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Dott.

Vincenzo D’Elia (ITALCOM)

BIODEGRADABILITÁ E COMPOSTABILITÁ

Il termine biodegradabilità è oggi molto diffuso anche per via dei gravi problemi di natura
ambientale che la nostra società si trova ad affrontare. Altre nazioni da tempo hanno
sviluppato una sensibilità più accentuata al problema, riuscendo a individuare diverse
soluzioni, più o meno efficaci, che hanno permesso di ridurre l’impatto che lo sviluppo
dell’uomo inevitabilmente ha sul mondo che lo circonda.
Biodegradare è un concetto molto semplice, strettamente legato al mondo naturale perché è
la natura stessa a essere protagonista di questo processo. Una sostanza, infatti, si
“biodegrada” nel momento in cui comincia quell’azione di decomposizione, propria delle
sostanze organiche, per mezzo dei microrganismi presenti in natura atti a quest’attività in
qualsiasi condizione tale sostanza si venga a trovare. I prodotti mineralizzati da questo
processo vengono poi reimmessi spontaneamente nel ciclo naturale.
Questo è il processo biologico che subiscono tutte le sostanze organiche presenti in natura
con un tempo poco determinato, nel senso che l’arco temporale della biodegradazione è
strettamente connesso a fattori quali temperatura, umidità, ossigenazione, concentrazione
di microrganismi, che la sostanza incontra nel suo iter di biodegradazione.
La possibilità di “controllare” artificialmente tali parametri, mantenendoli per esempio
costanti, permette all’uomo di aumentare la resa della biodegradazione, intesa nel senso
della velocità della decomposizione. É questo il processo definito di “compostabilità”, cioè la
possibilità di aumentare la velocità della degradazione biologica in regime di condizioni
controllate che possono ottenersi, ovviamente, in apposite strutture destinate a tale
funzione.

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Rendere biodegradabili molti beni d’utilizzo comune, realizzati con sostanze sintetizzate a
causa delle caratteristiche peculiari che questi oggetti devono possedere - si pensi per
esempio a tutti i materiali plastici - sembra oggi essere la strada intrapresa da una certa
politica di sviluppo ecosostenibile un po’ più attenta alle problematiche relative alle questioni
ambientali, un po’ più consapevole e responsabile rispetto alle ripercussioni che l’azione
umana produce sull’ecosistema.
Ora la questione fondamentale da intendere qui è che risulta necessario valutare
concretamente e diffusamente i risultati prodotti da ogni scelta meditata con l’intento di
perseguire uno scopo determinato, e, nel caso specifico, diffidare di alcune prese di
posizione (o quanto meno porle in condizione di “rivalutazione”) dettate più da un certo
impatto emotivo che dalla mera volontà di risoluzione di un grave problema. In altre parole,
senza un’accurata analisi scientifica delle conseguenze di una serie di scelte “ecologiste”,
può senz’altro accadere che si finisca per spacciare per ecologismo sostenibile un indirizzo
che di “ambientale” ha ben poco.

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La creazione della bioplastica, per esempio, realizzata con lo scopo precipuo di produrre un
imballaggio avente come proprietà una certa facilità di compostabilità per la sua base
vegetale, ha creato un certo “ottimismo ambientale” nella concezione della risoluzione di
tutte quelle problematiche relative alle difficoltà di smaltimento degli imballaggi e rifiuti
d’imballaggio.
A seguito di questo atteggiamento “positivo”, l’orientamento diffuso, sostenuto anche da
ingenti investimenti e risorse nel settore, è quello di spingere in questa direzione quasi
ciecamente, senza un’analisi realmente attenta di quello che è il lineare rapporto
costo/beneficio. Destinare parte delle derrate alimentari alla produzione di bioplastiche
compostabili per l’imballaggio, per ridurre l’inquinamento, o di biocarburanti, altro esempio
eclatante, per ridurre le emissioni nocive, è certamente indicativo di una società in forte
disequilibrio con le risorse del pianeta.
Occorre considerare inoltre tutte le gravi ripercussioni di natura etica e sociale che questo
tipo di scelte economico-politiche implica. Si pensi per esempio all’acceso dibattito tenutosi
nell’ultimo vertice FAO ai primi di giugno, in cui forte è stata la denuncia del segretario
generale dell’ONU Ban Ki-Moon sulla questione della fame del mondo, considerata, oltre che
una vergognosa piaga della umanità, anche come una delle cause della instabilità politica
dei tanti paesi colpiti da questo flagello e perfino come motivo possibile di crisi
internazionali. Sarebbe quindi opportuno analizzare l’irrazionalità della gestione delle risorse
planetarie per il perseguimento di fini solo all’apparenza meramente “ambientali”.
La produzione agricola di mais, girasole e altre colture destinate a realizzare biocarburanti e
bioimballaggi necessita senz’altro di enormi quantità di energia (combustile fossile), acqua
(bene sempre più prezioso), per non parlare della necessità d’impiego di pesticidi,
fertilizzanti, concimi chimici e senza considerare l’anidride carbonica rilasciata nell’ambiente
per la realizzazione di questo intento “ecologista”.

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L’Unione Europea, per ciò che concerne gli imballaggi e rifiuti di imballaggio, ha ben indicato
nella direttiva 94/62/CE, modificata successivamente con la 2004/12/CE, le linee guida da
seguire per prevenire e ridurre l’impatto sull’ambiente di questo tipo di beni, che svolgono
una funzione sociale ed economica fondamentale, ponendo al centro della propria riflessione
politico-decisionale la riduzione del volume dei rifiuti, e quindi del loro smaltimento, come
principio essenziale per la crescita sostenibile degli Stati, come espressamente indicato nel
Trattato dell’Unione Europea.
La biodegradabilità soddisfa “naturalmente” questo principio della direttiva, normativa di
riferimento che regolamenta oggi il settore permettendo di armonizzare le diverse
disposizioni e misure nazionali concernenti la gestione degli imballaggi. Occorre, però,
capirne bene il significato e definirne il contenuto.
Un imballaggio risulta biodegradabile se viene coinvolto in questo processo ovunque esso
capiti, ovunque si trovi o vada a finire e se non ha bisogno di nessun azione “artificiale”
d’induzione all’avvio dello stesso. Biodegradabilità implica strettamente il concetto di
naturalezza nei tempi, nella spontaneità, nello svolgimento e sviluppo del processo.

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Alcuni materiali compostabili vengono definiti erroneamente biodegradabili senza


l’indicazione precisa della loro compostabilità. In altre parole, non viene specificato che la
biodegradabilità di tali beni è una caratteristica risultato di uno specifico trattamento
aerobico e che in assenza dello stesso, tale proprietà non si verifica.
Uno shopper in biopolimero, per esempio, che malauguratamente finisca in discarica e non
subisca, quindi, un trattamento di compostaggio non si biodegrada totalmente.
Tristemente famoso è il progetto Kassel in Germania: buste e altri prodotti plastici aventi
l’etichetta “compostabile” si sono verificati non tali nelle strutture di compostaggio
domestico dei cittadini che hanno sollevato il problema, individuando di conseguenza la
necessità di una più precisa indicazione di “compostabilità commerciale”, che si realizza solo
sotto gli specifici standard in cui sono presenti elevate temperature, ossigenazione, controllo
dell’umidità e alti livelli di microrganismi.
Esiste oggi la concreta opportunità di intraprendere anche altre strade per la
biodegradabilità di materiali dal difficile smaltimento, come quelli plastici, senza che essa sia
necessariamente il risultato di un trattamento di compostaggio.
Particolarmente significativa in tal senso è la realizzazione di una nuova tecnologia capace di
rendere concretamente biodegradabile, e non solo compostabile, la maggior parte dei
polimeri sintetici o resine riciclate. Gli additivi ECM sviluppati a tale scopo costituiscono una
vera novità nel settore, per i costi contenuti, la loro efficacia, la versatilità d’impiego, la
facilità di lavorazione, la disponibilità nell’approvvigionamento, la facilità di stoccaggio.

mc/gd/italcom 300

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