhi stanchi e
in modo meccanico mi dice: “Da portar via?”. Gli spiego che non
sono lì per il take away ma per un lavoro, al che i suoi occhi
scintillano in modo strano. Mi dice di ripassare tra due ore per
parlare con il capo. Torno al Rosemere, una reggia in cui
condivido bagno e cucina con circa quaranta persone e la mia
camera è un dormitorio da sei. Anche se per ora siamo solo Julia
ed io, temiamo il peggio a ogni alba.
L’amante perduto
Leandro: Ma come Alice, non ti ricordi di me??? Sono io,
Leandro, il tuo amante!!!
Alice: ??????
Leandro: ma sì…come puoi avermi dimenticato???
Alice: (scorro mentalmente tutti le feste etiliche opache nella
memoria e frugo tra strati di vodka?). Scusami…ma dove ci
saremmo conosciuti….e quando saremmo stati amanti?
Leandro: Nella vita precedente. Non ti ricordi?
Il brasiliano non sta scherzando, è serio.
3.4 Adelante
I fatti di quel sabato mattina mi ricordano delle lampadine
fulminate. Con Sema e Julia dopo aver portato a termine la
spedizione: “Trova una divisa da cameriera per Alice.” andiamo a
prendere un caffè allo “Sweet Mother Kitchen” incrociando un
Bart, come al solito, in fuga. Julia gli sorride con malizia mentre io
lo maledico in silenzio. I vari personaggi di questa strana
avventura si stanno incrociando e mischiando.
Alla sera entro combattiva da Tulsi con il mio nuovo completo da
cameriera modello, ma passo completamente inosservata: né un
“Ciao.”, né un “Come stai?” Riecheggiano solo comandi: “Lava i
bicchieri, apparecchia i tavoli.” Al ritmo frenetico si aggiunge
l’incomprensione linguistica dell’hindi-inglese. Quando i
camerieri mi sibilano veloci ordini, devo darmi delle opzioni.
“Dunque… mi hanno detto di fare: A, B, C. A = portare l’acqua al
tavolo ventidue, B = preparare una coca per il tavolo cinque, C =
andarmene a quel paese…o in cucina.” Il range di comprensibilità
spazia ampiamente e non so quanto resisterò così sottomessa. Non
so quando alla rivolta alcolica silenziosa aggiungerò qualche
invettiva e lancio del pugnale.
Mi do da fare al meglio. Provo anche a mettere qualche piatto in
fila sul braccio scatenando scene circensi che Monty osserva
rassegnato attraverso il vetro della sua sesta Tui. Pulisco lordure
varie, mi aggiro smarrita tra i tavoli che hanno la solita
numerazione da cabala e obbedisco in silenzio. Alla fine della
serata chiedo a Naji a che ora devo cominciare. “Non abbiamo
bisogno nel week-end per cui torna venerdì prossimo.” Mi
risponde, facendomi rimanere di sasso. Dal nervoso mi vengono le
lacrime agli occhi, ma le ricaccio giù con rabbia ed esco.
Comincio a correre verso l’ostello, fermandomu solo per afferrare
una birra. Idiota io e bastardi loro!
Sotto sembianze di tempesta sahariana entro in cucina
spaventando Lusky, che rimane in rispettoso silenzio quando mi
siedo davanti a lui e mi attacco alla birra. “Serata pesante?” mi
chiede flebile Lusky. Come risposta emetto un grugnito. Nel
frattempo Terry è apparso sulla scena con un lungo vestito viola e
delle enormi tette finte che sono o manghi australiani o avocadi
sudamericani. Mi guarda. “Cara sei perfetta vestita così. Datti una
sciacquata che andiamo alla festa di alcuni ragazzi cileni. Quanto
mi piace il sangue latino!” E scompare per le scale. Ri-grugnisco
perplessa: “Vieni anche tu?”
“C’è alcol?”chiede. “E io che ne so?” In realtà lo spero. La veritá è
che l’americano vorrebbe venire ma teme Terry alla follia e
rimane al buio accucciato sulla panca. Dal canto suo Terry odia
Lusky con ferocia.
Mi incammino verso la bolgia serale con Terry, Lizie e Thomas
verso la Terrace, la zona più “in” di Wellington. Come capita
spesso in questa città è una sera ventosa, senza nubi e con la via
lattea impressa sullo sfondo blu.
La casa dove si svolge la festa è una villetta nascosta dal
passaggio pubblico e con un piccolo giardino. Sulla soglia ci
accolgono quattro ragazzi con birra in mano e sigarette in bocca.
Hanno gli occhi fiammeggianti e il sorriso vivace tipici dei sud
americani. Due di loro mi colpiscono perchè molto affascinanti.
Sono particolarmente attratta dagli uomini bruni e scuri di
carnagione mentre i biondi mi ricordano di solito la carta velina,
non troppo eccitanti. I bruni invece hanno fascino, mistero e mi
trasmettono passione e inquietudine. Sarà anche per questo che
tutti i miei ex ragazzi assomigliano per fisionomia a membri del
Mossad, profughi curdi e ayatollah iraniani. Ho avuto una sola
volta e per poco tempo un ragazzo svedese, biondo e pallido,
ricordato da mio padre con infinita compassione maschile.
I due ragazzi che mi ispirano pensieri e azioni nefaste sono cileni
come la maggior parte degli invitati/intrusi alla festa. Uno si
chiama Carlos e ha più alcol in corpo di un babà napoletano.
Carlos mi ripete in continuazione l’unica parola che conosce in
italiano:“Maledetta” che alterna all’unica frase: “Non capisci
niente.” Intermezza il tutto con un ricorrente interrogativo: “Un
beso?” Mi diverte. L’altro ragazzo mui caliente è alto, ben fatto e
porta i baffetti alla Castro. Al contrario di Carlos è silenzioso,
ubriaco perso ma calmo. Mi sorride timidamente. Si chiama
Cristiàn.
Il vento neozelandese mi spinge dentro casa finalmente fuori dalle
grinfie di Carlos e fra quelle di altri sei cileni. Un tizio mi afferra
per il braccio, mi barcolla addosso e alitandomi in faccia un mix di
vino, sangria e birra mi dice: “Balla con me bella donna. Mi piaci.
Da dove vieni?” Questo ragazzo in impermeabile giallo, gli
occhiali da primo della classe e un ciuffo di capelli che gli copre
entrambi gli occhi non mi molla più. Disperata mi guardo intorno
e vedo Thomas che appoggiato al muro mi guarda. “Thomas
dammi una mano, liberami.” lo supplico mentre l’ubriaco tenta di
trascinarmi nel bel mezzo del soggiorno. “Mi dispiace. Io non
sono Thomas. Sono solo un’entità, non esisto.” risponde triste il
Gufo. Il mio campo visivo avvista Terry che si sta esibendo in una
danza da Geisha davanti agli occhi attoniti di sbronzi e meno
sbronzi. Vederlo ballare così deve avere l’effetto di una doccia
fredda. “Da dove vieni bella chica? Sei tedesca?” continua
l’Impermeabile giallo. “E dai è la seconda volta che me lo chiedi.
Sono italiana. I-T-A-L-I-A-N-A.” Mi guarda con affetto etilico: “
Lo sai che adoro le donne tedesche. Eine kuss?”
“Gaspar lasciala stare. Non vedi che le dai fastidio?” Una voce
chiara e non intossicata dietro di me. Mi giro e vedo un ragazzo
alto, magro con l’aria sognante. Gentilmente mi allontana dalla
presa del polpo, seguito da un breve scambio di botta e risposta tra
i due in spagnolo. Lo scoppio di una rissa tra un ragazzo argentino
e uno cileno per una donna neozelandese ci distrae. Partono mani,
minacce, apprezzamenti della reciproche madri, una bella rissa in
stile latino con gente intorno che separa i due duellanti
aumentando il caos. I corpi in lotta sono sempre più vicini al mio
naso e mentre faccio supposizioni sociologiche rischio di
prendermi un pugno. Mi salva per la seconda volta il ragazzo alto
con l’aria sognante il quale mi afferra per il braccio: “Meglio se ci
togliamo da qui.” La rissa scema velocemente come un alveare di
api scacciate da uno spray mortale. I corpi tornano distinguibili.
Cristiàn guarda la scena dalla soglia e scuote la testa lanciando
un’occhiata interrogativa al mio salvatore. Poi svanisce nella sera
e nel vento.
“Mi chiamo Alejandro e vengo da Santiago del Cile. Che degenero
qui!”. Si presenta. È un bel ragazzo, ma si vede che è più piccolo.”
“Quanti anni hai?” lo scruto. Arrossisce “Venti.” Un bimbo
praticamente, anche se è simpatico ed è l’unico qui che possa
sostenere una conversazione sobria. Mi dice che dopo aver finito
le superiori ha deciso di passare un anno in Nuova Zelanda e che
lavora per poche ore al giorno in un bar a Wellington.
“Mia madre piange ogni volta che la chiamo.”Sorride rassegnato.
“Ma che ci posso fare? Vorrei anche viaggiare nell’isola Sud, ma
non ho abbastanza soldi per muovermi da Wellington.”
“Trovati un lavoro full time allora.”gli suggerisco mentre mi
guardo intorno. Temo un vigliacco assalto di Gaspar.
“Mi va bene lavorare poche ore al giorno. Non ho voglia di fare di
più.” Alejandro si stringe nelle spalle come per dire: “Che ci posso
fare se sono pigro?’’
“Allora bella tedesca vuoi ballare conmigo. Ti farò girare la testa.”
Ecco Gaspar alla riscossa. Da come cammina la testa deve girare
molto a lui. Come un carosello. Sia Gaspar e Alejandro si
bloccano quando vedono Terry piroettare verso di noi, fluttuare
con un garofano in mano preso non so dove e lanciare loro
occhiate piene di malizia. “Ma è una donna?” Mi chiede Alejandro
basito. “Beh…no, è Terry” rispondo, confondendoli ancora di piú.
Non so come mi trovo Terry a un centimetro dalla mia faccia, è
ubriaco. “Sei così bella cara. Hai due occhi stupendi” Appunto, è
ubriaco. Da così vicino vedo che ha un ombra di peluria sotto il
labbro. In questo preciso istante è così vicino che penso voglia
fare l’Hongi, l’usanza maori di naso contro naso. Ed invece Terry
mi bacia delicatamente sulle labbra per quelli che sembrano
secondi eterni, poi mi sorride e fluttua via. Alejandro e Gaspar mi
guardano con due facce contratte dall’imbarazzo.
“Ti ha baciato una donna! Sei lesbica? Wow. Mucho gusto.”
commenta Gaspar.
“Ma non hai capito che è un uomo?!?” gli risponde secco
Alejandro.
“Ho bisogno di una boccata d’aria.” fuggo fuori. Carlos e Cristiàn
stanno ancora fumando e gesticolando. Appena mi vedono cala il
silenzio. Carlos ha un sorriso ebete dipinto sul volto e ricomincia
con la solita litania del “Maledetta-non capisci niente- un beso?”
Non mi risulta più molto caliente, ma solo buffo. Cristiàn sta
andando via, ha uno zaino sulle spalle e una giacca marrone. Gli
lancio un’occhiata di sfida: “Dimmi qualcosa…sei capace solo di
guardare di soppiatto?” Lui intuisce, sorride, mi si avvicina e mi
sussurra all’orecchio: “Ciao ragazza dagli occhi blu. Ci vediamo
giù, ci vediamo all’inferno.” poi se ne va.
So che sono arrossita, so che ho il sangue che si è trasformato in
lava magmatica, so che ho lo spirito in ebollizione. Spero di non
vederlo più. Almeno per un po’ basta con gli uomini e soprattutto
con quelli che potrebbero scatenare fulmini e saette. In casa la
situazione è al massimo del degenero.
Fuga in due
In Svizzera mentre ero incinta sono stata picchiata dal mio
compagno e padre di Jade. Due volte mi ha spinta dalle scale.
Non ho però mai detto niente né a mia madre né a mia sorella.
D’altro canto loro non mi hanno mai chiesto nulla.
La Svizzera è una nazione che ti fa sentire freddo dentro, ognuno
così falso e attento solo alle apparenze. Tutti se ne fregano di
come stai. Persino i tuoi stessi parenti.
Dopo che è nata Jade ho deciso che non potevo più continuare a
vivere lì. Tutta la mia famiglia si era schierata contro di me
quando ho annunciato di voler lasciare il mio compagno.
Allora ho deciso. Ho comprato un biglietto aereo per Brisbane,
ho avvolto mia figlia nella fascia, ho lasciato un biglietto a mia
sorella e a mia madre e me ne sono andata.
Non ci voglio più tornare in Svizzera. Continuerò a viaggiare
finché non troverò il posto adatto in cui vivere.
Con la mia famiglia non ho più contatti. Non mi capiscono e
soprattutto non mi conoscono.
Per loro sono come un’estranea.
Ne segue una polemica sul fatto che dopo cinque anni di università
sia qui a fare la cameriera. “Ma chi se ne frega!!!” sbotto io: “Tu
ristudia la geografia e poi ne riparliamo”.
La conclusione assume una nota tragicomica.
Capitolo 4
Giornate agitate
L’ira di Napoleone
Nicolau: Davvero sei Italiana?! Complimenti allora.
Alice: Per che cosa…ah sì! Il calcio. Grazie, grazie. Voi rimanete
i migliori comunque. Quante volte avete vinto la Coppa del
mondo?
Nicolau: Cinque volte in tutto. Voi invece quattro mi pare.
Alice: Già. Era dall’82 che non vincevamo.
Nicolau: Siete stati grandiosi!
Alice: Impariamo da voi brasiliani Signori assoluti del calcio
Didier: Ma la finite!!!! Siete tronfi come dei pavoni. Tu che sei
italiana dovresti stare solo zitta! (il francese sta lavando un piatto
con tanto ardore che sembra voglia specchiarsi)
Nicolau: È inutile che borbotti come una pentola di fagioli. Sei
solo invidioso. Non è che adesso ci prendi a testate (riferendosi
malignamente alla famosa testata di Zidane a Materazzi).
Il francese prende malissimo lo scherno e ci fissa con gli occhi
iniettati di orgoglio patriottico.
Didier:Avremmo potuto vincere se quell’italiano idiota non
avesse pesantemente insultato il..
Matthias
Bello, alto, biondo, giovane. Ha vent’anni. È tedesco ed è partito
qualche mese fa da Berlino.
Anche lui un backpacker come gli altri, anche lui all’avventura.
Stessa storia.
È senza soldi ora. Gli ha spesi tutti in birra e divertimenti a
Nelson.
Stessa storia.
Ha quest’aria da panda con la congiuntivite che di solito piace
molto alle donne.
Non a me però, senza mistero.
Ha il fascino di un cetriolo annacquato.
Il carisma di un cestino di vimini.
Parla tanto, ma non dice niente.
È divertente come un tonno in scatola.
Forse perché ha cominciato a raccontarmi la storia della sua vita
e non si ferma più.
Matthias sicuramente piacerai un sacco a Julia e a David.
Lui va pazzo per i Biondi.
Venerdì mattina vengo svegliata dalla voce roca di Monty. “Ci sei
stasera?” Per un attimo non so cosa rispondergli. Vorrei fargli
un’esaustiva pernacchia, ma opto invece per una mite conferma,
per due ragioni. In primis per i soldi. Pochi, molto pochi ma
sempre soldi. Non so neanche quanto ma Nico mi aveva parlato di
dieci dollari all’ora. In secundis per la prima volta mi pagheranno.
Dopo aver lavorato gratis per due sere non posso dare loro la
soddisfazione di avermi COMPLETAMENTE spremuto come un
limone. In piú anche Diane mi chiama, dicendomi che oggi non
hanno bisogno di me al ristorante, facendo crollare speranze di
ulteriori guadagni.
Scendendo le scale mi imbatto in Amanda che mi porge un
biglietto da parte di Sema.
“Se ne è andata, non l’ha detto a nessuno ma ha lasciato questo per
te.”
La mia amica ed io abbiamo lo stesso stile della fuga silenziosa,
senza abbracci, lacrime, o saluti.
Nessuno però l’aveva mai fatto con me fino ad ora e devo
ammettere che fa male. Mi siedo in veranda vicino a Ken a
leggere.
Poche righe
Cara amica, ricominciamo a correre. Via verso il Sud alla ricerca
dei fiordi per Jade e delle montagne per me. Lascio Wellington
con tristezza. Per i ragazzi dell’ostello, per le torte meravigliose
dello Sweet mother’s Kitchen, per il porto illuminato.
Per te mia cara che mancherai ad entrambe. Jade ti cercherà in
ogni nuovo volto sperando di riconoscere il tuo sorriso. Io non
dimenticherò la quiete che per poco abbiamo condiviso.
Siamo simili noi due, anche tu fuggi via silenziosa seguendo
l’istinto.
Allora non essere arrabbiata con me, so che puoi capirmi.
Come la sorella che avrei voluto avere. Come la sorella che avrei
voluto dare a Jade.
Solo poche righe per sorriderti da lontano.
Poche righe per augurarti di essere felice.
Continua a viaggiare e pensa a noi.
A Sema e Jade.
Con affetto
Alle sette sono al ristorante. Un’ora più tardi rispetto alle scorse
volte così Tulsi risparmia. L’atmosfera è tesa. Appena avvisto
Monty capisco che è nervoso. Il cameriere magro con gli occhiali
mi si avvicina: “Nico si è licenziata.” Un brivido freddo mi
attraversa il corpo. Vuol dire che sono l’unica addetta ai cocktails.
Nico se ne è andata senza preavviso e questo ha fatto arrabbiare il
capo. Mi chiedo cosa pretenda se tratta i camerieri come guanti
monouso. Inoltre da Tulsi non è necessario né l’Inland number, né
il conto in banca e si è pieni sostenitori del lavoro in nero.
Con questi pensieri in testa porto delle birre a un tavolo di giovani
uomini. Neanche a farlo apposta rompo un bicchiere mandando
Monty su tutte le furie.
Mi prende per un braccio: “Che cavolo fai? Mi vuoi sabotare
anche tu? Guai a te se succede ancora.” Il bastardo non solo mi
minaccia ma mentre parla sputacchia salsa piccante ovunque. Mi
sembra Jade quando ha paura e si sbrodola tutta, solo che
quest’uomo non ha un decimo della sua grazia.
La mia ira sale. La sento crescere nello stomaco e cerco invano di
bloccarla. La situazione precipita.
Due anziani signori mi chiedono di avere altro riso in bianco.
Vado in cucina e lo estraggo da un pentolone abbandonato. Ne
metto un bel po’ nel piatto e lo porto ai clienti. Non mi viene
neanche in mente che l’extra ciotola di riso sia da pagare.
Dopo pochi minuti Monty mi blocca ancora il braccio in una
morsa a tenaglia: “Allora è vero che mi vuoi rovinare disgraziata!
Cosa ti salta in mente di regalare così il riso alla gente. Guarda che
costa!” Neanche gli avessi rubato quel grosso anello di diamanti
che porta al mignolo.
Ormai l’ira mi asserraglia il cuore. Se arriva al cervello e lo
espugna non ci sarà più nella da fare, scoppierò.
Passo tre ore di inferno tra gli ordini confusi da Naji, duemila
bicchieri da pulire e bottiglie di spumante da aprire. Mi parte
anche un tappo di champagne che fa gridare una ragazza isterica.
Mi giro e vedo Monty che non mi guarda, mi sbrana. Inoltre faccio
un po’ di confusione con le comande: alcune invece di
consegnarle al laido cassiere le butto. Naji se ne accorge e le
recupera in silenzio perchè proteggendomi fa il suo interesse. È lui
che mi ha arruolato qui.
Quando il locale si svuota cerco di mettere a posto il mio piccolo
ufficio da alchimista: il tavolo dei cocktails. È a questo punto che
noto su un piattino un limone tranciato in fette enormi. Queste
fette dovrebbero scivolare nelle bottiglie di Corona, ma così
tagliate non passerebbero neanche per il Canale della Manica. Da
scrupolosa cameriera li rimodello in pezzi più piccoli.
“Che diavolo fai?” alla mia sinistra scoppia un tuono. “Quel
limone l’ho tagliato io. Come ti permetti stupida?!” Monty mi
ringhia addosso.
Allorché non mi tengo più.
Con decisione lancio il coltello che ho in mano nel cestino del
ghiaccio, facendo sobbalzare l’indiano.
“Questo limone era tagliato da schifo. Non ci sarebbe mai passato
in nessuna delle tue dannate bottiglie di CORONA.” Sibilo come
un bassotto asmatico, lo punto come un cobra affamato e alzo la
voce alla parola “Corona.” Una poco velata minaccia di dare in
escandescenze davanti agli avventori rimasti.
A Monty si formano tante grinze agli angoli della bocca come se
si stesse decomponendo, poi si guarda veloce in giro. Per fortuna
la gente non si è accorta di nulla, troppo intenta a mangiare il riso
fossile.
“Per favore non urlare.” il capo assume un’espressione docile e
remissiva. Prova a sorridermi: “Fai come vuoi. Sei tu l’addetta ai
cocktails.”
Sono troppo fumante per rispondergli. Continuo ad accoltellare
limoni per altri dieci minuti prima di calmarmi. Gli altri camerieri
si sono barricati in cucina.
Verso le undici Naji mi dice di smontare. “Siediti, ti porto
qualcosa da mangiare. Sei stata brava oggi.” Monty appoggiato al
bancone trangugia la sua amata Corona. L’ottava se non ho
contato male.
È la terza volta che lavoro qui ed è la terza volta che mangio riso e
pollo. La stessa ricetta e la stessa salsa. Ceno in silenzio perché
voglio andarmene da qui al piú presto.
Prima di uscire però mi piazzo davanti a Monty.
“Domani a che ora?” gli chiedo fredda.
“Domani no. La prossima settimana, martedì o mercoledì. ”
risponde ubriaco.
“Quando mi paghi?”
“La prossima settimana”
“Quanto?”
“Lo stesso che davo a Nico. Dieci dollari all’ora.”
Finalmente sono fuori. Respiro aria e non cibo indiano. I miei
vestiti puzzano di curry e dal e mi sento come se fossi stata
intrappolata in un pentolone.
Raggiungo Thomas e le due amazzoni davanti al teatro.
“Dobbiamo aspettare anche Leandro. L’ho invitato a uscire con
noi.” dice Julia.
Thomas elegante per il balletto si fa torvo. Sospiro. Una serata con
il Gufo, Julia, Susie e il Mago dei tarocchi. Ora capisco perché le
persone iniziano a fare uso di stupefacenti.
A passo molto lento ondeggiando in quella sua giacca nera di pelle
che lo rende ancora più basso compare Leandro, sempre con un
sorriso sornione e gli occhi semichiusi. Appena lo vedo l’anima mi
si rischiara. A differenza di Thomas, il brasiliano emana
un’energia positiva, che ti rende allegro solo a guardarlo. Sembra
protetto da un bozzolo di serenità.
Il Gufo invece è un buco nero armato di irrequietudine. Difficile
non sentirsi soffocare vicino a lui.
Entriamo in un oscuro buco-pub di nome Tunnel.
L’ambiente interno si ispira al film di Tarantino: “Dal tramonto
all’alba.” Una band sbucata direttamente dall’Ade si esibisce sul
palco. Il cantante si esprime in singulti e ruggiti. Dentro non si
vede praticamente niente, ma sembra di sentire gli ultrasuoni,
tanto che mentre siamo seduti a un tavolo stile bara a un tratto
vediamo i nostri bicchieri sobbalzare.
“Hai visto come spacca questa musica?” mi fa concitato Leandro.
Più che spaccare perfora i timpani. Prendo un VO: vodka and
orange juice, anche se un tè verde sarebbe più alcolico. O mi
hanno rifilato la tisana della nonna oppure sono io che ho abituato
troppo bene i clienti di Tulsi.
Intanto un tizio alto, magro e con la giacca a riccio piena di aculei
ci prova prima con Julia, poi con Susie e infine con me. Ci sta per
provare anche con Leandro, ma si rende conto in extremis che non
è poi così ubriaco. In quel frastuono mi chiama Bart,
costringendomi a uscire perché qui dentro non riesco neanche a
sentire il mio respiro.
Il Kiwi è a casa raffreddato: “Hai sentito il terremoto?! Pazzesco
qui a casa si sono messe a tremare le pareti. Non ti sei spaventata,
vero?”.
Deduco che i bicchieri non erano posseduti quindi dal demone
della musica.
“Veramente non ce ne siamo neanche accorti.”
“Come non hai sentito nulla?!?. Ma se tremavano i muri!”
esclama pieno di disappunto. “Dove diavolo sei?. Non mi dire che
da Tulsi non ti sei accorta di nulla. Lì hanno i muri fatti di cartone
tanto sono spilorci!”
“Sono al Tunnel.”
“Ahhhh adesso ho capito tutto. Lì non sentiresti neanche i
bombardamenti” fa una pausa sorpreso. “Ma ti piace quel posto?”
“Quando sarò nell’Inferno dantesco in uno dei tanti gironi
sicuramente lo apprezzerò di più.”
Il Kiwi ride: “Sei proprio buffa. Dai vado a dormire ora.”
Non so quanto abbia colto del mio riferimento letterario, ma al
mio amico ricordo sempre piú un manga giapponese.
Non che la cosa mi dia fastidio, anzi lo apprezzo. A volte però
vorrei che mi dicesse qualcosa del tipo: “Sei super sexy!” oppure:
“Se ti guardo troppo mi trasformo in un lupo mannaro.”
I miei amici mi raggiungono fuori.
“Andiamo a ballare in un locale che conosco.” suggerisce Julia.
Poi rivolta a me con un mezzo sorriso: “ Sta proprio davanti al
ristorante indiano in cui lavori.”
È una persecuzione. Tuttavia Wellington è talmente piccola che
quasi tutti i locali si concentrano in Cuba Street.
Vorrei eclissarmi e andare a dormire, ma Thomas mi sta
appollaiato sulla spalla e sembra lanciare la campagna: “Adotta un
gufo solitario.” Magari fosse: “Adotta un cileno affascinante.”, ma
purtroppo mi devo accontentare. Mi chiedo cosa stia facendo
Cristiàn in questo momento. Probabilmente sarà nel girone dei
lussuriosi con qualche fanciulla.
Leandro ormai è partito a passo di samba in strada.
“Noi latini abbiamo il ballo nel sangue.” ammicca il brasiliano.
Il locale è piccolo e stra pieno. Non ci si può quasi muovere. Se mi
fossi immersa nell’olio di oliva forse adesso riuscirei a scivolare
tra la folla. La musica è un mix tra R.n.B e minus techno, una
combinazione allucinante.
Thomas si accascia tristemente su uno sgabello, Julia e Susie
sedute ad un tavolo si camuffano con la tapezzeria.
Leandro si butta in mezzo alla pista, comentandosi nel: ballo di
Miyagi.
Il vuoto intorno.
Il ballo di Miyagi
Ecco qualcosa che ti renderà famoso.
Come? Segui Mr Leandro dalle mille vite e sei subito leggenda.
Ti piazzi al centro della pista in una discoteca iper piena,
ovviamente senza toglierti la giacca di pelle che hai addosso.
Lancia un grido da pellerossa zoppo.
Piega la schiena come se avessi un attacco di lombosciatalgia.
Allunga le braccia il più possibile ed incomincia a muoverle in
modo concentrico. Come se disegnassi con un bastone tanti cerchi
sull’acqua.
Dai e togli la cera come lo storico maestro in Karate Kid: Mr.
Miyagi da cui il nome.
Sempre in questa posizione piega le gambe e avanza per la sala
da ballo annaspando.
Muoviti molto lentamente come una lumaca in preda ad una forte
emicrania.
Socchiudi gli occhi e annusa il sudore dei danzatori come se
fossero tanti tartufi. Sentiti un segugio!
Vaga ramingo per la discoteca con le mani che sfiorano il
pavimento.
Non ti fermare.
Neanche se qualcuno ti urla dietro.
Neanche se ti rompono una bottiglia in testa.
Neanche se arriva la polizia.
Tu continua.
Ed è già moda.
Riflessi nell’acqua.
Un disegno geologico perso nell’oceano.
Colori dipinti tra due superfici azzurre.
Un punto silenzioso su cui fluttua l’orizzonte.
Prospettive intrecciate della stessa composizione.
Lontano da tutto.
Solo il suono del mare, il vento che sibila, la natura in sé.
Lontano dal metallo e dal rumore,
Una dimensione ricamata a misura d’uomo.
Solo io ed il sibilo del silenzio.
Solo io e qualche gabbiano confuso dal Nord.
Solo io e qualche lacrima.
Perché tutta questa bellezza mi commuove.
Mi riempie di luce.
Mi droga di odori.
Mi sdraio per respirare il calore del cielo.
Mi addormento sognando di essere su una nave spaziale.
…..
Mi sveglio sotto il cielo sfumato d’arancio. E….
Capitolo 5
Adii ed incontri
Coordinate mobili
Vite che si incrociano per pochi chilometri.
“Ehi amico lo vuoi un passaggio?”.
“Grazie dove vai?”
“A sud e tu?”
“Allora anch’io a sud!”
Una vita che ne aspetta un’altra sul ciglio della strada.
Mentre piove o c’è il sole.
Senza fretta.
Un percorso disegnato su coordinate mobili.
Un viaggio puro, un’essenza inquieta che trova pace.
Trova pace quando corre in compagnia di uno sconosciuto.
Con qualcuno che non vedrà mai più.
Solo un momentaneo soffio di vita insieme.
Forse vorresti
Troppo tardi per inseguirti, per tenere il tuo passo, per aspettarti.
Forse vorresti ibernarmi fra quattro mura. Congelarmi fino a
quando non cambierai prospettive e priorità.
Forse vorresti tenermi in un cassetto. Custodirmi finché non
arriverà il tuo momento. Un filtrare continuo di secondi e di
pensieri. Un lento vibrare del tempo.
Forse mi vorresti qui per mesi ed anni. A sorriderti in una
giornata buia, a farti ridere quando sei stanco.
Forse vorresti perché tutte queste cose non me le dici. Non mi
chiedi niente.
Forse vorresti che il mio amore bastasse per due. Come un
enorme ombrello che ripara entrambi in una notte di pioggia.
Non lo è. Anzi si rintana come una bestia ferita. Tutto questo
nulla lo disturba.
Forse vorresti che accettassi le briciole del tuo tempo, gli avanzi
della tua compagnia.
Forse vorresti non spiegarmi mai e nutrirmi di dubbi.
Purtroppo la bestia si è disciolta nel vento. Ed il vento si muove.
In cosa credo
Dio per me è forza, energia, simbiosi di emozioni.
Si manifesta in un abbraccio, nella montagna nebbiosa di Milford
Sound, nel sorriso dei miei amici.
Si manifesta in una sinfonia melodica, nelle lacrime e nel dolore.
Dio è un caleidoscopio. Un coacervo di strade di cui noi non
vediamo la fine ma viviamo gli incroci.
Si manifesta sulla spiaggia illuminata dal sole morente, dal
rapporto caldo con un'altra persona, dagli occhi di Amihai neri
come l’abisso.
C’è un senso stupendo in tutto questo, una miriade di significati
simili a tante goccioline d’acqua che scivolano su uno specchio.
Meduse gelatinose
Sulla veranda uno strano circo. Tante camicie rosse a fiori
bianchi. Ragazze avvolte in parei o in asciugamani.
Serpenti colorati intorno a braccia, collo, mani e piedi. Rap
tedesco in sottofondo. Sono tutti lì tranne Terry.
Lusky si è annodato dei lacci colorati sulle orecchie. Sembra
cerume multicolore.
Thomas ha un braccialetto blu molto effeminato al polso. Si è
messo un finto torso muscoloso sul suo striminzito, che sembra
l’armatura dell’uomo ganzo. Osceno.
Ken si è saggiamente nascosto da qualche parte.
David è allibito come me.
La Triade oriunda e altre tedesche fanno la guardia ad una micro
torta alle mele. Talmente micro che solo tre puffi potrebbero
dividersela equamente.
Eva sta molestando un uomo ubriaco neozelandese, regalandoci
una visione da vietare ai minori di anni quaranta.
Leandro e Marcus fanno gli splendidi. Certo loro sì che sono in
forma, loro sì che dormono. Oscillano come altalene.
Matthias ha un braccio sulla spalla di Susie ed uno su quella di
Julia. Vanno in giro così e formano un strano mostro a tre teste.
Non si capisce quale sia quella che funziona.
Forse è per questo che David è sconvolto.
Berry l’antipatico scrittore è completamente ubriaco. Mi vede:
“Vieni, fatti abbracciare!!!”
Poche ore
Amihai mi attrae come una calamita e dolcemente come tutto
quello che fa. Ha la passione di un uomo, il sorriso di un bambino
e gli occhi del sognatore senza età. Ha fede e bellezza. Tutto in lui
si esprime attraverso il movimento, la musica, il suono delle
parole. È un uomo coraggioso e pieno di sfumature variopinte.
Fragile e forte. Un vagabondo che cerca rifugio. Un sospiro
divertito sul mondo che mi riempie di gioia.
Sensazioni passeggere dato che sto per partire e solo poche ore
prima di separarci e seguire rotte diverse. Perché questo succede
a chi capita in mezzo a strani incroci. A chi si trova in un
qualunque giorno di settembre in un ostello a Wellington.
Lontano da casa ma proiettati come molle alla ricerca di
qualcosa di nuovo. Poi si prosegue.
Uno a Nord ed uno a Sud. Niente di più facile, niente di più
difficile.
Se fossi partita tre settimane fa non l’avrei conosciuto. Tante cose
non sarebbero successe anche se scorrono veloci come fiumi.
Per poche ore condividi tutto: stanza, cibo, affetto. Poi ti dissolvi
in piccole bolle. Continui a viaggiare con il cuore gonfio e pieno
di quei ricordi che si moltiplicano ogni chilometro percorso..
Sono le cinque di lunedì e fra tre ore ho l’autobus. Amihai ed io
stiamo ascoltando musica israeliana.
“Non capisci proprio nessuna parola?” mi chiede lui speranzoso.
Una lingua ostica. “No, mi dispiace. Cosa stavi dicendo?”
“Che ho un amico che vive sulle sponde del Lago di Tiberiade.
Quello su cui secondo i cattolici ha camminato Gesù.”
“Chiedi al tuo amico di spedirti un po’di litri d’acqua del lago. Tu
vieni in Italia e la vendiamo.” Scherzo, ma non troppo.
Lui rimane in silenzio per qualche minuto:
“Mi piaci perché sei più pazza di me. Come ti vengono queste
idee?!? Chi potrebbe compare l’acqua di un lago sporco?”
“Beh, collezionisti, credenti o credenti collezionisti, chi colleziona
credenze, ecc.” un piano ingegnoso mi balugina in mente: “Sai
quanta gente va in Israele e porta a casa un po’ di terra locale?!
Noi porteremmo alle persone che hanno paura di viaggiare nella
tua terra la loro acqua santa. Un servizio praticamente a
domicilio.”
“Se chiedo a mia madre di spedirmi l’acqua di Tiberiade penserà
veramente che in India mi sono fatto troppe canne! Ma siete messi
così male voi cattolici?”
“Ma che c’entra! Noi non venderemmo acqua del rubinetto, ma
acqua certificata direttamente da Israele!”
“E come si fa a certificarla?” i suoi occhi da businessman si sono
illuminati.
“E che ne so? A questo devi pensare tu. Io mi occupo del
packaging.”
Amihai sta zitto e mi fissa serio. Siamo seduti uno accanto
all’altro sul pavimento.
“Stavo già pensando di venire in Italia e stare con te. Potremmo
andare a vendere l’acqua su una bancarella davanti a quella chiesa
grande da dove parla sempre il Papa.Come si chiama?”
“San Pietro. Bell’idea, così ci arrestano. Magari possiamo metterla
insieme alle collane che fai tu su eBay”.
“Veramente vuoi venire in Italia per me?” gli chiedo.
“Il mio sedere è già lì. A novembre ritorno a New York per
lavorare qualche mese e a gennaio ho il volo per Amsterdam.
Dall’Olanda posso cambiare il biglietto aereo e venire in Italia.”
Sobbalzo. “Perché hai il volo per Amsterdam? No, aspetta, non
voglio saperlo.” Un uomo ramingo.
“Perché da Amsterdam ho il volo per Nuova Deli.”
L’avevo detto che non volevo sapere. “E quindi? Milano dove la
incastri?”
“Da Amsterdam verrei a Milano. E poi rimarrei lì con te.” mi
accarezza i capelli.
Colpi leggeri alla porta. È Bart. Mentre i due uomini della mia vita
parlano tra loro, provo a mandare un messaggio ad Alejandro, ma
sono talmente tanto sulle nuvole che in realtà lo invio a Cristiàn.
Ne esce fuori un breve cortometraggio degli equivoci.
Per la mia partenza posticipata ho raccontato una scusa plausibile
all’hombre caliente: il tavernello neozelandese mi ha messo k.o.
“Non posso partire in queste condizioni.”
“Va bene ti perdono. Ti aspetto allora martedì mattina.”
Il cileno rimane a ben ragione basito nel ricevere il seguente
messaggio, il primo di una serie di incomprensioni.
Premessa: Alejandro mi manda questo messaggio: “Passi al
Beethoven prima della tua partenza? Così ti saluto.”
Cristiàn è perplesso.
Al messaggio di Alejandro rispondo: “Sono qui anche con Bart.
Possiamo incontrarci più tardi?” Lo invio però a Cristiàn.
Il quale non capendo mi scrive:
“Scusa? Non capisco. Vieni o no?” Lui si riferisce a Thames, la
cittadina nella regione di Coromandel dove dovremmo
incontrarci.. Pensando sempre di parlare con Alejandro
puntualizzo:
“No (nel senso non vengo al Beethoven). Vuoi che ci incontriamo
alla stazione dei pullman alle 7.30?” Intendo stasera alla stazione
dei treni di Wellington da cui partono anche gli autobus.
Cristiàn: “Quando? Stasera? Domani mattina?” Si chiede intanto
chi cavolo è questo Bart che viaggia con me.
Io seccata: “Oggi, parto oggi. Te l’ho già detto.”
Cristiàn: “Guarda che gli autobus arrivano al centro
informazioni turistiche che è davanti al mio ostello.”
Conoscendo il loco geografico del Beethoven e sapendo bene che
è lontano dalla stazione ferroviaria e dei pullman replico: “Ma
che dici! Quella dei treni!”
Cristiàn: “Ma quale terminal?”
Io: “Il numero nove.”
A questo punto sembra che il cileno in grande stato confusionale
sia uscito dal suo ostello nella minuscola cittadina di Thames e sia
andato a cercare il fatico terminal dei bus numero nove,
scoprendo l’esistenza solo del numero uno. A complicare le cose,
scrutando l’orizzonte non scorge neanche l’ombra di autobus in
avvicinamento. Così come non si intravede né la mia sagoma né
quella del misterioso Bart.
Preso dallo sconforto Cristiàn mi chiede via messaggio: “Quando
sarai a Thames?Non stasera quindi.”
“Domani mattina alle 9.30.”
L’hombre caliente scuotendo la testa ritorna ai suoi alloggi ed
annota scrupolosamente la conversazione sul suo taccuino.
Rieleggendola tenta per ore di trovare un filo logico.
Capitolo 6
In cerca di un passaggio
Con te
Ciao Alice spero tu sia riuscita ad arrivare fino a Coromandel e
stia bene. Mi manchi e continuo a pensarti. Mi nutro dei pochi
ricordi che abbiamo insieme. Ti cerco.
Su questo traghetto da Wellington a Nelson.
Nel letto vicino al mio al Rosemere.
Tra i visi che incrocio.
Voglio stare con te. Dopo tanto nomadismo ho capito che la cosa
importante è stare con chi si ama. Pensare insieme, costruire
insieme, vivere insieme.
Io tutto questo voglio farlo con te. Anche se ci vorranno mesi,
anche se dovrò passare un po’ di tempo negli Stati Uniti per
mettere da parte un po’ di soldi. Anche se ci sono confini tra noi.
Spero che tu non mi dimenticherai. Vorrei che tu fossi sincera.
Mi vuoi vicino a te?
Non vedo l’ora di abbracciarti di nuovo e guardarti da vicino.
Ti amo.
Amihai
Besame Mucho
Besame, besame mucho
Come si fuera esta noche la ùltima vez…
Canta bene, è intonato con una voce lievemente roca. Non solo
vacillo, ondulo come un pendulo.
“Che c’è? Non ti piace questa canzone?” mi chiede.
“No, no mi piace. Ho solo un po’ di mal di pancia.” In realtà sono
gli ormoni che ballano il tango, ma se capisce che ha colpito nel
segno per me è finita. Sedotta e risedotta.
“Vorrei esporti un pensiero che mi assilla da ieri.” Così dicendo si
gratta la testa. “Dato che noi due stiamo bene insieme, ridiamo,
parliamo, viaggiamo …stavo riflettendo che potremmo stare anche
meglio di così.”
“Ovvero?”
“Hai capito no?” Farfuglia.
“Sii più esplicito.”
“Insomma tu mi piaci e se avessimo un’avventura in questi giorni
non ci farebbe che bene.”
“Sesso incluso?”
“Eh? M-ma che domande sono?!? Comunque sì. Incluso.”
Come linea di difesa schiero Vitaly sul campo. Il mio cavallo di
fiducia.
Appello all’onore
Vedi mio hombre caliente
Io ti desidero anche immantinente
Ma non posso cedere a un sentimento possente
Perché devi sapere che hai un concorrente
O meglio un tizio a te precedente
Rumori di aereo
Drin, drin…
“Pronto?”
VRRRRRRR
“Pronto Samantha mi senti?”
DENG, DENG, DENG
“Sì. Ti sento un po’ male, ma dove sei?”
MA CHE??!
“Sono in aeroporto. Ho avuto un po’ di problemi.”
PRRRRRRRRRRRR
“Cosa è successo?”
“La Singapore Airlines non mi ha messo nell’elenco dei
passeggeri e risulto in quella di venerdì prossimo. L’errore è loro,
ma non ci possono fare niente.”
PING, PING, PING
“Ah, quindi sei ancora là. Quando riesci a tornare?”
“Lunedì nove sono in ufficio.. Te lo giuro anche a costo di
farmela a nuoto.”
TRING, TRING, TRUNK
“Va bene, non ti preoccupare. Ci vediamo settimana prossima.”
MMMMM
“Grazie e scusami. Ciao.”
MIAO, MIAO
“Ciao.”
San Tommaso
“Ciao papà!”
“Alice? Che è successo?”
“Niente. Ti chiamo per dirti che ti voglio bene.”
“See, mi prendi per scemo?? Di cosa hai bisogno?”
“Di una copertura. Se chiama la compagnia dello stage conferma
che la Singapore Airlines mi ha messo sull’aereo sbagliato.”
“Ah, ah, ah. Ma ci hanno creduto?”
“Così sembra.”
“Dove sei e soprattutto CON chi sei, figlia libertina”.
“Sono in un paese sperduto lontano dal mondo conosciuto da
qualche parte. Per appagare la tua irriverente curiosità sto
viaggiando con un amico cileno.”
“Amico??? Si chiamano così ora?? Allora anche il Cile è da
depennarsi dalla lista.”
“Quale lista? Ma papà ti sembra il caso? Per chi mi prendi! Se ti
dico che è un amico. Non mi credi?”
“Se è un amico io sono dimagrito trenta chili e mi sono ricresciuti
i capelli.”
“Lasciamo stare. Ah, ho deciso di essere vegetariana”
“Però mangi carne cilena?!!”
“Dopo questa ti saluto. Ciao.”
“Ciao cocca.”
Bene, tutto sistemato. Prima o poi dovrò chiamare Vitaly per dirgli
che sono viva e che domani non atterrerò a Milano. Sicuramente
se lo sarà segnato sul calendario tra una nota: “Comprare tisana al
mirtillo.” e una: “Fare il bucato.”
Sono perfida, ma sotto ci sono strati di amarezza. Un’altra
relazione senza senso e temporanea che evapora da entrambe le
parti con la semplicità dell’acqua per la pasta. Mi chiedo quando
mi sentirò ancora bambina, innamorata, felice e forte. È da tre anni
che sono sull’orlo del disinteresse sentimentale e appena trovo
qualcuno che mi accende, lui scompare. Bart, Amihai. Mi manca il
ragazzo delle pietre indiane, il suo modo incuriosito di guardarmi,
la sua forza, la sua dolcezza.
Sulla veranda Cristiàn fuma la sigaretta del mattino. Guardandolo
un pensiero mi sfreccia a velocità treno nel cervello: sto per
cedere.
Non oggi però, sono ancora in tempo. Con un “tutto risolto” tengo
a bada le tigri della Malesia e lo lascio in bianco rinchiudendomi
ermeticamente nel sacco a pelo.
“Dormito bene?? Ti sei addormentata di colpo ieri!” il cileno mi
scuote con odio la mattina dopo.
“Z-zzz. Eh? Smettila! Sono sveglia. Che hai?” gli chiedo, anche se
conosco la risposta.
“Che ho?!? C’è che ti ho fatto un preciso discorso e tu mi rispondi
con la storia della tua vita e..”
“E non può fregartene di meno!”
“Non ho detto questo. Solo che tu hai glissato alla grande senza
darmi nessuna risposta. Insomma lo sai che tra noi c’è feeling. C’è
sempre stato fin da quando ci siamo conosciuti. Quindi dato che il
russo non mi sembra rappresentare un problema…”
“Tu cosa vuoi da me? Un po’ di ginnastica?” gli dico dopo aver
smontato la tenda e ripreso a camminare.
“Non voglio un po’ di ginnastica. Tu mi piaci dal primo momento
in cui ti ho vista. È normale che se siamo solo io e te qui,
viaggiamo insieme, siamo in tenda insieme vorrei avere un altro
tipo di rapporto. Stiamo insieme come una coppia finché non ci
separiamo.” Sul ciglio della statale mi fissa con quei carboni
scintillanti. “Sarei un bugiardo se ti dicessi che non voglio fare
l’amore con te. Ci penso ogni notte.”
Oddio. Penso alla nonna, respiro profondamente.
Al bivio tra Coromandel Town o Whangapoua non sappiamo
quale scegliere.
La prima è la cittadella più grande della penisola e si trova sulla
costa ovest, il secondo è un minuscolo paese sulla costa est,
solitario e isolato. Gonfie nubi si appostano come avvoltoi sopra le
nostre teste e ci scaricano contro una violenta pioggia.
Di macchine in giro neanche l’ombra.
“Testa o croce per dove andare.”
Mentre Cristiàn si fruga in tasca per cercare un dollaro non troppo
annacquato, una rombante macchina che sembra provenire da una
dimensione parallela ci passa davanti e fa retromarcia.
“Ehi fratelli volete uno strappo? Vado a Coromandel Town.” Un
ragazzo con degli enormi occhiali da sole si sporge dal finestrino.
“Vi piace la mia Holden Caprice australiana. E’ la mia bambina!”
annuisce orgoglioso cogliendo i nostri sguardi esterrefatti. Non
possiamo non accettare il passaggio di questo tizio molto
particolare.
Cocco di mamma
“Mi Querrrrrrrrrrriddddddddo, piccino mio, donde estas mi
corazon? Manchi alla tua mamma. Te extraño y te pienso!!!” Una
cornacchia con il fiatone.
“Sì mamma, sì anch’io. Stavo dormendo però.”
“Anch’io cosa??”|
“Anch’io tutto il tuo bla, bla, bla, mamma.”
“Sniff, sniff. Chi c’è lì con te. Sento odore di donna!””
“Mierda! Ma che cosa sei un segugio mamma??!”
“Lo sento. Lei chi è? Vuoi ancora bene alla tua mamma??’”
“Sì, sì non ti preoccupare. È una ragazza italiana con cui sto
viaggiando. Un’amica.”
“Che pasa? Mi prendi per loca?”
“Ciao mamma, buonanotte. Hasta luego.”
“ Ma mi queri...”
Non fa in tempo a finire la frase che suo figlio le attacca il
telefono in faccia.
“Mi madre è una rompipalle!”
Al freddo
Un pollice inclinato come un soldato ferito. Le gocce d’acqua gli
cadono sopra come una cascata di pugnali. Il pollice resiste
intirizzito e si rianima davanti ai fari della macchina di
passaggio. Quando questi scompaiono inghiottiti dal temporale il
povero soldatino si rifugia nella tasca dei miei pantaloni.
Un occhio chiuso
Signor Poliziotto non ci metta in prigione.
Noi nel viaggiare ci mettiamo passione.
Se ci fa la multa non possiamo pagare.
In patria abbiamo la famiglia da sfamare.
Se ci lascia andare promettiamo.
Che nei guai più non ci cacciamo.
Ce ne andiamo tranquilli da qualche parte.
E cerchiamo un passaggio in direzione Marte.
Signor Poliziotto non ci infanghi la pedina.
Come facciamo a dirlo alla cara e lontana mammina?!?
Ritorno
È troppo tardi per cambiare idea.
Ogni volta che torno è sempre più doloroso. Ho dentro un prisma
di sensazioni, che è difficile condividere.
Siamo nati curiosi, avventurieri e nomadi
Un codice genetico sacrificato per una capanna di spilli.
Mesi e forse anni prima di rifare le valigie.
Prima di sentire la mancanza del mondo.
Ed ogni volta che torniamo lo raccontiamo con cautela, come un
tesoro nascosto.
Epilogo
La Singapore Airlines festeggia