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International Journal of Psychoanalysis and Education ­ IJPE                                             n° 2,  vol.

 I,  anno I 
                                            

ISSN  2035­4630                           (riferito alla versione telematica pubblicata all’indirizzo www.psychoedu.org) 
                       

Scuola

“NON UNO DI MENO”:


CONTRASTARE LA DISPERSIONE SCOLASTICA
ATTRAVERSO UNA DIDATTICA INCLUSIVA

di Maura Di Giacinto 

      (psicopedagogista, docente Università degli Studi di Roma Tre)  
 

Lo scenario
L’attuale fase dell’era planetaria è rappresentata dai grandi movimenti demografici e
dall’onda lunga dei loro riflessi economici in cui l’ibridazione culturale - così come viene
definito dagli antropologi l’intreccio di esperienze linguistiche, religiose, valoriali diverse –
caratterizza e definisce le relazioni sociali in atto.
Oggi sono sempre più numerose le società che scoprono di essere multiculturali -
nel senso che comprendono più comunità culturali decise a farsi riconoscere - e di essere,
nello stesso tempo, più “porose” (utilizzando l’indicazione di Taylor), ossia più aperte alle
migrazioni internazionali e con un numero sempre maggiore di cittadini che vive nella
diaspora. E’ proprio su questo tessuto sociale poroso che oggi si innestano i fenomeni di
vecchie e nuove esclusioni, quei meccanismi sociali, politici ed economici che definiamo di
marginalità sociale e culturale.
Anche se il pluralismo culturale e le dinamiche interculturali devono essere
considerati in un’ottica globale e globalizzante, anche se in fondo spaesamento ed estraneità
pervadono l’intero pianeta riguardando sia “noi” che “loro”, la cultura della diseguaglianza

organo ufficiale dell’Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa  A.P.R.E. 
iscrizione al Tribunale di Roma n°142/09 del 4 maggio 2009                                         (copyright © APRE 2006) 

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sembra premere più che mai nei nostri orizzonti e trova proprio nei fenomeni migratori il
suo aspetto più vistoso e drammatico.
Questo scenario sociale e culturale che fa da cornice alla nostra contemporaneità è
quello che conosciamo tutti, non perché lo studiamo o ne parliamo, ma perché lo
“abitiamo” quotidianamente, è quello scandito dalla globalizzazione, dalla complessità, dal
nomadismo geografico (i flussi migratori) e da quello cybernetico (le rivoluzioni
informatiche), dal pluralismo culturale e da contesti sociali sempre più multiculturali e
multietnici.
Questi processi, attraverso percorsi differenziati, stanno determinando dei
cambiamenti profondi nella riorganizzazione delle relazioni umane che ci vedono ogni
giorno coinvolti; i due nomadismi, quello cibernetico e quello geografico - attraverso
percorsi differenziati - costringono a rivedere le relazioni che ciascuno di noi stabilisce con
sé stesso e con gli altri in nome dell’alterità, di ciò che è altro da noi.
Del sintetico panorama del nuovo ordine mondiale sopra descritto, ci interessano le
ricadute che questi processi complessi hanno sul piano culturale e su quello educativo; le
migrazioni, la rivoluzione digitale nelle comunicazioni, il pluralismo, le integrazioni, la
formazione di identità complesse e plurime a livello globale generano situazioni sempre più
intricate e dense di conseguenze sul piano formativo.
Il tema dell’inclusione e dell’alterità, nelle sue nuove e rinnovate declinazioni, ci
costringono a mettere in discussione i vecchi, parziali e chiusi paradigmi interpretativi che
abbiamo utilizzato per interpretare, descrivere e narrare la realtà.
La formazione e la sua disciplina di riferimento – la pedagogia - possono dunque
rappresentare un terreno di nuove letture, di nuove prospettive all’interno di una nuova
realtà globale che ha posto in termini nuovi il tema dell’alterità; possono indicaci nuovi
percorsi di risignificazione, di rielaborazione e di rivisitazione degli interventi formativi.
Eppure il “paradigma della complessità” avverte che ogni tentativo di
semplificazione della realtà è rischioso in quanto impedisce di coglierla per quello che
effettivamente è; “dunque, capire il proprio presente, l’evoluzione e il senso del processo
storico-sociale in cui siamo immersi; leggere il presente, comprenderlo e interpretarlo

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diventa un compito al quale il pedagogista non può sottrarsi, tanto più che egli opera nel
presente, coniugato con il passato e declinato al futuro” (Cambi 2001:35).

Le relazioni interculturali
Il termine intercultura, in ambito strettamente educativo, ha assunto sempre più il
valore di una scelta politico-educativa che mette al centro del progetto educativo
l’esperienza interculturale dei soggetti che appartengono alle minoranze etniche, culturali,
religiose, linguistiche, ma anche l’esperienza di coloro che appartengono alle varie
maggioranze. Impegnate entrambe - minoranze e maggioranze - nella gestione delle
relazioni e delle interazioni tra gruppi, tra individui, tra identità; chiamate ad affrontare
situazioni di fronteggiamento di valori culturali differenti; al fine di raggiungere obiettivi di
reciproco riconoscimento dal momento che l’eterogenità rappresenta, tanto più oggi, la
condizione entro la quale le storie di ciascuno di noi si tessono e si intrecciano con altre
storie.
Le interazioni comunicative che ci vedono attualmente coinvolti sono, dunque,
contraddistinte da quella prospettiva che comunemente viene indicata come interculturale,
ossia da quella condizione caratterizzata dall’intreccio di relazioni in cui gli interlocutori
sono portatori di esperienze culturali differenti (linguaggi, regole, valori) e - a causa di una
mancanta condivisione degli universi immaginari entro i quali i loro atti si traducono in
segni - si trovano ad affrontare il compito arduo di trovare un terreno comune per potersi
intendere e, dunque, per poter interagire.
Le relazioni interculturali fanno sempre, di più, parte del nostro ambiente educativo,
culturale, linguistico, economico, informativo; sono costitutive della complessità e della
molteplicità dei percorsi identitari, delle trame comunicative che ci vedono impegnati e
partecipi.
L’intreccio e le trame dei riconoscimenti reciproci possono far emergere nuove
dimensioni identitarie, ma anche nuovi nomadismi, nuove idee di collettività e di
cittadinanza; occorre, pertanto, esplorare le nuove identità che si vanno definendo, identità
complesse, plurali, meticce, multiformi, virtuali; identità costruite, decostruite, ricostruite e
nutrite da molteplici appartenenze, siano esse nazionali, familiari, di genere, che

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linguistiche, culturali, religiose, valoriali. Identità che attualmente definiscono e


ridefiniscono i contesti sociali interculturali scanditi dal ritmo della complessità educativa,
culturale e sociale che caratterizza i nostri vissuti.
La formazione all’intercultura diventa, pertanto, una dimensione educativa
irrinunciabile che vede protagonisti i bambini, gli alunni, gli adulti, gli educatori, gli
operatori. Il compito primario dell’educazione interculturale - attraverso strategie, strumenti
e metodologie adeguate – è quello di impegnarsi in un processo di gestione e di
ricostruzione delle relazioni sociali, caratterizzate dagli incontri con le differenze introdotte,
negli spazi di vita, da coloro che - pur essendo a volte così lontani - ci vivono accanto e con
cui, spesso, condividiamo lo stesso spaesamento, la stessa estraneità.
Per poter raggiungere questo obiettivo l’educazione interculturale deve poter agire
su due livelli: quello cognitivo, formativo e informativo, e quello affettivo, delle
rappresentazioni e delle percezioni.
Una educazione che si limita al compito di trasmettere conoscenze e di allenare le
varie abilità non realizza gli obiettivi che si è data; ma anche un insegnamento che si
compie facendo riferimento soltanto alle componenti affettive ed emozionali tradirebbe i
suoi scopi.
L’affettività è una dimensione necessaria quanto il pensiero, poiché le nostre idee e
opinioni sono cariche di rappresentazioni derivanti dalle nostre emozioni e come ci
ricordano diversi studiosi “tutti i nostri pregiudizi, siano essi nazionali, razziali,
generazionali o di altro genere, possono essere superati soltanto modificando le nostre
rappresentazioni sociali della cultura, della ‘natura umana’ e così via” (Farr, Moscovici
1989:55).
La riflessione pedagogica è chianmata, pertanto, a muoversi all’interno di
quell’orizzonte che fa riferimento all’impianto fenomenologico; un orizzonte pedagogico
capace di esplorare la specificità dei contesti sociali e dei processi interpretativi. Un
impianto fenomenologico per il quale la realtà sociale è frutto di una nostra costruzione e di
successive attribuzioni di significato, un impianto in cui i soggetti sono pensabili solo nelle
loro relazioni intersoggettive e nel continuo processo di attribuzione di significati; in cui

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l’azione educativa è finalizzata alla comprensione della realtà significata e pensata come
spazio formativo di costruzione e di decostruzione di significati.
L’analisi del concetto di cultura e la ricerca del riconoscimento delle differenze
culturali rappresentano, allora, un punto di riferimento irrinunciabile per la pedagogia e
costituiscono un fondamento teorico su cui costruire un modello educativo che corrisponda
ai dispositivi propri del pluralismo, della differenza e del dialogo.
E, quale dispositivo formativo, il decentramento diventa il paradigma con il quale
licenziare l’etnocentrismo, con il quale liquidare la nostra “centralità”, decostruire il nostro
immaginario, riflettere sui nostri pregiudizi, modificare le nostre rappresentazioni sociali.
Ci aiuta a uscire dalle costruzioni binarie22 che fino ad oggi hanno orientato il nostro
“stare nel mondo”, a riformulare i rapporti, a rinegoziare le relazioni senza rinunciare alle
nostre appartenenze e, dunque, alla nostra mutevolezza e alla nostra complessità.
Il decentramento diventa, pertanto, uno strumento strategico, un tirocinio
democratico, un allenamento per imparare ad accettare la parzialità delle nostre verità, mai
totalizzanti, mai assolute, mai esclusive, mai definitive.
Occorre cogliere l’occasione per sperimentare, attraverso forme e contenuti diversi,
un “altrove” e, dunque, la nostra disponibilità al decentramento culturale, intellettuale ed
emotivo; approfondire il concetto di competenza relazionale intesa come metodologia della
transitività e della mobilità cognitiva, della capacità di “emigrare″; di allenare la propria
mente al viaggio, ai passaggi, alle transizioni; di costruire la propria identità al plurale.
Occorre porre al centro della riflessione pedagogica le nuove cittadinanze, le nuove
antropologie, i nuovi nomadismi.
L’intercultura non è una sfida rivolta solo alla scuola ma coinvolge anche altri
luoghi dell’educare; è un sapere che si deve poter situare e definire in tutti gli ambiti

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Maggioranze e minoranze non possono più essere messe a confronto in modo semplicistico in quanto gli attuali rapporti sociali
interculturali non possono essere descritti utilizzando singole costruzioni binarie; si tratta di riconoscere che l’appartenenza sessuale,
etnica o il colore della pelle non comportano un’essenza specifica dell’individuo; esiste, al contrario, una varietà di gran lunga
maggiore rispetto ai gruppi binari che di volta in volta vengono contrapposti, come bianchi/neri, autoctoni/immigrati, uomini/donne.
Conseguentemente abbiamo a che fare con costruzioni identitarie complesse nelle quali l’origine nazionale, il sesso, le preferenze
sessuali, la formazione, l’età, la professione sono più importanti e, conseguentemente, essere nero o bianco non sono più modalità
esaustive di espressione dell’identità. Nell’epoca delle migrazioni e dei cambiamenti sociali repentini dobbiamo confrontarci con
delle identità non esclusive, che nascono da una molteplicità di identità sociali; pertanto “il superamento del pensiero binario è la
condizione che permette alla multiprospettiva di essere riconosciuta come la base della convivenza nella società multiculturale e
multietnica (…)dovremo ricorrere, pertanto, a costruzioni di tipo triadico e multiplo e riconoscere che le identità plurime o di
elezione rappresentano la regola” (Steiner Khamsi 1995:144).

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all’interno dei quali gli scambi, i prestiti, gli attraversamenti si compiono: negli spazi di
vita, nel lavoro, nei servizi sociali e sanitari, nei servizi educativi e scolastici.
In tutti questi spazi, ed altri ancora, le persone che li “abitano” e gli
operatori/educatori che vi svolgono il loro ruolo professionale si trovano quotidianamente
ad incontrare, a scambiare gesti, parole e atteggiamenti con altre persone che, venendo da
scene culturali diverse, conservano regole e valori del luogo culturale da cui provengono.
Alla scuola e ai servizi, diventati sempre più multiculturali e plurilingui, spetta il
compito di mettere in relazione e di mediare esperienze differenti, eterogenee, condotte
altrove che chiedono di essere riconosciute, scambiate, negoziate e reinterpretate. Agli
insegnanti, agli operatori, agli educatori sono richieste capacità e competenze professionali
nuove o da perfezionare, capaci di ricomporre e far dialogare le diversità, di coniugare
l’unità e il molteplice, di negoziare tra le singolarità e le differenze.

La gestione educativa delle differenze


La valorizzazione delle differenze è un tema assai ostico per la nostra cultura,
che finora ha proceduto con la logica della cancellazione delle differenze, nonostante che il
Novecento abbia raccolto l’eredità di una fase di revisionismo, di ricostruzione e de-
costruzione che, nell’età contemporanea, ha investito gran parte dell’universo culturale, e
che ha “ riaffermato come principio-valore (…) la Differenza; delineato uno slittamento
dall’Identità alla Differenza come criterio di ricostruzione dell’Occidente, (…) per
procedere verso la Differenza, accolta nel suo doppio segno di pluralismo e di alterità”
(Cambi 2001:51).
Questa eredità raccolta dal Novecento della differenza come “dispositivo
dell’alterità”, come de-costruzione dell’Occidente si è arricchita dei vari contributi
interdisciplinari; così, tra gli altri, il contributo dell’antropologia. Il concetto di cultura così
come lo ha elaborato nei suoi studi e nelle sue ricerche è alla base del tentativo di
decostruire l’etnocetrismo; il piano ideologico di questo tentativo che, ha sollecitato una
lettura relativistica delle culture, si allontana da ogni principio emancipazionistico poiché
non solo respinge come possibile ogni classificazione gerarchica delle culture ma
sostituisce il termine di differenze a quello di ineguaglianze conferendone il senso - proprio

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della posizione interazionista - di relazione dinamica che si stabilisce tra entità diverse e
che, proprio in forza di questa relazione, conferisce loro significato (Abdallah-Pretceille
1999).
E’ un congedo definitivo e totale rispetto all’etnocentrismo; la cultura, dunque,
si pluralizza, si decentra, si articola, cancella gerarchizzazioni ed egemonie, ottiche di
riduzione e di sistematizzazione.
Il problema dell’acculturazione, che ha dominato e regolato il dibattito
antropologico, ha influenzato in profondità anche le scienze umane già peraltro
sensibilizzate, attraverso la psicoanalisi, al valore e al dispositivo critico dell’alterità. E’ la
differenza che produce l’identità e Freud decostruirà l’io, la sua apparente unitarietà, in
forza di ciò che verrà identificato come inconscio, come ciò che è Altro rispetto alla
coscienza di sé; la scoperta, l’identificazione perfino la collocazione dell’Altro nella
regione profonda e nascosta della psiche, nell’inconscio; la scoperta della dualità di Io e
Altro entro la personalità apparentemente unitaria dell’uomo, spezzano l’identità più
profonda dell’io occidentale.
Dopo Freud la coscienza comincia a svilupparsi in senso verticale anziché
orizzontale e l’inconscio si mette a disturbare l’Io conscio, a farsi sentire come Altro;
dentro l’Io, c’è Altro; altre possibilità, altre scene ed è così che alla differenza viene
assegnato il ruolo più fondante e insieme più sfuggente nella costruzione della realtà.
Il pensiero filosofico del novecento - cominciando da Heidegger (1968), il grande
erede di Nietzsche (1965), decostruttore della metafisica e teorico della differenza, e
continuando con Deridda (1972), Lévinas (1979), Lyotard (1979), Arendt (1978) - ha posto
l’accento sulla differenza, sul pluralismo, sull’altro e l’alterità, accantonando i caratteri
etnocentrici e di dominio, e sottolineando invece quelli del dialogo, della comunicazione,
dell’accettazione e della ricerca dell’alterità.
I movimenti di riflessione e di tematizzazione della differenza di genere, attraverso
la ricerca socio-politica della Irigaray (1974), della Gilligan (1982) e della Young (1990)
hanno posto il riconoscimento delle differenze come condizione per la ri-costruzione della
condizione dell’alterità secondo criteri plurali animandosi intorno al valore della differenza.
I gruppi sociali oppressi dal marchio della diversità hanno tematizzato l’oppressione e i

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suoi meccanismi di esclusione e hanno proposto con forza immagini positive della propria
differenza; è così che il concetto di oppressione è diventato il perno del discorso degli
attuali movimenti di emancipazione.
La differenza come principio e come valore anzi, come nuovo paradigma
pedagogico, come dispositivo dell’alterità ci rimanda alla condizione di pluri prospettive, di
pluralismo di valori e di modelli; ci rimanda al pluralismo dell’essere, alla sua ricchezza ed
alla sua complessità; ci rimanda all’idea di un soggetto “dialogico, che si struttura intorno
alla relazione e tende a gestirla come dimensione aperta”(Cambio 2001:54); di un soggetto
che vive la sua identità come processuale, nella sua mutevolezza e complessità, nel suo
aspetto de-centrato di una identità in situazione.
Questo è il dispositivo intorno al quale può costituirsi il messaggio pedagogico
postmoderno: partendo dalle riflessioni sulle antiche e nuove discriminazioni, entrare in una
prospettiva interculturale significa decostruire l’etnocentrismo, produrre relativismo,
pluralizzare, decentrare. Significa muoversi verso una educazione fondata sul diritto alla
diversità, sulla possibilità di percorre e ri-percorrere le strade della ricerca del sé, sulla
mediazione dialogica, sullo scambio comunicativo che sollecita la relazione e induce verso
una logica di rapporti che, non escludendo i conflitti, implicano prestiti e scambi.
Parlare di educazione interculturale significa introdurre, allora, nella pratica
educativa l’interazione, lo scambio, la reciprocità, la solidarietà; significa anche restituire al
termine di cultura il suo pieno significato di totalità che comprende stili di vita, valori,
rappresentazioni simboliche che gli esseri umani usano come schema di riferimento nelle
loro relazioni con i membri del proprio gruppo e con i membri degli altri gruppi, nella
propria percezione del mondo, nel riconoscimento del proprio valore e della propria
diversità.
Per elaborare un nuovo modello educativo che sia dialettico e non meccanico, che
sia flessibile e non rigido, dinamico e non statico, che si ponga come obiettivo la
valorizzazione delle differenze, verso un’educazione all’alterità, è necessario uno sforzo
comune a tutte le scienze sociali e umane, così da poter fornire una lettura propositiva della
cultura in cui sono coinvolti, a livelli diversi, tutti i gruppi umani; una cultura caratterizzata
dal diffondersi dinamico ed incessante di informazioni che si accavallano nei codici diversi

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- nei contenuti spesso disarticolati - con grande velocità. Ciò sembra aver rotto l’unitarietà
del nostro sapere, l’unitarietà dell’idea di storia e di progresso elaborata dalla società
occidentale.
Fare proprio un modo di essere interculturale, riuscendo a comprendere e rispettare
le differenze e le distanze che intercorrono tra individui diversi, vuol dire fare propria la
capacità di decentrarsi; “comprendere il punto di vista dell’altro (…), significa sapersi
decentrare rispetto al proprio schema di riferimento, avere presente che possono essere
messi in atto una varietà di schemi di riferimento e soprattutto avere la capacità di mutare
schema col mutare dei contesti” (Di Giacinto 2002: 178-179).
In ogni rapporto comunicativo, tra due persone, è necessaria una continua opera di
destrutturazione e di ristrutturazione equivalente a un capovolgimento di prospettiva, ad un
cambiamento; il verificarsi di una reale comunicazione intersoggettiva è infatti legato alla
capacità dell’individuo di assumere alternativamente il proprio e l’altrui schema di
riferimento, ristrutturando ogni volta il campo senza mai fare del proprio punto di vista il
momento privilegiato. Pertanto, “approssimarsi all’altro (…) significa accettare l’assunto
che la comprensione di una parola, di una frase, di un evento, avviene solo quando questo
messaggio è collocato in un contesto e che questo contesto può essere diverso a seconda
degli individui che ricevono il messaggio” (Cassano 1989:60-61).
Assumere il punto di vista dell’altro implica, allora, la capacità di afferrare e
decodificare il suo codice linguistico, il suo stile cognitivo, il sottofondo socio-culturale, i
sistemi di fede e di valore su cui poggiano le sue asserzioni.
Fare proprio un modo di essere interculturale, riuscendo a comprendere e rispettare
le differenze e le distanze che intercorrono tra individui diversi, richiede la capacità al
decentramento che si traduce, conseguentemente, in un dispositivo formativo.
L’obiettivo di una strategia educativa così disegnata va perseguito non solo in
presenza di un immigrato o di un individuo appartenente ad una cultura diversa dalla nostra,
ma anche in presenza di un ‘diverso’, di chiunque sia “altro da noi”. Se ad ogni individuo si
riconosce il diritto all’unicità, la scuola, utilizzando adeguate strategie, deve garantire lo
sviluppo di quelle capacità di interazione nel gruppo che, attraverso l’apprendimento di
capacità comunicative, nascono dal confronto e dallo scambio.

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La scuola interculturale
Esperienze e studi decennali, svolti soprattutto in quei paesi europei in cui - con
maggior peso di quanto non sia avvenuto nel nostro paese – hanno documentato
l’importanza che lo studio della cultura ha nella comprensione dei meccanismi educativi,
dimostrando le difficoltà che si incontrano nella programmazione di un modello educativo
rivolto a gruppi di allievi composti da individui appartenenti a realtà etniche, sociali,
sessuali diverse. Come può, per esempio, la teoria del relativismo culturale tradursi in
pratica pedagogica; come può sopravvivere la specificità delle diversità senza ricondurle
tutte ad un unico standard impropriamente considerato neutro e oggettivo; come può essere
rispettata la differenza senza produrre una nuova angosciosa torre di Babele? Come evitare
il rischio della certezza che Tullio Tentori (1987) ha dimostrato, attraverso le sue ricerche,
essere così profondamente radicato nel pensiero occidentale ?
In questa ottica assume particolare rilevanza il ruolo della scuola, intesa come
luogo elettivo per la promozione di un’educazione interculturale facente capo alla
socializzazione e all’apprendimento che vi avvengono.
La scuola e gli educatori possono giocare un ruolo decisivo nel formare cittadini
pronti e capaci ad interagire con la diversità, meno inclini al pregiudizio e all’assunzione di
posizioni categoriche e prevenute rispetto a chi viene “da fuori” o “da lontano”, rispetto a
chi è diverso. Imparare una rispettosa e continua contrattazione con se stessi, tra passato e
futuro, tra tradizione e novità, tra familiarità ed estraneità, è un compito che nessuno può
svolgere da solo (Aluffi Pentini, Lorenz 1995).
Ma se la scuola è stata pensata e strutturata, nei suoi contenuti come nelle sue regole
costitutive e organizzative, per assolvere la funzione di “santuario civile”, se la scuola è
l’istituzione per eccellenza che si inserisce nella tradizione culturale, com’è possibile che
proprio la scuola riesca ad operare il “superamento” interculturale?
Se la scuola non è “innocente” riguardo ai miti della nazione che sono i miti
dell’etnocentrismo, come si può sperare che non rappresenti proprio l’ostacolo maggiore

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nel cammino dell’intercultura? (Damiano 1998) Non avendo dubbi circa il fatto che la
scuola possa e debba occuparsi di intercultura, rimane da stabilire “come” lo debba fare,
ovvero quali procedure deve seguire per realizzare il progetto interculturale.
Viene così in evidenza il campo dell’innovazione scolastica, dove si studiano le
“reazioni” della scuola alle iniziative di cambiamento e si mettono a punto le strategie che
appaiono in grado – in base alle attese ed alle condizioni di esercizio – di favorire un
inserimento non riduttivo dell’intercultura nei curricoli scolastici formativi.
In definitiva, “intercultura” e “scuola” in quanto termini di un complesso problema
da risolvere, richiedono la definizione di una lettura pedagogica dell’intercultura, ovvero,
l’intesa sulla portata educativa dell’intercultura e, dunque, la relazione fra l’istituzione
scolastica e la legittimazione morale in una società multietnica, all’interno della quale i
valori sono professati secondo orientamenti plurali, spesso conflittuali e non di rado in
forme fra loro incompatibili;
Ed ancora: l’educazione interculturale deve essere intesa come una nuova
dimensione formativa in grado di sostituire il sapere cumulativo centrato su nozioni
riguardanti un monoculturalismo spesso generico. Concretamente questo significa aprire i
nostri programmi ad impostazioni metodologiche che “decentrino” la visione etnocentrica
che nonostante i molti sforzi è ancora fortemente presente in tutti i livelli delle nostre scuole
e che stimolino i nostri allievi alla ricerca di confronti e paragoni che sono alla base di ogni
visione consapevolmente critica della realtà.

L’insegnante: artigiano e navigatore


L’educazione interculturale diventa, in questa luce, un’impostazione generale, che
ha poco a che vedere con il problema minuto dell’accoglienza e dell’integrazione nel nostro
sistema scolastico dei giovani figli degli immigrati provenienti dalle regioni dell’Europa
orientale e dei continenti extraeuropei. Per la maggioranza di essi, come avviene sul piano
sociale per i loro genitori, si tratta soprattutto di prendere atto non solo delle loro diverse
storie e delle diverse tradizioni a cui il loro milieu familiare si rifà; si tratta di prendere atto
della marginalità sociale, economica e culturale in cui, insieme alle loro famiglie, vivono
l’esperienza del trasferimento nel nostro paese.

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Quale elemento centrale all’interno del vasto ecosistema culturale di cui fa parte, la
scuola può diventare terreno privilegiato dell’incontro tra “soggetti umani con progetti
diversi” (Lorenzetto 1988) e l’ambiente più adatto per la conoscenza e la comprensione
reciproche. La presenza in classe di scolari stranieri apre nuovi problemi formativi e
didattici: a causa della diversità culturale e linguistica aumentano i problemi legati
all’apprendimento; le metodologie didattiche consuete risultano insufficienti; la
programmazione incompleta; i criteri di valutazione superati; il nuovo sistema culturale di
cui l’alunno è espressione spesso mette in crisi la concezione educativa e la prassi
metodologica dell’insegnante.
In questo scenario diventa cruciale la competenza professionale dell’insegnante che,
assumendo il ruolo determinante di mediazione e di progettazione educativa, deve acquisire
una maggiore conoscenza dei problemi legati all’intercultura e deve saper padroneggiare gli
strumenti metodologici per riuscire ad essere in grado di comprendere e di gestire i
complessi problemi che emergono in un contesto interculturale: conoscere la cultura del
bambino immigrato, imparare a stendere un suo profilo biografico finalizzato ad una
progettazione educativa individualizzata, gestire in modo nuovo la classe e affrontare i
problemi di insegnamento delle materie curricolari in un contesto multietnico; in particolare
far proprie le nuove competenze di glottodidattica necessarie per mettere in grado gli
scolari di affrontare meglio i problemi del bilinguismo. Viene a delinearsi così una figura di
insegnante come intellettuale, esperto in ‘navigazione dei saperi’23, esperto in procedure, in
ricerca-azione, nella costruzione di itinerari flessibili, come mediatore interculturale ed
educatore-ricercatore.
Molti studiosi concordano nel sostenere che il buon esito dell’inserimento scolastico
e culturale del soggetto immigrato è legato soprattutto alla professionalità degli educatori e
degli insegnanti; la trasformazione, da parte dello scolaro, delle conoscenze interculturali in
atteggiamenti è più il frutto del modo di essere e di agire dei suoi insegnanti che delle
informazioni ricevute. “Le differenze che l’insegnante coglie in classe nei confronti dello
scolaro immigrato sono, non di rado, la conseguenza degli schemi concettuali che orientano

23
La definizione di insegnante come “navigatore del sapere” si deve a Jean-Loup Motchane, “La grande Illusione”, in Le Monde Diplomatique, n.2,
anno V.

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inconsciamente la sua percezione dell’alterità culturale, anche se, razionalmente, egli li


rifiuta”(Desinan 1997:79); l’atteggiamento e le attese degli insegnanti nei confronti del
bambino immigrato si rivelano, dunque, determinanti per il successo educativo e per lo
stesso profilo scolastico:
Un’altra questione è, perciò, quella degli atteggiamenti mentali che gli insegnanti
debbono assumere e dell’opera di revisione culturale che essi debbono compiere su se
stessi.
Introdurre la dimensione dell’interculturalità nella professionalità docente non è
un’operazione indolore né di poco conto, perché investe il modo stesso di concepire la
funzione docente; si tratta di accettare l’impegno ad introdurre nella scuola i problemi
cruciali del nostro tempo (razzismo, conflitti etnici, sviluppo planetario, pace, sviluppo
sostenibile, equilibrio ecologico, diritti umani, ecc.) e di farli diventare temi nodali della
mediazione culturale e del lavoro scolastico.
Introdurre la dimensione interculturale nei processi di apprendimento per il docente
significa diventare osservatore attento dei bisogni e delle esigenze di tutti i suoi
interlocutori, guida competente dei processi comunicativi, mediatore culturale delle
diversità.
Al docente si chiede, pertanto, di non limitarsi al compito di trasmettitore di
conoscenze e allenatore di abilità, ma di impegnarsi in un processo di ricostruzione delle
relazioni sociali, di farsi carico della fatica del cambiamento epocale che la nostra società
sta affrontando.
Gli si chiede di lavorare accanto e insieme a tutti gli altri attori sociali che nella
comunità si sforzano di aprire nuovi percorsi e di far emergere nuove sensibilità, in nome di
una pedagogia postmoderna, che non ha la pretesa di trovare programmi unitari ma di
articolarsi sui bisogni e sulle risorse particolari e che utilizza le categorie e le strategie della
complessità.
La scuola, sia essa il laboratorio sia la classe, potrebbe allora diventare una bottega
artigianale dove costruire e decostruire non solo significati ma anche identità; una polis
entro cui avviare e sostenere l’esplorazione identitaria, rinegoziando quotidianamente le
appartenenze di ciascuno.

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Un laboratorio dove inevitabilmente la funzione docente cambia; cambia il


“mestiere dell’insegnante; da “possessore-detentore del sapere, da trasmettere secondo
percorsi prefissati e predefiniti, a esperto artigiano ed esperto navigatore che conosce e
condivide i modi con cui il sapere e la cultura si costruiscono e si ricercano” (Tosolini,
Tovato 2001:42). Un ruolo difficile in quanto implica la disponibilità a mettersi
costantemente in gioco; un ruolo costruito sull’autorevolezza e non sull’autorità, sulla
capacità di collaborare, di motivare, di indicare percorsi plurimi di risoluzione dei problemi,
di sollecitare alla ricerca verso nuovi schemi interpretativi e verso la sperimentazione di
forme diverse e plurime modalità di codificazione della conoscenze.
L’insegnante come “artigiano postmoderno” impegnato in un continuo processo di
“apprendistato cognitivo” (Collins, Brown Holum 1991:6-11;38-46); artigiano esperto di
differenze e di pluralità costruttore e decostruttore di senso e significato; esperto di
mediazione, e dunque di interculturalità, capace di modulare diversi linguaggi, molteplici
stili e altre culture.
L’educazione interculturale richiama a prestare la massima attenzione alle
specifiche forme di apprendimento che caratterizzano, appunto, l’interculturalità così come
peraltro la identifica e la circoscrive Duccio Demetrio: “ciò che chiamiamo interculturalità
poggia su forme di apprendimento trans-cognitive: ovvero sulla maggiore o minore capacità
di locomozione da un atto cognitivo all’altro, da una forma mentis all’altra. La pedagogia
interculturale trova qui le sue vere origini. Essa consiste nell’educare non semplicemente
alla conoscenza delle differenze, riscontrabili in soggetti di origine culturale diversa, ma
nell’educare alla transitività o mobilità cognitiva” (Demetrio 1997:9).
L’educazione interculturale è anche, e soprattutto, imparare ad “emigrare”, allenare
la propria mente al viaggio, ai passaggi, alle transizioni, all’andare e all’incontrare;
imparare a costruire la propria identità al plurale. Nelle interazioni di matrice interculturale
la relazione con l’altro è sempre un gioco identitario dove identità fluide, capaci di
transitività cognitiva, tessono continuamente la relazione con l’alterità nella logica della
reciprocità.
La trasformazione è profonda; muovere verso forme transcognitive di
apprendimento, verso la transitività o la mobilità cognitiva costituisce una rottura

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epistemologica che riguarda sia le modalità di apprendimento che quelle di trasmissione


della cultura; e tutto questo interroga in particolar modo la scuola e i relativi ambiti
formativi.
Dunque, termini e categorie come ordine, simmetria, misurabilità, armonia,
equilibrio, omogenietà, costanza, legge, certezza, verità, oggettività, razionalità, regolarità,
prevedibilità erano propri di una cultura scientifica, filosofica e pedagogica che prediligeva
la chiarezza, la “distinzione”, ma che era istituzionalmente portata alla conservazione e alla
staticità.
I sostenitori della teoria della complessità non negano, nemmeno in partenza, il
ruolo della ragione, dell’ordine e dell’organizzazione, ma sostengono che la vita,
l’evoluzione, il cambiamento, l’apprendimento convivono e nascono (ecco il nuovo lessico
della complessità) dal disordine, dal caos, dalle perturbazioni, dalle dissimmetrie,
dall’instabilità, dal non-equilibrio, dalle fluttuazioni, dai processi irreversibili; si presta
particolare attenzione alle reti caotiche, ai sistemi complessi e in bilico, alle rotture di
simmetrie.
La nuova epistemologia sottolinea il ruolo delle nozioni di situazione,
classificazione, differenza, funzione, contesto, appartenenza. Non pochi sono i problemi,
perché si tratta di muoversi all’interno di situazioni esistenziali molto complesse, nelle
quali conta la capacità – acquisita tramite l’apprendimento – di impostare operazioni
mentali in cui siano sufficientemente espliciti i contesti, i quadri di riferimento.
Sul piano affettivo, cognitivo e sociale (per indicare solo alcune situazioni chiave)
sono, pertanto, in gioco le modalità esistenziali ed epistemologiche con cui vengono
conosciute e vissute contingenze complesse e, senza ombra di dubbio, conflittuali.

Strategie per la prevenzione della dispersione scolastica: la didattica inclusiva


Le finalità educative fin qui indicate impongono necessariamente una riflessione
sulle metodologie didattiche poiché sono queste, di fatto, ad articolare le modalità
dell’intervento educativo, a stabilire i criteri di valutazione, a qualificare e quantificare gli
esiti del percorso e, dunque, ad assicurare il successo formativo. “Il successo formativo
risulta quindi strettamente connesso all’individuazione e al raggiungimento di mete

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comuni, fissate per tutti i soggetti (l’aspetto quantitativo dell’apprendimento) e di mete


personali (aspetto qualitativo), differenziate sulla base di abilità, inclinazioni, talenti,
propensioni individuali” (Frabboni, Baldacci 2004:105).
La condizione essenziale per assicurare il successo formativo all’azione educativa
della scuola e, dunque, a ciascun studente è insita nella qualità della didattica; ovvero, il
crescente fenomeno dei ritardi e degli abbandoni nei percorsi formativi della scuola è da
imputare alla rigidità delle metodologie didattiche che, ancora oggi - per la maggior parte
dei casi - concentrano la loro azione educativa nella lezione trascurando il ricorso alle altre
modalità formative, come le attività laboratoriali e seminariali, le esercitazioni, le attività di
ricerca e di tirocinio.
Se - come abbiamo precedentemente sottolineato - ad ogni individuo si riconosce il
diritto all’unicità, la scuola, utilizzando adeguate strategie didattiche, deve garantire - oltre
allo sviluppo delle capacità di interazione nel gruppo – anche la valorizzazione delle
potenzialità individuali; come per altro recita l’Atto di indirizzo del Ministero della
Pubblica Istruzione per l’anno 2008, che esorta a realizzare “strategie educative e
didattiche che tengano conto della singolarità di ogni persona, della sua articolata identità,
delle sue capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione, ponendo
lo studente al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti cognitivi, affettivi, corporei,
etici e spirituali”. Valorizzare le potenzialità individuali significa, in altri termini, impedire
che “le diversità, dovute alle più disparate provenienze, sociali, economiche e culturali
rappresentino un ostacolo nel percorso scolastico” (Frabboni, Baldacci 2004:105) e,
dunque, prevenire la dispersione scolastica.
Attualmente nella scuola italiana convivono - e spesso si confondono - due modelli
didattici che si ispirano a sfumature differenti del concetto di individualizzazione:
l’individualizzazione vera e propria e la personalizzazione. Per Baldacci
l’individualizzazione “si riferisce alle strategie didattiche che mirano ad assicurare a tutti
gli studenti il raggiungimento delle competenze fondamentali del curricolo, attraverso una
diversificazione dei percorsi di insegnamento”. La personalizzazione “indica invece le
strategie didattiche finalizzate a garantire ad ogni studente una propria forma di eccellenza
cognitiva attraverso possibilità elettive di coltivare le proprie potenzialità intellettive”

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(2006: 11). L’individualizzazione, praticata ad esempio dal Mastery Learning (il modello
maggiormente formalizzato di individualizzazione), e a cui si ispirano gli obiettivi di
apprendimento e i traguardi per lo sviluppo delle competenze presenti nelle Indicazioni per
il curricolo, si basa sull’assunto - peraltro difficilmente riscontrabile in una classe
plurilingue ad abilità differenziate - che tutti, con i dovuti accorgimenti, possano
raggiungere obiettivi uguali; la personalizzazione prevede invece un adattamento degli
obiettivi e dei contenuti costruito sulle effettive capacità o esigenze individuali.
Il concetto di individualizzazione intesa come diversificazione delle strategie
didattiche per raggiungere obiettivi standard minimi fa parte dei principi che hanno guidato
il processo di democratizzazione della scuola, ma non appare adeguato per le classi ad
abilità differenziate, perché gli obiettivi standard non corrispondono ai bisogni educativi di
tutti gli alunni come, ad esempio, gli stranieri.
Il raggiungimento di standard minimi, infatti, soprattutto ai livelli più alti di
istruzione, richiede comunque prerequisiti come la padronanza linguistica, che non tutti gli
studenti della scuola italiana hanno, anche se solo in via transitoria, e rende necessaria di
conseguenza l’introduzione di “correttivi” in sede di valutazione, rinunciando nei fatti a
riconoscere le competenze raggiunte e a valorizzare il percorso formativo effettivamente
svolto.
Il concetto di personalizzazione appare invece in grado di eliminare la connotazione
negativa legata al concetto di differenza, slegandolo da quello di standard minimo che
risulta riduttivo per coloro in grado di superarlo e privo di senso per coloro che non hanno
la possibilità di raggiungerlo o per i quali non è significativo. La personalizzazione, inoltre,
prevedendo percorsi didattici diversificati per raggiungere obiettivi personali, può garantire
- anche ai ragazzi stranieri appena arrivati - l’esercizio, fin dal primo momento, delle
competenze personali, ad esempio attraverso la possibilità di frequentare, per un maggior
numero di ore, lezioni capaci di valorizzare mezzi espressivi alternativi alla lingua italiana,
come disegno, musica, lingue straniere, educazione motoria, con ricadute positive sul loro
senso di autostima e sulla loro motivazione.
In altre parole, l'individualizzazione ha lo scopo di far sì che certi traguardi siano
raggiunti da tutti, la personalizzazione è finalizzata a far sì che ognuno sviluppi propri

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personali talenti; nella prima gli obiettivi sono comuni per tutti, nella seconda l'obiettivo è
diverso per ciascuno. Aiutare ogni studente a sviluppare una propria forma di talento è
probabilmente un obiettivo altrettanto importante di quello di garantire a tutti la padronanza
delle competenze fondamentali.
Occorre però un grande esercizio di responsabilità da parte dei docenti, poiché
adottare metodologie didattiche personalizzate può portare, come segnala Vertecchi (2003),
a rinunciare troppo facilmente a raggiungere,e in alcuni casi anche a superare, lo standard
minimo anche in quelle situazioni in cui questo sarebbe possibile.
Uno dei motivi per cui la didattica tradizionale produce dispersione è che la ricerca
dell’adeguatezza tra le caratteristiche della proposta formativa e le caratteristiche degli
alunni è posta a totale carico di questi ultimi. In altre parole, nella nostra realtà scolastica
spesso è l’alunno che cerca di adattarsi alla proposta formativa della scuola, se non vi riesce
significa che non possiede quei prerequisiti necessari per affrontare quel percorso scolastico
rischiando, così, di andare incontro ad un serie di insuccessi scolastici.
Frabboni individua nella didattica individualizzata, nella personalizzazione degli
itinerari formativi e nel spazio formativo del laboratorio le strategie didattiche capaci di
prevenire la dispersione. (Frabboni, Baldacci 2004).
La didattica individualizzata prevede il raggiungimento di standard minimi comuni
attraverso l’adozione di percorsi differenti ma con una omogeneità di risultati da parte di
tutti i soggetti.
La personalizzazione degli itinerari formativi della scuola propone un adattamento
degli obiettivi di apprendimento ai bisogni specifici degli allievi; una scuola, dunque, “a
misura della sua utenza, rispettosa degli stili cognitivi dei suoi allievi; dei loro alfabeti
esistenziali (bisogni, emozioni, interessi, aspettative, utopie); dei loro alfabeti cognitivi
(registri linguistici, congegni logico-formali, potenzialità creative). (…) Pertanto, il tratto
saliente della personalizzazione è costituito dal pluralismo dei percorsi”.
Infine i laboratori intesi quali spazi formativi finalizzati ad assicurare alla scuola un
assetto organizzativo di stampo “modulare” aperto, polivalente, multispaziale; sia come
spazi di natura disciplinare e a carattere permanente (quali le aule specializzate di scienze
naturali, di chimica, di lingua straniera, di musica, di tecnologia, di geografia, ecc.), sia

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come spazi di natura multidisciplinare (quali le aule trasversali della comunicazione,


dell’ecologia, dell’immagine, del teatro, dell’informatica, della pittura-scultura, ecc.)

La didattica interculturale
I dispositivi della didattica personalizzata risultano quanto mai efficaci in contesti
scolastici in cui siano presenti alunni stranieri che, per ovvi motivi, risultano maggiormente
esposti al rischio di dispersione scolastica.
La competenza degli insegnanti risulta, senza dubbio, centrale nella prospettiva
interculturale, tanto più che il problema della formazione degli insegnanti è al centro di
ogni sistema formativo.
La presenza in classe di alunni stranieri apre nuovi dinamiche e nuovi problemi
formativi e didattici: a causa della eterogeneità linguistico-culturale della popolazione
scolastica aumentano i problemi legati all’apprendimento; le metodologie didattiche
consuete risultano insufficienti; la programmazione incompleta; i criteri di valutazione
superati; il nuovo sistema culturale di cui l’alunno è espressione mette in crisi l’impianto
educativo-formativo e la prassi metodologica dell’insegnante.
La didattica interculturale implica, pertanto, un riesame delle metodologie educative
e degli attuali saperi insegnati nella scuola, avendo chiara la consapevolezza che
l’educazione interculturale non è una nuova disciplina che si aggiunge alle altre, ma un
punto di vista, una prospettiva, un’ottica diversa con cui trasferire i contenuti delle
discipline attualmente insegnate.
L’obiettivo non è solo quello di fare appello ai valori per combattere il razzismo,
l’etnocentrismo, la discriminazione, non è solo quello di favorire un reale inserimento degli
alunni stranieri nelle classi, ma è anche quello, per ciò che concerne la scuola, di una
discussione sui saperi e sulle innovazioni da introdurre per permettere agli alunni - italiani e
stranieri - di comprendere i nodi fondamentali dei grandi problemi del nostro tempo:
interdipendenza, immigrazione, disuguaglianza socio-economiche, razzismo, pace, guerra,
ambientalismo, ecc.
Molte sono le definizione di educazione interculturale che sono state indicate negli
ultimi anni in seguito alle sperimentazioni condotte nei contesti educativi italiani e, tuttavia,

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è possibile affermare che la ricerca educativa interculturale si muove essenzialmente lungo


due direttrici.
-a) l’individuazione delle strategie didattiche volte a favorire il processo di reale
inserimento degli allievi stranieri nella scuola;
-b) poiché l’educazione interculturale si rivolge a tutti (e, in particolare, agli
autoctoni) la ricerca individua le strategie didattiche volte a favorire abiti di accoglienza
negli alunni italiani. Ciò si traduce nella revisione, nella rivisitazione e nella rifondazione
dell’asse formativo della scuola che non deve mirare alla formazione del cittadino italiano,
ma alla formazione di una cittadino del mondo che vive e agisce in un contesto globalizzato
e interdipendente (Susi 1999).

Per concludere
La dispersione scolastica è un fenomeno complesso, sia nella definizione che nella
individuazione dei fattori che lo originano e delle implicazioni che comporta.
Parlare di dispersione scolastica significa far riferimento ad un insieme di insuccessi
che non si esauriscono con il solo evento chiamato abbandono o dropping out; piuttosto
diventa l’esito di una serie di fallimenti nella carriera formativa, a cominciare dai risultati
scadenti o al di sotto delle proprie possibilità, per arrivare ai rallentamenti dovuti a
cambiamenti di scuola, interruzioni o bocciature (i cosiddetti “percorsi accidentati” o
irregolari) che conducono, non di rado, alla fuoriuscita definitiva dal sistema formativo.
La dispersione, dunque, come sinonimo di insuccesso scolastico, viene a delinearsi
come un’occasione mancata per molti giovani che non riescono ad usufruire di tutte le
opportunità di istruzione offerte dal sistema educativo e, dunque, non riescono a
raggiungere livelli formativi più elevati. Combattere la dispersione, oggi, significa, quindi,
più precisamente e ambiziosamente, promuovere il successo scolastico.
La scuola come opportunità e strumento di crescita di una società democratica, la
scuola che non lascia indietro nessuno – “non uno di meno” - ma costituisce un fattore di
promozione sociale e culturale per tutti i cittadini – nessuno escluso; la scuola come luogo
di dialogo e trasmissione di un sapere critico. Questi, come tanti altri elementi del
messaggio di Don Milani, sono ormai entrati nel patrimonio della pedagogia moderna e

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sono, insieme, obiettivi e motivi ispiratori delle politiche educative di istituzioni ed enti
locali.
L’analisi degli elementi che contribuiscono a generare il fenomeno della dispersione
scolastica coinvolge la scuola ma anche l’extrascuola; “spesso emerge però un quadro
paradossale di una tendenza alla paralisi degli interventi in quanto ciascuna delle due realtà
coinvolte percepisce l’altra come fonte del problema e pensa dunque che spetti ad essa farvi
fronte, mentre resta cieca e, dunque, inattiva rispetto alle proprie responsabilità e rinuncia
così ad agire sui fatti della dispersione che sarebbero sotto il suo controllo” (Frabboni
Baldacci, 2004: 55).
Per cercare di uscire da questo quadro paradossale, che contribuisce ad alimentare il
fenomeno della dispersione, occorre mutare quadro di riferimento; per contrastare la
dispersione è necessario acquisire una capacità di lettura del fenomeno che sia decentrata e
di sistema. All’interno di questa “cornice di sistema (…) ogni agenzia deve pensarsi come
fonte di possibili fattori di rischio per la dispersione, predisporre interventi in base al
principio di pertinenza formativa, secondo il quale ogni agenzia, in primo luogo, deve
cercare di intervenire sui possibili fattori di rischio che risultano sotto il proprio controllo e,
in secondo luogo, deve cercare di coordinare i propri sforzi con quelli delle altre agenzie
formative. (…) Il tutto nella cornice di un sistema formativo integrato e quindi nella ricerca
di complementarietà e sinergie con la scuola” (Frabboni Baldacci, 2004: 74).

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