Quando si parla di FRUTTI DIMENTICATI, l’immaginazione comune evoca un albero, a volte un fiore
oppure un frutto che un tempo erano importantissimi sia perché fornivano sostentamento in periodi di
carestia alimentare, sia perché venivano utilizzati in medicina per curarsi ed alleviare i malanni.
“Tutti gli alberi ed arbusti che i nostri contadini piantavano in prossimità delle case coloniche avevano
prima di tutto una funzione pratica: ogni pianta non veniva messa a dimora casualmente, ma per fornire
cibo o cure, oppure alimenti e riparo al bestiame, o per mitigare gli eccessi del clima. La funzione
estetica era solamente un aspetto secondario.” ricorda Luciano Pallotti, sulla rivista “Romagna, ieri,
oggi e domani”.
“Frutto piccolo, poco commerciabile, deperibile, dal sapore particolare”: questi sono gli aspetti
negativi che fanno sì che questi frutti siano rimasti ai margini del mercato, sebbene ricchi di sapore e
prodotti da piante robustissime, resistenti alle malattie.
Le piante di azzeruolo, cotogno, corniolo, melograno, giuggiolo, pero volpino ecc: nel dopoguerra, data
anche l’evoluzione del mercato agricolo, sono state abbandonate ed ora rischiano l’estinzione. Con loro
si perderanno migliaia di “fole”(favole), detti, indovinelli o soltanto modi di dire, che i nonni
tramandavano ai più piccini, raccontandoli davanti al focolare o durante le veglie nella stalla.
Pur non producendo quantità elevate di frutti, queste piante rappresentavano durante tutto l’arco
dell’anno una continuità alimentare. Alla fine di maggio maturavano le more di gelso, poi a giugno
“fruttaio” si raccoglievano le prime varietà di pere, mele, ciliegie e albicocche; alla fine di agosto
arrivavano le corniole e l’autunno portava cotogne, melograne, sorbe e nespole.
Una tradizione legata al modo di raccogliere la frutta descrive così la sua ritualità: “L’agricoltore
lasciava almeno tre frutti sulla pianta, uno per il sole, uno per la terra e infine uno per la pianta che
aveva lavorato duramente e si meritava un premio”.
Nei lunghi inverni del passato, le popolazioni contadine hanno ingannato la fame cibandosi di frutti che
venivano essiccati e conservati nel “fruttaio” perché maturassero (è il caso di sorbe e nespole). Quelli
che non si prestavano al consumo immediato, per le loro caratteristiche organolettiche, venivano cotti
per ottenere ottime marmellate, gelatine e salse, altri quali corbezzoli, prugnoli, sorbe impiegati per la
preparazione di bevande leggermente alcoliche.
In questo lavoro, grazie alla preziosa collaborazione dei Ristoranti “Fava” di Casola Valsenio (Ra) e
“Avion Blu” di Modena, ho trascritto ricette antiche, fornendo nel contempo anche spunti per nuovi e
sfiziosi piatti.
Facendo inoltre riferimento ad antichi trattati di medicina e di cultura popolare ho cercato di dare più
informazioni possibili sull’utilizzo in campo medico e cosmetico.
Fortunatamente negli ultimi anni molti Comuni, Associazioni e Enti, con la collaborazione di alcuni
agricoltori organizzano iniziative, mostre e sagre paesane che mantengono in vita la coltivazione di
questi frutti. nonchè le tradizioni ad essi collegate.
Questo libro nasce quindi come risposta alle frequenti domande curiosità e consigli che i frequentatori
di queste sagre ci hanno posto negli anni.
Ciò che distingue questo manuale da tanti altri dedicati al medesimo argomento non è solamente la
molteplicità di frutti descritti, ma la presenza di molteplici informazioni (medico-cosmetiche, modi di
dire, tradizioni, indovinelli, approfondimenti) descritte in modo vivace e immediato.
Ora tocca al lettore rimboccarsi le maniche, ricordando che “…vi è uno stretto rapporto tra bosco,
campo e giardino, in fondo il giardino non è altro che il prolungamento degli altri…”.
Katia Agide
Elenco Frutti Dimenticati
♦ Agazzino
♦ Albicocco (Luiset, Paviot, Reale d’Imola, Tondina di Tossignano, Amabile Vecchioni, Ivonne
Liverani, Pisana, Bianca, Veecot)
♦ Azzeruolo
♦ Biancospino
♦ Biricoccolo
♦ Castagno
♦ Ciliegio (Selvatico, Pado, Canino, Amarena, Mirabolano, Ciliegio Biggerau Burlat, C.Durone
Giallo, C.Durone di Vignola, C.Mora di Vignola, C.Mora di Diolo, C.Fiore di Maggio,
C.Progressiflora)
♦ Corbezzolo
♦ Corniolo
♦ Cotogno
♦ Crespino
♦ Fico (Albo, Cuore, Madama, Dottato, Verdino, Brogiotto Nero, Monaco)
♦ Frangola
♦ Gelso
♦ Ginepro
♦ Giuggiolo
♦ Kaki (Mela, Vaniglia, Cioccolatino)
♦ Lampone
♦ Mandorlo
♦ Melograno
♦ Mora di spino
♦ Nespolo
♦ Nocciolo
♦ Noci
♦ Olivello Spinoso-Olivagno
♦ Pesco (Bella di Cesena, Bella di Lugo, Bonfiglioli, Bonvicini, Buco Incavato, Carota, Gialla di
Piangipane, Morellona, Piatta a Polpa bianca, Pieri 81, Sant’Anna Calducci, Sanguinea)
♦ Prugnolo
♦ Rosa Canina
♦ Sorbo (Montano, Alpino, Ciavardello, degli Uccellatori, Domestico)
♦ Spino Cervino
♦ Susino (Agostana di Cesena, Di Lentigione, Favorita del Sultano, Favorita Maggiorata, Grossa
di Felisio, Occhio di Pernice, Pisera, Regina Claudia d’Althan, Regina Claudia Mostruosa,
Regina Claudia Trasparente, Regina Claudia Verde, San Pietro, Spiccalosso, Susino Segondo,
Zucchella gruppo)
♦ Uva Spina
AGAZZINO (Pyracantha coccinea M.J. Roemer)
Famiglia : Rosaceae
Nomi dialettali : Marruca nera, Lazzaròl.
Etimologia : Voce dialettale toscana di etimologia incerta.
Arbusto spinoso e
caducifoglio. Distribuito nella regione mediterranea, in Crimea, nel Caucaso ed in
Fioritura: Maggio- Asia minore. Naturalizzato nell’America boreale. Specie xerofila e
giugno. decisamente eliofila, predilige suoli mediamente ricchi in sostanze
Altezza: fino a 2 m. nutritive. Si può trovare in siepi, boschi luminosi e radure. Si presenta
Ambiente: fino alla come un arbusto ramificato e cespitoso, sempreverde, con corteccia
dapprima giallastra e poi rosso cupo. I rami sono sparsi con spini forti
media collina.
alterne, acute. Foglie persistenti, con piccolo picciolo, ovate oblunghe,
minutamente dentate, glabre, nella pagina superiore sono lucide color
verde scuro, sotto verdi pallido. I fiori si presentano in numerosi
corimbi, densi, terminali ai rai laterali; sono piccoli a calice, i petali sono bianchi. Il frutto piccolo è
rosso mattone a maturità globoso, della grandezza di un pisello, polposo, molle racchiude 5 semi.
Conserva di albicocche
Prendete albicocche ben mature e di buona qualità, levate loro il nocciolo, mettetele al fuoco senz’acqua
e mentre bollono disfatele col mestolo per ridurle in poltiglia. Quando avranno bollito mezz’ora circa,
passatele dallo staccio onde nettarle dalle bucce e dai filamenti; poi rimettetele al fuoco con zucchero
bianco fine e in polvere nella proporzione di 800 grammi di zucchero per ogni chilo di albicocche
passate. Rimovetele spesso col mestolo fino alla consistenza di conserva, la quale si conosce
versandone di quando in quando una cucchiaiata in un piatto, sul quale dovrà scorrere lentamente.
Distillato d’albicocche
5 dl di alcol a 95°, 6 albicocche, zucchero, acqua distillata
Sospendete le albicocche mature in un recipiente utilizzando il metodo della garza. Versate su di esse
l’alcol facendo giungere il suo livello a tre centimetri dai frutti. Chiudete il vaso e fate macerare per 70
giorni. Eliminate la garza con le albicocche e assaggiate i prodotto. Aggiungete acqua distillata
mescolata a zucchero nella quantità desiderata. Riponete il recipiente in cantina e lasciate stagionare 2
mesi prima di degustare.
AZZERUOLO-AZZARUOLO (Crataegus azarolus, L. (sin.
Aronia))
Famiglia : Rosaceae
Nomi dialettali : Nazarella, Nazolu (Liguria), Lasarolo, Rasarolo
(Piemonte), Lazarino, Nazarena, Pom lazarì (Lombardia), Pomo lazaren, Pom
nazariol (Veneto), Cimbar (Friuli), Lazarén, pom nazareni, Pom rejèl,
Pumbrièla (Emilia-Romagna), Lazzarolo, Razzerolo, Pomo imperiale (Toscana), Lazzarolo (Abruzzo,
Lazio, Campania), ‘Nzalora, Lanzarolu (Sicilia), Lazzarolo(Sardegna).
Fioritura: IV-V.
Altezza: fino a m 10. Pianta originaria del bacino del
Ambiente: dalla costa Mediterraneo, è diffusa nell’Europa
alla media collina. meridionale, Nordafrica e Asia occidentale, grazie alla sua elevata
Propagazione: innesto rusticità lo ritrova sia nelle regioni ad inverno freddo (resiste fino a 25
(a triangolo, a spacco). gradi sotto zero), sia nelle zone ad estete calda e siccitosa. In Italia,
coltivata negli orti fin dall’epoca romana ed ora a rischio di estinzione, lo
si trova in Liguria, Piemonte, Toscana, Emilia Romagna e Sicilia).
In base al colore dei frutti si distinguono tre tipi di azzeruolo coltivati in
Italia:
- azzeruolo bianco (detto anche moscatello o lazzeruolo d’Italia a frutto bianco) i cui frutti
hanno buccia di colore giallastro chiaro;
- azzeruolo giallo (detto anche del Canada) dai frutti di colore giallo oro aranciato;
- azzeruolo rosso (detto azzeruolo d’Italia o di Romagna) dai frutti di colore rosso.
I tre tipi si distinguono anche per le caratteristiche delle foglie, che nell’a. bianco sono piccole (simili a
quelle del biancospino), spesso profondamente suddivise e provviste di due stipole a margine
seghettato; grandi, intere, di forma ovale arrotondata e provviste di due piccole stipole nell’a. giallo; di
dimensioni intermedie e pure intere, con margine seghettato, ma ovali allungate e prive di stipule nell’a.
rosso. Il portamento dell’albero si presenta espanso nell’a. rosso, semieretto negli altri due. Inoltre i
rami dell’a. rosso sono spesso provvisti di spine. I fiori in tutti e tre i tipi sono ermafroditi, di colore
bianco, riuniti in infiorescenze a corimbo che si sviluppano all’apice di rami e rametti di u anno; la
fioritura, a seconda delle latitudini, avviene tra la seconda metà di maggio e i primi di giugno. I frutti,
simili a piccole mele, spesso costoluti hanno polpa tenera di colore verde chiaro o crema dal sapore
acidulo gradevole, leggermente vinoso,croccante e profumato, contengono piccoli semi (da 1 a 5) di
natura simile ai noccioli del nespolo comune.
Come si coltiva
Quando sono innestate su biancospino le piante vanno poste a dimora lungo la fila alla distanza di circa
3-3,5 metri, se innestate su franco si porranno a 4-4,5 metri; distanze minori possono provocare un
reciproco ombreggiamento fra le piante che invece amano il pieno sole. Talora i vivaisti utilizzano il
cotogno per la rapida crescita in vivaio, ma le piante hanno la vita più breve anche per la disaffinità. Tra
le file si lasceranno 4-5 metri. La pianta se ornamentale, può essere fatta crescere liberamente e in
genere assume una forma globosa, che è allungata per l’azzeruolo bianco e per quello giallo, espansa
per il rosso. Se invece viene coltivata a scopo produttivo, il più delle volte viene allevata a vaso con 3-4
branche che partono da 1 metro circa da terra. Per quanto riguarda la potatura si potranno effettuare i
tagli necessari a far assumere all’albero la forma che si preferisce e per eliminare qualcuno dei rami
deperiti o diradare quelli troppo fitti, anche per agevolare la raccolta, specialmente se i rami hanno le
spine. Per la potatura da produzione si deve tenere presente che l’azzeruolo produce i frutti all’apice di
rami e rametti di un anno. Se questi vengono spuntati, aumenta il numero di rametti che si
svilupperanno nella loro parte mediana e quindi aumenterà la formazione di fiori per la produzione di
frutti. Per moltiplicare l’azzeruolo si ricorre all’innesto; come portainnesto viene utilizzato soprattutto
il biancospino, anche per la sua notevole adattabilità a diverse condizioni ambientali: si può impiegare
anche il franco giallo o rosso, ma la crescita delle piante così ottenute è molto lenta(12-15 anni). Altri
portainnesti possibili sono: cotogno, pero e nespolo comune.
La maturazione dei frutti avviene a partire dalla seconda decade di agosto per l’azzeruolo giallo; in
settembre invece si raccolgono i frutti dell’azzeruolo bianco e del rosso. In genere conviene effettuare la
raccolta senza attendere la maturazione completa sull’albero. Per l’azzeruolo bianco occorre intervenire
quando il colore della buccia diventa giallo chiaro, altrimenti, oltre a correre il rischio di spaccature in
caso di pioggia, si avrà il distacco del pendutolo con parte della polpa. Il rosso deve essere raccolto non
appena la superficie si è coperta completamente di rosso, altrimenti è facile la caduta a terra dei frutti,
anche se, soprattutto se il terreno è inerbito, ciò non determina grossi danni al frutto stesso. L’azzeruolo
giallo viene considerato quello dal frutto più gradevole, anche se di dimensioni più piccole degli altri
tipi che possono raggiungere gli 8-10 grammi (rosso) e i 10-15 grammi (giallo).
Essendo la raccolta fatta precocemente, i frutti devono essere lasciati a maturare ponendoli per qualche
giorno stesi sulla paglia in ambiente asciutto. Per avere una conservazione che superi i 3-5 giorni
occorre servirsi di un frigorifero con temperatura di 3-4° C; in questo modo la conservazione stessa può
giungere a 30-35 giorni.
In genere questa è una pianta rustica che può essere coltivata senza trattamenti con fitofarmaci. Tuttavia
segnaliamo le principali avversità che possono attaccare l’azzeruolo: l’oidio (Podosphaera clandestina),
la ruggine delle pomacee (Gymnosporangium clavariaeforme) e la moniliosi (Monilinia fructigena) tra i
funghi; Cydia molesta e Euproctis chrysorrhaea tra gli insetti; il colpo di fuoco da Erwinia amylovora
tra i batteri.
Conserva di azzeruole
1kg di azzeruole, 800g di zucchero, 700g di acqua
Gettare le azzeruole in acqua bollente, fa bollire per dieci minuti e, mentre sono ancora calde, togliere i
noccioli. Sciogliere lo zucchero in acqua, che può essere anche quella impiegata per bollire le azzeruole,
aggiungere i frutti e quando lo sciroppo è addensato versare nel vaso. La conserva può essere usata per
guarnire dei dolci.
BIANCOSPINO (Crataegus)
Famiglia : Rosaceae
Nomi dialettali : Spin bianch, Cagapoi, Gratacúl, Boch bianch,
Potlèing, Maruca bianca.
Arbusti e alberi, sempreverdi
o a foglia caduca.
Fioritura: Maggio-giugno.
Etimologia : Calco probabile
Esposizione: sole. del latino “ALBISPĪNUS”,
Ambiente:Pianura e collina. composto da ALBUS=bianco e SPĪNUS=spina; il nome botanico
Propagazione: seme, talea, deriva dal greco “Kràtaigos” che indicava la pianta del biancospino.
innesto. La sistematica del genere Crataegus è abbastanza confusa. I
botanici americani ne hanno elencate più di 1000 specie,
appartenenti alle zone nordiche e più temperate; successivamente il
numero è stato assai ridotto, ma resta tuttavia molto alto. L’Europa e l’Asia ne contano solo una
novantina e, di queste, il Baroni ne dà solo 3 come spontanee nel nostro paese; anzi 2, dal momento che
considera il C. monogyna una varietà dell’oxyacantha. In tutte le specie le spine non sono modificazioni
delle foglie, come in altre piante, ma veri e propri rami.
Come si coltiva
Il Crataegus è lento a crescere ed è pianta da terreni calcarei, dove prospera e cresce più rapida e
rigogliosa che altrove. Se il terreno è troppo secco non raggiungerà grandi dimensioni; al sole, alla gran
luce darà fiori e frutti in abbondanza; coltivato in posizione semi ombreggiata produrrà invece più
foglie. Il fatto che i Crataegus, e specialmente le specie nostrane, crescano un poco dappertutto, anche
in terreni poveri, non vuol dire che si debba far loro patire sete e fame. La annaffieremo invece
abbondantemente se sono esposti in un luogo caldo e luminoso e non faremo mancare loro una buona
concimazione a base di letame, una volta l’anno: le piante ci ripagheranno con una crescita più rapida e
una maggior espansione. Le specie più rustiche e nostrane si possono anche seminare: ma si tratta di un
procedimento assai lungo, che possiamo risparmiare comprando le piantine o andandocele a prendere in
campagna, se ancora molto giovani, nel periodo in cui si trovano allo stato dormiente. I floricoltori
trapiantano di frequente i C. in vivaio: in caso contrario svilupperanno lunghi fittoni che, disturbati,
tarperanno lo sviluppo della pianta. A chi volesse ricorrere ugualmente alla semina, converrà mettere i
frutti a macerare nell’acqua; i semi, separandosi dalla polpa, cadranno sul fondo del recipiente; basterà
allora farli asciugare al sole e saranno pronti. Si semina in vassoi che si tengono in serra fredda per un
lungo periodo, un anno intero, durante il quale occorrerà badare soltanto che la terra resti costantemente
umida. Di solito la germinazione avviene nella primavera del secondo anno. Ma vi sono anche specie
che germinano il terzo.
Quanto alle siepi, per farle crescere fitte si usa potare le piantine quando hanno raggiunto la grossezza
di un dito: si tagli molto basso, senza scrupoli; non tarderanno a ricacciare. Quando una siepe già adulta
minaccia di diradarsi in basso, si possono fendere i rami più grossi nel senso della lunghezza, per poi
piegarli e fissarli al terreno. Quando le piante arrivano dal vivaio, non bisogna essere timidi nel potare,
specialmente se si vogliono ottenere siepi robuste.
Vino di biancospino
20g di biancospino, 1l di vino bianco
Ponete a macerare il biancospino per una settimana nel vino bianco. Trascorso questo periodo filtrate
spremendo bene il vegetale e conservate in bottiglia. Consumate 2 bicchierini al giorno come sedativo
del sistema nervoso e per combattere l’arteriosclerosi.
- Infuso di biancospino
1 cucchiaio di biancospino(fiori), 1 cucchiaio di salvia(foglie), 1 cucchiaio di menta (foglie), 1
cucchiaio di melissa (foglie), 1 tazza d’acqua.
Miscelate bene il biancospino, la salvia, la menta e la melissa. Prelevate poi 1 cucchiaio del composto e
versatevi sopra 1 tazza d’acqua bollente, lasciando riposare per 10 minuti prima di filtrare. Bevetene 2
tazzine al giorno dopo i pasti come rimedio contro l’angina pectoris.
- Infuso di biancospino
30g di biancospino, 100g di miele, 1l d’acqua.
Gettate il biancospino in 1l d’acqua bollente e aggiungete il miele. Prendetene 8-10 cucchiaini al giorno
come rimedio contro l’arteriosclerosi.
- Infuso di biancospino
20g di biancospino(fiori), 20g di maggiorana (sommità fiorite), 2,5 dl d’acqua.
Mescolate in maniera omogenea il biancospino e la maggiorana. Dosate 1 cucchiaio e ponetelo in
infusione per circa un quarto d’ora in 2,5 dl d’acqua bollente. Trascorso questo periodo, filtrate.
Consumatene 2 tazze al giorno lontano dai pasti, una al mattino appena alzati e una alla sera mezz’ora
prima di coricarsi. Aiuta a combattere stati d’ansia e di angoscia.
- Infuso di biancospino
4 cucchiai di biancospino, 4 cucchiai di tiglio, 4 cucchiai di arancio(fiori), 4 cucchiai di violetta, 4
cucchiai di meliloto, 4 cucchiai di melissa, 4 cucchiai di luppolo, 4 cucchiai di valeriana.
Miscelate bene gli ingredienti, eventualmente aiutandovi con un pestello. Su 1 cucchiaino di miscela
così preparata versate 1 tazza d’acqua bollente e lasciate in infusione per qualche minuto prima di bere,
Bevetene 2-3 tazze al giorno. La tisana è indicata per tutti i sintomi imputabili al nervosismo, emicrania,
palpitazioni, crisi di asma, dolori gastrici.
- Infuso di biancospino
10g di biancospino(fiori), 10 g di maggiorana(sommità fiorite), 15g di tiglio (infiorescenze con brattee),
15g di fumaria(parte aerea fiorita), 2,5 dl d’acqua.
Mescolate in maniera omogenea il biancospino, la maggiorana, il tiglio e la fumaria. Dosate 1
cucchiaino di questa miscela e lasciate in infusione per 15 minuti in una caraffa di vetro contenete 2,5 dl
d’acqua bollente. Trascorso questo tempo, filtrate. Consumatene 2 tazze al giorno, mattino e sera
lontano dai pasti, come rimedio contro l’arteriosclerosi.
- Infuso di biancospino
Biancospino, lavanda, tiglio.
Miscelate i componenti in parti uguali. Ponetene in infusione un cucchiaio per ogni tazza d’acqua
bollente. Filtrate dopo 15 minuti. Bevetene due tazze al giorno per alleviare gli effetti della menopausa.
Etimologia: forma dialettale (delle regioni centro settentrionali), deformazione dall’arabo “AL-
BARQŪC” (forse attraverso il bizantino “βερξχοχχου”).
Sorbetto di Biricoccole
Biricoccole saporose e ben mature, pesate col nocciolo, grammi 300. Zucchero bianco fine, grammi
200. Acqua mezzo litro. Un limone di giardino.
Fate bollire lo zucchero nell’acqua per 10 minuti, uniteci, quando è diaccio, la polpa delle biricoccole
passata al setaccio e il sugo del limone. Tornate a passare il composto avanti di metterlo nella
sorbettiera. Questa è la dose abbondante per quattro persone.
Come si coltiva
L’impianto si effettua per semina, a buche o a solchi. Normalmente però si ricorre alla piantagione in
semenzali di 2-3 anni, per i boschi da legno, e di trapianti di 5-6 anni per i boschi da frutto. Le piante da
frutto vengono innestate in vivaio ad anello o a corona. L’innesto può attuarsi, a corona o a spacco,
anche in bosco, utilizzando i giovani polloni e piante da seme con l’impiego, nei primi anni, di pali
tutori. Dopo l’impianto del castagneto da frutto può essere utile una concimazione. Nei primi anni
vanno eseguiti risarcimenti, sfollamenti, sarchiature e una leggera potatura di allevamento. Il Castagno
viene governato a ceduo o ad alto fusto. All’inizio della fruttificazione (15-20 anni) la densità del
castagneto da frutto deve essere di un centinaio di piante per ettaro, che possono ridursi a 50-70
all’epoca della piena fruttificazione (45-50 anni).
Le cure culturali nelle fustaie da legno o nei cedui a turni lunghi sono limitate a diradamenti fino al
conseguimento della densità ottimale (1000-10000 ceppaie, a seconda della durata del turno). L’età
delle piante per la produzione del legno non dovrebbe superare i 100 anni. Per il castagneto da frutto si
considera necessaria la sostituzione dopo 120-150 anni, poiché la fruttificazione declina sensibilmente. I
castagneti da frutto sono puri, mentre quelli cedui possono essere consociati al castagno ornello, carpini,
tremolo, abete bianco e faggio.
Attualmente il castagno ha perduto gran parte dell’importanza che i nostri nonni gli davano, sia per
l’esodo dalle campagne (in cui forniva uno dei principali alimenti), sia per l’attacco di due gravi
malattie fungine, il “cancro della corteccia” ed il “mal dell’inchiostro”, che per fortuna tuttora sembra
essersi attenuato.
La sera del 25 novembre, Santa Caterina, che tradizionalmente dava inizio all’inverno, era usanza che il
“moroso” facesse visita alla fidanzata facendosi precedere dal “bracco”, una persona anziana ed esperta
incaricata di far filare tutto liscio fino al matrimonio, il quale reggeva un sacchetto di marroni che, cotti
sulla fiamma del focolare o bolliti con le foglie di alloro, avrebbero rallegrato i convenuti e favorito il
matrimonio ricco di figli.
Nelle zone del Piacentino si balla ancora oggi sotto i castagni al suono allegro delle fisarmoniche, come
in un antico rituale festoso pagano e si canta:
“Sotto la foggia de castagna Sotto la foglia di castagna
grande festa se ghe fa, grande festa ci si fa,
se ghe mangia e se ghe beva ci si mangia, ci si beve
e la piv se fa sonà” e la zampogna si fa suonare.
Fin dalla metà dell’800 nei pressi di un castagno secolare, allora esistente a Granaglione (BO), si
svolgevano le “nozze con l’albero”; prima del tradizionale matrimonio, l’allegra brigata dei convitati si
raccoglieva intorno ad esso contado in girotondo la seguente filastrocca:
“Questo è il castagno fiorito,
tu sarai mio marito.
Questo è il castagno delle foglie,
tu sarai mia moglie.”
In realtà le “nozze con l’albero” avevano il significato di trarre dalla grossa pianta un vigore di cui si
sarebbe arricchito l’organismo umano;l’uomo si sarebbe assicurato l’energia fecondativa, e la donna
avrebbe avuto la certezza di essere feconda.
A Barsi (Piacenza), nella notte verso il 2 Novembre, vengono bollite insieme castagne e piccole pere,
che ai primi chiarori dell’alba vengono versate in una zuppiera e lasciate sul tavolo di cucina, affinché i
defunti se ne cibino.
In tutta l’area Appenninica Emiliano-Romagnola, e anche in pianura, vi era l’antica concettualità
secondo la quale l’uomo sarebbe derivato dall’albero, questa era inconsciamente suffragata dall’usanza
degli adulti di mostrare ai ragazzi un vecchio albero di castagno cavo, facendogli credere che proprio
dal buco apertosi nel tronco erano nati.
Questi indovinelli e modi di dire, che seguono, hanno tutti la stessa risposta stiamo parlando della
castagna:
“E pêder lungagnô, la mêder spinusêla, la fjôla tânta bêla, che tot la vò spusê”
(Il padre spilungone, la moglie spinosetta, la figlia tanto bella, che tutti la vogliono sposare)
“La maténa a culaziô socce e lebbrocce, castagne e marôn. E dé a desné, socce e lebbrocce, castagne e
brusé. E la sira pu da zâna, socce e lebbrocce, castagne e farâna.”
(La mattina a colazione, le ballotte, castagne e marroni. Il giorno a desinare, le ballotte, castagne
bruciate. E la sera poi da cena, le ballotte, castagne e polenta)
Decotto di castagne
150g di carrubo (frutti), 50g di castagne (buccia), 2 dl d’acqua
Pestate i frutti di carrubo e la buccia di castagna, macinate il tutto e fate bollire per 5 minuti. Lasciate
riposare per 10 minuti, filtrare e somministrate ai bambini 7-8 cucchiaini al giorno per combattere le
diarree infantili.
Infuso di castagno
1 manciata di castagno(foglie), 1 l d’acqua
Ponete a riposare le foglie di castagno in 1 l d’acqua bollente per 20 minuti. Filtrate e fate dei
gargarismi più volte nel corso della giornata.
Bevete 2 tazze al giorno di questo infuso per combattere la tosse.
Confetture di castagne
1kg di castagne (marroni), sbucciate, 700g di zucchero, 1 stecca di vaniglia.
Incidete la buccia delle castagne e bollitele per qualche minuto; sbucciate ancora calde e mettetele di
nuovo in una pentola con acqua a bollore. Cuocete per circa 20 minuti a fuoco basso, quindi passatele
nel passaverdura e pesatele. Preparate uno sciroppo sciogliendo lo zucchero in 1 bicchiere d’acqua: sarà
pronto quando il cucchiaio formerà in filo di 4-5 cm. A questo punto unite allo sciroppo la purea di
castagne e la stecca di vaniglia e cuocete ancora per circa 30 minuti, mescolando. Invasate a caldo, dopo
aver eliminato la stecca di vaniglia.
Pasta di castagne
2kg di castagne, zucchero
Incidete la buccia delle castagne e bollitele per qualche minuto; sbucciatele ancora calde e mettetele di
nuovo in pentola con acqua a bollore. Cuocete per circa 20 minuti a fuoco basso, quindi passatele nel
passaverdura aiutandovi semmai con un po’ d’acqua di cottura. Pesate il passato e mettete al fuoco
l’eguale dose di zucchero sciogliendolo con poca acqua, portate a bollore mescolando con cura per
qualche minuto. Unite la purea di castagne allo sciroppo e senza smettere di mescolare fate riprendere
bollore. Spegnete dopo alcuni minuti, lasciate intiepidire e conservate in barattoli di piccole dimensioni.
Montebianco
600g di castagne, 50g di zucchero, 20g di burro, 1 tuorlo d’uovo, 2 dl di panna, zucchero a velo, latte,
un baccello di vaniglia.
Praticate un incisione sulla buccia delle castagne e sbollentate poche alla volta per una decina di minuti
in modo da riuscire a sbucciarle facilmente (anche della pellicina interna). Ponetele poi al fuoco in una
casseruola con lo zucchero e la vaniglia, ricoprendole con il latte; fate cuocere a fiamma molto bassa
(aiutatevi con una retina frangifiamma) per circa 40 minuti, comunque il tempo necessario a far
assorbire quasi tutto il latte. Togliete la vaniglia e passate le castagne al setaccio; amalgamate a un po’
di latte in modo da ottenere una crema consistente che legherete con il tuorlo d’uovo e il burro
ammorbidito e lavorato con un cucchiaio di legno. Aiutandovi con uno schiacciapatate fate scendere il
composto di castagne su di un piatto di portata dandogli la forma di “monte”. Montate la panna
addolcendola con un po’ di zucchero a velo e usatela per decorare la cima del monte “innevandolo”.
Fate raffreddare in frigorifero prima di servire.
Castagnaccio
300g di farina di castagne, 1 pizzico di sale, 50g di uvetta passa, 30g di pinoli, 1 rametto di rosmarino,
olio extravergine d’oliva.
Setacciate in una ciotola la farina di castagne, aggiungetevi 1 cucchiaio d’olio e del sale, battete con una
frusta e unite lentamente ½ l d’acqua circa, così da ottenere una pastella piuttosto liquida. Lavate
l’uvetta, strizzatela e incorporatela all’impasto. Ungete una teglia bassa e larga con poco olio, versatevi
l’impasto a uno spessore di 2 cm circa, cospargete i pinoli e gli aghetti di rosmarino, bagnate con l’olio
rimanente e infornate a 200 °C per un ora: si formeranno delle piccole crepe in superficie e una
croccante crosticina. Servite tiepido oppure freddo.
Crema di castagne
200g di castagne bollite e sbucciate, ½ l di latte di soia, 2 cucchiai di amido di mais, 2-3 cucchiai di
miele, 1 tazzina di brandy (facoltativo), pinoli.
Versate le castagne nel frullatore, aggiungetevi una parte del latte e frullate i tutto, così da ottenere una
purea omogenea e soffice. Stemperate in una casseruola l’amido di mais con il latte rimanente,
aggiungetevi la purea di castagne e portate a ebollizione dopo aver inserito la retina frangifiamma sotto
la casseruola. Mescolate senza sosta e calcolate un paio di minuti di cottura da quando il composto
inizia a bollire. Incorporate il miele fuori dal fuoco ed, eventualmente, il liquore; versate in coppette e
lasciate raffreddare, decorate con dei pinoli.
Minestra di castagne
400g di castagne secche, 1 mazzetto di menta, 1 mazzetto di prezzemolo, 1 rametto di rosmarino, 5
foglie di salvia, sale.
Lavate le castagne e quindi tritate finemente la menta, il prezzemolo, gli aghetti di rosmarino e la salvia.
Versate le erbe aromatiche in una casseruola d’acqua in ebollizione e unitevi le castagne, quindi
riportate a bollore, coprite con un coperchio, moderate la fiamma e lasciate cuocere per un paio d’ore.
Quando le castagne saranno ben morbide, servite la minestra con delle fette di pane raffermo,
abbrustolite in forno.
Castagne al rum
1kg di castagne, zucchero, rum.
Lessate le castagne in abbondante acqua, scolatele a metà cottura e pulite dalla buccia e dalla pellicina
interna con molta delicatezza così da mantenerle intere. Preparate uno sciroppo con uguali dosi di
zucchero e acqua e dopo 2-3 minuti di bollore unite le castagne e completate la cottura. Scolatele dallo
sciroppo e sistematele nei vasi, quindi coprite bene con il rum. Lasciate riposare per 2-3 mesi in
dispensa prima di gustare.
Mousse di castagne
50 cl d’acqua, 500 g di zucchero, 50 cl di panna, 250 g di crema di marroni, 200 g di castagne
sottovuoto.
Portare a bollore in una casseruola lo zucchero e l’acqua. Versare i marroni e lasciarli cuocere per 2 ore
a fiamma dolce. Lasciarli raffreddare nello sciroppo. Montare la panna e incorporare la crema di
marroni. Mettere in frigo per circa un ora.
Quelle sopra descritte diciamo che sono le specie a tutt’oggi oramai inselvatichite, mentre quelle
descritte di seguito, che un tempo venivano coltivate abitualmente, oramai sono introvabili:
- Ciliegio “Burlat” (Bigarreu Burlat): Varietà di origine francese fra le migliori per le sue
caratteristiche. Albero di buona vigoria e produttività. Precoce nell’entrata in produzione,
fruttifica nella prima decade di giugno. Frutti di colore rosso scuro, molto apprezzati per il
consumo fresco. Polpa soda, di color rosso scuro. Appartiene al gruppo delle tenerine e sfugge
alla mosca della ciliegia.
- Ciliegio “Durone giallo”: fruttifica nella terza decade di giugno. Il frutto presenta la
caratteristica colorazione gialla ed è ottimo anche per sciroppati.
- Ciliegio “Durone di Vignola”: il più famoso durone emiliano dal colore rosso scuro e dal
sapore inconfondibile; polpa rossa, soda, abbastanza succosa, zuccherina e di ottimo sapore;
matura a metà giugno.
- Ciliegio “Mora di Vignola”: pianta vigorosa e assai fertile il cui frutto, rosso intenso dalla
polpa succosa e dolcissima, matura a fine maggio e si conserva a lungo. Appartiene al gruppo
delle tenerine.
- Ciliegio “Mora di Diolo”, varietà inclusa nell’elenco delle antiche varietà di ciliegia
piacentina; albero molto vigoroso a portamento espanso, i frutti sono di media dimensione,
cuoriformi con buccia di colore rosso scuro, sottile e sensibile allo spacco, polpa tenera, succosa,
dolce e nocciolo che non si stacca completamente.
- Ciliegio “Fiore di Maggio”, Matura la quarta settimana di maggio, non ha esigenze di
clima e terreno. Frutto cuoriforme, buccia rosso vivo, lucente, se ne trovano varie specie nel
Forlivese.
- Ciliegio “Progressiflora”: albero poco vigoroso a portamento cascante, fruttifica a metà
giugno. E’ la più antica e curiosa varietà di ciliegio acido, caratteristico per la sua fioritura
continua e dilazionata nel tempo, così da presentare nello stesso momento fiori e frutti. Uno dei
primi ha descriverla e raffigurarla su tavola fu Henry Duhamel du Monceau su “Traitè des
arbres fruitiers“ (1768). Successivamente anche Giorgio Gallesio la tratta nel primo volume
della sua “Pomona Italica” (1817). Pochi anni dopo compare su “Annale de Pomologie belge et
étrangère” (1853-1860).
Il legno viene impiegato per la fabbricazione di mobili di lusso, mentre dai peduncoli essiccati e dalle
drupe si preparano diuretici rinfrescanti. Le foglie contengono una sostanza colorante viola e tracce di
acido prussico.
Nei miti le ciliegie e i cuculi sono spesso associati: vi è un proverbio tedesco che dice che il cuculo non
canta mai finchè non ha mangiato 3 volte ciliegie a sazietà.
Infuso di ciliegio
1 manciata di ciliegio selvatico (peduncoli spezzettati), 1 l d’acqua.
Bollite il ciliegio selvatico per 10 minuti. Trascorso questo periodo filtrate. Consumatene 2 tazze al
giorno lontano dai pasti per alleviare i disturbi della cistite. Continuate la cura per 15 giorni.
Decotto di ciliegio
50 g di ciliegio selvatico (piccioli), 1 l d’acqua.
Fate bollire i piccioli di ciliegio selvatico per 10 minuti in 1 l d’acqua. Trascorso questo periodo filtrate.
Consumatene 2 tazze al giorno lontano dai pasti per 15 giorni per combattere i dolori reumatici.
Zuppa di ciliegie
1 kg ciliegie snocciolate, 5 bicchieri di Cagnina (vino dolce nero), 250 g di zucchero, 1 stecca di
cannella, 5 chiodi di garofano, la scorza gialla di un limone, pane raffermo.
Portate ad ebollizione il vino. Unite lo zucchero, la cannella sbriciolata, i chiodi di garofano e la scorza
del limone fate cuocere fino a quando sarà diminuito della metà. A questo punto versate le ciliegie e
lasciatele bollire per qualche minuto a fiamma dolce. Disponete sul fondo di una zuppiera il pane
tagliato a fettine, togliere gli aromi, e versare il tutto. Lasciate raffreddare prima di servire (si ringrazia
il Ristorante “Fava” – Casola Valsenio (RA) - Chef Fava Katia).
Zuppa di visciole
Questa zuppa si può fare con delle fettine sottili di pane fine arrostito, oppure con pan di Spagna o con
savoiardi. Levate il nocciolo a quella quantità di ciliegie visciole che crederete sufficienti e mettetele al
fuoco con pochissima acqua e un pezzetto di cannella che poi getterete via. Quando cominciano a
bollire aggiungete zucchero quanto basta, mescolate adagio per non guastarle e allorché cominciano a
sciroppare assaggiatele se hanno zucchero a sufficienza e levatele dal fuoco quando le avrete aggrinzite
ed avranno perduto il crudo. Dopo che avrete leggermente intinto le fette del pane o i savoiardi nel
rosolio, collocateli suolo per suolo, insieme con le ciliegie, in un piatto o in un vassoio in modo che
facciamo la colma. Potete anche dare a questa zuppa la forma più regolare in uno stampo liscio, e
tenerlo in ghiaccio avanti di sformarla, giacchè nella stagione delle ciliegie si comincia a gradire i cibi
refrigerati. Un terzo di zucchero del peso lordo delle ciliegie è sufficiente.
Dolce di ciliegie
(per4-5 persone)
Ciliegie more grammi 200, zucchero a velo grammi 100, pangrattato di segala grammi 50, mandorle
dolci grammi 40, uova 4, rosolio cucchiaiate 2, odore di vaniglia o scorza di limone.
Mancando il pane di segala servitevi del pane comune. Le mandorle sbucciatele, asciugatele e tritatele
minutamente per ridurle a metà circa di un chicco di riso. Lavorate prima i rossi d’uovo con lo zucchero
finchè siano divenuti spumosi, aggiungete il pangrattato, il rosolio, l’odore e continuate a lavorare
ancora un poco il composto. Uniteci le chiare ben montate, mescolando adagio e versatelo in uno
stampo liscio che avrete prima ben unto con burro freddo e cosparso tutto, e più nel fondo, con le dette
mandorle. Infine buttateci le ciliegie, ma per evitare che queste con il loro peso calino a fondo,
mescolate fra il composto le mandorle che vi restano. Cuocetelo al forno e servitelo caldo o freddo.
Levate il gambo alle ciliegie e disfatele con le mani unendovi qualche nocciolo pestato. Lasciatele così
per qualche ora e poi passatene il sugo da un colino fitto, strizzando bene; tenetelo ancora in riposo e
poi, ripassatelo più volte per filtrarlo meglio, deve essere il più chiaro possibile. Fate bollir lo zucchero
per dieci minuti in due decilitri d’acqua con la cannella dentro, passsate anche questo nel colino e
mescolatelo al sugo di ciliegie. Aggiungete la colla di pesce sciolta nel rimanente decilitro d’acqua e per
ultimo il rhum.
Confettura di amarene
1 kg di amarene pulite, 700 g di zucchero
Prendete delle amarene completamente mature. Lavatele, togliete noccioli e piccioli, pesatele e per ogni
kg di frutta pulita calcolate 700 g di zucchero. Mescolate frutta e zucchero, lasciando riposare per 12
ore. Poi ponete a cuocere mescolando spesso. Una volta raggiunta la giusta consistenza, versate la
confettura nei vasi, lasciatela raffreddare e chiudete ermeticamente.
Marmellata di amarene
1 kg di amarene cotte, 800 g di zucchero
Levate il gambo e il nocciolo alle amarene. Mettetele al fuoco senz’acqua, mescolate di tanto in tanto e
quando il liquido abbondante che avranno mandato fuori si sarà asciugato passatele al setaccio o col
passaverdura (toglierete così anche la buccia). Pesate la polpa ottenuta e rimettetela sul fuoco
aggiungendo, per ogni kg di frutta passata, 800 g di zucchero. Continuate la cottura finchè la
marmellata avrà raggiunto la giusta consistenza.
Amarenino
4 dl di alcol a 95°, 500 g di amarene snocciolate, 10 nocciolo di amarene pestati, 10 foglie di amarena,
la scorza di 1 limone, 5 chiodi di garofano, 1 cm di cannella, 200 g di zucchero
Mettete a macerare in un vaso per un giorno le foglie e gli aromi assieme alle amarene schiacciate e ai
noccioli pestati a parte nel mortaio. Aggiungete poi l’alcol e lo zucchero, esponete il vaso al sole per
una settimana e ricordatevi di agitarlo 2 volte al giorno. Successivamente spostate il macerato in un
luogo fresco e ombroso per 5 giorni, continuando a scuoterlo due volte al giorno. Terminato il periodo
di macerazione, filtrate il liquore e fatelo stagionare per 5 mesi prima di consumarlo.
Cherry
1 lt di grappa, 1 kg di maraschine mature, 500 g di zucchero
Lavate le amarene e privatele dei noccioli, deponetele poi in un grosso vaso di vetro. Cospargete su di
esse otto cucchiai di zucchero ed esponete il vaso ben chiuso al sole. Ripetete l’operazione per 3 giorni
consecutivi, mescolando le marasche e rinnovando la copertura di zucchero. Lasciate riposare per 15
giorni in luogo caldo ma non assolato. Filtrate con cura e aggiungete la grappa. Imbottigliate il
preparato e fate stagionare un altro mese in cantina prima di assaporare.
Ponete in un recipiente le marasche ben pulite. Versate su di esse l’acqua distillata nella quale avrete
disciolto a caldo lo zucchero. Aggiungete la grappa, i chiodi di garofano e la scorza di limone, Chiudete
ermeticamente il vaso, riponetelo in cantina e lasciate in infusione per 80 giorni, agitando il preparato
frequentemente. Filtrate, imbottigliate e coprite il tappo con ceralacca. Fate stagionare altri 4 mesi
prima di consumare servendo il liquore ben fresco.
Ciliegie al brandy
2 kg di ciliegie nere, 800 g di zucchero, brandy o cognac.
Scegliete ciliegie polpose e sode, perfettamente integre. Lavatele, asciugatele e lasciatele esposte
all’aria per ½ giornata, quindi accorciate con le forbici il picciolo a pochi millimetri dal frutto.
Distribuite le ciliegie nei vasi alternandole con lo zucchero e colmate con il liquore. Esponete i vasi al
sole per 3-4 giorni, avendo cura di scuoterli di tanto in tanto per ben amalgamare lo zucchero al liquore,
quindi riponete in dispensa. Potrete consumare dopo due mesi.
Arbutus andrachnoides
Ibrido naturale tra l’Arbutus unedo e l’Arbutus andrachne. Grande arbusto o piccolo albero alto fino a
10 m , corteccia rosso intenso. Fiori da avorio a bianco; pannicoli penduli. Frutto globoso, largo cm 1.
Fiorisce nel tardo autunno o a primavera. Diffuso nelle medesime aree dell’Arbutus andrachne.
Arbutus menziesii
Albero fino a m 30; corteccia che si squama in placche sottili. Foglie lunghe fino a cm 15, ellittiche o
ellittiche-ovali, ottuse, intere, verde scuro lucido sulla pagina superiore, glaucescenti sull’inferiore. Fiori
bianchi, in panicoliterminale subpiramidali lunghi fino a cm 14. Frutto arancione-rosso, globoso, largo
cm 1,5. fiorisce nella tarda primavera. Diffuso nel nordovest degli Stati uniti.
Confettura di Corbezzoli
500 g di corbezzoli, 500 g di zucchero, buccia di mezzo limone.
Bollire i corbezzoli per pochi minuti, passarli, raccogliere la polpa e aggiungere lo zucchero più la
buccia del limone, lasciare addensare il tutto, invasare e conservare in un luogo fresco (si ringrazia il
Ristorante “Fava” – Casola Valsenio (Ra) - Chef Fava Katia)
Corbezzoli in sciroppo
500 g di corbezzoli, 250 g di zucchero
In un vaso ermetico mettere i corbezzoli (circa 500 g di frutti), lo zucchero semolato, le scorze di
limone non trattato. Poi si riempie il vaso di alcol. Agitare di tanto in tanto per agevolare il processo di
macerazione e lo scioglimento dello zucchero. Dopo qualche mese i corbezzoli possono essere
impiegati per guarnire dolci e dessert.
Grappa al Corbezzolo
1lt di grappa, 400 g di frutti maturi di corbezzolo.
In un mortaio pestate leggermente i frutti di corbezzolo e metteteli in un grosso recipiente. Versate su di
essi la grappa, chiudete bene il recipiente e lasciate a infusione al sole per una settimana. Trasferite il
vaso in cantina e fate macerare per altre 4 settimane, agitando spesso. Filtrate e lasciate stagionare 4
mesi.
CORNIOLO (Cornus)
Famiglia: Cornaceae.
Nome dialettale: Cornél, Curnél (RE), Cornàl (PC) P’coren,
Corgnolo(BO), Curgnôla, Corniello, Cornio.
Come si coltiva
Il corniolo, in Italia, è sempre stato considerato come specie spontanea e pertanto non è mai stato
coltivato in impianti specializzati, anche se risulta utilizzato nei frutteti famigliari per le sue doti
produttive e ornamentali. I metodi di propagazione più diffusi sono la talea semilegnosa e quella
erbacea. Le talee danno migliori risultati se raccolte d’estate e trattate con ormoni rizogeni. Il corniolo
può essere propagato anche per margotta, generalmente l’innesto si effettua utilizzando come
portainnesto un semenzale di due anni di età e come nesto materiale proveniente da piante di buone
caratteristiche. Se si vuole propagare il corniolo per seme, questo deve essere sottoposto a
stratificazione per alcuni mesi prima di procedere alla semina in primavera. I semenzali richiedono di
essere ombreggiati nei primi mesi dopo l’emergenza. La messa a dimora delle piante (di due o tre anni)
si esegue in autunno o in primavera, con sesti d’impianto di 2,5-3x4 m. La forma di allevamento che
generalmente viene consigliata è il vaso , che permette una buona illuminazione della chioma. La
potatura può essere energica durante il periodo giovanile, ma in fase adulta i tagli devono essere ridotti
a piccoli interventi per evitare danni alla normale funzionalità della pianta. Il corniolo è
autoincompatibile, pertanto si consiglia di consociare a piante innestate piante provenienti da seme, al
fine di favorire un’adeguata impollinazione. Una pianta adulta , in piena produzione, può produrre dai
18 ai 60 kg di frutti. La raccolta viene di norma effettuata tra agosto e settembre per scuotimento dei
rami due volte la settimana, lasciando cadere i frutti su reti opportunamente adagiate sotto la chioma.
Infatti, le corniole sono commestibili quando diventano molli al tasto e cadono a terra; in questo stadio
assumono un colore rosso-violaceo molto caratteristico, perdendo parte della lucentezza e della vivacità
del rosso dei frutti ancora acerbi. La serbevolezza dei frutti è molto breve; per prolungare la loro
conservazione vengono raffreddati in acqua corrente e successivamente consumati freschi, oppure
essiccati o surgelati, nonché trasformati.
Sciroppo di Corniole
1 l di succo di corniole ben mature, 1,3kg di zucchero
Schiacciare le corniole ben mature, metterle in un recipiente e coprire con un canovaccio. Lasciare
riposare per circa una settimana finchè sulla superficie si noterà una specie di muffa o pellicina bianca.
Filtrare e rimettere tutto nel recipiente; coprire di nuovo con un canovaccio, lasciando riposare per altri
due giorni. Trascorso questo tempo, filtrare usando filtri di carta fino a quando il liquido sarà privo di
ogni impurità. Misurare il succo, versarlo in una pentola, aggiungere la giusta quantità di zucchero e
portare a ebollizione. Far bollire per 4-5 minuti a fuoco lento e schiumare. Imbottigliare a freddo.
Composta di corniole
3-4kg di corniole ben mature, 1 bicchiere di aceto di vino bianco, sale e pepe
Schiacciate con cura le corniole per eliminare i noccioli. La polpa si mette in un tegame con l’aceto, il
sale e il pepe e si fa bollire per circa un paio d’ore come le marmellate. Il composto viene messo in un
vaso di vetro a chiusura ermetica e posto a bollire per circa 10 minuti. Serve per accompagnare carni
arrostite. Se ne può preparare una versione con il miele, che risulterà adatta ads accompagnare formaggi
freschi o carni bollite.
Grappa di corniolo
1l di grappa, 30 drupe mature di corniolo, 2 cucchiai di zucchero
Mettete le drupe di corniolo in un vaso, cospargetele con lo zucchero e lasciate macerare per tre giorni.
Versate sui frutti la grappa e lasciate in infusione in luogo caldo ma ombreggiato per un mese, agitando
spesso il recipiente ben chiuso. Lasciate riposare altre 2 settimane in cantina. Filtrate e fate stagionare 4
mesi al fresco prima di consumare.
Arbusti e alberelli. Ancora oggi, tra il genere Chaenomeles e il genere Cydonia regna una
Esposizione: sole. certa confusione. Non solo, ma spesso, persino i floricoltori chiamano
Propagazione: seme, Pyrus i Chaenomeles. Fu il botanico inglese John Lindley (a799-1865),
talea, talea redicale, convinto della superiorità del sistema “naturale” di classificazione delle
margotta. piante, dovuto ad A.L.jusieu , su quello “artificiale” di Linneo, che nel
1846 nel suo Vegetable Kingdom propose questo nuovo genere.. I
Chaenomeles sono originari dell’Asia orientale e se ne conoscono in
tutto 4 specie. La prima specie fu trovata da Thunberg sulle montagne
Hakone in Giappone, e fu da lui descritta nel 1784 come Pyrus Japonica. Più tardi Sir Joseph Bank ne
introdusse un’altra specie proveniente dalla Cina; a lungo le due piante furono confuse e chiamate con
nomi diversi: oggi sono il Chaenomeles Japonica e il Chaenomeles Speciosa (o Legenaria). Nel 1838,
secondo la testimonianza di Loudon, il Chaenomeles Speciosa era ormai comune nei giardini inglesi,
dove era coltivato come arbusto o come “standard”(cioè il nostro alberello). La pianta ebbe un breve
periodo di fortuna nel 1869: un’unica ditta francese ne elencava oltre 40 varietà; oggi se ne coltivano si
e no una dozzina. Delle due specie, il Chaenomeles Speciosa è più precoce e più spettacolare perché i
suoi rami seminudi e i suoi fiori fanno più effetto di quelli del Chaenomeles Japonica, che sono
abbondanti, ma giungono più tardi, quando le foglie sono già folte e vigorose. Tuttavia, il Chaenomeles
J. ha una seconda stagione in autunno “quando spesso si copre di frutti giallo-dorati, e a volte di
qualche fiore ritardatario”.
Come si coltiva
I C. non presentano particolari difficoltà di coltivazione: prosperano in qualsiasi terreno fertile e amano
una posizione soleggiata. Le specie si moltiplicano agevolmente per seme, previo processo di
stratificazione. Capita a volte che una pianta arrivi a fiorire così anche al secondo anno di vita. Le forme
orticole si moltiplicano invece per margotta e talea. Le talee semilegnose si fanno sottovetro, di solito in
autunno. Un altro metodo molto semplice è quello di steccare i polloni radicanti o fare talee radicali, o
fissare per mezzo di forcelle i rami più bassi, coprirli di terra e poi steccarli non appena avranno
radicato. In Inghilterra si usa coltivare queste piante contro un muro a spalliera, per proteggerle dai
venti troppo violenti di Nord-est. Possono essere coltivate anche a cespuglio in mezzo a un prato o per
ornare una balaustra.
I C. si potano dopo la fioritura: il legno dell’anno può essere accorciato fino a 2 gemme dopo l’attacco.
I rami giovani lunghi vanno forzati a prendere una posizione espansa fissandoli al terreno, per dare aria
alla chioma, che va sfoltita e liberata da ogni ramo storto o rinsecchito. La potatura è un’operazione
importante se si vuole avere cespugli belli; se lasciati a se stessi, i C. diventano troppo fitti e intrigati e
fioriscono meno. Sono molte le zone d’Italia a terreno calcareo e a clima secco dove non è consigliabile
coltivare Azalee, Rododendri, Kalmie, eriche e altre Ericacee: in tali luoghi i C. potranno offrire una
fioritura che, per colori e sfumature, non sarà poi tanto inferiore a quelli dei Rododendri e delle Azalee.
E tra l’altro, la cultura dei C. è molto più semplice. Occorrerà solo alternarli a piante sempreverdi
perché d’inverno non offrono come ornamento che la ragnatela dei loro rami bruni e spogli. Dato che la
scala dei colori va dal rosso cupo al bianco e, dal momento che fioriscono all’epoca dei Mandorli, dei
susini e dei Peschi, sarà buona norma piantare i cespugli di C. solo accanto a piante che portino fiori
bianchi (qualche macchia gialla di Forsizie non guasterà) per non creare un gran confusione di rossi e
rosa.
I rami del C. tagliati si conservano a lungo in vaso: durano una decina di giorni e anche più. Se uno dei
rami accenna a intristirsi va accorciato di cm 5 alla base, avendo cura di compiere l’operazione con un
paio di buone forbici da giardino, sott’acqua: vedrete che il ramo tornerà a nuova vita.
Chaenomeles x superba
Questo ibrido è stato ottenuto verso il 1900 da Froebel di Zurugo incrociando il C. japonica con il C.
speciosa. Assomiglia al C. speciosa, ma ha portamento più eretto; i rami tuttavia, allo stato iniziale,
sono pelosi; le foglie sono simili a quelle del C. japonica, ma più grandi e sottili e più nettamente
seghettate; i fiori sono rosso scuro. Nella varietà alba sono bianchi; nella varietà perfecta rosso
scarlatto.
Chaenomeles x californica
E’ un grosso arbusto creato da Clarke, di San Josè, California, nel 1939, incrociando il C.superba e il
cathayensis. Porta i fiori su brevi getti laterali e ha frutti molto grandi.
Usi & Costumi
I frutti di entrambe le specie, oltre al pregio estetico, hanno un altro grosso merito: quello di essere
profumati. Tanto che, nel secolo scorso, secondo la testimonianza del Loudon, si usava porli tra gli
abiti, come si usa fare ancora oggi con la Lavanda; basta tenere un frutto giallo di C. japonica in una
ciotola per profumare tutta una stanza. Crudi questi frutti non si mangiano. Sui loro pregi gastronomici
vale tuttavia la pena di riferire un episodio curioso. Durante la prima guerra mondiale, nel 1917, il
signor W.J. Bean di Kew offrì i frutti di alcuni arbusti di C. japonica e di 6 varietà differenti di C.
speciosa per un esperimento: usando per tutti il medesimo processo, il reverendo J. Jacob del presbiterio
di Whitewell, Withchurch, Salop, li ridusse in gelatina. Ogni singola conserva fu poi messa in un
barattolo, etichettata e sottoposta alla giuria di un “tea-party” straordinario appositamente organizzato.
Fu stabilito per acclamazione che la gelatina di C. japonica era la migliore: buona, secondo il parere del
reverendo, come la gelatina di guava delle Indie occidentali. Il gusto della gelatina di C.speciosa
mutava di varietà a varietà. In Germania con i frutti della C. japonica si fa una cotognata, più delicata di
quella ottenuta dalla Cydonia, che viene consumata nelle feste natalizie. Il defunto signor E.A.Bowles
consigliava la gelatina di C .japonica come condimento per la carne.
- (Cydonia oblonga)
Famiglia: Rosaceae
Nome dialettale: Mela cudôgna
Etimologia: Deriva dai tempi dei romani, che chiamavano i suoi frutti “mela cydonia”, cioè mele di
Bidone, città dell’isola di Creta.
Arbusti e alberelli.
Fioritura: V-VI. Altezza: Dev’essere per il suo carattere domestico e familiare che il Cotogno(o
m 3,50-4,50. Cydonia)è scomparso da buona parte dei giardini. Come sono
Esposizione: sole. scomparse in Italia perlomeno, le cotognate nei negozi. Il Cotogno, un
Ambiente: limiti tempo diffusissimo, è il parente rustico e nostrano del più vago
pedoclimatici. Chaenomeles. La C.o., Mill. (sin. C.vulgaris, Pyrus Cydonia), è infatti
Propagazione: talea, originaria dell’Asia, della Transcaucasia, della Persia, del Turkestan e
dell’Arabia sud-orientale, ed è un cespuglio o alberello a rami sottili,
innesto margotta.
dalle foglie caduche, ovali ed oblunghe, rotondeggianti, acute, intere, di
un bianco grigio e tormentose nella pagina inferiore. I virgulti sono
tormentosi e arruffati. I fiori sono bianchi o rosa chiaro e hanno un diametro di circa 5 cm. I frutti sono
grandi gialli, villosi, a forma di pera o rotondeggianti, profumati quando sono maturi, privi di peduncoli
e attaccati direttamente a un breve ramoscello fronzuto. Il legno continua la sua crescita per mezzo di un
breve getto ascellare della stagione precedente, ed è questo che dà alla pianta il suo affascinante aspetto
contorto. I frutti che sono stati molto lodati dai poeti latini, sono usati per fare marmellate, gelatine e per
dar profumo a certo dolciumi. Si dice che in Oriente ne esistano varietà il cui frutto è commestibile
anche crudo.
Come si coltiva
Riguardo alla coltivazione va fatta una premessa, che vale per una gran quantità di piante, ma
specialmente per quelle che oltre al fiore devono portare un frutto. Bisogna tener presente, che coltivare
la C. può essere facilissimo o molto difficile. E’ facilissimo, come dimostra il fatto che la pianta si è
inselvatichita in diverse parti del nostro paese; ma può essere assai difficile se si vogliono ottenere frutti
più belli, più colorati e più fragranti del comune. La fioritura della C. è abbastanza modesta, soprattutto
se paragonata a quella del Chaenomeles. Ma anche i frutti hanno la loro parte in un giardino e il
Cotogno può essere considerato una pianta decorativa appunto per questi. Nei luoghi d’origine la C.
prospera volentieri in prossimità delle acque correnti, in luoghi freschi, ma ciò non significa che la si
debba coltivare in luoghi umidi. Sarà bene darle un terreno non troppo leggero e ben concimato,
profondo e caldo. La radice non penetra in profondità, ma si espande in superficie: per questo è
importante che il terreno sia fertile ed è pure importante non fare coltivazioni in prossimità dell’albero,
per non danneggiare le radici. Il Cotogno è una pianta a crescita lenta, ed è questo forse il suo maggior
difetto. Ma un terreno fertile affretta naturalmente lo sviluppo. Coltivato in terreni freddi e umidi, il
Cotogno tende a produrre frutti legnosi. E’ bene evitargli le somministrazioni abbondanti di nitrati e
abbondare invece con i fosfati e i concimi potassici. Anche il calcio si può somministrare liberamente
nei terreni che ne siano poveri. Come per gli altri alberi da frutta, le potature sono necessarie per evitare
che la vegetazione diventi troppo densa e per avere una migliore fruttificazione. Se si coltiva il Cotogno
solo per la fioritura, la potatura può essere debole; nel caso contrario il tronco deve essere tenuto corto.
Lo scopo delle potature è quello di formare una chioma ben aperta e ariosa. Sarà necessario sacrificare
qualche cima, ma con giudizio, per non privare la pianta di troppi frutti, dal momento che conosciamo
l’abitudine del C. di fruttificare terminalmente.
Il frutto, nonostante le apparenze, è molto delicato e deve essere manipolato con riguardo, perché si
ammacca e si scalfisce molto facilmente. Gli alberi cominciano a dar frutti il secondo o il terzo anno
dopo essere stati piantati, ma la produzione vera e propria inizia dopo il decimo o dodicesimo anno.
Dato che si tratta di una pianta facilmente attaccabile dai parassiti, converrà, come misura profilattica,
spruzzare l’intero albero durante l’inverno con un polisolfuro nelle dosi di gr 300 di soluzione per 9 litri
circa; e, non appena il frutto si sarà ben formato, l’albero andrà trattato di nuovo con poltiglia bordolese,
aggiungendo. Kg 1,50 di arseniato di piombo a ogni 180 litri circa. Le malattie più pericolose sono
causate dall’Erwina amylovora (Colpo di fuoco batterico) o dai funghi che attaccano le foglie e ne
causano la ticchiolatura(es. Monilia che ne colpisce prevalentemente i fiori). Un distruttore è il
curculione del Cotogno (Conotrachelus crataegi) che può essere controllato aspergendo le piante con kg
3-4 di arsenicato di piombo ogni 450 litri di acqua. Questa operazione va fatta non appena si vedono i
primi curculioni e va ripetuta ogni 10 giorni. Tra gli insetti si ricordano anche la Carpocapsa, sui frutti ,
e la tignola orientale, sui germogli.
Marmellata di Cotogne
1 kg di cotogne, 750 g di zucchero, il succo di un limone
Mondare le mele con un panno pulito per togliere la peluria che le ricopre, tagliarle a spicchi senza
togliere la buccia e i semi (la buccia e il torsolo possono servire per fare della gelatina). Versare sui
pezzi di mele tanta acqua quanto basta per ricoprirle, aggiungere succo di limone e far bollire finchè le
mele non saranno tenere. Poi sbucciare le cotogne e privarle dei semi e delle parti dure eventualmente
rimaste, pesare il composto ottenuto aggiungendo per ogni kg di frutta circa 750 g di zucchero. Far
cuocere fino ad ottenere la consistenza della marmellata.
Cotognata
2 kg di cotogne, ½ kg di zucchero, cannella, cedro candito (facoltativo)
Sbucciare le cotogne, tagliarle a pezzi e far cuocere in poca acqua. Passare le mele cotte in un passino a
fori piccoli e cuocere di nuovo, aggiungendo lo zucchero. Quando il composto diventa gelatinoso,
aggiungere un pizzico di cannella o, eventualmente, di cedro candito.
Cotognata
3 kg di mele cotogne, 2 kg di zucchero
Mettete al fuoco le mele coperte d’acqua e quando cominciano a screpolare, levatele, sbucciatele e
grattatele alla meglio per levarne tutta la polpa che passerete poi al setaccio. Rimettetela sul fuoco con
lo zucchero e rimestatela sempre onde si attacchi. 7-8 minuti di bollitura basteranno, se poi presa su con
il mestolo, comincia a cadere a stracci, levatela. Se la mettete in vasi potrà servirvi come conserva e
fatta in tal modo resterà più chiara, ma con meno fragranza, perché una parte dell’odore particolare di
questo frutto si perde nell’acqua. Per ridurla a cotognata distendetela sopra un’asse alla grossezza poco
più di uno scudo ed asciugatela al sole coperta di un velo perché le mosche o le vespe ne sono
ghittissime. Quando è asciutta di sopra tagliatela in forma di tavolette di cioccolata e passandole sotto
un coltello per distaccarla dall’asse rivoltatela dalla parte opposta.
Se poi vi piacesse di darle forme bizzarre procuratevi degli stampini di latta vuoti dalle due parti,
riempiteli, lisciateli e distaccando la marmellata dagli orli con delicatezza, ponetela egualmente
sull’asse ed asciugatela nella stessa maniera.
Potete anche crostarla, volendo, e allora mettete a struggere 100 g di zucchero bianco con due
cucchiaiate d’acqua e quando avrà bollito tanto da fare un filo (presane una goccia fra due dita)
spalmate ogni pezzo con un pennello. Se lo zucchero vi si rappiglia durante l’operazione (che è bene
fare in una giornata non umida) rimettetelo al fuoco
Cotognata marchigiana
5 l di mosto, 500 g di zucchero, 3 chiodi di garofano, scorza di limone biologico, 2 prese di cannella, 3
kg di mele cotogne
Far bollire 5 litri di mosto con gli ingredienti e con le mele cotogne sbucciate e tagliate a grosse fette.
La cottura deve avvenire a fuoco molto lento e prolungarsi per circa 4 ore. Verso la fine è necessario
mescolare più spesso e, appena il composto sarà ben sciroppato, si toglierà dal fuoco e si lascerà
raffreddare nello stesso recipiente. La cotognata va conservata in barattoli riposti in ambienti asciutti e
freschi.
Liquore di Cotogne
1 kg di cotogne, 500 g di zucchero, 1,2 l di alcol, ½ l di rum, qualche mandorla amara, cannella
Grattugiare le mele e lasciare riposare per due giorni. Spremere il succo attraverso un panno di lino e
aggiungere alcol, rum, cannella e mandorle. Imbottigliare il liquore e lasciarlo riposare per un mese.
Gelatina di cotogne
Sbucciare con cura le cotogne, gettare i pezzi in poca acqua fredda con qualche goccia di limone. Far
bollire per alcuni minuti per intenerire la polpa. Mescolare fino a completo disfacimento e poi passare.
Per facilitare la fuoriuscita del succo si può usare un passa patate. Pesare il succo ottenuto, aggiungere
la stessa quantità di zucchero e rimettere a cuocere a fuoco basso. Quando la gelatina si è addensata
versare nei vasi e chiudere ermeticamente.
Arbusti sempreverdi a
foglia caduca. Originario e diffuso in tutta Europa, in Italia è indigeno nelle Alpi e
Fioritura: Maggio- nell’Appennino boreale e centrale (la varietà calabrica, più alta, da m 3
Giugno a 6, la si trova in Calabria sul monte Pollino). Ha rami eretto-arcuati,
Altezza: sino a 3 m. striati longitudinalmente e molto spinosi. Le foglie sono caduche, con
Ambiente: la si può picciolo di 2-15 mm, lunghe fino a 4 cm, totalmente glabre,
trovare in ambienti aridi e oblanceolate-spatolate, verde scuro e lucide nella pagina superiore, più
caldi, sui suoli limosi e chiara in quella inferiore, con un margine seghettato e dentelli che
argillosi fino a 2000 m di terminano con una spina apicale.I fiori sono piccoli, gialli, odorosi
altitudine. riuniti in gruppi terminali, lunghi circa 2 cm, dapprima erettie poi
Propagazione: seme, penduli. I frutti sono bacche fusiformi, rosso vivo a maturità, lunghe
sino a 8-10 mm, mature in agosto-settembre, dal sapore acidulo. I
talea, innesto.
giovani rami sono solcati, all’inizio pubescenti, poi glabri e di colore grigio-bruno.
Ne esistono diverse varietà: albo-spicata, con rami giovani di un bianco crema; asperma, varietà che
porta frutti senza semi interessante per la produzione di confetture, famosa per francese chiamataӎpine
vinette”; pururea, molto bella con foglie porpora scuro.
Come si coltiva
Il crespino non pres enta difficoltà di coltivazione: vegeta bene in terreni acidi e anche calcarei, le
specie sempreverdi prediligono un’esposizione a mezz’ombra e un terreno umido, mentre quelle a
forma caduca amano il sole pieno. Le specie sono in genere propagate per seme, dopo l’adeguata
stratificazione, la germinazione avverrà la primavera seguente. Tuttavia data la facilità di questo generre
a ibridarsi, si preferisce moltiplicare per talea:Le talee erbacee vanno recise nella prima quindicinali
giugno e messe nella sabbia su un letto caldo ombreggiato. Si possono anche fare talee legnose in
autunno, sempre in serra, ma si ottengono risultati inferiori.
Come si coltiva
L’impianto può essere effettuato in terreno non scassato, ma direttamente in buche ampie e profonde
per garantire, fra l’altro, che non vi sia ristagno idrico. Le talee vengono messe a dimora in primavera,
mentre le piante con radici è preferibile metterle a dimora in autunno. La concimazione è assente o
molto limitata, così dicesi per l’irrigazione. Le temperature minime invernali al di sotto delle quali la
pianta subisce danni sono -7/-8°C; le massime estive risultano dannose quando superano i 40°C. il fico
si adatta bene a qualsiasi tipo di terreno, sopportando anche una discreta presenza di calcare e salinità.
Preferisce suoli ben drenati, anche tendenzialmente argillosi con buon contenuto di calcio. Le avversità
che colpiscono il fico sono diverse, ma quelle potenzialmente gravi sono poche. La cosiddetta virosi
(mosaico) è oramai diffusa in tutti i Paesi mediterranei, ma raramente porte a morte la pianta. Dal punto
di vista patologico, in Italia, in Francia e Spagna sono molto frequenti gli attacchi di Botrite e
Alternaria.
- CUORE (Rubaldo, Portoghese, Buzzone nero, Fico grosso, Papale, San Pietro). Raffigurato
agli inizi del 1700, nei quadri di Bartolomeo Bimbi e segnato con il nome di Lampas
portoghese, la prima segnalazione bibliografica risale al 1892. L’albero è di media vigoria, con
rami corti e sottili, e buona produttività. Produce soprattutto fioroni, che sono grossi ed hanno
forma di cuore o fiasco col collo lungo e sottile. La buccia è verde giallastra con sfumature
rosso-violacee e screpolature longitudinali. La polpa, di colore rosso vivo, è morbida, fine,
delicata, assai gradevole. I fioroni maturano all’inizio di luglio. La produzione di forniti è
modesta, hanno forma allungata e buccia di colore marroncino violetto; la polpa è rossastra,
dolce, delicata, buona. Si raccolgono a fine agosto.
- MADAMA (Ducale, Madonna, Gentile – dei Toscani, Rosso – a Parma, Vezzoso Rosso e
Vezzoso Bianco – a Piacenza, Della resta, Fig dla Madöna), la prima segnalazione bibliografica
risale al 1821 ne “I giornali dei viaggi” di Gallesio. Albero poco vigoroso, foglie in genere
pentalobate, con lobi molto pronunciati. Frutto abbastanza grosso, un po’ allungato, arrotondato
all’attaccatura del picciolo. Buccia verde-chiaro, tendente al giallo a maturità. Polpa rossa,
dolce, mielosa, aromatica ed eccellente. Si raccoglie dall’inizio di settembre.
- DOTTATO (Bianco, Binello, Binellone, Buttada, Dattarese, Di Calabria, Fico dalla Goccia,
Gentile, Napoletano, Ottato). Varietà antichissima, ancora oggi è probabilmente la varietà più
diffusa in Italia. Il nome deriva probabilmente dal latino “Optatus”. Il monaco vallombrosano
Vitale Magazzini scrive su “Coltivazione toscana” – (Venezia 1625) … i veri e buoni fichi
daseccare sono gli albi e i dottati, i quali si dovrebbero seccare al sole e non in forno.” Compare
negli scritti di Pier Antonio Micheli ed è raffigurato, sia come fiorone, sia come fornito, nei
quadri di Bartolomeo Bimbi. Entrambi operanti alla corte di Cosimo III dè Medici (1642-1723).
Sulla sua origine Giorgio Gallesio, nel I volume della sua opera Pomona Italiana (1817), si
spinge molto indietro nel tempo … I Latini lo conoscevano sotto il nome di Ficus Carica (nome
botanico della specie), e Plinio il Vecchio lo vanta come uno die più propri a seccare: egli dice
che è stato portato da Sorìa da Lucio Vitellio nella Villa di Alba, quando era Legato in quella
provincia, negli ultimi anni dell’Imperatore Tiberio. I sinonimi Binello o Binellone sono dovuti
alla caratteristica che ha questa varietà a produrre fichi gemelli uniti l’uno all’altro. L’albero è
vigoroso, con rami forti e dritti, di grande produttività. Preferisce terreno fertile ed esposizione
soleggiata se la zona non è a clima caldo. Ha comunque notevole adattabilità. La produzione di
fioroni (che sono pronti ai primi di luglio) è scarsa e la loro qualità è inferiore a quella dei
forniti. Questi ultimi sono squisiti; di pezzatura medio-piccola e di forma tondeggiante od
ovoidale un po’ compressa, con peduncolo molto corto, hanno buccia verde-giallastra o di color
canarino. La polpa è bianco-giallastra, sugosa, fine e delicata. Si raccolgono da metà agosto a
metà settembre e sono ottimi anche per l’essiccazione.
Le due varietà che seguono sono state citate da Giorgio Gallesio fin dal 1813, tipiche e molto diffuse in
Toscana, sempre più spesso però se ne ritrovano esemplari anche in Emilia-Romagna:
- MONACO (Ammannato, Batalone, Bianco, Buzzone, Fico di Rimini, Paradiso, San Piero). È
nel 1813 che Giorgio Gallesio, allora prefetto a Pontremoli, descrive il fico Monaco come una
delle varietà più coltivate in Lunigiana. L’albero è vigoroso, di grande sviluppo, con rami grossi
e dritti, di buona produttività per quanto riguarda sia i fiorono che i forniti. I fioroni sono molto
buoni e precoci; maturano infatti a fine maggio-primi di giugno. Sono grossi, hanno forma di
pera allungata e buccia gialla con sfumature verdi; la polpa, di ottimo sapore, è ambrata, ma
violacea, sotto la buccia. I forniti sono quasi privi di peduncolo, hanno forma a campana, buccia
gialla e polpa un po’ rosata, fine e delicata, molto buona. Si raccolgono tra metà agosto e metà
settembre e sono ottimi sia per il consumo fresco che per l’essiccazione..
È noto che fu un fico africano a scatenare la terza guerra punica che comportò la distruzione di
Cartagine. “Infiammato da un odio mortale contro Cartagine e preoccupato per la sicurezza dei
discendenti”, Catone mostrò un giorno ai senatori un fico fresco: “sappiate” disse “ che è stato colto
tre giorni fa a Cartagine. Tanto vicino alle nostre mura abbiamo il nemico”.
Il fico è stato coltivato in Grecia fin dall’epoca omerica, come dimostra, nel canto VII dell’Odissea, la
descrizione del frutteto di Alcinoo, re dei Feaci: “Alti alberi là dentro, in pieno rigoglio, /peri e granati
e meli dai frutti lucenti, / e fichi dolci e floridi ulivi”. Il fico era però considerato un albero impuro,
sappiamo attraverso gli atti del collegio sacerdotale degli Arvali, molto arcaico, che questi dovevano
fare grande espiazione quando per esempio un fico spuntava per caso sul tempio della dea Dia, antica
divinità latina dei campi, assimilata a Cerere (Demetra). Bisognava allora non soltanto estirpare
l’albero, ma distruggere il tempio diventato impuro. Plinio e alcuni altri tardi autori latini ritenevano che
il motivo di questa distruzione fosse la paura di un crollo del tetto, ma come fa osservare De Gubernatis
doveva esistere “una ragione più seria e più grave per portare alla demolizione di tutto il tempio.
Bisogna dunque vedere nella comparsa del fico sul tempio servito dalle Vestali la presenza di un essere
impuro in mezzo al simbolo stesso della purezza”. In ogni caso per gli antichi l’albero del fico era
inquietante. Secondo Microbio, era su un rogo di legno di fico che a Roma si bruciavano i mostri,
mentre in Grecia, secondo Luciano, il rogo era riservato ai libri colpevoli di empietà. Plutarco osservava
che il fico era considerato un albero caldo; produceva “esalazioni forti e violente” e il suo legno era
particolare per la sua “asprezza”; “quando gli si dava fuoco, sprigionava un fumo molto acre e
pungente”. Che il fico sia stato considerato malefico, ci è forse dimostrato da un episodio della vita di
Timone di Atene, il famoso misantropo “nemico di tutto il genere umano”, come ce lo rifece Plutarco.
Un giorno Timone si presentò all’assemblea dove non si recava mai e salì sulla tribuna degli oratori:
L’incredibile novità stabilì un silenzio e un’attesa grande, Ed egli disse: “Io ho una piccola area
fabbricabile, o cittadini ateniesi, ov’è cresciuto un fico a cui molti abitanti di questa città si sono già
impiccati. Siccome sarebbe mia intenzione costruire in tal posto, desidererei preavvertirvi
pubblicamente, affinché, se qualcuno di voi volesse impiccarsi, lo faccia prima che il fico sia stato
abattuto”.
Malgrado fosse per alcuni versi impuro e nefasto, tuttavia il fico era ritenuto un albero oracolatore. Un
frammento di Esiodo,mette in rapporto diretto la vita di Calcante, l’indovino della guerra di Troia, con
un fico. In mezzo al Foro Romano, nel punto stesso in cui era morto eroicamente Marco Curzio, era
“nato per caso” un altro fico. Nel 362 a.C. proprio lì la terra si era aperta improvvisamente, lasciando un
baratro spalancato. Poiché gli àuguri avevano dichiarato che l’unico modo per colmarlo sarebbe stato
gettarvi il tesoro più prezioso di Roma, il giovane Marco Curzio vi si precipitò a cavallo completamente
armato e il baratro immediatamente si richiuse su di lui. Ancora più venerato era il terzo fico che si
ergeva nel Foro, nel Comizio. Là erano stati “sotterrati i fulmini”, il fico godeva di una reputazione di
arbor felix, che teneva lontano il fulmine. Con il passare del tempo il fico in questione, secondo Tito
Livio prese il nome di Romulare, era strettamente legato alla vita dell’Urbe. “Quando si secca” scrive
Plinio ”è sempre un presagio, e i sacerdoti hanno cura di piantarne un altro”.
Peraltro, il fico era collegato con l’animale consacrato sotto questo profilo al dio: il capro; in occasione
di una calamità pubblica, si sacrificavano un uomo o una donna come capri espiatori, l’uomo portava
una collana di fichi neri, la donna una collana di fichi bianchi. Durante le Targelie, feste di Apollo e
Artemide che si celebravano ad Atene in maggio-giugno, i profani che le avrebbero contaminate con la
loro presenza venivano scacciati con rami di fico. È opportuno aggiungere che nel Nordafrica i fichi
sono in rapporto non soltanto con la fecondità ma anche con il mondo degli antenati: si mettono dei
fichi nei primi solchi al momento dell’aratura e altri se ne abbandonano sulle tombe e nei santuari come
“la parte degli Invisibili”; i fichi sono “l’offerta di pregio riservata ai morti”.
Nel passato le foglie di fico sono state anche utilizzate per “censurare” in quadri e affreschi le parti
intime di figure nude, mentre il legno di fico egiziano è stato usato per la costruzione dei sarcofaghi dei
faraoni.
Spiedini sfiziosi
18 fichi maturi, 2 william, 100 gr. di salame, 100 gr. di prosciutto
Tagliare i fichi e le pere a pezzetti come il salame e il prosciutto. Formare degli spiedini alternando i
pezzetti di fichi con i pezzetti di prosciutto, di pera e di salame (si ringrazia il Ristorante “Fava” –
Casola Valsenio (RA) - Chef Fava Kaia).
Arbusto o alberetto.
Fioritura: Aprile-agosto. E diffuso in Europa, in Africa
Altezza: fino a 3-4 m. nordoccidentale, in Asia Minore fino alla Persia, in Italia è frequente
Ambiente: Dal livello del nel settentrione. Questo piccolo albero si presenta spesso in forma
mare fino a 1800 metri. arbustiva. Il tronco è eretto, con numerosi rami assurgenti che si
Propagazione: per dipartono spesso fin alla base, la chioma è irregolare e globosa. La
corteccia è di colore bruno-rossastro, ricoperta da un gran numero di
divisione di getti.
lenticelle chiare e allungate. Le foglie sono obovate-acute o cuspidate
perfettamente intere. I fiori sono ermafroditi, raccolti in fascette
ascellari che si sviluppano al momento dell’emissione delle foglie, con petali di colore bianco-
verdastro. I frutti sono drupe sferiche di 7-8 mm, dapprima verdi, poi rosse ed infine nere-violette
quando giungono a maturazione. Contengono 2-3 noccioli avvolti in una polpa carnosa.
Decotto di sambuco
10g di sambuco(fiori), 10g di paritaria (parte aerea), 5g di rabarbaro(rizoma essiccato e pelato), 10g di
gramigna (rizoma), 5g di frangola (foglie), 20g di salsapariglia 8radice), 2,5dl d’acqua.
Mescolate in maniera omogenea a secco gli ingredienti, dosate 1 cucchiaino e ponetelo a bollire per 2
minuti in 2,5 dl d’acqua. Consumatene 2 tazze al giorno lontano dai pasti per combattere l’acne.
GELSO (Morus)
Famiglia: Moraceae
Nomi dialettali: Mor, Mur(RE), Moròn (PC); Mor, Zels, Môra
(Romagna).
Al genere Morus appartengono diverse specie tra le quali le più note nel modo sono:
-M. alba L.
-M. nigra L.
-M. rubra L. (detto anche Gelso rosso)
-M. multicaulis Loud. (frutto nero)
-M. kagayamae Koidz. (frutto nero)
tutte comunemente indicate col nome di gelso e talvolta di moro. Di seguito segue la descrizione delle
due varietà presenti in Emilia-Romagna.
Come si coltiva
La coltivazione del gelso non presenta grosse difficoltà; le piante che attualmente vengono messe a
dimora servono più che latro per ornamento o per ombra; esistono anche delle varietà a portamento
piangente assai decorative. La propagazione avviene per talea. Se si vuole propagare il gelso per seme
bisogna attendere anche 10 anni prima di avere i primi frutti; i semi vanno seminati subito dopo averli
estratti dai frutti o dopo alcuni mesi di stratificazione nel caso di Morus alba e i semenzali devono
essere ombreggiati nei primi mesi dopo l’emergenza. La propagazione per talea legnosa, semilegnosa e
di radice è preferibile alla moltiplicazione per seme; le talee legnose danno migliori risultati se raccolte
d’estate e trattate con ormoni rizogeni. Bisogna tenere conto che tra Morus alba e Morus nigra c’è
incompatibilità d’innesto. Una volta che le brache del gelso hanno raggiunto una struttura robusta non è
chiesta lacuna potatura, se non per eliminare il legno secco e per sfoltire la chioma. Il gelso è sensibile
alla Cicoria caranculoides che causa la cosiddetta malattia del popcorn, per cui i frutti appaiono gonfi
come i popcorn; il patogeno si può controllare con la distruzione dei frutti infetti. Altri parassiti possono
causare sul gelso cancri e seccumi, in particolare sulle giovani piante. La raccolta delle more di gelso è
lunga e difficoltosa a causa delle piccole dimensioni dei frutti, della scolarità della maturazione, della
vegetazione intensa e della delicatezza dei frutti. Un albero adulto in piena produzione può produrre
anche 200 kg di more durante tutto il periodo di maturazione annuale. I frutti possono essere conservati
al fresco, in vaschette ricoperte con cellophane, per almeno quattro giorni senza subire danni.
Grappa di morar
1 l di grappa, 100 g di more di gelso (Morus nigra), 2 cucchiai di zucchero
Cospargete le more di gelso con lo zucchero e lasciatele macerare per un giorno in un recipiente
capiente. Versate sui frutti la grappa e chiudete il vaso. Lasciate in infusione per 15 giorni in luogo
caldo, ma non soleggiato, agitando spesso. Trasferite in cantina e lasciate riposare per altri 15 giorni.
Filtrate bene e lasciate stagionare per 2 mesi prima di consumare.
P.S: Anche le more di Morus Alba possono essere usate per la preparazione di questa grappa, la quale
risulterà profumata ma priva di colorazione.
Vorrei fare un particolare riferimento ad altri tipi di Ginepro, per distinguerli tra loro:
Juniperus oxycedrus L.
Detto: Ginepro rosso, ossicedro, coccolone, appeggi.
Si distingue dal precedente per il portamento più elevato, spesso arboreo, le foglie più lunghe e le
bacche di colore bruno rossiccio alla maturazione.
La sua particolarità sta nell’essere molto resistente alla siccità e alla salsedine è quindi la specie che si
avvicina di più alla costa. Il legno duro è ottimo per la produzione di carbone. Può vivere circa 200
anni.
Juniperus phoenicea L.
Detto: Ginepro fenicio, Cedro licio.
Si distingue per avere le foglie squamiformi strettamente aderenti ai rami laterali che assumono perciò
l’aspetto di corde. I frutti sono bacche di colore rosso vivo.
Il legno è di ottima qualità e un tempo era molto utilizzato per piccoli lavori di intarsio. La raccolta
indiscriminata ne ha ridotto il numero. Cresce lentamente ed è molto longevo, circa 1000 anni.
Juniperus sabina L.
Detto: Ginepro sabino, sabina
I frutti hanno un colore bluastro e sono ricoperti da una pruina cerosa gluacescente, il loro diametro è di
7-8 mm e sono portati da un peduncolo ricurvo.
Contiene sostanze molto tossiche: un olio essenziale con sabinene, sabinolo, turione, ecc..., un glucoside
(pinipicrina) e altro. Soprattutto un tempo venivano utilizzate nelle campagne, in modo incosciente o
criminale, a scopo abortivo; infatti le conseguenze sono sempre gravi e spesso mortali sia per a madre
sia per il feto. Si osservano manifestazioni come nefriti emorragiche, coliche e infiammazioni violente
del tubo digerente, vomito, diarrea, peritonite e perforazioni intestinali, crampi diffusi, emorragie
retiniche, paralisi. La morte avviene in buona parte dei casi (ovviamente in relazione alla quantità di
vegetale ingerito) dopo mezza giornata o a distanza di qualche gorno, in condizioni di incoscienza.
Veniva adoperato nei riti funebri dei romani, quale simbolo dell’immortalità, al posto dell’incenso.
Juniperus thurifera L.
Detto: Ginepro turifero, spagnolo
E’ sensibile al freddo anche se raggiunge i 3000 m.
I frutti sono galbuli di circa un centimetro di colore blu nero e pruinosi a maturità.
In Nordafrica il fogliame serve da foraggio per le capre e il legno è utilizzato per diversi scopi, dopo la
distallazzione a nche come antisettico esterno. Le foglie e i frutti sono tossici.
Frizioni di Ginepro
50g di ginepro (coccole schiacciate), 10 g di rosmarino(foglie), 1 bicchiere di alcol denaturato, 25 g di
olio di ricino.
Ponete le coccole schiacciate di ginepro e le foglie di rosmarino in 1 bicchiere di alcol. Lasciate riposare
per 15 giorni prima di filtrare con una tela. Al filtrato aggiungete l’olio di ricino. Utilizzate per
frizionare le parti indolenzite dai dolori reumatici. Dopo la frizione ricoprite con un panno di lana.
Infuso di ginepro
15g di ginepro (bacche contuse), 1 l d’acqua.
Ponete le bacche contuse a riposare per 4-5 minuti in 1 l d’acqua bollente. Consumatene due tazze al
giorno come regolatore delle mestruazioni.
Infuso digestivo
Fiori di camomilla, semi di finocchio, foglie di melissa, foglie di menta, bacche di ginepro.
Miscelate i componenti in parti uguali. Ponetene un cucchiaio in infusione in una tazza d’acqua bollente
per 10 minuti. Filtrate e bevete, dopo i pasti, senza dolcificare.
Vino di ginepro
15g di ginepro (bacche schiacciate), 1 limone (scorza, solo la parte gialla), 1 l di vino bianco secco ad
alta gradazione.
Ponete a macerare le bacche schiacciate e la scorza di limone nel vino bianco secco ad alta gradazione
per 15 giorni. Trascorso questo periodo filtrare e conservare in bottiglia. Consumate due bicchierini al
giorno. Il vino di ginepro è un ottimo tonico, diuretico e digestivo. Si consiglia a quanti soffrono di
gotta, inappetenza e reumatismi.
Liquore calmante
10g di ginepro (bacche), 10g di anice stellato, 8g di cumino, 25g di camomilla (fiori), 20g di limone
(scorza, solo la parte gialla), 20g d’arancia (scorza, solo la parte gialla), 15g di calamo aromatico, 2 l di
grappa secca, 250g di zucchero, 2,5 dl d’acqua.
Per confezionare questo liquore ponete a macerare per 15 giorni in 2 l di grappa secca le bacche di
ginepro, l’anice stellato, il cumino, i fiori di camomilla, le scorze di limone e di arancia e il calamo
aromatico, avendo cura di muovere il vaso chiuso 1 volta al giorno. Trascorso questo periodo fare
sciroppare lo zucchero in 2,5 dl d’acqua calda aggiungetelo al macerato. Attendete qualche ora, filtrate
e imbottigliate. Questo liquore aromatico e invogliante è anche un buon rimedio conro lo stress, nel qual
caso potrete berne ½ bicchierino dopo i pasti principali.
In dettaglio, il legno duro, raccolto in autunno presenta ottime proprietà sudorifere- in decotto: polvere
mezza manciata in acqua un terzo di litro, e colare. 2-3 tazze al dì. –vino: polvere 1-2 pungi a macero in
vino bianco un litro per 10 giorni e filtrare. Da 2 a 3 bicchierini. Veniva usato questo decotto, in uso
esterno, per bagni antigottosi.
Le foglie, raccolte dalla primavera all’autunno, hanno proprietà diuretiche e antieczematose- in decotto:
una manciata per l’acqua di un litro, 2 o 3 tazze al giorno prese fra i pasti. Per uso esterno si preparava
un altro decotto, 2-3 manciate di foglie per litro d’acqua diventavano un buon detersivo di piaghe;
foglie e ramoscelli bruciati, erano buoni disinfettanti e deodoranti inoltre utili per fumigazioni nei mal
di gola e delle vie respiratorie. Un altro decotto concentrato 10 e più per cento era impiegato in bagni
contro il reumatismo, l’artrite ed il rachitismo.
I frutti del secondo e terzo anno, raccolti da settembre a novembre, possiedono proprietà aromatiche,
balsamiche, sudorifere, stimolanti, digestive e diuretiche- in infuso: frutti schiacciati mezzo pugno in un
recipiente con l’acqua bollente di un litro; coprire e dopo un’ora passare al setaccio fine. Una tazzetta
ogni due ore per i catarri bronchiali e della vescica, diuretico nella gotta e nella blenorragia e leucorrea.
– infuso: 20 frutti pestati in una tazzetta d’acqua, da bere alla sera dei giorni precedenti le mestruazioni.
–estratto fluido: gr. 4-8 al giorno. – vino: frutti gr. 60 a macero 8-10 giorni in vino bianco un litro
rinforzato da gr. 80 di alcole; agitare e filtrare. Gr. 100 nelle 24 ore in due volte come diuretico (anche
per :asma, bronchiti, catarri, nefrite, renella, cistite, uricemia, perdite notturne di orina, gonorrea,
idropisia). – bacche: 6-8 al giorno masticate confer5iscono buon odore all’alito e preservano dai
contagi. Per uso esterno, i frutti venivano impiegati in suffumigi nell’abbassamento della voce, laringiti
e catarri della gola. Bruciati su tizzoni accesi, disinfettavano e profumavano gli ambienti.
Cucina&Ricette
Tutta la pianta è molto ricca di resina ed emana un gradevolissimo odore: in particolare le coccole
hanno un sapore amaro, ma molto gradevole, e odore marcato. Le bacche e i getti di ginepro sono ottimi
per aromattizare pietanze a base di carne e verdure cotte (crauti, patate ecc…). Inoltre il suo legno è
indispensabile nelle operazioni di affumicatura dei cibi.
Grappa al ginepro
3-5 coccole fresche di ginepro comune, 1 l di buona grappa.
Disponete a piacere le coccole fresche di ginepro comune su un foglio di carta e lasciatele asciugare per
circa 3 giorni all’ombra (il numero delle coccole deve essere ben calcolato perché influisce molto sul
sapore9. pestatele poi leggermente in un mortaio, mettetele in un vaso con 1 l di buona grappa e
lasciatele macerare per circa 2 settimane, quindi filtrate e mettete a stagionare il più a lungo possibile.
Chi preferisce un aroma meno penetrante può sostituire le coccole con un pezzetto legnoso della pianta,
in questo caso l’infusione va fatta in bottiglia, e si può controllare con facilità l’intensità del sapore di
ginepro. Una volta ottenuto l’equilibrio desiderato, basta estrarre dalla bottiglia il bastoncino.
Frà ginepro
1 l di vino bianco, 5g di bacche di ginepro, 15g di calzaya (pianta peruviana con corteccia aromatica),
15g di cassia amara, 1 l di sciroppo di arancia amara.
Mettete in infusone nel vino bianco, per 2 giorni, le bacche di ginepro, la calzaya e la cassia amara.
Filtrate il liquido e mescolate con lo sciroppo di arancia amara. Si tratta di un liquore dal sapore molto
particolare, che piacerà a chi preferisce gli aromi forti.
Gineprino
5dl di alcool a 95°, una manciata di bacche di ginepro, zucchero, 5dl d’acqua distillata
Fate essiccare per 3 giorni all’ombra le bacche di ginepro mature su un foglio di carta assorbente da
cucina. Pestatele poi leggermente in un mortaio e versatele in un vaso che richiuderete dopo averle
cosparse con tre cucchiai di zucchero. Dopo 3 giorni versate sulle bacche l’alcol e lasciate macerare per
un mese all’ombra. Filtrate e aggiungete l’acqua distillata nella quale avrete sciolto a caldo 200 grammi
di zucchero. Lasciate riposare in cantina almeno fino alla fine dell’inverno.
Liquore di Ginepro
100g di alcol a 75°, 1l di vino bianco ad alta gradazione, 15 bacche di ginepro, 2 scorze di arancia
le bacche mature, o coccole, del ginepro, sono l’ingrediente giusto per preparare questo liquore benefico
per lo stomaco. Schiacciate le bacche e mettetele poi a macerare con la scorza di arancia (solo la parte
gialla) nell’alcol e nel vino bianco per 15 giorni. Agitate ogni tanto, quindi, trascorso il tempo di riposo,
filtrate e consumate il liquore fresco. Mezzo bicchierino al dì dopo i pasti sarà utile per espellere gli
acidi urici.
Grappa al ginepro
1l di grappa, 15 bacche di ginepro, 20g di zucchero
ponete a macerare in una bottiglia la grappa, il ginepro e lo zucchero, avendo l’accortezza di schiacciare
le bacche con le dita per facilitare l’aromatizzazione del liquore. Esponete la bottiglia tappata al sole per
40 giorni curando di rimestare ogni tanto. Al termine del periodo filtrate e consumate.
Fioritura: giugno-luglio.
Il giuggiolo è originario della Cina e dell’Asia centrale. E’
Altezza: fino a 8 metri.
stato introdotto in Italia verso la fine dell’Impero di Augusto e
Ambiente: pianura e bassa collina.
da molto tempo si è naturalizzato nel bacino del Mediterraneo,
Propagazione: polloni, seme, talea,
in particolare nelle regioni dell’Italia centro-meridionale; non
innesto (a gemma, a pezza, a
esistono cultivar selezionate, ma solo dei tipi indicati
spacco, a triangolo). genericamente: a frutto lungo o a frutto tondo, entrambe
dotate di buone caratteristiche organolettiche e buona
produttività.
Albero, ma più spesso arbusto con fogliame deciduo, con chioma ovata, rada, di colore verde chiaro; il
tronco eretto, sinuoso, presto ramificato, con rami spinosi a zig zag (ogni nodo presenta una coppia di
piccole spine); corteccia grigio-brunastra sul tronco, rossastra sui rami, in entrambi i casi rotta in
piccole placche. Le foglie sono regolarmente alternate, con lamina obovata e margine finemente
seghettato; la pagina superiore è lucida di colore verde intenso, la pagina inferiore i più chiara e opaca. I
fiori sono biancastri, o meglio giallo-verdognoli, piccoli, disposti in densi glomeruli ascellari. I frutti si
presentano come drupe ovoidali di 2-3 cm, con seme duro, giallo-brunastre a maturità, dette giuggiole o
zizzole, vano raccolte da settembre a ottobre. Quando la maturazione è avanzata, la buccia raggrinzisce
sempre più e la polpa si riduce di spessore. Il contenuto di zuccheri raggiunge valori del 25% nei frutti
freschi e arriva al 60% in quelli essiccati. Questa pianta è in grado di adattarsi a vari tipi di terreno,
resiste a situazioni di forte aridità grazie ad un apparato radicale molto sviluppato in profondità;
predilige i suoli leggeri, non umidi, neutri o sub-alcalini. Vive in zone con climi temperati con minime
invernali non inferiori a 10° C e con estati lunghe e calde. Il giuggiolo può subire danni da gelate
precoci nel periodo autunnale, per cui in ambienti settentrionali la coltivazione è possibile solo sotto
particolari microclimi come in prossimità dei laghi o in colline ben esposte al sole.
Come si coltiva
La forma di allevamento più comune in Italia è quella ad alberello o libera. Le lavorazioni e le
concimazioni sono utili prevalentemente nella fase giovanile, quando l’apporto di fertilizzanti favorisce
la crescita. A parte la potatura di allevamento, vengono eseguiti solo interventi cesori per eliminare i
rami troppo bassi o per diradare la chioma troppo folta. La raccolta viene effettuata quando i frutti sono
maturi, la produttività del giuggiolo varia a seconda dell’andamento pluviometrico(una pianta può
produrre sui 30-50 Kg di frutti). Le giuggiole possono essere conservate per 70 giorni a 10°c o per 30
giorni a 20°C; temperature inferiori a 2°C durante la conservazione provocano seri danni.
Nell’area mediterranea non sono stati riscontrati parassiti particolarmente dannosi. Tuttavia dove la
coltivazione è più estesa abbiamo notizie di: fra i patogeni il Gleosporium spp che provoca sui frutti
delle piccole macchie scure; la Botrytis cinerea Pers. che provoca marciume e avvizzimento fogliare; la
Phakopsora zizyphi vulgaris Diet. detta anche ruggine del giuggiolo; tra gli insetti: la Carpomya
vesuviana (Costa) e C. incompleta (Beck), due mosche molto simili presenti in Italia.
Salsa di giuggiole
500g di frutta, 2 bicchieri di vino bianco, 2 bicchieri di aceto bianco
Le giuggiole mature vengono lavate e poi bollite con vino bianco e aceto di vino bianco in proporzioni
uguali. Dopo una breve bollitura frullare il composto ottenuto e poi filtrare per eliminare i noccioli.
Salare e aggiungere pepe. Questa salsa si usa per accompagnare carni bianche e bolliti.
Brodo di giuggiole
1 kg di giuggiole, 500g di zucchero
In diverse versioni, era usato sin dall’antichità per curare la tosse. Il decotto viene preparato in questo
modo: si scelgono delle giuggiole ben mature, dopo averle lavate e asciugate si mettono in vaso
sterilizzato di vetro, si aggiunge lo zucchero, si aggiunge lo zucchero, si chiude ermeticamente e si
ripone in un locale buio a temperatura ambiente. Il tutto va agitato ogni giorno sino a completo
dissolvimento dello zucchero. Dopo 20-30 giorni è pronto all’uso.
Brodo di giuggiole
(dose per 5-6 vasetti)
1kg di giuggiole, 1 kg di zucchero, 2 grappoli di uva, possibilmente albana, 1 bicchiere di albana dolce,
2 mele cotogne sbucciate e tagliate sottilmente, buccia grattugiata di un limone, acqua q.b.
Lasciate appassire le giuggiole non sbucciare. Metterle in una pentola e ricoprirle d’acqua. Aggiungere
l’uva sgranata e lo zucchero, cuocete un’ora a fiamma dolce. Aggiungere le mele e l’albana, far
evaporare il vino. A fine cottura, aggiungere la buccia del limone grattugiato, invasare ancora calda e
capovolgere i vasi (si ringrazia il Ristorante “Fava” – Casola Valsenio (RA) - Chef Fava Katia).
Marmellata di giuggiole
La frutta viene cotta con l’aggiunta di un po’ di zucchero sino a completo distacco della polpa dal
nocciolo. Rimescolare continuamente per evitare qualsiasi bruciatura. Far evaporare e passare per
eliminare i noccioli ed eventuali cuticole residue. Poi conservare in contenitori di vetro.
KAKI-MELA e KAKI-VANIGLIA
(derivano dal: Diospyros kaki L.)
Famiglia: Ebenaceae
Etimologia: il nome della specie deriva da quello giapponese dato
alla pianta: “kaki no ki”
Albero spogliante.
Fioritura: fine giugno. È un albero con fogliame deciduo, con chioma globosa,
Altezza: fino a 12 m. densa di colore verde cupo; il tronco è eretto con corteccia
Ambiente: fino a 600 m. bruna, che tende a distaccarsi in piccole placche ruvide. Le
Propagazione: per seme, per foglie sono intere, ovali-ellittiche, coriacee, verde scuro e
mantenere la particolarità di queste lucido sulla pagina superiore, spesso pubescenti su quella
inferiore, di circa 15 cm di lunghezza, e divengono rosse
varietà è sempre meglio l’innesto.
prima di cadere. Essendo una pianta monoica, i fiori sono
solitari, disposti tra foglie e ramo con corolla giallo
verdastra, con calice persistente, formato da quattro lacinie. Il frutto è una bacca, la cui forma varia da
molto piatta a molto allungata con prevalenza della forma arrotondata. Il colore della buccia a
maturazione di raccolta è giallo più o meno aranciato nella maggior parte delle cultivar, mentre diviene
rossastro in altre. In sezione trasversale sono evidenti otto logge ovariche che possono essere provviste
di semi (uno per loggia), in numero variabile a seconda del grado di fecondazione raggiunto. Il colore
della polpa va dal giallo-aranciato, talvolta anche rossastro, nei frutti partenocarpici delle cultivar
variabili alla fecondazione e in quelli sia fecondati che partenocarpici delle cultivar costanti alla
fecondazione, al rosso-marrone o bronzeo in quelli fecondati nelle cultivar variabili alla fecondazione.
Il kaki può essere considerato specie per climi temperato-caldi, adattandosi molto bene alle condizioni
ambientali mediterranee. Tuttavia nei riguardi del clima i diversi gruppi podologici hanno
comportamenti differenti; le cultivar costantemente non astringenti sono le più esigenti in fatto di luce e
di calore prolungati in autunno, e maggiormente sensibili alle basse temperature invernali; mentre le
cultivar costantemente astringenti sono le più resistenti ai freddi invernali. È sensibile ai forti venti
soprattutto in estate e autunno, quando il peso della produzione può provocare scosciature del tronco e
lesioni ai frutti. Il kaki si adatta bene ai diversi terreni, tollerando anche quelli piuttosto argillosi, meglio
se coltivato in terreni profondi, ben drenati e di medio impasto.
Come si coltiva
L’apparato radicale del kaki si sviluppa prevalentemente negli strati superficiali del terreno; pertanto si
consigliano almeno due lavorazioni all’anno, una relativamente profonda in autunno e una o più
lavorazioni superficiali in primavera. Normalmente vengono somministrati concimi ternari al fine di
ottenere un equilibrato sviluppo della pianta, alle dosi medie di 200 unità di azoto, 150 di fosforo, 180
di potassio, talora con aggiunta di 120 unità di magnesio. È importante nella fase della fioritura, di
allegazione e nel periodo di accrescimento dei frutti, una buona irrigazione. Le forme di allevamento
più utilizzate sono la palmetta, la piramide e il vaso. La palmetta è la forma di allevamento più
moderna, presente negli impianti intensivi, soprattutto nell’Emilia-Romagna, in quanto consente di
meccanizzare le principali operazioni colturali. La potatura di produzione deve essere orientata verso un
rinnovo equilibrato della vegetazione e all’omogenea distribuzione della fruttificazione nella chioma,
tenendo presente che il kaki fruttifica sui rami dell’anno. Essendo una specie molto rustica poche sono
le avversità che possono causare danni di una certa gravità. Tra queste si cita la sesia (o rodiscorza) e la
mosca della frutta.
Specie & Varietà
Le varietà ricercate sono il kaki-vaniglia, il kaki-mela e il kaki-cioccolatino; di seguito verrano descritti
in modo più completo:
Piccolo arbusto.
Fioritura: giugno-agosto. E’ una specie distribuita in tutta
Altezza: fino a 2 m. l’Europa centrale e
Ambiente: media montagna settentrionale, nell’Asia nord-occidentale e nell’America
settentrionale. Arbusto stolonifero con molti fusti e rami aculeati, che
Propagazione: polloni.
muoiono dopo la fruttificazione, le foglie sono alterne e composte,
ovato-lanceolate. Il lembo è dentato e la pagina inferiore biancastra. I
fiori solitari hanno color bianco, con calice a 5 lacinie lunghe e sottili, patenti o riflesse; petali 5,
obovati e bianchi, lunghi circa 5 mm. Il frutto sub-globoso, rosso, dolce e succoso. Frequente vicino ai
ruscelli, ai margini dei boschi, nei luoghi incolti, in ampie colonie. Fiorisce in estate. Si raccoglie la
radice prima della fioritura, sradicandola e facendo attenzione a non romperla. La raccolta può essere
condotta su una parte della colonia, in modo che nell’arco di pochi anni sia riformata.
Grappa al Lampone
1 l di grappa, 200g di lamponi, 2 cucchiai di zucchero.
Raccogliete i lamponi, utilizzando come contenitore un cesto di vimini per preservarne la freschezza.
Introducete i frutti in un recipiente e cospargeteli con lo zucchero. Lasciate macerare per un giorno.
Irrogate i lamponi con la grappa e lasciate in infusione per 15 giorni, in un luogo caldo ma non
soleggiato. Agitate spesso il recipiente, trasferite in cantina e lasciate riposare altri 15 giorni prima di
consumare senza filtrare.
Latte di mandorle
50g di mandorle, acqua
Il latte di mandorle oltre a essere un latte di pulizia è anche buono da bere. Pelate 50g di mandorle
sgusciatele, sminuzzatele, quindi pestatele e impastatele bene con poca acqua fredda. Così ottenuta la
pasta di mandorle, stemperatela in acqua leggermente tiepida nella quantità da 200 ml a 0,5 l, a seconda
della concentrazione desiderata. E’ particolarmente indicata per chi ha la pelle del viso secca e delicata.
Oli essenziali
Dalle mandorle amare e dolci si estrae per progressione l’olio di mandorle. Dal colore giallo chiaro,
l’olio è costituito prevalentemente da gliceridi dell’acido oleico e viene largamente usato come
commestibile, come lassativo, come emolliente per uso esterno.
Dal pannello residuato dall’estrazione di quest’olio, con aggiunta di mandorle amare pestate, si ottiene,
per distillazione, l’olio essenziale di mandorle amare, liquido incolore che si usa in profumeria, specie
nella preparazione dei saponi.
Croccante
120 g. di mandorle dolci, 100 g. di zucchero in polvere
Sbucciate le mandorle, distaccatene i lobi, cioè le due parti nelle quali sono naturalmente congiunte, e
tagliate ognuno dei lobi in filetti o per il lungo o per traverso come più vi piace. Ponete queste mandorle
così tagliate al fuoco ad asciugare fino al punto di far loro prendere il colore gialliccio, senza però
arrostirle. Frattanto ponete lo zucchero al fuoco in una casseruola possibilmente non stagnata e quando
sarà perfettamente liquefatto, versatevi dentro le mandorle ben calde, e mescolate. Onde il croccante
non vi prenda l’amaro, passando di cottura, il punto preciso della quale si conosce dal color cannella
che acquista il croccante. Allora versatelo a poco a poco per volta in uno stampo qualunque, unto prima
con burro o olio e, pigiandolo con un limone contro le pareti, distendetelo sottile quanto più potete.
Sformatelo diaccio e se ciò vi riuscisse difficile, immergete lo stampo nell’acqua bollente. Su usa anche
seccar le mandorle al sole, trattarle fini con la lunetta, unendovi un pezzo di burro quando sono nello
zucchero.
Come si coltiva
E’ una pianta che non richiede grandi cure o un terreno particolare; è in grado di sopportare lunghi
periodi siccitosi. Il melograno si può allevare nelle forme a cespuglio, a vaso o a spalliera. La forma
preferita dalla pianta è tuttavia la prima. Il metodo principale di propagazione è l’innesto; si usano le
varietà acide e su queste si innesta generalmente a spacco. Si usano anche la divisione dei ceppi,
dall’autunno alla primavera, l’estirpazione dei polloni radicati, la propaggine e la margotta. Nella fase
di allevamento vengono scelte 4-5 branche primarie e favorite nel loro accrescimento. Queste andranno
a formare l’impalcatura principale. In inverno questi assi dovranno essere accorciati per 3/5 della loro
lunghezza. Alla ripresa vegetativa verranno scelti 3-4 germogli per costituire in futuro le branche
secondarie. I polloni si dovranno tenere eliminati; la potatura di produzione, una volta che l’impalcatura
è formata, dovrà limitarsi a mantenere la forma, evitando grossi tagli e accorciamenti eccessivi, poiché
la produzione dei frutti avviene nella parte terminale dei rami. Per accelerare la produzione del frutteto
si può ricorrere all’irrigazione ( nel primo anno: fino a 3-4 volte al mese). Concimazioni azotate
eccessive favoriscono lo sviluppo di secchioni e di rami a legno. Si tratta di piante a sviluppo
lentissimo, la fruttificazione inizia al quarto anno dall’impianto.
La raccolta dei frutti si esegue quando essi sono maturi preferibilmente tagliando il peduncolo; il frutto
raccolto immaturo tende ad appassire velocemente, presentando un’elevata acidità. I frutti raccolti si
possono conservare a temperatura ambiente per un periodo di 15 giorni, oppure a temperature di 0°C
per 2 mesi e a 4°C per 1 mese, tuttavia con l temperatura di 0°C i granuli possono sbiancare.
“Aj o una scatulena ‘d rumena, ch’l’è ben vera ch’ la j è ben fena, e l’à tant e bel udor,
chi l’indvena l’è un dutur.”
(Ho una scatolina di robina, che è ben vero che è ben fina, e ha tanto un bell’odore, che chi indovina è
un dottore.)
“Cento fre che ven da Roma, jè vistid tot d’una soma, jè vistid tot d’un culor…
chi j’indvena ai dagh un fior.”
(Cento frati che vengon da Roma, sono vestiti tutti di un colore, …chi indovina gli do un fiore.)
“Grôs cum’na pagnoca, stil cum ‘na garnêla d’gran, dòlz cum e mèl, amêr cum e fel”.
(Grosso come una pagnotta, sottile come un chicco di grano, dolce come il miele, amaro come il fiele.)
Questa pianta da sempre è stata caricata di simboli e di sogni, gli antichi la nominarono nei poemi, la
dipinsero sui vasi, sulle stoffe, la intagliarono nel legno e nel metallo. Ne esistono raffigurazioni in
tombe egiziane che risalgono al 2500 a.C., e i suo frutto è nominato anche nei papiri dell’epoca di
Tuthmonsis I (1547 a.C.) e di Amenofi IV (1375 a.C.); nelle camere sepolcrali di Ramsete IV sono stati
trovati perfino degli autentici frutti di melograno seccati. La pianta aveva grande importanza nei riti siri
e fenici. Molti sono i riferimenti al melograno nel Vecchio Testamento, soprattutto frequenti nel
Cantico dei Cantici. Dice l’amante: “…come uno spicchio di melograno le tue guance sotto il tuo velo”
(4,3;6,7), “…i toui germogli formano un giardino di Melograni, con frutti squisitissimi” (4,13)”…ti
offrirei vino profumato, di mosto dolcissimo del mio Melograno” (8,2). I greci favoleggiavano che fosse
stata Afrodite a piantare il Melograno nell’isola di Cipro. E il melograno compare anche nell’Odissea,
nel giardino del re dei Feaci; dice Alcinoo: “ivi crescono tra gli altri alberi verdi il Pero e il
Melograno”(canto VII, v. 150). In un racconto indiano del re Vikramaditya, i genitori di una giovane
principessa fanno custodire il giardino in modo che nessuno possa entrarvi, ma nel medesimo tempo
annunciano che chi riuscirà a varcare la soglia e a portar via 3 melograni su cui dormono la principessa
e le sue ancelle, avrà in sposa la giovane. Secondo certe tradizioni il pomo offerto da Eva ad Adamo era
la melagrana , e così quello donato da Paride a Venere.
Per il sangue che sembra colare dal suo frutto maturo, il melograno come il Corniolo e il Ciliegio, è
stato associato a miti cruenti. Si tramanda che sia stato piantato sulla tomba di Eteocle, dove continua a
stillare sangue per l’eternità; e che sia nato dal sangue di Menoeceo suicida. In Turchia invece, un
usanza di origine ellenica, pone il melograno come simbolo di fecondità, infatti la giovane sposa getta a
terra uno di questi frutti maturi, si dice che avrà tanti figli quanti semi usciranno dal frutto spezzatosi
contro il suolo.
Medicina &Cosmesi
Le virtù mediche di questo frutto erano già note fin da tempi antichissimi, Catone ne parla per le sue
proprietà vermifughe. Il farmaco è contenuto nella corteccia della radice, che si estrae dal terreno in
autunno ne può essere conservata allo stato semifresco nella sabbia, ma che viene generalmente
essiccata, nel minor tempo possibile, all’aria o all’ombra. Ha un odore debole e un sapore astringente,
acerbo, non troppo amaro; masticata, rende la saliva gialla. Questa corteccia contiene diversi alcaloidi,
sostanze resinose e peptiche, mannite, amido. Ha azione paralizzante sui platelminti, perciò dopo che il
paziente ha bevuto una porzione di g 60-90 di corteccia macerata in 2 bicchieri d’acqua, ridotta con
l’ebollizione alla metà del suo volume, è bene fargli prendere un energico purgante per espellere il
parassita. La corteccia dei rami e del tronco e la buccia del frutto hanno le medesime proprietà, ma in
misura molto minore; sembra che il melograno a fiori bianchi sia più potente di quello a fiori rossi. I
fiori, che contengono tannino e colorano la lingua di violetto, sono usati, in infuso, come astringenti; e
così la corteccia e la radice, specialmente nei casi di emorragie intestinali o vaginali. I semi servono per
correggere il sapore di alcuni sciroppi, ma soprattutto per la preparazione della granatina. (Granatina:
110 g di frutticini spremuti, 200 g di zucchero). La corteccia dei frutti acerbi, ricca di tannino, è stata
utilizzata per molto tempo nella fabbricazione di una tintura rossa, usata soprattutto per la concia del
marocchino e nell’artigianato degli arazzi nei Paesi Arabi. Infine dal pericarpo del frutto si estraeva in
passato un ottimo inchiostro. A dimostrare che il melograno possiede virtù salutari e medicamentose
basta ricordate che per indicare ed esultare le virtù di una donna in salute si dice: “L’è ‘na mèla
garnìda”.
Sciroppo di melagrane
20-40 frutti maturi (da cui si ottiene in media 1l di succo), 500g di zucchero.
Schiacciate le melagrane ben mature, privatele dei semi e della pellicina, che è amara. Passare i grani
spremendoli energicamente. Far riposare il tutto per 24 ore in un luogo fresco per permettere alla parte
liquida di separarsi dalla componente mucillaginosa. Filtrare e raccogliere il succo in una casseruola
pesata in precedenza. Controllare il peso togliendo la tara e per ogni 200g di succo aggiungere 500g di
zucchero. Versare lo sciroppo raffreddato in bottiglie sterilizzate, Chiudere ermeticamente e conservare
in luogo fresco.
Granatina di melagrane
Bevanda analcolica che si prepara con 1l di succo di melagrana, 800g di zucchero, 5 limoni e un
bastoncino di cannella.
I frutti maturi vengono spremuti e il succo va versato in una pentola assieme allo zucchero. Far
sciogliere a fiamma bassa. Mescolare con un cucchiaio di legno e dopo aver tolto dal fuoco aggiungere
succo di limone. Mescolare, togliere la cannella, filtrare se necessario, e poi imbottigliare. Bere la
granatina allungata con acqua.
Gelatina di melagrana
5 dl di succo di melagrane, 500 g di zucchero grezzo di canna, 1 scorza di arancia
scegliete melegrane ben mature,apritele ed estraetene i semi, pulendoli bene dalla pellicola bianca che li
tiene raccolti. Schiacciateli con uno schiacciapatate e premete bene per ottenere la maggior quantità
possibile di succo, che comunque, non è mai tantissimo. Pesatelo e unitevi dello zucchero nelle
proporzioni indicate (potete anche diminuire la quantità in base ai vostri gusti). Aggiungetevi un po’ di
scorza di arancia grattugiata (non la parte bianca) e mettete sul fuoco. Dopo aver portato a ebollizione,
lasciate cuocere a fuoco piuttosto vivace fino a quando, versando una goccia su un piatto freddo,
vedrete che il succo si rapprende velocemente. A questo punto togliete dal fuco, invasate la gelatina e
chiudete ermeticamente prima di riporre in dispensa per la conservazione.
Pianta spinosa.
Fioritura: Maggio- Frutice con radice grossa e numerosi fusti lunghi svariati metri, eretti o
giugno. posati, spinosi. Le foglie sono alterne, palmate, con 5 o 7 foglie ovali
Altezza: alta fino a 2,5 m. dentate. I fiori in grappoli composti, sono bianchi o rosati, con 5 sepali,
Ambiente: dalla pianura riflessi all’antesi, e 5 petali rosei o, di rado, bianchi. I frutti sono drupe
alla montagna (fino a prima rosse poi nere, a maturità dolci. Si trova in ogni luogo, lungo le
1100 m). strade, fra le macerie dove forma ampie colonie, al margine dei boschi
fino alle zone di alta montagna. Fiorisce in tarda primavera. Si
Propagazione: polloni.
raccolgono le radici prima della fioritura da piante recenti e le foglie
tenere.
Dolce di more
250 gr. di farina, 150 gr. di burro, 150 gr. di zucchero, 2 tuorli d'uovo, 1 pizzico di sale, 1 mela, 200 gr.
di More, 50 gr. di zucchero a velo.
Impastare la farina e lo zucchero con il burro tagliato a pezzi, i tuorli d'uovo e il sale. Amalgamare tutti
gli ingredienti e formate una palla, lasciarla riposare per circa ½ ora. Mettere le more in una terrina con
2 cucchiai di zucchero.Mettere a macerare le more con lo zucchero. Sbucciare e affettare la mela.
Imburrare una tortiera e stendere dentro la pasta. Disporre le fettine di mele disposte a piacere, infornate
per 15 minuti circa a 180°. Quando la torta sarà dorata toglierla dal forno e lasciarla raffreddare.
riempirla con le more. cospargere la torta con lo zucchero a velo (si ringrazia il Ristorante “Fava” –
Casola Valsenio (RA) - Chef Fava Katia)
Conserva di more
1kg di more, 200g di zucchero
Disfate con le mani le more, precedentemente lavate, e mettetele a bollire per circa dieci minuti. Poi
passatele al setaccio e rimettetele al fuoco con lo zucchero, cuocetele fino a ridurle a consistenza
desiderata.
Come si coltiva
Il nespolo cresce bene nei climi miti e temperati, è molto resistente al freddo, mentre stenta a crescere
nelle zone calde e siccitose. Preferisce terreni freschi con sostanza organica, sciolti senza ristagni di
acqua. Concimazione e irrigazione costituiscono la buona crescita della pianta.
Viene normalmente allevato lasciando la sua forma naturale di crescita. E’ comunque possibile dare alla
pianta un’impostazione a vaso o a palmetta, non necessità quindi di potature molto forti. Basterà
tagliare le ramificazioni esaurite e rinsecchite, oppure sfoltire la chioma se troppo fitta, queste
operazioni si svolgono quasi sempre in inverno. I rami che hanno fruttificato l’anno precedente vengono
accorciati e quelli produttivi, quando non sono dotati di sufficienti ramificazioni laterali, vengono
riportati verso il basso. Il nespolo tende ad allontanare progressivamente la produzione dalla base del
ramo.
Il nespolo è una specie piuttosto rustica, che richiede limitate cure colturali e risulta sensibile a pochi
parassiti. Tra i patogeni, attualmente il più temibile è il colpo di fuoco batterico (Erwinia amylovora),
che tra le Rosaceae colpisce anche il nespolo, al quale sono state estese le norme fitosanitarie indirizzate
alla limitazione della diffusione di questa batteriosi. Altri parassiti che possono colpire la coltura sono il
lepidottero minatore fogliare Lithocolletis blancardella l. e, tra i funghi, la moniliosi (Monilinia
fructigena) che può danneggiare i germogli e frutti, e il mal bianco (Podosphaera clandestina).
Decotto di nespole
Far bollire circa 30 grammi di polpa di bucce, in 100gr. Di acqua per 15 minuti. Bere 3 o 4 bicchieri nel
corso della giornata per disinfettare l’apparato intestinale e facilitare la diuresi.
Conserva di nespole
500gr di nespole, 150gr di zucchero, cotti in 250gr di acqua per un’ora. Si crea una conserva da
consumare la mattina a digiuno a scopo depurativo e per regolarizzare le funzioni intestinali.
Etimologia: Il nome deriva dal greco “Kòris”, elmo, in allusione all’involucro fogliaceo che ricopre il
frutto. Il nome avellana deriva invece dal nome di una città campana (Abella, in provincia di Avellino),
celebre fin dai tempi dei Romani per la produzione di nocciole.
“L’è la fôla dla bèla avulâna; dâtre l’è brotta e fôra l’è sana.”
(Si usava dire alle persone di bell’aspetto ma di animo cattivo!)
Nell’ora che precede la mezzanotte avanti il 24 giugno (giorno di San Giovanni Battista) i rabdomanti
tagliano dai noccioli i rami per la loro piccola verga divinatoria da utilizzare nella ricerca delle falde
acquifere. Nei paesi nordici il ramo di nocciolo sostituisce quello dell’ulivo e della Palma nel rito
Cristiano della Domenica delle Palme.
Budino di nocciole
7 dl di latte, 6 uova, 200 g di nocciole sgusciate, 180 g di zucchero, 150 g di Savoiardi, 20 g di burro,
odore di vaniglia. (dosi per 9-10 persone)
Sbucciate le nocciole nell’acqua calda ed asciugatele bene al sole o al fuoco; quindi pestatele finissime
nel mortaio con lo zucchero versato poco per volta. Mettete il latte al fuoco e quando sarà entrato in
bollore sminuzzatevi dentro i savoiardi e fateli bollire per cinque minuti, aggiungendovi il burro.
Passate il composto al setaccio e rimettetelo al fuoco con le nocciole pestate per sciogliervi dentro lo
zucchero. Lasciatelo poi ghiacciare per aggiungervi le uova, prima i rossi, dopo le chiare montate;
versatelo in uno stampo unto di burro e spolverizzato di pangrattato, che non venga del tutto pieno,
cuocetelo in forno o nel fornello e servitelo freddo.
Come si coltiva
L’impianto si effettua per semina a dimora; meno frequentemente si ricorre alla piantagione di piantine
di 3-4 anni, poiché la radice fittonante ostacola il trapianto. Per le piante da frutto, è necessario
procedere in vivaio all’innesto, a spacco, a gemma o a zufolo, su piantine di 5-12 anni. Ultimamente il
legno di noce è molto ricercato per questo motivo si stanno attuando anche impianti da legno, in questi
ultimi le piante sono distanziate di 6-7 m; per la produzione del frutto si adottano invece distanze di 10
m. Le piante richiedono potature per impostare l’impalcatura della chioma e vengono poi lasciate
crescere naturalmente; si avvantaggiano di concimazioni organiche e minerali e di tutte le cure pratiche
alle colture consociate. La durata media economica di un noceto per la produzione del frutto è di 90-100
anni; per la produzione del legno si adotta un turno di 60-90 anni. Per la produzione del legno viene
anche coltivato il noce nero (Juglans nigra), specie esotica proveniente dall’America settentrionale e
caratterizzata da un rapido accrescimento, anche se la pianta è più esigente del noce comune.
“Trè còs l’è inòtil fèr: spalèr la nèiv, scusèr al nus, amazèr la zant”
Tre cose è inutile fare: spalare la neve(che se ne andrà d sola), scuotere le noci(che cadranno dall’albero
quando è il momento) e ammazzare la gente (prima o poi morirà).
“Par san Lurenz la colca t’la pô stachè, parchè l’è fata da magnè”
Per San Lorenzo puoi staccare la noce, perché è pronta da mangiare.
“Verde verde com’è la verdura, e venti e acqua non mi fan paura, s’à m’chèv e mi vstì da dôs, la pèl
l’avânza dura com l’ô”
Verde, verde come la verdura, e venti e acqua non mi fan paura, se mi tolgo tutti i vestiti da dosso, la
pelle rimane dura come l’osso.
“Quând che al nôs al ven a quartar, ujè de pân par tot al matar.”
Quando le noci sono raggruppate per quattro, c’è del pane in tutte le madie.)
“Quând che al nôs la fa è castlèt, quei ch’i ha dè grân ch’i ‘l tegna stret.”
Quando la noce fa il castelletto, quelli che hanno il grano lo tengano stretto.
Torta di noci
30g di lievito di birra fresco, 400g di farina integrale di frumento, 100g di uvetta passa, 250g di noci
sgusciate, ½ stecca di vaniglia, 1 uovo, 2 cucchiai di malto di riso, 2 cucchiai di olio di mais giallo, 1
tazza di infuso di anice dolcificato con un cucchiaino di miele, 100g di farina di mais, 1 pizzico di sale,
olio extravergine d’oliva, farina di frumento.
Sbriciolate il lievito di birra, scioglietelo con un po’ d’acqua tiepida, formate una pastella
incorporandovi 1 cucchiaio di farina di frumento e lasciate riposare per mezz’ora circa. Nel frattempo
mettete in ammollo l’uvetta lavata, tritate le noci e tagliate a pezzi la vaglia. Sbattete in una terrina
l’uovo, il malto e l’olio e incorporatevi la farina di frumento aiutandovi con l’infuso di anice. Lavorate
l’impasto per un po’ e aggiungete la pastella lievitata, amalgamando per bene. Unite poi gli altri
ingredienti, aggiungendo se necessario, altro infuso tiepido o acqua in modo che l’impasto risulti
consistente ma cremoso, poi versate in una teglia unta con olio e infarinata e mettete a lievitare per 2 ore
circa, finchè raddoppia il volume. Cuocete infine a forno caldo (200°C) per 45 minuti.
Polvere di Venezia
Mallo di alcune noci, salvia, ruta.
Seccate il mallo di alcune noci, la salvia e la ruta, miscelate in eguali quantità e macinate finemente.
Conservate in un barattolo di vetro al riparo dall’umidità e dalla luce. Usate questa polvere sugli arrosti,
sulle verdure o sui sughi al posto del pepe.
Nocino
30 noci con il mallo, 1 e ½ litri di alcool, 750g di zucchero in polvere, 2g di cannella tritata, 10 chiodi di
garofano interi, 4 dl di acqua, la corteccia di un limone a pezzetti.
Tagliate le noci in quattro spicchi e mettetele in infusione con tutti i suddetti ingredienti in una
damigiana od un fiasco della capacità di quattro o cinque litri. Chiudetelo bene e tenetelo per quaranta
giorni in un luogo caldo scuotendo ogni tanto. Colatelo su di un panno e poi, per averlo ben chiaro,
passatelo per cotone o per carta, ma qualche giorno prima assaggiatelo perché se vi paresse troppo
alcolico potete aggiungervi dell’acqua (un bicchiere).
Arbusto spinoso e
caducifoglio. Si può trovare in quasi tutta Europa, verso est raggiunge il Volga, ma
Fioritura: Marzo-Aprile. non è presente nell’Europa Nordorientale. Si estende inoltre all’Asia
Altezza: fino a 5 m. minore e al Caucaso; è presente in tutte le zone del Mediterraneo
Ambiente: fino a 1500 m. compreso il Nordafrica: ha quindi una notevole ampiezza ecologica
Propagazione: .per dovuta al fatto che può vivere sia negli ambienti esposti al sole sia nei
pollone, per innesto, per boschi idrofili e radi. In Italia lo possiamo trovare in boschi cedui,
cespuglietti e siepi, fino ad alte altitudini.
seme.
Si presenta come un arbusto o piccolo alberello, spinoso, di forma
compatta, molto ramificato. La chioma è intricata e irregolare di u
colore verde spento; le foglie sono piccole, obovate-ellittiche, alterne,
picciolate e con margine dentato, opache nella pagina superiore e pubescenti in quella inferiore. I fiori
sono bianchi, del diametro di circa 1 cm, isolati su corti penducoli ma in gruppi numerosissimi prima
delle foglie. Il frutto, da agosto a settembre, è una drupa tondeggiante dapprima verde quindi blu scura a
maturazione, contenete un nocciolo duro e ricoperta da una pruina cerosa; la polpa è molto aspra
commestibile solo a maturità completa per la sua asprezza.
Il Prugnolo si riproduce facilmente per seme anche eseguendo la semina in autunno all’aperto. Altra
tecnica utilizzata è l’impiego da talee legnose, lunghe 10-15 cm, prelevate dalle piante madri alla fine
dell’inverno o di talee semilegnose, nel mese di luglio e messe a radicare in un miscuglio di sabbia e
torba in parti uguali con umidità controllata. Le talee radicate si potranno trapiantare in vivaio e solo
dopo due anni mettere a dimora.
Tisana di Prugnolo
Foglie di prugnolo, acqua calda, zucchero a piacere.
Tostate le foglie del prugnolo. Da questa operazione dipende il miglioramento e l’esaltazione del
sapore. Se tutto è stato condotto bene, otterrete un’infusione che ricorda il tè usuale, ma con una vena
diversa e gradita. E’ senz’altro corroborante. Bisogna tenere conto che la concentrazione esalta fino a
un certo punto le caratteristiche, poi rende il preparato sgradevole. Dosate 1 cucchiaino di foglioline
tostate per 1 tazza di acqua calda. Viene gradita anche con limone o latte.
Infuso di Prugnolo
20g di prugnolo(frutti), 1 l d’acqua
Ponete a riposare i frutti nell’acqua bollente per 15 minuti. Filtrate e utilizzate per fare gargarismi
contro il mal di gola.
Decotto di Prugnolo
5g di prugnolo(corteccia), 1 dl d’acqua
Preparate un decotto con la corteccia e 1 dl d’acqua. Fate lavaggi e bagni parziali. Utilizzate per lavare
il viso con pori dilatati.
Sciroppo di prugnole
300g di prugnole, 300g di zucchero
I frutti lavati e asciugati vengono chiusi in vaso ermetico con zucchero. Il vaso viene collocato in un
luogo tiepido (in passato accanto al camino) e scosso di tanto in tanto fino al completo scioglimento
dello zucchero. Dopo diversi mesi viene filtrato e imbottigliato.
Ratafià di prugnole
1 kg di prugnole, 2 l di buona grappa, 1 pezzetto di cannella, 3 chiodi di garofano, 500 g di zucchero, 1
dl d’acqua, una scorza di limone non trattato e privato della parte bianca, 10 noccioli schiacciati.
In un vaso di vetro si mettono a macerare per circa tre mesi le prugnole con la grappa, il limone, la
cannella, i chiodi di garofano e i noccioli schiacciati, scuotendo ogni tanto. Filtrate il prodotto
strizzando le prugnole per recuperare al massimo il loro succo. A parte si prepara lo sciroppo con acqua
e zucchero portato a ebollizione e si lascia raffreddare. Unire il liquido filtrato, far riposare per 4-5 mesi
e poi travasare. E’ un eccellente liquore che può essere servito per accompagnare dolci a temperatura
ambiente in inverno o freddi in estate.
Arbusto spinoso e
caducifoglio.
Fioritura: Maggio-luglio. Diffusa in Europa, verso nord, fino alla Scandinavia meridionale;
Altezza: fino a 3 m. presente anche in Asia occidentale e in Nordafrica. La si trova al
Esposizione: sole. margine dei sentieri e dei boschi, nelle macchie negli arbusteti, nei
Ambiente: dalla pianura prati, nei campi, nei vigneti. Mette radici in profondità e ricerca la luce.
alla collina e oltre. Riesce a raggiungere i 1500 m di quota.
Propagazione: talea,
Questo arbusto si presente in modo diverso a secondo di dove è ubicata:
innesto, seme.
se la pianta è isolata tende a espandersi e a ramificare assumendo al
forma rotondeggiante, mentre in mezzo ad altri alberi ramifica poco e
tende a svilupparsi verso l’alto. E’ una pianta perenne e rami e rametti portano numerosi spini a forma
ricurva; la corteccia è scura. Le foglie da alterne a sparse, con picciolo alato per la con crescenza delle
stipole, margine irregolarmente seghettato; superiormente sono verde scuro, inferiormente sono più
chiare. I fiori si presentano solitari o a gruppi all’apice di corti rami fogliosi. Hanno un peduncolo di
circa 1-2 cm, 5 petali di colore rosa da pallido a intenso, con numerosi stami. Quelli che si osservano
sulla pianta dopo la fioritura sono in realtà dei falsi frutti detti cinorrodonti, costituiti da un ricettacolo
carnoso, rosso, di forma ovale, glabro, contenente i veri frutti (acheni) di colore scuro.
Come si coltiva
La Rosa Canina essendo una specie selvatica, è di per se una rosa forte, si adatta a diverse condizioni,
anche se predilige i luoghi soleggiati. Quanto al terreno, deve essere piuttosto pesante e compatto,
moderatamente calcareo e ben concimato. Il miglior concime è lo stallatico, da dare alle piante in
autunno. Solitamente lo si dispone in generoso quantitativo, attorno al pedale della pianta. L’epoca
migliore d’impianto è il tardo autunno, da ottobre a novembre. Le rose hanno poche radici a fittone, che
penetrano profondamente nel suolo: occorre quindi preparare buche ben profonde, atte ad accogliere le
radici ben distese. Sono piante vigorose e di rapido sviluppo, che danno risultati immediati; sono molto
resistenti al gelo e generalmente preferiscono il freddo al caldo intenso. Hanno bisogno di acqua durante
il periodo caldo, ma non soffrono neanche eccessivamente la siccità. Sia che vengano coltivate in modo
sarmentoso, ad alberello o ad arbusto hanno bisogno di energiche potature. Essa serve a regolarizzare lo
sviluppo di ogni pianta, e se fatta come si deve, serve anche a prolungare la vita alla pianta. L’epoca
della potatura è la primavera, precisamente quando le gemme cominciano a gonfiarsi. Si lasciano i tralci
di 2-3 anni di età, che sono quelli che portano i fiori. Si provvederà eventualmente all’eliminazione dei
rami molto vecchi, senza disturbare l’equilibrio della pianta, mentre i getti laterali si tagliano lasciando
2-3 gemme.
La Rosa canina viene da sempre usata come portainnesto per le Rose ornamentali.
Anche le piante più vigorose sono facile preda di diverse malattie crittogamiche e da virus, è sempre
meglio prevenire piuttosto che curare. Se poi le piante sono già deboli, perché male impiantate, non
sufficientemente nutrite o coltivate in terreni disadatti è più facile che subiscano attacchi di virus.
Per tradizione, la rosa canina è una di quelle piante che i nostri nonni amavano proporre ai bambini con
il raffreddore, perché “…la fà bè, la t’fa pasè e’fradur”. Un tempo si credeva che fosse efficace anche
contro l’idrofobia. Nel Reggiano i bambini usavano per gioco le “paterlenghe”(le bacche di rosa
canina), forandole da parte a parte e utilizzandole come perle per fare le collane.
La storia ci riporta poi il ruolo importante che questa pianta ha avuto durante la seconda guerra
mondiale, fornendo ai bambini vitamina C, in’alternativa agli agrumi.
Citata da Pietro Ispano, Verga, Alemanni, Tommaseo, Guerrazzi.
Medicina &…
Possono essere impiegate tutte le parti della pianta. Per esempio le foglie e i fiori vengono usati in
farmacopea per la preparazione di infusi e tisane; con i semi vengono preparati anche antiparassitari;
con i petali dei fiori, infine, viene preparato il miele rosato. La parte più importante è sicuramente il
“frutto”, il concentrato totale del principio attivo è ottenuto dai cinorroidi di rosa canina mediante
estrazione a freddo (per evitare l’alterazione delle vitamine contenute che sono tremolabili) e
concentrazione dello stesso. Ha un alto contenuto di vitamina C, se usata assieme ad altri fitoterapici ne
facilita l’assorbimento; contiene anche bioflavonoidi, ovvero fitoe strogeni.
I piccoli cinorrodonti di rosa canina risultano essere i più concentrati di Vitamina C che qualsiasi altro
frutto, questa vitamina è presente fino a 50-100 volte superiore rispetto agli agrumi tradizionali (arance
e limoni) e per questo in grado di contribuire al rafforzamento delle difese naturali dell’organismo.
(100grammi di cinnorrodonti contengono la stessa quantità di vitamina C o acido ascorbico contenuta in
1 chilo di agrumi). I Bioflavonoidi, presenti nelle polpa e nella buccia di numerosi frutti, esercitano
un’azione sinergica alla Vitamina C, favorendone l’assorbimento da parte dell’organismo. Oltre alla
vitamina C, la rosa canina possiede altri principi attivi: tannini, pectine, carotenoidi, acidi organici,
polifenoli ( vitamine A, B, B2, E, P, K, PP); ne risultano le seguenti proprietà: vitaminizzante,
antinfiammatoria, ottimizza al circolazione del sangue, antiallergica (è di stimolo alle difese
immunitarie a livello respiratorio in modo particolare del biotipo allergico. In questi soggetti, il
macerato idroetanolglicerico di Rosa canina ripristina al capacità a dare risposte immunitarie positive.
Ha un’importanza azione farmacologia nelle flogosi acute che comportano alterazioni delle mucose,
soprattutto quando siano associate delle componenti allergico-asmatiche. Per tali proprietà è un rimedio
importante soprattutto nella prevenzione delle allergie respiratorie. Stimola, inoltre, l’eliminazione delle
tossine tramite l’urina (azione diuretica) senza irritare i reni. Viene raccomandata per infiammazioni dei
reni o della vescica. Eliminando le accumulazioni di acido urico, aiuta anche la gotta e i reumatismi. La
sua azione astringente è dovuta alla presenza di tannini, risulta quindi efficace contro le diarree.
Secondo il Premio Nobel Linus Pauling, assunta in forti dosi, previene e combatte, in caso di malattia,
ala crescita cancerogena.
Più precisamente le foglie, raccolte da maggio a luglio, per la loro proprietà astringente, vengono usate:
-Infuso: una manciata di foglie sminuzzate in recipiente con acqua bollente un litro; dopo 20 minuti
filtrare. Consumare a piccole tazzine nelle diarree e calcoli renali e della vescica. I petali dei fiori,
raccolti nello stesso periodo, per le proprietà lassative e rinfrescanti, vengono usati in : -Infuso: mettere
un pizzico di petali in una tazzina d’acqua bollente, lasciare a riposo 5 minuti e filtrare. – Estratto
fluido: gr. 2-8 al giorno. Questi per le diarree croniche infantili. –Infuso (per uso esterno): procedere
come sopra, ma usato per gargarismi alla gola e lavature nelle malattie degli occhi. I frutti, raccolti da
agosto a settembre, sono astringenti, correttivi e come abbiamo detto più volte vitaminici, vengono
usati: -Conserva: da prendere a cucchiai, nei casi di diarree. – Liquore: frutti spezzettati gr. 500 a
macero per 2 settimane in alcole a 70° mezzo litro, passare al setaccio ed aggiungere gr. 300 di
sciroppo. Da consumare a bicchierini.
…& Cosmesi
Raccomandato a chi vuole prevenire rughe, invecchiamento della pelle, eritemi solari: poiche la rosa
canina contiene beta-cherotene o provitamina A, è quindi un naturale antiossidante e antiradicali liberi.
Marmellata di rose
1 kg di mele renette, 250g di petali di rose profumate, 1 limone, 300g di zucchero.
Sbucciate le mele, tagliatele a pezzettini, mettetele in una terrina mescolandole con la scorza grattugiata
(solo la parte gialla) e il succo del limone e i petali di rosa puliti; lasciatele macerare per un’ora. Mettete
il tutto al fuoco e mescolate su fiamma moderata sin quando le mele non si saranno disfatte; se fosse
necessario schiumate di tanto in tanto. Passate il composto attraverso un setaccio aiutandovi con una
spatola di legno, quindi rimettetevi al fuoco amalgamandovi lo zucchero. Cuocete sinchè la marmellata
non avrà preso consistenza.
Elisir di rose
400g di alcol a 95°, 350g d’acqua, 350g di zucchero, 15g di petali di rosa.
Ponete i petali in un mortaio con una manciata di zucchero e pestateli fino ad ottenere una pasta che
porrete a macerare per una decina di giorni in un vaso di vetro ermeticamente chiuso, nel quale avrete
versato anche l’alcol. Durante questo periodo dovrete aver cura di agitare moderatamente una volta al
giorno il vaso con il suo contenuto. Trascorso il tempo previsto per la sua macerazione, aggiungete
l’acqua e il rimanente zucchero. Lasciate macerare ancora nel vaso per una settimana agitando ogni
tanto e , trascorso il tempo, filtrate attraverso una tela, imbottigliate e tappate con un sughero a
ceralacca. Aspettate almeno 2 mesi prima di consumarlo.
Per la preparazione dei liquori è possibile utilizzare anche i frutti di un’altra rosa selvatica, Rosa
Rugosa, presente nei boschi assieme alla più comune Rosa Canina.
SORBO
Gruppo:
Inquadramento: Il genere Sorbus comprende un centinaio di specie distribuite in tutto l’emisfero
settentrionale, distinte nelle sezioni: Aria, Sorbus, Cormus, Torminaria e Chamaemespilus, che
rappresentano probabilmente cinque distinte linee di evoluzione (McAllister, 1998). Oltre al sorbo
domestico (l’unico appartenente alla sezione Cormus) altre specie in Italia sono: il sorbo degli
uccellatori (S. Aucuparia L.), il sorbo ciavardello (S. Torminalis L. Crantz), il sorbo montano o
farinaccio (S. Aria L. Crantz) e il sorbo alpino (S. Chamaemespilus L. Crantz).
Fioritura: Giugno
Ambiente : Specie alpina che vive nelle brughiere oltre i 1500 m di altitudine, molto rara in Emilia-
Romagna. Le sole segnalazioni riguardano il crinale appenninico, dal reggiano al piacentino.
Piccolo arbusto con corteccia scura e lenticelle longitudinali più chiare ; foglie semplici, lunghe circa 6
cm, con lamina ellittica e margine seghettato, glabre su entrambi i lati, scure e lucide di sopra. Frutto
rosso, globoso, di circa 1 cm di diametro. Fruttificazione : Luglio-Agosto.
Fioritura: ;Maggio-luglio.
Altezza: fino a 15 m. Pianta diffusa in Europa e Africa settentrionale; in Italia è presente
Ambiente: su terreni acidi e su tutto il territorio esclusa la Sardegna; nella Regione Emilia-
umidi, da 600 fino a 2000 m . Romagna si trova sporadico nei boschi di faggio ed in radure e ai
Propagazione: talea, seme. margini di queste. Specie eliofila indifferente al substrato, si può
trovare anche sotto forma di arbusto in pendici desertiche e sassose.
Il tronco è sottile e ramificato, la chioma rada è ovale e arrotondata;
le foglie sono caduche, alterne, composte da 4-9 paia di foglioline
imparipennate, di forma oblungo-lanceolata, lunghe fino a 80 cm. Hanno apice acuto, margini interi
nella pagina inferiore, seghettati in quella superiore. La pagina superiore è verde scura, quella inferiore
è leggermente pelosa, verde-azzurra. Emanano un cattivo odore e in autunno assumono un colore
rossastro. I fiori si presentano in densi corimbi fino a 15 cm di diametro formati da fiori di 1 cm, bianchi
e molti profumati con 5 petali. I frutti simli a pomi, sono di colore giallo, arancione, rosso o bruno-
rossastro a seconda della varietà; hanno forma sferica con diametro di circa 1 cm. Sono portati da lunghi
penducoli e raccolti in gruppi pendenti.
Come si coltiva
Il sorbo domestico viene propagato per seme o per innesto. La riproduzione per seme è la forma di
propagazione utilizzata per l’uso forestale. La germinazione avviene in natura dopo 18 mesi dalla
maturazione. La stratificazione per 3-9 mesi a 0-3°C ha fornito risultati soddisfacenti per interrompere
la dormienza. È probabile che l’estrazione dei semi dal frutto appena raccolto e la semina tempestiva
possano favorire una più pronta germinazione, come riscontrato per S. torminalis. L’innesto è preferito
nella vivaistica ornamentale e nelle frutticoltura amatoriale, soprattutto per accelerare l’entrata in
produzione, che nelle piante da seme si verifica dopo circa 15 anni. Le specie utilizzate come
portinnesti sono il franco (S. domestica), il cotogno (Cydonia oblonga Miller.) e il biancospino
(Crataegus monogyna L.). Cotogno e biancospino favoriscono una più rapida entrata in produzione e
una minor vigoria della pianta rispetto al franco, ma possono causare fenomeni di disaffinità e una
minore longevità. Gli innesti che si sono dimostrati più efficienti sono il doppi spacco inglese e il
triangolo, eseguiti a fine inverno, e il “chip budding” (scheggia) nell’estate. Il sorbo domestico è stato
propagato anche per polloni radicali, talee radicali e in vitro, sia partendo da materiale in stadio
giovanile che da espianti di piante adulte. Per quanto riguarda la biologia fiorale e la fruttificazione, il
sorbo domestico è considerato autoincompatibile in larga misura e non sarebbe in grado di
autofecondarsi. La difficoltà di fecondazione potrebbe essere una delle cause dello scarso numero di
semi o dell’assenza di semi vitali generalmente osservato nelle sorbe di esemplari isolati. Anche se
mancano dati sperimentali a supporto di queste osservazioni, è quindi consigliabile la presenza di
varietà diversa per favorire l’impollinazione incrociata.
Il sorbo può essere colpito, al pari di altre Rosaceae, dal colpo di fuoco batterico (Erwinia amylovora).
La ticchiolatura (Venturia inaequalis), causa danni a foglie e frutti, determinando in alcuni casi la
caduta delle foglie e dei frutticini.
“Elt elt coma ‘na cisa, ros ros com’na zrisa, dôlz dôlz com’e mèl, mêr mêr com’e fel.”
“Alto alto come una chiesa, rosso rosso come una ciliegia, dolce dolce come il miele, amaro amaro
come il fiele”
In una frazione del comune di Sorbolo (PR), precisamente a Coenzo, si stà riscoprendo il vecchio sidro
di sorbe, qui chiamato “Sorbolino”. Sono state ritrovate tracce di questa preziosa bevanda in documenti
fin dal Seicento, alla Corte dei Gonzaga di Mantova, dove veniva considerato un liquore nobile, da
servire agli ospiti di riguardo nei castelli e nei palazzi dei signori, tant’è che figura al banchetto che il
marchese Gonzaga fece preparare in onore della regina Cristina di Svezia.
Venne citato da Dante, Boccaccio, Leonardo, Ariosto, Soderini, Manzoni e Pascoli.
Salsa di sorbe
(pe accompagnare la faraona arrosto)
Schiacciare le sorbe ben mature (300g) con poco sale, qualche cucchiaio d’acqua e metterle a cucinare
per 7-8 minuti, poi snocciolare, passarle al setaccio e unire lo zucchero (120g) far cuocere il composto
fino al giusto addensamento e servire a lato della faraona arrosto.
Souffle di sorbe
500 gr di sorbe mature, 50 gr di burro, 150 gr di zucchero, 4 uova, 50 gr mandorle tritate finemente,
biscotti tritati finemente,1 bicchiere di albana amabile
Fate cuocere le sorbe con lo zucchero ed il vino, passateli quindi al setaccio e mescolate la polpa con i
tuorli, le mandorle, un cucchiaio di pan grattato. Montate gli albumi a neve ed uniteli delicatamente al
composto che verserete poi in uno stampo imburrato e cosparso con i biscotti tritati. Cuocete per trenta
m inuti in forno a 200° e servite ancora caldo.
Liquore di sorbe
400 gr di sorbe, 300gr di zucchero, 3 chiodi di garofano, buccia di 1 limone, 1 cm di cannella, ½ l di
alcool 95°
Lavare e asciugare le sorbe, poi metterle in vaso a chiusura ermetica insieme a tutti gli altri ingredienti.
Lasciare il vaso al sole per la prima settimana, poi ritirarlo in cantina per sei mesi. Passato questo
periodo filtrare il liquore, imbottigliare e far invecchiare altri quattro mesi prima di servirlo.
Alberetto o arbusto.
Fioritura: aprile-giugno. Si trova in boschi e siepi dell’orizzonte sub montano nelle zone
Altezza: da 1 a 5 metri. temperate dell’Europa e dell’Asia. In Italia è distribuito ampiamente e
Ambiente: collina e si trova anche in Sicilia. Questo alberello presenta i rami vecchi
montagna da 400m a spinescenti, con foglie lunghe 20-70 mm, subopposte ovali, penninervie
1400. con 2-4 paia di nervi, secondari convergenti verso l’apice, sono glabre
o più o meno pubescenti. I fiori sono piccoli, di colore verdastro, e
riuniti in fascetti. I frutti sono delle drupe nere lucenti a maturità, essi
venivano usati nella medicina popolare come purgante drastico, hanno inoltre assieme alla corteccia
proprietà tintorie.
Il Prungo è originario delle regioni dell’europa orientale e dell’Asia occidentale. Si presenta come un
piccolo albero a ramificazioni erette che cresce fino all’altezza di 6-7 m. Le foglie sono alternate, ovali,
di color verde scuro e piuttosto spesse con la pagina inferiore leggermente pelosa. I fiori sono bianchi-
avorio, a 5 petali, sbocciano tra Aprile e Maggio e sono impollinati da insetti. Le gemme a fiore si
formano in prevalenza a mazzetto. Il frutto è una drupa, piccola, rotonda, generalmente ovaliforme e ha
una buccia (epicarpo), con colore che varia dal giallo, al verde, al rosso fino al viola blu, che presenta
esternamente una patina più o meno spessa di cere. La polpa può essere pastosa o succosa. Il seme
rinchiuso in un nocciolo (endocarpo) talvolta piuttosto appuntito presenta dimensioni variabili tra le
specie e talvolta si stacca molto bene dalla polpa (spicca).
Grossa di Felisio
Chiamata anche “Big egg” (grande uovo) o “Empress” per la dimensione notevole dei frutti, matura a
metà agosto, ed ha quindi susini di grossa pezzatura, saporitissime, dalla forma allungata.
Pisera
Il nome deriva dal colore tipico di questa prugna e dalla sua forma allungata. Il frutto si presenta
appunto di forma ellissoidale, di colore giallo dorato, con polpa soda, di colore giallo ambrato e di
sapore ottimo. Matura a fine Luglio, primi di Agosto, per consumo fresco.
Spiccalosso
Il nome deriva dalla facilità con cui il nocciolo si stacca dalla polpa. Il frutto si presenta di forma
ellissoidale, di colore viola rossastro, con polpa di colore giallo intenso, soda, di sapore mediocre.
Matura ad agosto, si consuma allo stato fresco.
I tenori usavano fare gargarismi con decotti di foglie di susino per schiarire la voce.
Le susine o le prugne oltre ad essere consumate fresche, vengono utilizzate in cucina per la produzione
di marmellate e gelatine ed in alcuni casi (le prugne) vengono essiccate per poterle conservare. Questi
frutti sono inoltre una componente importante nella “Frutta in guazzo”, un modo di conservare la frutta,
che durava in questo modo per tutto l’anno, infatti man mano che maturavano tipi diversi di frutta
venivano messi sotto spirito, così come viene indicato nella ricetta di Artusi: “A chi piace la frutta in
guazzo, puà riuscire gradito il seguente modo di confezionarle. Cominciate dalle prime che appariscono
in primavera, cioè: dalle fragole, dal ribes e dai lamponi, e ponete in un vaso 50 o 100 grammi per sorta;
copritele con la metà del loro peso, di zucchero e tanta acquavite o cognac che le sommerga. Poi
proseguite con le ciliegie, le susine, le albicocche, le pesche, tutte private del nocciolo e, all’infuori
delle ciliegie, tagliatele a fettine, aggiungendo sempre in proporzione zucchero ed acquavite. Potete
mettervi anche uva spina, uva salamanna e qualche pera gentile; ma poi assaggiate il liquido per
aggiungere zucchero o acquavite, a tenore del vostro gusto. Formato il vaso, lasciatelo in riposo per
qualche mese prima di servirvene.”
Presenta foglie lunghe 2-4 cm, a 3-5 lobi dentati, glabre o pubescenti. Picciolo lungo quanto la lamina,
fiori bisessuali, solitari o riuniti a 2-3, con petali bianco-verdognoli o porporini. Il frutto è una bacca
giallo-dorata, inizialmente ispida, poi glabra a maturità.
Questa pianta preferisce in genere il freddo al caldo, terreni umidi ed esposizioni fresche. Necessita di
una potatura di contenimento alla fine dell’inverno e di cimature verdi durante il ciclo vegetativo.
Subito dopo l’impianto seguirà una potatura di allevamento per stimolare la pianta ad assumere un certo
portamento a vegetazione corta e fitta per formare siepi o arbusti isolati. L’uva spina necessita di una
cimatura verde nel mese di maggio-giugno per accorciare i getti laterali di una branca (anche la parte
terminale) affinché le gemme ascellari fogliari al di sotto del taglio si inturgidiscano e si preparino alla
fioritura, prima, e alla fruttificazione poi nell’anno seguente.
Le bacche vanno raccolte in luglio, stimolano l’appetito e aiutano la digestione, sono inoltre diuretiche e
lassative. Sottoforma di sciroppo era utilizzata per le cure dei nervi (1-2 cucchiaini per bicchiere
d’acqua). Fate attenzione ai frutti acerbi poichè ingeriti in discrete quantità possono recare disturbi.
Katia Agide