Sei sulla pagina 1di 62

M-Z

Scienze Giuridiche

Diritto del lavoro Pagina 1 di 62 a.a. 2005-2006


07 Marzo 2006 – prof. Vettor

PRIMA PARTE: DIRITTO DEL LAVORO


L’origine della materia e tappe essenziali della cronologia del diritto del lavoro: nasce con la
rivoluzione industriale (in Gran Bretagna alla fine del ‘700). Successivamente si è diffusa in
altri Paesi. In Italia arriva nell’800.
Alla rivoluzione industriale si collegano dei fenomeni collaterali:
- inurbamento (spostamento dalle campagne e costituzione di agglomerati urbani intorno ai
centri industriali);
- trasformazione della struttura famigliare (messa in crisi del modello patriarcale);
- perdita della solidarietà famigliare (perché la famiglia diventa di tipo nucleare, limitata nei
suoi componenti)
- costituzione di una classe operaia, di una forza lavoro applicata, non all’agricoltura, ma al
lavoro industriale.
La rivoluzione industriale genera la classe operaia ma, al contempo, i problemi per la stessa
che li patisce (la morte a causa del lavoro era molto frequente). Da qui la necessità di unirsi
per fronteggiare gli eventi nocivi (malattia, morte) del lavoro. C’è, quindi, una presa di
coscienza da parte della neo-classe operaia. L’unica possibilità era quella di auto-
organizzarsi, per fronteggiare i rischi economici collegati alla malattia, ossia la perdita di
reddito a seguito di periodi di non lavoro causati dalla malattia. Era necessario costituire reti
di solidarietà. Sono gli anni in cui hanno origine la società di mutuo soccorso (le mutue). Le
mutue vengono indicate come l’anno zero del fenomeno sindacale. La Cgl, la Cisl e la Uil
hanno origine in questi nuclei di auto-tutela. Il fenomeno delle mutue ha preoccupato il
pubblico potere perché in esse si vedeva la possibilità di nascita di conflitti (contropotere).
Questo è il motivo per cui fu stabilito per legge (legge 80/1898) lo scioglimento di questi
fenomeni associativi e lo Stato si assunse il compito di svolgere la loro funzione (nascita
dell’assicurazione per gli infortuni sul lavoro). Le imprese furono obbligate a stipulare tali
assicurazioni per tutelare i lavoratori. Questa legge 80/1898 costituisce la struttura portante
del vigente testo unico nr. 1124/1965. Vengono gettate le basi del welfare italiano, del diritto
previdenziale della sicurezza sociale. Si passa, quindi, da un intervento di tipo privatistico ad
uno di tipo statuale: nasce il diritto previdenziale, della sicurezza sociale.
Vi sono, quindi, due origini e due elementi del quale il diritto del lavoro è solcato: per un
verso il diritto sindacale (che nelle mutue ha la sua primaria origine), per un altro, il diritto
della sicurezza sociale che è comunque parte del diritto del lavoro.
La legislazione in tema di assicurazione in caso di infortunio sul lavoro risale al 1898, ma in
quegli anni c’era una codificazione che si occupasse di regolamentare i contratti di lavoro?
No, infatti, in quegli anni, era vigente il codice civile del 1865 che riproduceva il codice
napoleonico del 1804, ma in esso c’era una sola norma che poteva riferirsi al rapporto di
lavoro, ma dentro lo schema contrattuale della locazione (come potevano essere locati i
mezzi, così poteva essere locato il lavoro). In altri termini il lavoro veniva sussunto dentro lo
schema locatizio. Nel codice del 1865 non vi è traccia del significato e delle problematiche
inerenti il rapporto di lavoro e il lavoratore. Il codice del 1865 non sentì l’esigenza di
introdurre il contratto di lavoro perché i principi che portava in sé erano quelli della rivoluzione
francese, ossia i valori ispirati all’individualismo, all’idea paritaria tra gli umani, all’uguaglianza
(quindi non accoglie l’idea di disparità che può sussistere tra il lavoratore e il datore di
lavoro). Nello schema locatizio si trova il germe del contratto di lavoro, ma nulla più. Nel
codice civile del 1865 il contratto di lavoro non esiste se non nello schema locatizio.
Questa assenza di legislazione si protrae fino al primo ventennio del ‘900, periodo in cui si
instaura in Italia il cd. periodo corporativo. E’ un periodo che comincia negli anni ’20 e
termina nel ’44 con la fine della seconda guerra mondiale. E’ il periodo che la storiografia
individua come il ventennio fascista. Durante questi venti anni, l’auto-tutela collettiva viene
relegata nell’area della illiceità penale. Ciò significa che lo sciopero (lo strumento moderno

Diritto del lavoro Pagina 2 di 62 a.a. 2005-2006


attraverso il quale la parte lavoratrice rivendica diritti per sé), cioè l’astensione dal lavoro, è
considerata reato e quindi penalmente punibile. C’è da notare che, precedentemente,
l’astensione dal lavoro era considerata una libertà (non un diritto, in quanto lo diverrà solo
con la Costituzione italiana, all’art. 40), e chi si asteneva dal lavoro era passibile
semplicemente di un’azione di inadempimento contrattuale. Sotto il profilo sindacale si può
quindi dire che questa fase storica si presenta fortemente connotata da elementi negativi,
infatti c’era anche il mancato riconoscimento della libertà sindacale (non era possibile
lecitamente dare luogo a fenomeni associativi). A prova di ciò sta il fatto che in quegli anni fu
costituito un sindacato unico, rappresentativo, allo stesso tempo, della parte lavorativa e del
datore di lavoro. Non c’era dialettica tra i due interessi, come invece avviene oggi con il
pluralismo di sindacati.
Sotto il profilo dell’intervento legislativo, nel ventennio fascista, vanno sottolineati due corpi
normativi che, in qualche misura, segnano il primo consolidarsi del diritto del lavoro: una
legislazione in tema di orario (nella quale viene fissata, per la prima volta, la durata massima
della giornata lavorativa); e una legislazione che disciplina il rapporto di lavoro degli impiegati
(si guarda al ceto sociale più vicino all’imprenditore).
Nel 1942, in Italia, viene emanato il codice civile vigente. Che differenze si possono notare
tra quest’ultimo e quello del 1865?
- nel codice del 1865 il rapporto di lavoro era sussunto nello schema della locazione, mentre
nel nuovo codice del 1942, il lavoro acquisisce una sua centralità (libro V) e viene staccato
dal corpo di regole che disciplinano rapporti paritari tra le parti contraenti (libro IV delle
obbligazioni). Lo spirito che caratterizza il libro V non considera primario il conflitto capitale-
lavoro, ma considera fondamentale l’interesse superiore della Nazione. I lavoratori e il datore
di lavoro dovevano collaborare per ottenere l’interesse superiore della Nazione. Si diceva
che il lavoratore doveva essere diligente e i parametri di tale diligenza che si trovavano nella
redazione originaria di questa norma, erano: la natura della prestazione, gli ordini impartiti dal
datore di lavoro, l’interesse economico generale.

08 Marzo 2006 – prof. Vettor

E’ possibile scansionare, nella storia del diritto del lavoro, alcuni periodi: il primo può essere
individuato come la fase originaria del diritto del lavoro, enucleatasi attorno alla legislazione
sociale che viene risposta alle società di mutuo soccorso (lo Stato fa propria quella tutela fino
ad allora realizzata dalle società di mutuo soccorso) Nel 1898 viene posta in essere una
legislazione disciplinante l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro che segna l’anno zero
della previdenza sociale. Successivamente vi è stato il ventennio fascista durante il quale
sono state azzerate alcune libertà fondamentali quali la libertà sindacale, lo sciopero viene
relegato nell’area della illiceità penale, e tuttavia ci sono alcune legislazioni che vanno a
consolidare il nucleo originario del diritto del lavoro (la legislazione in tema di orario e in tema
di disciplina del rapporto di lavoro degli impiegati). Il ventennio si chiude con la redazione del
codice civile del 1942, nel quale si trova un’attenzione particolare al lavoro attraverso il libro
V, e con ciò si determina una rottura col passato (precedente codificazione del 1865 nella
quale il lavoro non aveva un riconoscimento perché quel codice ereditava i principi della
rivoluzione francese, ed era inserito solo nell’area generica della locazione). Tuttavia il codice
del 1942 risentiva molto dell’ideologia dei principi ispiratori del regime corporativo (infatti non
troviamo descritta una relazione conflittuale tra datore di lavoro e lavoratore, non visualizza la
contrapposizione tra capitale e lavoro, non identifica una contrapposizione di interessi, ma
sacrifica entrambi all’interesse superiore della Nazione, dell’economia). Si dice infatti che le
norme del codice civile sono attraversate da uno spirito comunitarista, ove le istanze
potenzialmente in conflitto vengono completamente azzerate a vantaggio della Nazione).

Diritto del lavoro Pagina 3 di 62 a.a. 2005-2006


Con la fine della seconda guerra mondiale prendono corpo i diritti sociali o diritti fondamentali
(diritti umani), che vengono inscritti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, ove
troviamo il principio della dignità personale, dell’uguaglianza a prescindere da qualsivoglia
connotazione. Diviene evidente quanto fosse stato pericoloso porre delle distinzioni in
rapporto, per esempio, alla nazionalità o ad altre caratteristiche. Nei costituzionalismi
precedenti, i diritti di cui un individuo poteva godere erano comunque collegati
all’appartenenza ad una comunità territoriale (infatti, in nome dell’appartenenza o della non
appartenenza ad una comunità territoriale si è potuto perseguitare gruppi di persone).
Questi problemi della storia hanno fatto sì che l’essere umano, preso nella sua irriducibile
umanità, dopo la fine della guerra mondiale, venisse messo al centro dell’attenzione, a
prescindere dalla cittadinanza o da altri connotati. I diritti che vengono riconosciuti all’essere
umano, ai fini dell’espressione della sua stessa umanità, vanno a costituire il patrimonio dei
cd. diritti fondamentali o diritti umani o diritti sociali o diritti di seconda generazione (perché
vengono dopo il riconoscimento della libertà). I diritti fondamentali sono caratterizzati da due
principi: quello della salvaguardia della dignità personale e quello dell’uguaglianza (in senso
sostanziale, per poter accedere al principio di uguaglianza formale).
Sono questi i diritti che trovano fondamento nella Dichiarazione Universale dei diritti
dell’uomo, che viene dopo la seconda guerra mondiale e che proietterà la sua influenza sulle
costituzioni post-belliche europee. Infatti, ha avuto influenza anche sulla Costituzione italiana,
ove troviamo scolpiti i diritti fondamentali, nell’ambito dei quali occupano un posto molto
rilevante i diritti del lavoro e i suoi corollari.
La Costituzione italiana riconosce i diritti dell’inviolabilità dell’essere umano (art. 2: “La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…”) e dell’uguaglianza (art. 3: “Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando
di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese”. Questi due principi sono alla base dei diritti sociali nel cui ambito il lavoro
ha un posto centrale.
La Costituzione italiana riserva al lavoro una grossa importanza e ciò si evince soprattutto dal
titolo III intitolato –rapporti economici- che sia apre con l’art. 35 e si chiude con l’art. 47.
Con il titolo III della Costituzione, si dà centralità al lavoro infatti l’art. 35 recita “La Repubblica
tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”.
L’art. 36 è altrettanto importante e si apre così: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e n ogni caso sufficiente ad assicurare a
sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; si può notare che con esso si va oltre
la semplice idea di proporzionalità, di scambio. Nell’art. 37 viene posto in modo
inequivocabile il principio di eguaglianza, tra uomini e donne, nel lavoro; non ci devono
essere discriminazioni in ragione del sesso. Lo stesso articolo fa riferimento al limite minimo
di età per il lavoro salariato.
Tutti questi articoli sono strettamente collegati agli art. 2 e 3 Cost.
Nell’art. 37, però, è prevista la possibilità anche di derogare al principio della parità di
trattamento, nel caso di maternità della donna perché questo segna il punto di discontinuità
nella vita materiale di uomini e donne. E’ l’unica possibile disuguaglianza applicabile.
L’art. 38 è fondamentale per la previdenza sociale: “Ogni cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I
lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di
vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli
inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti

Diritto del lavoro Pagina 4 di 62 a.a. 2005-2006


previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L’assistenza privata è libera”.
L’art. 39.1: “L’organizzazione sindacale è libera” ribalta i comportamenti tenuti durante il
fascismo.
L’art. 40 sancisce il diritto di sciopero: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi
che lo regolano”.
Nell’’art. 41 si coglie il primato dell’essere umano sulla ragione dell’economia, dell’impresa:
“L’iniziativa economica privata è libera”, tuttavia, nello stesso articolo, vengono posti dei limiti.
Il comma 2 cita: l’iniziativa “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”; quindi, immaginando un sistema
gerarchico, prima ci sono questi principi e, al secondo posto, la libertà dell’iniziativa
economica privata.
Gli altri diritti sociali contenuti nella Costituzione italiana sono il diritto all’istruzione (art. 35) e
il diritto alla salute. La dottrina considera le norme della Costituzione norme di tipo
programmatico, ossia non immediatamente precettive ma disegnano le linee di principio alle
quali la legislazione si deve attenere. Tuttavia, la dottrina ha previsto che alcune delle norme
sopra menzionate avessero un’immediata precettività, cioè entrassero direttamente nel
patrimonio giuridico del singolo individuo. Un articolo che ha immediata precettività è l’art.
36.1 che, infatti, non ha bisogno di una legge attuativa della disposizione. Anche l’art. 39.1
“L’organizzazione sindacale è libera” è immediatamente precettibile (ciascun lavoratore può
partecipare a dinamiche di auto-associazione, ai fini di auto-tutela). Per quanto concerne,
invece, le altre norme, si è trattato di integrarle, di attuarle con la legislazione che è venuta
successivamente. Tale legislazione può essere suddivisa nelle seguenti fasi:
* periodo tra gli anni ’50 e ’60 cd. fase post-costituzionale
- legislazioni punitive di quei comportamenti fraudolenti rispetto alle leggi che disciplinano il
lavoro. Viene punita, attraverso la legge 1369/1960 (successivamente abrogata)
l’interposizione di manodopera ossia il commercio di forza lavoro (oggi la visione è cambiata
con società come Adecco, Manpower, etc.)
- legislazione sul lavoro a domicilio, anch’essa ispirata a criteri di tutela e garanzia della
parte lavoratrice, proprio in forza della particolare debolezza nella quale si trova il lavoratore
a domicilio, rispetto a quello inserito nell’impresa
- legislazione che disciplina le ipotesi di apposizione del termine ad un contratto di lavoro.
Questa legge, la 230/1962, successivamente abrogata nel 2001 con il D.Lgs. 368, è la prima
che si occupa di apporre un termine al contratto di lavoro. In questa legge si diceva che il
contratto di lavoro subordinato doveva essere per un tempo indeterminato. Tuttavia la legge
ammetteva delle eccezioni, espressamente indicate in una elencazione tassativa (al di fuori
di questi casi, non era possibile apporre un termine al contratto). Il codice civile del 1942
(vigente al momento dell’emanazione della legge 230), però, prevedeva la regola opposta,
ossia che il vincolo contrattuale dovesse essere a termine. Tra le due legislazioni c’è stata la
Costituzione italiana che ha riconosciuto i dirittI sociali, la centralità degli interessi della parte
lavoratrice e quindi l’indeterminatezza del vincolo contrattuale garantisce molto più di quanto
non faccia una regola ispirata al criterio della temporaneità. In altre parole, la 230 si spiega in
forza proprio della Costituzione italiana. Perché nel codice civile era previsto un rapporto di
lavoro a tempo determinato? La dottrina giustifica ciò con il fatto che era ancora vivo il
ricordo dei vincoli ereditati dal passato di “consegna” totale della propria esistenza totale al
padrone.
Alcuni sostengono che oggi si sia invertita la regola un’altra volta, cioè si sarebbe tornati alla
regola del codice del 1942, cioè alla concezione del contratto a tempo determinato.
- legislazione disciplinante il licenziamento individuale (legge 604/1966), la quale ha
introdotto un principio, ancora presente nell’ordinamento lavoristico, cioè il principio per cui il
datore di lavoro non può recedere dal rapporto di lavoro in mancanza di una giustificazione.

Diritto del lavoro Pagina 5 di 62 a.a. 2005-2006


Questo è un principio che va al cuore della dignità personale (si dice che è un principio di
civiltà giuridica).
* periodo anni ’70
- la legislazione di questo periodo si apre con una legge famosa: lo statuto dei lavoratori,
legge 300/1970. Con questa legge viene disegnato il patrimonio giuridico/lo statuto giuridico
del lavoratore. In essa si trovano sia norme rafforzative del principio di dignità e uguaglianza
(per esempio sono vietate al datore di lavoro indagini pre-assuntive in violazione della
privacy, limitando la raccolta di informazioni solo se hanno una rilevanza con l’attività di
lavoro che dovrà essere svolta), sia norme nuove.
Lo statuto dei lavori riconosce, inoltre, una tutela in caso di licenziamento ancora più
garantista di quella riconosciuta nella legge 604/1966, infatti nell’art. 18 (che è una norma
sanzionatoria) della legge 300/1970 si sanziona il datore di lavoro che non si è attenuto alle
regole disciplinanti il licenziamento individuale. Laddove un’impresa ha 15 o più persone e il
datore non si sia attenuto alle regole, il lavoratore viene reintegrato nell’ambiente lavorativo,
cioè si dice che il licenziamento non è stato eseguito perché è nullo. Tuttavia può capitare
che il lavoratore non abbia più voglia di riprendere il suo posto in quella impresa (perché il
contesto relazionale si è guastato, etc.), allora il legislatore consente di monetizzare la
reintegrazione che vale 15 mensilità, più 5 mensilità di risarcimento del danno.
* periodo tra gli anni ’80 e ’90
- la legislazione di questo periodo è influenzata da varie crisi economiche, per cui la
legislazione è meno garantista, meno protettiva della parte lavoratrice. Inizia a prendere
corpo l’idea di flessibilità. E’ di questi anni la legislazione disciplinante i licenziamenti collettivi
(fino ad allora il legislatore italiano si era occupato di licenziamenti individuali o al massimo
plurimi ma dentro numeri contenuti), ma con le grandi crisi petrolifere che si riflettono sulle
economie nazionali, sorge il problema di una legislazione contenitiva dei licenziamenti di
massa. Inizia ad avanzare, quindi, la garanzia dei cd. ammortizzatori sociali (cassa
integrazione, previdenza sociale, etc.): sono legislazioni che non producono occupazione ma
cercano di limitare i danni economici e personali della disoccupazione involontaria (sono
norme che in qualche misura fanno riferimento all’art. 38 Cost.).
* periodo contemporaneo
- c’è stata una recente riforma del mercato del lavoro: D.Lgs. 276/2003 che va sotto il nome
di riforma/legge Biagi (professore di diritto del lavoro che fu ucciso prima della redazione del
documento finale, ma a lui si attribuisce il libro bianco ispiratore della riforma). E’ una
legislazione nella quale si trovano parole chiave come “deregolazione” (progressiva riduzione
di tutela del patrimonio giuridico collegato al mondo del lavoro); “flessibilità” (all’ingresso e
all’uscita dal mondo del lavoro), infatti attraverso una maggior flessibilità si ritiene di ottenere
una maggiore occupazione; ed “Europa” (presenza di principi della legislazione comunitaria).

09 Marzo 2006 – prof. Vettor

C’è stato un andamento oscillante del contratto a termine: inizialmente non era ammesso, poi
nella 230/1962 si avevano dei limiti ben precisi, successivamente i limiti si sono allargati. I
giorni nostri sono segnati dalla legge Biagi che è una legge che conta al suo interno più di 80
articoli, molti dei quali hanno avuto bisogno di integrazioni legislative di funzione attuativa. La
legge Biagi (D.Lgs. 276/2003) è stata anticipata da una legge di delega nr. 30/2003, a sua
volta anticipata da un documento programmatico: il libro bianco. Il professor Biagi è stato
l’artefice del libro bianco, che risulta essere, quindi, la matrice del D.Lgs. 276/2003.

Le fonti del diritto del lavoro.


Nel diritto ci sono le fonti di produzione e le fonti di cognizione, e lo stesso vale per il diritto
del lavoro.

Diritto del lavoro Pagina 6 di 62 a.a. 2005-2006


La principale fonte di produzione è la legge, poi vi sono gli atti aventi valore di legge (decreti
legislativi e decreti legge), e le fonti extra nazionali che hanno origine al di fuori del confine
territoriale dello stato italiano (raccomandazioni, risoluzioni, dichiarazioni, etc.) che
provengono dagli organismi dedicati alla tutela della parte lavoratrice, tra cui
l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (della ILO o OIL), costituita nel 1919 per
monitorare/controllare la tutela degli interessi della parte lavoratrice. Lo statuto dei lavoratori
si costruisce sulla base di alcune indicazioni dell’ILO. C’è, inoltre, anche il diritto comunitario
che è il più rilevante nella produzione di norme relative al lavoro: vi sono i regolamenti, le
direttive, le decisioni. I regolamenti hanno un’immediata precettività ed efficacia mentre le
direttive hanno bisogno di una legislazione attuativa (ad esempio: - il D.Lgs. 368/2001 è
espressivo di una direttiva europea sul contratto a termine; - la legislazione del 2003 sul part-
time è il frutto di una direttiva UE; - il D.Lgs. 626 è espressivo di una direttiva madre degli
anni ’80; - la legislazione sui congedi parentali D.Lgs. 53/2000 deriva da una direttiva
comunitaria).
Le fonti sopra ricordate non manifestano profili di specialità rispetto agli altri rami
dell’ordinamento, ma cosa, invece, si segnala come anomalia rispetto alle fonti classiche? La
cd. fonte extra ordinem (che va fuori l’ordinario) che è rappresentata dal contratto collettivo.
In altri termini, la disciplina del rapporto di lavoro non è solo reperibile nella legge e negli atti
ad essa equipollenti, ma è reperibile dentro un contratto sottoscritto tra privati rappresentativi
di un soggetto collettivo (i lavoratori da un lato ed il datore di lavoro dall’altro). Per conoscere
quanto vale il nostro lavoro in termini economici dovremmo guardare non solo alla legge
dell’art. 36 Cost. che dà i parametri generali (la proporzionalità e la sufficienza-a garantire
libertà e dignità) ma anche ai contratti collettivi, ove troviamo quanto vale il lavoro, in base
ad una mediazione negoziale tra il datore ed i lavoratori (associazioni rappresentative degli
uni e degli altri). E’ da far presente che può capitare che, dalla parte del datore di lavoro, vi
sia una sola persona che contratta, ma non avverrà mai che un’associazione rappresentativa
del datore di lavoro contratti con un solo lavoratore. In un contratto collettivo c’è sempre una
associazione rappresentativa dei lavoratori. La contrattazione collettiva può essere di tipo
nazionale, locale, aziendale, provinciale/territoriale. Inoltre, ci può essere una contrattazione
collettiva di tipo normativo (cd. tipo).
Nella contrattazione collettiva è molto importante il principio di libertà sindacale e il diritto di
sciopero.
Altre fonti ascrivibili al concetto di fonti extra ordinem sono le pronunce giurisprudenziali che
hanno una rilevanza fondamentale, nonostante il nostro sia un paese di civil-law. Tuttavia
non c’è solo la giurisprudenza che viene prodotta entro i confini territoriali del nostro stato,
ma c’è anche la giurisprudenza comunitaria, cioè la giurisprudenza dei giudici dell’Unione
Europea.
Anche gli interventi interpretativi del Ministero del lavoro sono molto importanti in questa
materia. Il D.Lgs. 276/2003 ha disciplinato, tra le altre cose, anche le collaborazioni
coordinate continuative (co.co.co.) e il lavoro a progetto, ma quando è entrato in vigore non
era ben chiaro cosa dovesse essere delle vecchie collaborazioni coordinate continuative e
allora è intervenuto il Ministero del lavoro con una circolare interpretativa. Sempre in
riferimento alle co.co.co., ora divenute lavoro a progetto, è intervenuto l’Inps, attraverso una
circolare interpretativa, per chiarire la tassazione di tali collaborazioni, a fronte della
trasformazione avvenuta. Questi collaboratori, nel 2000, sono divenuti soggetti tutelati sotto il
profilo degli infortuni, quindi anche per loro è stata prevista una copertura assicurativa in
caso d’infortunio. Essendo tale contributo destinato all’Inail, questa è intervenuta per chiarire
la nuova disposizione.
Tutti questi documenti sono esplicativi, interpretativi.
Tornando alla legge (intendendo anche il D.L. e il D.Lgs.), nel 2001 c’è stata la riforma
dell’art. 117 Cost. che disciplina quali sono le competenze di legiferazione: la regola
originaria attribuiva la competenza a legiferare allo Stato (Parlamento) e, per alcune materie

Diritto del lavoro Pagina 7 di 62 a.a. 2005-2006


specificate, si cedeva tale competenza alle regioni. Con la riforma si è sostituito un modello
in cui si elencano i casi (limitati) in cui lo Stato può legiferare (praticamente la situazione
opposta). In questo schema si inserisce, poi, la competenza concorrente (competenza
ricondotta alle regioni, nei limiti dei principi stabiliti dal legislatore. Con questa riforma c’è
stata una svolta in senso federalista.
Nella competenza concorrente si trova molto spesso un rinvio alle regioni, per quanto
riguarda il diritto del mercato del lavoro. Per quanto concerne, invece, la disciplina del
rapporto di lavoro è rimasta la competenza esclusiva dello stato (per evitare possibili deroghe
sulla legislazione).
A fronte di ciò, è evidente che la legge, per quanto riguarda il diritto del lavoro, non è solo
quella statale ma è necessario guardare anche alle fonti regionali.

Qual è l’oggetto del diritto del lavoro? Di chi si occupa il diritto del lavoro? In che modo se ne
occupa?
Anzitutto c’è da distinguere tra il contratto di lavoro subordinato (prestatore di lavoro
subordinato) e il contratto d’opera (lavoratore autonomo). Il diritto del lavoro regge su questa
distinzione tipologica. Si dice anche che il diritto del lavoro è strutturato da una specifica
dicotomia tipizzante rappresentata dal lavoro subordinato e dal lavoro autonomo. Il nostro
ordinamento, a differenza di altri quali Regno Unito, Germania, Francia, ha nozioni generali
legali descrittive di questi contratti. Il caso che più si approssima a quello italiano è quello
spagnolo ove non esiste una nozione generale di lavoro autonomo, bensì una nozione
generale di lavoro dipendente. L’Italia è l’unico paese ad avere, per ciascun tipo contrattuale,
una specifica nozione. I francesi hanno ancora il codice Napoleone, ove il contratto di lavoro
è inserito nella forma locatizia (era ciò che prevedeva anche il codice civile italiano del 1865).
La nozione legale generale di prestatore di lavoro subordinato è nell’art. 2094 c.c., mentre la
norma del contratto d’opera –locatio operis- (da cui estraiamo la figura del lavoratore
autonomo) è nell’art. 2222 c.c.
Art. 2094 c.c.: “Prestatore di lavoro subordinato. E’ prestatore di lavoro subordinato chi si
obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro
intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
Art. 2222 c.c.: “Contratto d’opera. Quando una persona si obbliga a compiere verso un
corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di
subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo
che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”.

14 Marzo 2006 – prof. Vettor

L’oggetto del diritto del lavoro ha a che fare con una dicotomia tipizzante, ossia vi è una
contrapposizione tipologica nella materia ed è determinata dal lavoro subordinato e dal
lavoro autonomo. Il primo si ricava dall’art. 2094 c.c. il quale si oppone all’art. 2222 c.c.

Cosa risulta dal raffronto letterale delle due norme? Qual è l’elemento che le differenzia?
Nella prima si ha la subordinazione di un soggetto, nella seconda no. L’elemento
discriminante è, in un caso, la subordinazione, nell’altro caso, l’assenza di subordinazione. I
tipi contrattuali nel diritto sono due e l’elemento discriminante dei tipi contrattuali consiste
nella subordinazione. A questo punto diventa fondamentale chiarire l’espressione
“subordinazione”. Molta della discussione dottrinale ha avuto per tema l’approfondimento del
concetto di subordinazione. Si è data tanta importanza all’argomento perché alla
subordinazione si collegano degli effetti: nell’ordinamento lavoristico, all’esistenza della
subordinazione, in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, conseguono effetti

Diritto del lavoro Pagina 8 di 62 a.a. 2005-2006


specifici sul piano della disciplina applicabile. In altri termini, il diritto del lavoro presuppone
per la sua applicazione, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
Per esempio, la legge 604/1966 disciplinante il licenziamento individuale, chiede che l’atto
del datore di lavoro sia giustificato da una motivazione. Ciò trova applicazione nell’ambito di
un rapporto di lavoro subordinato. Un altro esempio, il D.Lgs. 368/2001 (disciplina del
contratto a termine), nell’ambito di applicazione soggettivo della legge, riguarda il lavoro
subordinato. Un ulteriore esempio, in tema di procedure in caso di licenziamento collettivo
(legge 223/1991) si applica in presenza di un atto espulsivo nei confronti di quei lavoratori
che godono della qualifica della subordinazione.
L’oggetto del diritto del lavoro è, quindi, il lavoro subordinato, la cui nozione viene ricavata
per differenza dalla nozione di lavoro autonomo. Le norme che costituiscono il diritto del
lavoro si applicano in via tendenziale ai rapporti che si qualificano nel senso della
subordinazione. Nel diritto del lavoro vige il principio della correlazione tra fattispecie ed
effetti. Poi ci sono delle normative che hanno natura trasversale e quindi si applicano
indifferentemente ai lavoratori autonomi e subordinati.
Caratteristiche che si possono individuare nel lavoro subordinato, senza consultare le norme:
- il lavoro subordinato è quel lavoro che per essere svolto si deve attenere alle disposizioni
impartite da un altro soggetto in posizione gerarchicamente sovra-ordinata al lavoratore
- la predeterminazione dei termini di pagamento della retribuzione
- l’estraneità della proprietà dei mezzi di produzione
- la presenza di un vincolo d’orario e anche del luogo
- in un caso c’è un’obbligazione di risultato (e quindi un rischio), nell’altro c’è un lavoro
personale cioè un’obbligazione di mezzi
Essendoci, inoltre, un contratto tra il datore e il lavoratore, come stabilito dal diritto privato,
esso ha forza di legge e pertanto è necessario tener conto anche della volontà contrattuale.
C’è pertanto una rilevanza della volontà negoziale privata ai fini della qualificazione del
rapporto.
E’ estremamente rilevante chiarire cos’è la subordinazione perché solo così si sa se si
applica o non si applica il diritto del lavoro. Gli studiosi, nel cercare di fornire una risposta, si
sono subito distinti per l’approccio metodologico. Alcuni (prima tesi) hanno ritenuto che la
subordinazione fosse qualche cosa spiegabile in base ai criteri contenuti nell’art. 2094 c.c.,
ossia la fattispecie concreta deve mostrarsi identica alla fattispecie astratta. Ciò presuppone
che si conoscano gli elementi identificativi della norma stessa e, leggendo l’art. 2094 c.c.,
emergono gli elementi di identificazione della fattispecie astratta che sono: la retribuzione, la
collaborazione nell’impresa, la dipendenza o l’eterodirezione (la direzione da parte di
qualcuno che è estraneo alla mia sfera personale). Quindi, per questo filone dottrinale, la
subordinazione attiene agli elementi evincibili dall’art. 2094 c.c.. In altri termini, per questa
dottrina, la subordinazione non è qualcosa che può essere descritta in base ad elementi
exta-legislativi o extra-normativi. Tuttavia, fra questi elementi (contenuti nell’art. 2094 c.c.) tali
studiosi ritengono si debba operare una collocazione ordinata gerarchicamente,
posizionando al primo posto l’elemento dell’eterodirezione. In questo senso si dice che la
subordinazione viene qualificata in base ad un metodo sillogistico o sussuntivo (in quanto c’è
il seguente ragionamento: è lavoratore subordinato quel lavoratore presenti gli elementi di cui
all’art. 2094).
Altri studiosi (seconda tesi) hanno elaborato negli anni ’60 un’altra tesi e che, ancora oggi, ha
una sua attualità e che dice che il lavoratore subordinato non può essere descritto in base
agli elementi di qualificazione evincibili dall’art. 2094, perché il lavoratore subordinato è
anzitutto caratterizzabile a partire da una disparità socio-economica nei confronti del datore
di lavoro. Cioè il 2094 c.c. non consente di visualizzare un dato di realtà caratterizzante la
condizione di un lavoratore subordinato (la sua debolezza socio-economica tale da offrire il
proprio lavoro per predeterminarsi le condizioni della propria sopravvivenza materiale). E’

Diritto del lavoro Pagina 9 di 62 a.a. 2005-2006


quel soggetto in condizioni socio-economiche diseguali rispetto al datore di lavoro, non
menzionate nell’art. 2094 c.c.
Per i sostenitori di questa tesi. L’art. 2094 è povero di elementi di qualificazione e comunque
parziale nel suo tentativo di descrivere qual è la condizione , le caratteristiche del lavoratore
subordinato. Questa è una corrente dottrinale degli anni ’60 che prende il nome di
“socialismo giuridico”, in base alla quale, quindi, per poter qualificare un rapporto di lavoro in
senso subordinato, bisogna rivolgere l’attenzione non solo all’art. 2094 c.c. ma anche ad
elementi extra-testuali, extra-legislativi in grado di rappresentare adeguatamente il profilo di
un lavoratore subordinato.
Che conseguenze abbiamo sul piano della metodologia della qualificazione? Questa tesi non
segue il metodo sillogistico-sussuntivo (perché non basta verificare gli elementi di
qualificazione tratti dall’art. 2094 c.c.), ma apre la via (sostenendo l’insufficienza dell’art. 2094
ai fini della qualificazione) al metodo dell’approssimazione, cd. metodo tipologico (basato su
un giudizio approssimativo). Questo metodo, di volta in volta, verifica la prevalenza dei
requisiti della fattispecie astratta rispetto alla fattispecie concreta; esso addiviene alla
qualificazione di un rapporto non in base ad una perfetta coincidenza tra fattispecie astratta e
fattispecie concreta, ma addiviene alla qualificazione del rapporto in presenza del maggior
numero di indici evincibili dalla norma.
Nei due metodi abbiamo, quindi, in un caso la massima valorizzazione del dato legale,
nell’altro abbiamo una considerazione di un valore solo indicativo o approssimativo degli
elementi legali, al fine della ricostruzione della nozione di subordinazione.

15 Marzo 2006 – prof. Vettor

L’elemento distintivo delle due tipologie tipizzanti il diritto del lavoro è la subordinazione.
L’individuazione della subordinazione è importante perché permette di capire qual è la
disciplina applicabile. L’ordinamento lavoristico si struttura sulla correlazione tra fattispecie
ed effetti. Sono state individuate due teorie, in tema di qualificazione: la prima secondo cui la
nozione di subordinazione deriva esclusivamente dai dati evincibili dall’art. 2094 (metodo di
qualificazione sussuntivo o sillogistico); la seconda per la quale l’art. 2094 visualizza un
lavoratore dipendente senza riuscire a ricomprendere la pluralità in situazioni lavorative,
perché ad esso manca l’elemento della considerazione della disparità socio-economica; è
necessario pertanto considerare anche elementi extra-testuali (metodo tipologico o del
giudizio per approssimazione).

Oggi qual è il metodo della qualificazione? Come si addiviene alla definizione della nozione
di subordinazione? Sotto questo profilo, ancor più della dottrina e degli studi, è necessario
guardare in via prevalente all’attività giurisprudenziale. Un primo rilievo da fare è di natura
metodologica, cioè come procedono i giudici nell’attività di qualificazione? I giudici, sulla
scorta di quelle considerazioni dottrinali volte ad evidenziare l’insufficienza dell’art. 2094 a
descrivere esaustivamente la figura del lavoratore, optano per il metodo tipologico o metodo
dell’approssimazione (adottano la cd. tecnica del fascio di indici). In altri termini, verificano
se, nel caso concreto, sono presenti la maggior parte degli elementi qualificanti la figura
socialmente tipica di lavoratore, sussunta nell’art. 2094 c.c.
I giudici verificano di volta in volta la presenza di quegli elementi caratterizzanti la figura
sociale di lavoratore subordinato, visualizzata nell’art. 2094 c.c. In sostanza, per la
giurisprudenza ogni attività umana, in via di principio, può essere ricondotta o nel lavoro
autonomo o nel lavoro subordinato. Si tratterà tutte le volte di valutare in concreto, in base
alla tecnica del fascio di indici, in base al metodo tipologico o per approssimazione, se quel
caso sia riconducibile all’una o all’altra tipologia contrattuale.

Diritto del lavoro Pagina 10 di 62 a.a. 2005-2006


Quali sono, però, questi indici? Esiste una gerarchia fra questi indici? E’ possibile ordinarli in
relazione alla loro importanza? Il giudice li considera paritariamente una pluralità di
indicatori? La risposta è che esiste una serie di indici collocabili gerarchicamente, cioè ve ne
sono alcuni valutati come più rilevanti rispetto ad altri.
Secondo studi al riguardo, la distinzione tra gli indici di qualificazione parte dalla bipartizione
tra indici essenziali, a loro volta distinguibili in indici essenziali cd. interni ed indici essenziali
cd. esterni, ed indici sussidiari.
Un indice essenziale cd. interno si definisce in base al suo potere dirimente; ha un valore di
qualificazione molto pregnante, particolarmente significativo. Un indice essenziale esterno ha
una funzione ugualmente pregnante ma leggermente attenuata rispetto all’indice essenziale
interno, il che significa, nella maggior parte dei casi, che avrà bisogno di essere supportato
dalla verifica della presenza di altri indici. Gli indici cd. sussidiari sono quegli indici destituiti di
una forza di un valore di qualificazione determinante, ai fini della distinzione tra lavoro
autonomo e lavoro subordinato, ma hanno una funzione di rafforzamento dell’esistenza o
dell’assenza della subordinazione. Sono impiegati in via sussidiaria, in funzione
confermativa, rafforzativa della natura del rapporto.
Indice essenziale interno
L’elemento essenziale interno è rappresentato dalla subordinazione cd. giuridica o personale
e cioè esso è costituito dalla cd. eterodirezione. Cioè dalla sottoposizione al potere direttivo,
organizzativo e disciplinare. Un’analisi della giurisprudenza non consente di stabilire in modo
univoco in che misura debba presentarsi tale potere; in altri termini la giurisprudenza
presenta orientamenti sfumati in ordine all’intensità del potere di direzione: per alcuni giudici
tale potere dovrà esercitarsi in modo specifico, molto dettagliato, pertanto la discrezionalità
del lavoratore sulle modalità di esecuzione della prestazione deve essere estremamente
limitata; per altri giudici, invece, anche per effetto delle trasformazioni che ha subito il lavoro
(passaggio dal fordismo al cd. post-fordismo) il potere direttivo si avrà sia in caso di
dettagliate istruzioni, sia laddove il lavoratore sia soggetto a direttive generali.
Indice essenziale esterno
Se traballasse l’indice della cd. eterodirezione nella duplice forma che essa assume, ecco
che vengono in aiuto gli indici cd. essenziali esterni. Gli indici essenziali esterni hanno un
potere di qualificazione ma più attenuato rispetto a quello interno.
Gli indici essenziali esterni sono: la continuità, dall’inserimento nell’organizzazione
dell’impresa e dalla collaborazione.
-continuità
Si dice che può essere subordinato solo quel lavoratore il quale eroghi continuativamente nel
tempo la propria prestazione di lavoro. La valorizzazione del requisito della continuità origina
dalla bipartizione per cui, in un caso, si realizza un risultato (obbligazione di risultato/opera),
a prescindere dal tempo necessario per la sua esecuzione, nell’altro invece si realizza
l’erogazione della prestazione di lavoro che si rinnova ogni giorno (obbligazione di mezzi). La
giurisprudenza non è unanime nel valutare questo indice come indice essenziale: alcuni lo
screditano fino a ritenerlo un indice sussidiario (perché con la trasformazione del lavoro, il
lavoratore è sempre più legato al risultato e meno alla continuità nel tempo.
- inserimento nell’organizzazione dell’impresa
Questo requisito viene distinto con molta fatica da quello della collaborazione, infatti sono
sostanzialmente analoghi. I giudici tendono a fare questa considerazione: il potere direttivo si
esplica nella misura in cui vi è un inserimento del lavoratore nell’impresa (l’inserimento del
lavoratore nella struttura organizzativa dell’impresa è specchio dell’esercizio del potere
direttivo). Peraltro, vi sono pronunce giurisprudenziali nelle quali questo elemento viene
screditato perché è sempre più rilevante la presenza di figure di lavoratore autonomo (per
esempio i collaboratori coordinati continuativi, oggi lavoratori a progetto) le quali, ancorché
inserite nell’organizzazione dell’imprenditore, non sono soggetti ad un potere di direzione.

Diritto del lavoro Pagina 11 di 62 a.a. 2005-2006


- collaborazione
Alcuni giudici considerano rilevante il dato della collaborazione, menzionato nell’art. 2094
c.c., mentre altri lo screditano perché non lo considerano espressivo del potere direttivo
(come per l’inserimento nell’organizzazione dell’impresa).
Indice sussidiario
L’indice sussidiario, preso singolarmente, è privo di potere di qualificazione, semmai svolge
una funzione rafforzativa in un senso piuttosto che in un altro.
Sono indici sussidiari: l’orario di lavoro, l’oggetto della prestazione, il rischio, le modalità della
retribuzione, la volontà negoziale e il luogo della prestazione.
Si considera il vincolo dell’orario di lavoro espressione del potere direttivo.
Gli elementi dell’oggetto della prestazione ed il rischio sono scarsamente apprezzati perché
sono fenomeni entrambi compresenti sia nel lavoro autonomo che nel lavoro subordinato
(non sono questi gli elementi che possono far dire se c’è lavoro dipendente oppure no).
Premessa: in via generale non esiste un obbligo di forma scritta ab subtantiam in caso di
stipulazione di contratto di lavoro subordinato. In caso di stipulazione di un contratto, in che
misura deve essere valutata la volontà negoziale? La giurisprudenza si è orientata nel
considerare non dirimente questo elemento. Anche la Corte Costituzionale si è occupata di
questa questione e ha detto che, nel rapporto di lavoro, le parti non possono disporre del tipo
contrattuale. Cioè non è possibile alle parti, in caso di controversia, stabilire il tipo di contratto
(la natura del rapporto). E’ il giudice che ha l’ultima parola e stabilisce la natura del rapporto
(di quale contratto si è trattato). Nella nostra vita sociale possiamo stipulare contratti di lavoro
autonomo ma è sempre possibile domandare all’autorità giudiziale di dichiararsi sulla natura
del rapporto, la quale potrà, in ipotesi, sovvertire le dichiarazioni negoziali delle parti. Le parti
possono disporre del tipo contrattuale fintanto che non nasca una domanda all’autorità
giudiziale sulla effettiva natura del rapporto.
Il luogo della prestazione: alcuni giudici non lo considerano rilevante perché ci sono dei
lavori, benché subordinati, che non si svolgono nei locali dell’imprenditore (lavoro a domicilio
che, nella forma moderna, prende il nome di telelavoro). Si vede come, questo elemento,
tempo fa, nelle fabbriche fordiste potesse essere valido ed avesse un senso, mentre lo ha
meno al giorno d’oggi.
Modalità della retribuzione: i giudici non sono fondamentalmente orientati a considerare
subordinato quel lavoratore al quale viene erogato un compenso mensilmente, perché la
retribuzione è una forma che si è andata trasformando nel tempo (vi sono premi, parti di
retribuzioni differite, diversamente concordate). Per cui anche la retribuzione non è
considerato un elemento dirimente.

La subordinazione è qualche cosa che si qualifica nel contenzioso, è una questione di rilievo
pratico essenziale perché ad essa si connette una disciplina protettiva (ad esempio, in caso
di infortunio, come lavoratori autonomi non si avrebbe diritto ad una tutela indennitario e ad
eventuali risarcimenti del danno in base alla responsabilità contrattuale, se si è dipendenti sì
invece). L’altro rilievo di grande significato è l’estrema incertezza derivante dal metodo
tipologico, nel senso che l’uso della tecnica del metodo dell’approssimazione genera
incertezza, in quanto possiamo scarsamente prevedere quali potranno essere le conclusioni
di un giudice. La tecnica del fascio d’indici non consente di valutare preventivamente quello
che potrà essere l’orientamento del giudice perché potremmo essere di fronte ad un giudice
che dà un’interpretazione molto elastica oppure restrittiva dell’eterodirezione. Questa è una
considerazione della quale la legge Biagi ha voluto occuparsi, essa ha voluto risolvere uno
dei problemi, a detta del libro bianco, più rilevanti e cioè il problema dei collaboratori
coordinati continuativi. Il libro bianco (documento programmatico) ha considerato i co.co.co.
dei lavoratori autonomi (lavoratori autonomi celati) perché le imprese con quella forma
contrattuale riescono ad evadere la disciplina del diritto del lavoro. L’obiettivo del libro bianco
era quello di sciogliere questi lavoratori dalla forma co.co.co. Pertanto il libro bianco, poi la

Diritto del lavoro Pagina 12 di 62 a.a. 2005-2006


legge di delega 30 e successivamente il 276 attuativo della legge di delega, stabilisce un
termine oltre il quale non è più possibile rinnovare quella forma contrattuale (ex art. 409
c.p.c.). Qual è, per il libro bianco, quel lavoratore autonomo che genuinamente possiamo
definire autonomo, cioè non espressivo di una evasione dalle norme del diritto del lavoro?
Qual è la forma contrattuale che il libro bianco immagina per far transitare le vecchie
collaborazioni coordinate continuative nell’area della genuina autonomia? Il lavoro a progetto.
Quindi, l’operazione del libro bianco è, per un verso, “non permetto che si stipulino altri
contratti di co.co.co.” ex art. 409 c.c. privi di un progetto, programma o fasi di esso. E’ invece
possibile stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa a progetto, perché il
lavoro a progetto nel D.Lgs. 276 è la somma di due elementi: l’art. 409 c.p.c. e i suoi elementi
definitori più un progetto, un programma o una fase di esso.
Per il libro bianco, solo coloro i quali svolgono lavoro coordinato, continuativo a progetto
possono considerarsi lavoratori autonomi genuini.

16 Marzo 2006 – avv. Bianchi

Il lavoro a progetto così come le collaborazioni coordinate continuative sono fattispecie di


lavoro autonomo. Vengono definiti parasubordinati perché hanno delle caratteristiche del
lavoro subordinato ma non ne condividono la disciplina. Con il D.Lgs. 276/2003 il legislatore
ha deciso di dare una disciplina al contratto di collaborazione coordinata continuativa,
inquadrando alcune fattispecie all’interno di quello che è definito lavoro a progetto. Ha creato
una disciplina specifica per il lavoro a progetto aggiungendo alcune tutele. Il D.Lgs. 276/2003
parla del lavoro a progetto all’art. 61 e definisce il lavoro a progetto dicendo che “i rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di
subordinazione, di cui all’art. 409 c.p.c., devono essere riconducibili a uno o più progetti
specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti
autonomamente da collaboratore in funzione del risultato”.
Il collaboratore, quindi, ha autonomia nella gestione, l’importante è il risultato (non deve
rendere conto dei suoi tempi di lavoro al committente, l’importante è che il progetto sia pronto
al termine del contratto). Il lavoratore a progetto può lavorare anche all’interno dell’azienda
(ma indipendente dagli altri), tuttavia non deve rendere contro dell’orario di lavoro che svolge,
non deve rendere conto delle assenze, non ha ferie (non dovendo avere una presenza in
servizio può prendersi le ferie quando vuole).
L’art. 62 prevede la stipulazione in forma scritta del contratto di lavoro a progetto e deve
contenere, ai fini della prova, questi elementi: definizione della durata determinata o
determinabile; la descrizione del progetto; il corrispettivo e i criteri per la sua determinazione;
più altri elementi. Cosa succede nei casi in cui questi elementi non vengano rispettati? Lo
dice l’art. 69.1: “I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza
l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’art.
61 comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla
data di costituzione del rapporto”. Quindi, nel caso in cui il progetto non sia individuato o
comunque non sia uno specifico progetto, il rapporto viene convertito da lavoro autonomo a
lavoro subordinato e inoltre viene modifica la durata del contratto, trasformandolo in contratto
a tempo indeterminato ab origine.
Art. 69.2: “Qualora venga accertato dal giudice che il rapporto di lavoro instaurato ai sensi
dell’art. 61 sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso si trasforma in un
rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra
le parti”.
La differenza tra il comma uno e il due è: nel primo si ha la mancanza di un requisito
costitutivo della fattispecie, nel secondo si ha, anche in presenza del progetto, una modalità
di lavoro che non corrisponde a quella del lavoro autonomo.

Diritto del lavoro Pagina 13 di 62 a.a. 2005-2006


Sul lavoro a progetto, dalla sua entrata in vigore (ottobre 2003) ad oggi, ci sono pochissime
pronunce giurisprudenziali e sono tutte pronunce di primo grado.
Sentenza 05 Aprile 2005, tribunale di Torino (riconoscimento della subordinazione)
La causa riguarda dei promoter di un supermercato. Erano circa 80 promoter, di cui alcuni
avevano una qualifica superiore (erano coordinatori dello stand) ed altri una qualifica ancora
superiore (coordinatori dell’agenzia). La loro attività consisteva di promuovere, nello stand
all’interno del centro commerciale, un prodotto multimediale. Avevano un lavoro su turni ed
erano coordinati direttamente dal coordinatore di stand. I contratti partivano da contratti di
collaborazione occasionale poi si trasformavano magari in contratti a progetto, oppure non
c’era nessun contratto. Il progetto era finalizzato alla promozione e distribuzione dei servizi di
telecomunicazione ed internet individuati dai clienti della società committente. Al
collaboratore era richiesto di presentare i prodotti e i suoi servizi ai soggetti interessati.
Quindi l’obiettivo del progetto sarebbe quello del miglioramento e della diffusione dei servizi
della società committente.
E’ necessario, volta per volta, analizzare se ci sono gli indici della subordinazione o
dell’autonomia.
Il giudice incaricato di questa causa analizza il progetto, verificando ciò che dice l’art. 61, e il
primo indice negativo che trova è la corrispondenza tra l’attività dell’azienda (che non aveva
lavoratori subordinati) e l’attività svolta dagli 80 collaboratori. In secondo luogo, il giudice
analizza il tempo di esecuzione: i collaboratori lavoravano su turni; addirittura c’è un planning
settimanale (ciò contrasta con l’autonomia del collaboratore a progetto). Il terzo indice
individuato dal giudice sta nel fatto che i collaboratori erano obbligati ad avvisare
preventivamente, in caso di assenza (contrasto con quanto previsto dalla norma). Il quarto
indice è il monitoraggio dell’attività: tre/quattro volte al giorno i promoter dovevano
comunicare alla società i dati riguardanti l’attività svolta (contrasto con l’autonomia del
collaboratore a progetto, al contrario rientra nell’eterodirezione).
Il giudice trae e seguenti conclusioni: poiché l’organizzazione di un lavoro a turni appare
incompatibile con il concetto di autonomia della prestazione e poiché il tempo impiegato
quotidianamente per svolgere il lavoro non deve avere alcun rilievo perché ciò che conta è il
risultato finale, manca uno specifico progetto e si ricollega all’art. 69 comma 1 del D.Lgs.
276/2003. Il giudice ne fa, quindi, discendere la costituzione di un rapporto subordinato a
tempo indeterminato. Peraltro il giudice, prima di arrivare a questa conclusione, si domanda
se il fatto che manca uno specifico progetto deve essere considerato importante ai fini della
subordinazione oppure, nonostante la mancanza del progetto, noi possiamo comunque
rilevare un rapporto autonomo. Il giudice dice, per la prima volta, chiarendo una parte della
norma, che si tratta di una presunzione relativa, quindi, anche in mancanza del progetto, si è
comunque tenuti a verificare che effettivamente le modalità di prestazione della
collaborazione siano di tipo subordinato e non autonomo, prima di convertire il contratto a
rapporto di lavoro subordinato. Questo perché il tipo del contratto di lavoro è indisponibile,
cioè sarebbe contrario a Costituzione costringere quello che è un vero rapporto di lavoro
autonomo a diventare subordinato per la mancanza di requisiti formali. Ciò che deve
mancare sono i requisiti sostanziali.
Il giudice, nel caso in questione, verifica anche la presenza di un potere gerarchico e
disciplinare (infatti il datore di lavoro mandava dei richiami scritti ai propri collaboratori).
Inoltre, c’erano delle direttive scritte sullo svolgimento dell’attività. C’era anche il rapporto
gerarchico (alcuni promoter avevano poteri di coordinamento di stand e altri di agenzia,
rispetto ai promoter).
Per questi motivi, il giudice ha riqualificato il rapporto di lavoro come subordinato a tempo
indeterminato. Con quali conseguenze? Questi rapporti di lavoro non erano più in essere,
erano già stati risolti per la scadenza del contratto di lavoro a progetto. Con la conversione a
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come stabilito dalla legge, il giudice ha considerato

Diritto del lavoro Pagina 14 di 62 a.a. 2005-2006


che il recesso da questi contratti fosse illegittimo in quanto recesso ad nutum, con
l’applicazione della tutela reale e l’applicazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori.
La conseguenza è molto grave per il datore di lavoro: ai lavoratori spettava la reintegrazione
nella loro posizione lavorativa con la corresponsione di tutte le retribuzioni dal giorno del
licenziamento illegittimo, sino alla reintegrazione con un minimo di 5 mensilità (con la
possibilità, nel caso in cui non voglia rientrare in azienda, di optare per 15 mensilità).
Considerando che un giudizio dura almeno un paio d’anni, le mensilità da retribuire sono
molte.
Sentenza 24 Novembre 2005, tribunale di Ravenna (conferma del contratto a progetto)
Il caso riguarda una collaboratrice che si rivolge al giudice del lavoro sostenendo di essere
stata adibita ad un’attività di tipo subordinato, con mansioni di addetta all’ufficio commerciale.
Dice di non aver alcun progetto specifico anche se esiste un contratto a progetto, di aver
svolto mansioni di centralinista inizialmente e di addetta alla fatturazione in seguito. La
ricorrente sostiene di aver lavorato sempre presso la sede dell’azienda e con i mezzi
dell’azienda, di essere stata inserita nella gerarchia aziendale (un responsabile le impartiva
direttive), inoltre sostiene di aver osservato un orario di lavoro ben definito.
La causa è stata generata dal fatto che la società ha risolto il contratto di lavoro.
Il giudice individua la mancanza del progetto ben definito ma questa è una presunzione che
può essere superata con la verifica degli indici. Il giudice dice che seppure i fatti addotti dalla
concorrente sembrerebbero far apparire l’esistenza di un lavoro subordinato, in realtà, le
prove raccolte durante il processo dimostrano il contrario. La società datrice di lavoro è
riuscita a dimostrare che il progetto (obiettivo) esisteva e consisteva nella realizzazione di un
ufficio commerciale operativo pienamente efficiente (dopodiché, una volta diventato operativo
l’ufficio commerciale, a seguito dell’addestramento dei dipendenti da parte della
collaboratrice, la presenza di quest’ultima sarebbe stata superflua). La società sostiene che
era vero che rispondeva gerarchicamente alla responsabile dell’azienda ma, con ella, si
coordinava al fine di strutturare l’ufficio commerciale; inoltre sostiene che la collaboratrice
non aveva un orario di lavoro e non aveva un badge. Manca la prova che la collaboratrice
fosse assoggettata al potere direzionale. Il fatto che si fosse occupata del centralino, di
inserimento dati, della fatturazione dipendeva dal fatto che ciò era indispensabile per capire
le procedure e creare, quindi, l’ufficio commerciale.
Sentenza, tribunale di Milano (conferma del contratto a progetto)
Riguarda una persona che ha svolto attività di informatore medico-scientifico (presentava ai
medici i prodotti della società). Non è stata fatta nemmeno l’istruttoria in quanto la ricorrente
ha dedotto le circostanze sbagliate secondo il giudice, ovvero ha cercato di far riconoscere la
subordinazione semplicemente sostenendo l’attività che aveva svolto (dicendo che era
un’attività di tipo subordinato) ma senza dedurre quali erano le modalità con cui l’aveva
svolta.
Questo fa capire la differenza: secondo la Cassazione le attività possono essere tutte svolte
sia in modo autonomo sia in modo subordinato. E’ quindi fondamentale, ai fini della prova e
quindi del riconoscimento della subordinazione, che il lavoratore dimostri le modalità con cui
il lavoro si è svolto.
Per cui non è sufficiente che manchi il progetto ma è anche necessario che il lavoratore
dimostri che le modalità di svolgimento del rapporto sono state quelle del lavoro subordinato.

21 Marzo 2006 – prof. Vettor

Il problema della qualificazione del rapporto è importante perché la subordinazione è il


passaggio obbligato per l’applicazione della disciplina lavoristica. Quale è il criterio principale
per stabilire la natura subordinata di un rapporto? L’eterodirezione. Come operano i giudici
nel processo di qualificazione del rapporto? La metodologia che si è imposta è quella del

Diritto del lavoro Pagina 15 di 62 a.a. 2005-2006


fascio d’indici o metodo tipologico. L’eterodirezione è la sottoposizione ai poteri direttivi,
organizzativi e disciplinari del datore di lavoro. Per alcuni giudici l’eterodirezione va valutata
in senso molto restrittivo/vincolante (puntigliose indicazioni su cosa fare, lasciando poco
margine di autonomia al lavoratore), per altri in senso meno vincolante. Il criterio
dell’eterodirezione è fondamentale ai fini della qualificazione, anche se diversamente intesa
(in forma più o meno ampia).
Quindi si ha: presenza eterodirezione = subordinazione
assenza eterodirezione = autonomia

Con le trasformazioni della produzione, con il passaggio dal fordismo al post-fordismo sono
aumentate le figure autonome per un verso (nell’esercizio della prestazione), ma dipendenti
sotto altro aspetto (economico-sociale). Questo fenomeno di crisi dell’eterodirezione è
iniziato negli anni ’80 e sta caratterizzando non solo l’ordinamento lavoristico italiano. In
questi vent’anni si è cercato di risolvere questa problematica attraverso varie proposte, per
arginare il fenomeno della restrizione dell’ambito di applicazione del diritto del lavoro (se
decresce il numero di lavoratori subordinati, decresce anche il numero a cui applicare la
normativa di tutela).
Tra le proposte, il sindacato ha detto di ampliare l’area dei significati possibili attribuibili
all’art. 2094 (cioè di concepire una fattispecie di lavoro subordinato tale da ricomprendere
non solo il lavoro cd. eterodiretto, ma anche il lavoro dipendente economicamente). Quindi il
sindacato ha ritenuto necessario modificare la fattispecie di lavoro subordinato tale da
consentire la riconduzione ad essa di ipotesi di lavoro non solo eterodirette ma anche
subordinate sotto il profilo economico-sociale.
Altri hanno sostenuto che il problema non si pone a livello della fattispecie (art. 2094) ma
semmai può essere risolto attraverso un superamento della dicotomia tipizzante. Cioè è
necessario immaginare una figura di lavoro costituente un terzum genus, una figura che si
collochi a metà strada tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato. Quale disciplina si
applica ad una figura di mezzo? Parte della disciplina preventiva del diritto del lavoro.
La terza proposta è quella che ritiene necessario scindere la nozione della correlazione tra
fattispecie ed effetti. Cioè azzerare la regola della inscindibile correlazione tra fattispecie ed
effetti. Questa tesi propone, quindi, l’applicazione del diritto del lavoro anche al di là del
lavoro subordinato. Secondo questi studiosi è prioritario, in questo momento storico, tutelare i
lavoratori indipendentemente dal tipo di lavoro.
Le prime due posizioni dottrinali operano sul fronte della fattispecie, mentre la terza tralascia
il problema delle nozioni per affrontare il problema della disciplina applicabile.
In questo complicato scenario che vede la trasformazione del lavoro e il dibattito
dottrinale/legislativo sulla fattispecie e sulla disciplina applicabile, si è collocato il D.Lgs.
276/2003 con la disciplina del lavoro a progetto. In altri termini, il lavoro a progetto da una
risposta a queste problematiche. A due anni dall’attuazione del decreto, soltanto ora si ha il
formarsi dei precedenti giurisprudenziali (le tre sentenze trattate con l’avv. Bianchi).
Le pronunce giurisprudenziali aiutano a capire quale posizione abbia assunto il legislatore, in
ultima analisi, rispetto alle tre posizioni sopra descritte (modifica della fattispecie o
superamento della fattispecie o intervento sul fronte della disciplina applicabile).
I lavoratori, nelle tre sentenze trattate, si sono rivolti all’autorità giudiziaria perché venisse
riconosciuta l’esistenza del lavoro subordinato. Al contrario, il lavoro a progetto è una
fattispecie di lavoro autonomo. Il D.Lgs. 276/2003 è l’epilogo normativo di un dibattito
ventennale. Aumentano le figure di lavoratori autonomi ma che, tuttavia, si percepiscono
dipendenti, cioè aumentano i co.co.co. (sono autonomi eppure coordinati e continuativi).
Il legislatore del D.Lgs. 276/2003 ha preso una posizione rispetto al tema della fattispecie e
delle tipologie tipizzanti, identificando il lavoro a progetto come lavoro autonomo. Quindi il
legislatore ha confermato le due fattispecie già esistenti (non ha creato un terzum genus). Il
lavoro a progetto ha sostituito le collaborazioni coordinate continuative, salvo alcuni casi

Diritto del lavoro Pagina 16 di 62 a.a. 2005-2006


espressamente previsti dall’art. 61. La fattispecie del lavoro a progetto è caratterizzata dal
progetto o fase di esso il quale, in base alle pronunce giurisprudenziali, non è in grado di
sostituirsi al criterio della eterodirezione. Infatti i giudici nel momento in cui applicano il
regime sanzionatorio, non possono prescindere, nell’analisi dei casi, dal verificare anche
l’assenza dell’eterodirezione. Ciò significa che il progetto non è atto di per sé a distinguere
lavoro autonomo da lavoro subordinato (non ha un potere di qualificazione dirimente), esso
infatti è da intendersi solo come una presunzione relativa.
Nella prima sentenza analizzata, i lavoratori hanno dedotto l’assenza di un progetto e in forza
dell’art. 69.1 hanno preteso la conversione del rapporto in rapporto di natura subordinata. A
quel punto il giudice ha dovuto operare nel senso della conversione. Alla luce dell’art. 69.1 si
poteva ipotizzare che la mera assenza di progetto fosse sufficiente per operare la
conversione ma il giudice dice che non può convertire il rapporto di lavoro solo in base
all’assenza del progetto, pertanto ha dovuto valutare anche e soprattutto la presenza
dell’eterodirezione. Il giudice considera l’assenza del progetto una presunzione di
subordinazione; la controparte deve sovvertire la presunzione relativa (sottoponendo altri
indici come l’orario di lavoro, la presenza dell’eterodirezione, etc.). Il giudice interpreta in
questo modo perché qualunque lavoro è associabile al raggiungimento di un progetto, di un
risultato, sia esso autonomo o dipendente.
I casi in cui non c’è stata la conversione sono quei casi in cui non è stata superata la
presunzione.
Il D.Lgs. 276/2003 azzera tutte quelle prospettive emerse dal dibattito e riassorbe le co.co.co.
nella figura del lavoro a progetto alle quali aggiunge un ulteriore elemento definitorio: il
progetto, programma o fase di esso; poi inserisce una norma sanzionatoria collegata
all’assenza del progetto. Questa norma (art. 69.1) aveva fatto pensare a molti interpreti che
in tale modo si fosse ritenuto che il progetto sostituisse la verifica dell’eterodirezione, ma
dalle analisi giurisprudenziali invece traiamo che il progetto è solo un indice presuntivo della
natura subordinata del rapporto. Ciò che dirime in modo definitivo se, nel caso del lavoro a
progetto, si è dinanzi ad un vero lavoro autonomo, è l’assenza di eterodirezione (la cui prova
grava sul convenuto, mentre la prova dell’eterodirezione grava sul lavoratore).
In conclusione la legge Biagi ha confermato la dicotomia delle fattispecie e ha confermato gli
indici della qualificazione, a partire dall’indice essenziale interno (la cd. eterodirezione).

28 Marzo 2006 – prof. Vettor

Rapporti di lavoro atipici. Tipologie contrattuali atipiche.


La legge Biagi D.Lgs. 276/2003 si è occupata anche del problema delle cd. tipologie
flessibili (o atipiche) di lavoro. In che modo la legge Biagi ha affrontato questo
problema? Attraverso una riarticolazione: modificando, da un lato, le tipologie di lavoro
atipiche già esistenti e incrementando, dall’altro, il numero di fattispecie atipiche.
Cosa s’intende per “lavoro atipico”? Perché il legislatore del 2003 è stato così attento al
tema del lavoro atipico? Il lavoro atipico può essere espresso in due significati: il primo
di tipo sociologico (si ha una frammentazione del lavoro standard/tipico) – è
un’espressione ampia che segna il venir meno di figure standard; il secondo di tipo
giuridico (figure di lavoro che godono di una loro specifica disciplina e che rientrano nel
lavoro subordinato, tuttavia, però, diverse dal lavoro subordinato tipico).
Di seguito si fa riferimento al lavoro atipico rientrante nell’alveo del lavoro subordinato
ma che da esso differisce sotto alcuni specifici aspetti.

Diritto del lavoro Pagina 17 di 62 a.a. 2005-2006


Il legislatore si è dedicato a tale argomento sulla base di una considerazione contenuta
nel libro bianco (principale documento programmatico della legge Biagi). Tale
considerazione vede un rapporto tra lavoro atipico e diminuzione del tasso di
disoccupazione. Secondo il libro bianco, l’incremento dell’occupazione sarebbe realizzato
attraverso l’agevolazione del lavoro atipico.
Il lavoro atipico è disciplinato in norme meno garantiste, proprio a fronte delle sue
peculiarità. Questo legame tra occupazione e lavoro atipico, indicato sul libro bianco, è
stato oggetto di dibattito infatti, per molti economisti, questa relazione è
indimostrabile. Secondo questi studiosi, l’incremento dell’occupazione può realizzarsi
attraverso politiche economiche idonee.
Dopo la legge Biagi, le tipologie di lavoro atipico sono numerosissime, addirittura il
maggior numero in Europa.
Le principali sono:
- contratto di lavoro a tempo determinato
- lavoro somministrato
Il lavoro a termine sembra essere, ad oggi, molto utilizzato dalle imprese (1 accesso su 2
all’impiego).
Il lavoro somministrato rappresenta oggi la forma più diffusa per procurare lavoro (le
agenzie mediano tra la domanda e l’offerta di lavoro).
Con il D.Lgs. 368/2001 si era già regolato il lavoro a tempo determinato. Il lavoro
somministrato, invece, vede una buona parte di disciplina nella legge Biagi; questa figura
si è sostituita al lavoro interinale che era stato trattato dalla legge 197/1996
(pacchetto Treu). Il lavoro somministrato abroga il lavoro interinale e stravolge il divieto
di commercio del lavoro (non è più illegale).
Il contratto di lavoro a tempo determinato.
Dopo la legge 230/1962 viene consolidato il principio della indeterminatezza del vincolo
contrattuale di lavoro. Se si valuta l’aspetto del tempo/durata, la prima figura atipica è il
contratto a termine). Se si valuta l’aspetto dell’orario si ha come prima figura atipica il
contratto a tempo parziale (part-time), disciplinato con la legge 863/1984.
Successivamente è stata abrogata dal D.Lgs. 61/2000 che fu un decreto attuativo di una
direttiva comunitaria. Successivamente ancora c’è stato il decreto 100/2001. Nel testo
della legge Biagi, l’art. 46 è correttivo dei due decreti precedenti.
La legge Biagi ha introdotto due figure nuove: il lavoro ripartito (job sharing o lavoro a
coppia) e il lavoro intermittente (job on call o zero hours job). Il lavoro ripartito, nato
dall’esperienza dell’azienda McDonald’s, consiste nello svolgimento del lavoro sdoppiato
tra due soggetti. Tra i due si instaura un’obbligazione solidale (i due soggetti sono
solidalmente obbligati e svolgono una prestazione unitaria). Nel lavoro intermittente il
soggetto lavora quando l’impresa ne ha bisogno; esso può prevedere un’indennità di
disponibilità ma, in realtà, può anche non esserci. Il legislatore del 2003 ha riconosciuto
al lavoro ripartito gli artt. da 41 a 45 e al lavoro intermittente gli artt. da 33 a 40.
Un altro insieme di tipologie di lavoro atipico è quello che riguarda la causa (sono aipici in
quanto presentano una causa mista): la prestazione di lavoro è retribuita da un lato
economicamente e dall’altro con la formazione. In passato questi contratti a causa mista

Diritto del lavoro Pagina 18 di 62 a.a. 2005-2006


erano due: l’apprendistato e il contratto di formazione e lavoro (cfl). Su queste figure il
legislatore del 2003 ha agito, riformulando l’apprendistato (ha previsto diverse ipotesi
dello stesso contratto in ragione dell’età del lavoratore), disciplinato negli artt. 47 e
seguenti; inoltre ha introdotto il contratto di inserimento (disciplinato artt. da 54 a 59)
sostituendolo al contratto di formazione lavoro.
Ci sono poi altre figure giuridiche (tirocini formativi, stages, borse lavoro, etc.) atipiche
dal punto di vista sociologico, in quanto non rappresentano tipi di contratti di lavoro,
infatti non hanno retribuzione.
La legge Biagi si è occupata anche del lavoro occasionale accessorio, negli artt. 70 e
seguenti, il quale ha la caratteristica di rivolgersi ai giovani e ad altre figure cd.
svantaggiate (non può superare le 30 giornate lavorative annue e 5.000 Euro retribuiti
all’anno). Le prestazioni occasionali accessorie ricoprono lavori come ripetizioni, baby
sittering, etc. Le modalità di pagamento sono peculiari: la lavoratrice viene compensata
con dei buoni (in origine un buono valeva 7,5 €). Non c’è stata un’ampia diffusione di
questo tipo di lavoro, che deriva da un’esperienza belga.

29 Marzo 2006 – prof. Vettor

Il D.Lgs. 368/2001, non diversamente dal D.Lgs. 61/2000, costituisce attuazione di una
direttiva comunitaria, la nr. 70 del 1999. Il D.Lgs. 368/2001, oltre ad aver attuato la
direttiva, ha anche ridisegnato la disciplina del contratto a termine, abrogando, quindi, la
legge 230/1962.
Quando è possibile apporre legittimamente un termine ad un contratto di lavoro? Il
D.Lgs. 368/2001 si regge su questa struttura:
1) la norma art. 1 comma 1, il quale definisce le condizioni generali per la legittima
apposizione di un termine: “E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del
contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo”;
2) tre articoli che, in vario modo, derogano a questa norma centrale:
a) art. 3 “Divieti” il quale esplicita i casi che contengono un elenco tassativo di ipotesi
alle quali non si applica l’art. 1.1, e sono:
- per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero (perché si
saboterebbe l’autotutela)
- ove nei precedenti 6 mesi siano stati effettuati licenziamenti collettivi (l’impresa
non può assumere nuovo personale a tempo determinato per svolgere le stesse
mansioni di quello precedentemente licenziato)
- nei casi in cui vi siano riduzione d’orario (per periodi di crisi dell’impresa), ad
esempio la cassa integrazione
- nelle aziende che non hanno redatto la valutazione dei rischi secondo il D.Lgs.
626/1994. Questa è una norma promozionale per l’applicazione della 626/1994 e
punitiva per chi non l’ha attuata (che quindi non ha la possibilità di servirsi del
contratto a termine).

Diritto del lavoro Pagina 19 di 62 a.a. 2005-2006


Le altre due norme (artt. 2 e 10) ci dicono che è prevista in ogni caso l’apposizione del
termine, anche in assenza di quanto indicato all’art. 1.
Casi in cui è sempre possibile apporre un termine:
b) art. 2 “Disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali”. Questo
articolo era già previsto nella legge 230/1962, ma la legge finanziaria ha introdotto un
nuovo comma all’art. 2 (comma 1bis) che dice: “Le disposizioni di cui al comma 1 si
applicano anche quando l’assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi
nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di 6 mesi, compresi tra aprile
ed ottobre di ogni anno, e di 4 mesi per periodi diversamente distribuiti e nella
percentuale non superiore al 15% dell’organico aziendale, riferito al primo gennaio
dell’anno cui le assunzioni si riferiscono. ……”
c) art. 10 “Esclusioni e discipline specifiche”, sono esclusi dall’applicazione del D.Lgs.
368/2001 alcuni settori in quanto già disciplinati da specifiche normative (contratti di
formazione e lavoro, apprendistato, etc.).
A fronte di ciò, quindi, quando si può apporre un termine ad un contratto? Art. 1: ove
sussista una ragione di natura tecnica, produttiva, organizzativa, sostitutiva. La legge
230/1962 diceva in quali specifiche ipotesi si potesse applicare il termine, oggi invece
nel D.Lgs. 368/2001 non c’è più un elenco di ipotesi espressamente enunciate ma un
quadro generale con poi divieti ed esclusioni.
Si è aperto un dibattito: c’è chi sostiene che, quindi, per ragioni (generiche) oggettive
(esclusi i casi particolari di divieto) si possa assumere indifferentemente o a tempo
determinato o indeterminato. C’è chi, invece, sostiene che si possa assumere a tempo
determinato soltanto nei casi in cui le ragioni oggettive siano temporanee. La norma
richiede che tali ragioni vengano indicate “ab substantiam”. Questi ultimi (che ritengono
necessaria la temporaneità della ragione oggettiva) sostengono che nel preambolo della
direttiva comunitaria è indicato il carattere particolare del contratto a tempo
determinato. Mentre i primi dicono che il preambolo non ha valore giuridico. I fautori
della temporaneità sostengono che, in base al D.Lgs. 368/2001, è necessario indicare i
motivi specifici.
Questo dibattito dottrinale si è riflesso sui casi giurisprudenziali. La Cassazione (giudice
di legittimità) dice che il D.Lgs. 368/2001 non ha alterato la regola della natura
eccezionale del contratto a termine. La giurisprudenza di merito ha poi optato per il
requisito, in aggiunta a quello dell’oggettività, della temporaneità, valorizzando i requisiti
di forma. In altri termini, è necessario che le motivazioni dell’apposizione del termine
siano specificamente indicate (non devono richiamare solo genericamente la legge).
Quindi il D.Lgs. 368/2001, grazie all’interpretazione giurisprudenziale (senza di essa
poteva sembrare il contrario), ha assunto l’impostazione della 230/1962 secondo cui il
termine fa eccezione.
Il D.Lgs. 368/2001 disciplina:
- regime della proroga (come e quando prorogare il contratto a termine). Non può
superare i tre anni totali;
- successione dei contratti a termine (sanzioni pecuniarie previste);
- oneri probatori (chi ha l’onere di provare le ragioni per cui il termine è stato apposto)

Diritto del lavoro Pagina 20 di 62 a.a. 2005-2006


- regime sanzionatorio. Al contratto a cui sia stato illegittimamente apposto un termine
si applica il regime della nullità parziale (la sanzione aggredisce la parte affetta da
invalidità) il contratto diventa a tempo indeterminato.
Il ruolo della contrattazione collettiva relativa la contratto a termine. In passato i
contratti collettivi avevano il ruolo (legge del 1987) di introdurre ulteriori ipotesi,
rispetto a quelle elencate nella 230/1962, purché fossero previste entro specifici limiti
percentuali. Oggi qual è il ruolo del sindacato nella disciplina del contratto a termine? La
situazione si è invertita perché la previsione è generale, quindi il sindacato ha il ruolo di
limitare, di apporre dei limiti. Ma la limitazione, secondo il D.Lgs. 368/2001, è applicabile
solo ad alcuni casi, secondo l’art. 10 comma 7 (che prevede delle ipotesi ove non è
possibile apporre limiti).

30 Marzo 2006 – avv, Capurro

Modello datore di lavoro/lavoratore è tipico fordista.


Decentramento produttivo
• il datore di lavoro si avvale di forza lavoro “esterna” alla propria impresa
1) in che forme si realizza il decentramento produttivo?
2) come si pone l’ordinamento giuridico nei confronti del decentramento?
3) .
Forme di decentramento produttivo
• somministrazione
• appalto
• trasferimento di ramo d’azienda (in genere combinata con un appalto)
La somministrazione
1) staff leasing, forma prevista da leggi e contratti collettivi
tipi di somministrazione: 2) contratto di somministrazione a tempo determinato

contratto di
somministrazione
(forma scritta)

Imprenditore A (somministratore) Imprenditore B (utilizzatore)

pagamento prezzo

contratto
A contratto di lavoro a tempo indeterminato
B contratto di lavoro a tempo determinato
di lavoro

viene inviato all’utilizzatore per


Lavoratore lavorare sotto la sua direzione

Diritto del lavoro Pagina 21 di 62 a.a. 2005-2006


La prima normativa veramente importante che ha interessato la materia è la nr.
1369/1960 che vietava al datore di lavoro di richiedere ad un altro soggetto la mera
fornitura di manodopera (il lavoro non era una merce). Questa legge è stata il cardine
per 35 anni. La violazione di questo divieto era la costituzione, in capo al datore di
lavoro, del rapporto di lavoro utilizzato. La disciplina lavoristica impone al datore di
lavoro una serie di responsabilità e di garanzie nei confronti del lavoratore. Negli anni
’90 è iniziato un dibattito relativo al lavoro cd. interinale: se e come introdurre
nell’ordinamento italiano la possibilità per i datori di lavoro di ottenere la fornitura di
lavoro da altri soggetti. E’ nata le legge 196/1997 (pacchetto Treu) introdotta da un
parlamento di centro-sinistra. Sia la 1369/1960, sia la 196/1997 sono abrogate. Il
pacchetto Treu diceva che era ammessa la possibilità di ricorrere al lavoro fornito da
terzi, con determinate condizioni: il fornitore di lavoro doveva essere stato autorizzato
e doveva fornire delle garanzie, vi dovevano essere specifiche causali (tutte con la
caratteristiche della temporaneità).
Nel 2003 nasce la cd. legge Biagi (D.Lgs. 276/2003) che è una specie di “contenitore”
che contiene norme su molti istituti del contratto di lavoro. In realtà ha creato una
grossa flessibilità su istituti che non sono tipici. La legge Biagi ha affrontato anche la
questione della fornitura di lavoro, liberalizzandola. Oggi, in un’impresa, l’utilizzo della
fornitura di lavoro può diventare, da eccezione, la regola.
Tipi di somministrazione:
• a tempo determinato (ex lavoro interinale)
la fornitura di lavoro è concordata per un periodo di tempo circoscritto, per
“ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo”. Tra
lavoratore e somministratore viene concluso un contratto di lavoro a tempo
determinato (disciplinato da D.Lgs. 368/2001), salvo che per quanto attiene a 1)
assunzioni successive e 2) proroga.
• Staff leasing
la fornitura di lavoro è concordata per un periodo di tempo indefinito
- causali previste dalla legge
- causali previste da contratti collettivi
Tra lavoratore e somministratore viene concluso un contratto a tempo
indeterminato (disciplinato dalla normativa vigente cioè norme applicabili per il
lavoro a tempo indeterminato quali codice civile, statuto dei lavoratori, leggi
speciali) salvo che per quanto attiene a 1) indennità di mobilità e 2) recesso
Esempi: call center e servizi di pulizia. Paradossalmente si potrebbero avere delle
imprese senza dipendenti. Probabilmente si è consentito all’imprenditore di non
“appesantirsi” ulteriormente per servizi che non sono quelli principali, come invece lo è la
produzione del suo prodotto/servizio.
L’agenzia di lavoro cd. interinale guadagnerà qualcosa sul costo orario del lavoratore
somministrato.
Distribuzione di poteri/obblighi del datore di lavoro
• Utilizzatore
- potere direttivo

Diritto del lavoro Pagina 22 di 62 a.a. 2005-2006


- potere di controllo
• Somministratore
- potere disciplinare
- obbligo retributivo
- obblighi di informazione (salute e sicurezza) salvo accordo contrario tra le parti,
risultante anche nel contratto di lavoro.
Responsabilità dell’utilizzatore
• Responsabilità solidale tra utilizzatore e somministratore per i trattamenti
retributivi e i contributi previdenziali afferenti ai lavoratori somministrati (art.
23, comma 3, D.Lgs. 276/2003)
• N.B. ai lavoratori somministrati è dovuto un trattamento economico e normativo
non inferiore a quello dei lavoratori dell’utilizzatore.
Sanzioni
A) Somministrazione irregolare
- mancanza di forma scritta del contratto
- inosservanza di limiti e condizioni della somministrazione
* Sanzione civile
il rapporto di lavoro è costituito in capo all’utilizzatore (escluse pubbliche
amministrazioni)
* Sanzione penale
solo in caso di utilizzo di agenzia non autorizzata rato contravvenzionale ammenda
per utilizzatore e somministratore di € 50 per lavoratore per giorno
B) Somministrazione fraudolenta
- specifica finalità di eludere norme di inderogabili di legge o di contratto collettivo
* Sanzione penale
rato contravvenzionale ammenda di € 20 per lavoratore per giorno
C) Percezione di compensi dai lavoratori
* Sanzione penale
arresto fino ad un anno/ammenda da € 2.500 a € 6.000 + cancellazione dall’albo
(sanzione accessoria)

06 Aprile 2006 – avv. Bianchi

Interposizione: scissione tra chi “usava” il lavoratore e chi risultava essere formalmente
il datore di lavoro.
L’appalto di manodopera è sempre stato vietato mentre il contratto di appalto no. Che
differenza c’è tra i due? Nel contratto di appalto lecito non si ha interposizione perché
la differenza sta fondamentalmente nell’appalto (obbligazione di “fare”), mentre
nell’appalto di manodopera c’era un’obbligazione di “dare”. Nella fattispecie vietata il
soggetto terzo si limita a dare i lavoratori.
Art. 1655 c.c.: definizione di appalto. I requisiti legali sono:
- l’organizzazione dei mezzi necessari

Diritto del lavoro Pagina 23 di 62 a.a. 2005-2006


- (con) gestione a proprio rischio
L’appaltatore deve essere, quindi, un imprenditore che se ne assume i costi e i rischi. La
legge 1369/1960 ha vietato la fornitura di manodopera. Questo è quanto è stato prima
della riforma Biagi. Oggi non c’è più la legge 1369/1960 per cui non è genericamente
vietata l’interposizione. E’ stato stabilito che la fornitura di manodopera non è più
vietata e rientra nella fattispecie del lavoro somministrato. Ma qual è la differenza tra il
lavoro somministrato e l’appalto? Oggi esiste il divieto di appalto ai soggetti che non sono
stati autorizzati. Se l’appalto non ha quei caratteri stabiliti dalla legge, vuol dire che si è
in presenza di lavoro somministrato illecito. L’art. 29 del D.Lgs. 276/2003 definisce la
distinzione tra le due fattispecie. Richiama l’art. 1655 c.c. (che è rimasto invariato) e gli
elementi indicati dal c.c. e dalla giurisprudenza (come elementi indicatori della
fattispecie lecita). Quindi, ancora oggi, l’appaltatore deve essere un imprenditore che si
assume i rischi. Pertanto la differenza tra i due sta ancora nell’oggetto del contratto: in
quello d’appalto di “facere” (fare), in quello di somministrazione di “dare” (fornire la
manodopera). L’art. 29 dice anche, però, che l’organizzazione dei mezzi può, in alcuni casi,
risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo.
C’è chi interpreta la norma in modo meno restrittivo ma la giurisprudenza ha stabilito
che va interpretata in modo restrittivo. L’art. 84 (altre ipotesi di certificazione)
stabilisce che devono essere stabiliti degli indici presuntivi in materia di interposizione
illecita e appalto genuino (per verificare la reale organizzazione dei mezzi e l’assunzione
effettiva del rischio). La certificazione purtroppo però, dà alle parti la possibilità di
accordarsi.
Alcuni indici elaborati dalla giurisprudenza per valutare la legittimità o meno del
contratto d’appalto:
- organizzazione di mezzi
- non basta l’esercizio del potere direttivo
- presenza di elementi dell’appaltatore (capitale dell’impresa, etc.
- l’attività deve essere gestita dall’appaltatore (l’apporto del committente deve essere
solo marginale)
- l’organizzazione dei mezzi deve essere adeguata al risultato
- assunzione del rischio d’impresa (l’appaltatore si assume tutti i costi e la direzione
reale dei lavori)
- prezzo del contratto d’appalto
- commistione di personale nell’esercizio dell’attività oggetto del contratto (personale
della cooperativa e personale dipendente). Cioè se la stessa mansione viene svolta o da
uno o dall’altro, significa che il contratto d’appalto è illegittimo (il personale serve solo
per coprire i “buchi”).
La tutela dei lavoratori:
l’art. 29.2: il committente è tenuto a pagare. Il lavoratore può agire direttamente.
Mentre prima la legge 1369/1960 prevedeva qualcosa in più e cioè la parità di
trattamento, cosa che oggi c’è per il lavoro somministrato, mentre non c’è più per
l’appalto. Nell’art. 7 del D.Lgs. 626/1994 si parla di tutela del lavoratore. E’ possibile

Diritto del lavoro Pagina 24 di 62 a.a. 2005-2006


che, in caso di contrattazione collettiva, in accordo tra le parti, sia ripristinata la parità
di trattamento.
Conseguenze:
art. 29.3 bis: se il contratto d’appalto difetta dei requisiti legali, il lavoratore può
chiedere, mediante ricorso, di essere assunto alle dipendenze del committente.
Prima, se l’appalto era illecito e l’appaltatore licenziava il lavoratore era come se non ci
fosse stato il licenziamento, mentre adesso deve impugnarlo.

11 Aprile 2006 – prof. Vettor

Il lavoro somministrato è atipico sotto il profilo della durata e per la presenza del terzo
soggetto. Il vero contratto è quello stipulato tra somministratore ed utilizzatore
(imprenditore). L’art. 20 del D.Lgs. 276/2003 detta le “Condizioni di liceità”. L’agenzia
deve essere autorizzata.

Svolgimento del rapporto di lavoro


Lo svolgimento di riferisce a quando il rapporto è già in essere. Le regole che
sovrintendono il rapporto di lavoro sono standard. Il tipo di rapporto preso come modello
è quello subordinato, a tempo pieno ed indeterminato. Per gli altri casi vengono adottate
delle regole specifiche ma, se queste non ci sono, il regime applicabile è quello standard.
Le discipline atipiche contengono spesso una norma di non discriminazione.
Il sinallagma è la prestazione/controprestazione retributiva e contributiva del rapporto
di lavoro. La disciplina standard è sostanzialmente limitativa dei poteri del datore di
lavoro perché il lavoratore adempie al suo lavoro con il suo corpo e la sua psiche.
Quali sono i principali obblighi gravanti sul lavoratore, quando il rapporto di lavoro è in
essere? Gli obblighi legali sono:
- art. 2104 c.c.: “Diligenza del prestatore di lavoro. Il prestatore di lavoro deve usare la
diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da
quello superiore della produzione nazionale”.
- art. 2105 c.c.: “Obbligo di fedeltà. Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per
conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti
all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter
recare ad essa pregiudizio”.
L’obbligo di diligenza implica la buona fede e la correttezza (art. 1175 c.c. rif. contratti e
art. 1375 c.c. rif. obbligazioni)
L’art. 2104 c.c. (l’obbligo di diligenza) si aggancia ad altri tre aspetti/criteri :
- la natura della prestazione dovuta
- l’interesse dell’impresa
- l’interesse superiore della produzione nazionale
Ad oggi, l’ultimo aspetto non è più considerato, infatti è più legato al corporativismo.

Diritto del lavoro Pagina 25 di 62 a.a. 2005-2006


Per esempio, il sistematico arrivo in ritardo sul posto di lavoro determina un
disfunzionamento dell’impresa (il comportamento del lavoratore deve essere tale da non
inficiare il buon funzionamento dell’impresa).
La natura della prestazione dovuta è il criterio centrale ma è alquanto relativo, perché
implica a monte che io sappia la natura della prestazione dovuta, che è strettamente
collegata al tipo di mansioni da svolgere contenute in contratto.
Solo due criteri sono, quindi, operativi al fine della tutela giudiziale.

12 Aprile 2006 – prof. Vettor

Art. 2105 c.c. = obbligo di fedeltà. E’ un obbligo che opera anche nel caso in cui la
prestazione di lavoro conosce alcune vicende sospensive (es. maternità, scioperi, etc.), a
differenza dell’obbligo di diligenza. L’obbligo dell’art. 2105 c.c. si concretizza in una
serie di divieti, finalizzati alla protezione degli interessi del datore di lavoro.
Art. 2598 c.c. relativo alla concorrenza sleale. La differenza tra l’art. 2105 c.c. e il
2598 c.c. è che nel primo viene presupposta una relazione contrattuale. L’interpretazione
giurisprudenziale ha ritenuto che il lavoratore viene meno a quest’obbligo quando svolge
mansioni assai simili a quelle svolte dal datore di lavoro. Si tratta di vietare un analogo
lavoro nel quale venga impiegato il know-how del datore di lavoro.
L’art. 2125 c.c., invece, è relativo al patto di non concorrenza. Il patto limita lo
svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro a seguito della cessazione del rapporto
di lavoro. Il patto è nullo se non è scritto ed esso implica un corrispettivo al prestatore
di lavoro e, inoltre, è nullo anche nel caso in cui non abbia specifici limiti in tema di
oggetto, tempo e luogo. La disciplina pone un vincolo inderogabile relativo alla durata
(art. 2125.2 c.c.): tre anni normalmente, cinque anni per i dirigenti. Se si pattuisce una
durata maggiore, essa si riduce a questi due termini.
Che cosa succede quando il lavoratore non adempie a questi obblighi? Art. 2106 c.c.: chi
viola è passibile di una sanzione disciplinare (sanzione pecuniaria, richiamo verbale,
licenziamento, trasferimento, sospensione senza retribuzione, etc.). L’ordine d’intensità
delle possibili sanzioni disciplinari è il seguente:
- richiamo verbale
- richiamo scritto
- sanzione pecuniaria
- trasferimento
- sospensione
- licenziamento
Quali sono le regole che accompagnano il potere disciplinare? L’esercizio del potere
sanzionatorio non può svolgersi al di fuori della tutela della persona. Nell’art. 2106 c.c. ci
sono due criteri: 1) quello della proporzionalità (secondo la gravità dell’infrazione); 2)
quello delle norme corporative (ma il sistema corporativo è caduto nel 1944), per cui si va
a guardare lo statuto dei lavoratori all’art. 7 (legge 300/1970). Quindi il potere
disciplinare può essere esplicato soltanto se il codice disciplinare è messo a conoscenza

Diritto del lavoro Pagina 26 di 62 a.a. 2005-2006


di tutti (cosa è infrazione e cosa comporta tale infrazione). Il datore, o stabilisce in
autonomia, rendendole note, quali sono le regole disciplinari, o si applicano i contratti di
lavoro collettivi. E’ possibile punire per comportamenti non previsti nel regolamento
disciplinare? Sì, in funzione degli artt. 2104 c.c. e 2105 c.c. (ad esempio, caso delle
molestie dell’operatore della Sip nei confronti della figlia dell’utente).
Il datore di lavoro, prima di intimare la sanzione, deve contestarla e consentire al
lavoratore di esercitare il suo diritto di difesa. Il lavoratore può farsi assistere da un
sindacalista, ma può anche rispondere autonomamente. L’art. 7 indica i limiti rispetto ad
alcune sanzioni: la multa non può essere superiore a 4 ore di lavoro, la sospensione può
essere al massimo di 10 giorni. Sembra anche che la norma dica che non si può
licenziare/trasferire per motivi disciplinari ma sulla questione vi è un dibattito.

20 Aprile 2006 – prof. Vettor

I motivi di licenziamento legittimo possono essere: giustificato motivo


soggettivo/oggettivo o giusta causa. E’ soggettivo se il motivo è ricollegabile al
lavoratore, è oggettivo se il lavoratore è licenziato per motivi che non dipendono da lui
(crisi dell’azienda, chiusura, etc.). Se il licenziamento è senza giusta causa o giustificato
motivo esso è illegittimo (e quindi impugnabile).
Le ipotesi di giusta causa e giustificato motivo soggettivo
Sono le ipotesi di licenziamento per causa dei lavoratori. Le fonti sono l’art. 2119 c.c. e la
legge 604/1966, il cui art.1 dice che “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato,
intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia
assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il
licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi
dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo”.
Prima del 1966 erano in vigore solo gli artt. 2118 c.c. e 2119 c.c. Il 2119 c.c. già prevedeva
il licenziamento per giusta causa, mentre il 2118 c.c. prevedeva il cd. recesso ad nutum
con preavviso, cioè la possibilità, per il datore di lavoro, di recedere anche senza un
motivo, con il solo obbligo di dare il preavviso al lavoratore.
La legge 604/1966 modifica questo sistema e aggiunge all’ipotesi della giusta causa un
ulteriore limite: di risolvere il rapporto di lavoro con il dipendente imponendo la
necessità di un giustificato motivo.
Art. 3, legge 604/1966: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è
determinato da in notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di
lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al
regolare funzionamento di essa”. Nella prima parte, si fa riferimento al motivo
soggettivo (inadempimento del lavoratore), nella seconda ci si riferisce al motivo
oggettivo.
La norma specifica che c’è l’obbligo del preavviso (tipico del giustificato motivo, a
differenza della giusta causa). Quando si parla di notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali del lavoratore si fa riferimento agli artt. 2104 c.c. e 2105 c.c. (adempimento

Diritto del lavoro Pagina 27 di 62 a.a. 2005-2006


non corretto del lavoro, violazione dell’obbligo di fedeltà, obblighi accessori, etc.).
L’inadempimento deve essere notevole, grave, non uno qualsiasi (non si può licenziare per
5 minuti di ritardo, al massimo c’è una sanzione conservativa come previsto dall’art. 7
dello statuto dei lavoratori). L’art. 1453 c.c. prevede che il contratto possa essere
risolto per inadempimento tuttavia il contratto non si può risolvere se l’inadempimento
della parte ha scarsa importanza.
Secondo l’art. 1455 c.c. (disciplina dei contratti) la rilevanza dell’inadempimento va
valutata con riguardo all’interesse per il creditore; nel lavoro l’inadempimento non deve
essere rilevante per il datore di lavoro ma ciò che rileva è la valutazione della colpa del
lavoratore (es. furto anche di 1 solo Euro, ma nella realtà si valuta anche il grado di colpa
del lavoratore che è funzione del rapporto di fiducia col datore di lavoro, a sua volta
funzione delle mansioni che il lavoratore ricopre; perciò si sono verificati licenziamenti
per il furto di una sola mela e casi di reintegro di lavoratore che aveva rubato anche per
parecchi milioni).
Qual è la strada da seguire per valutare se una mancanza è suscettibile di licenziamento?
L’unico riferimento normativo è l’art. 3 della legge 604/1966. Altri parametri sono
forniti dalla contrattazione collettiva ce prevede per i possibili comportamenti del
lavoratore, delle sanzioni disciplinari: dal richiamo scritto con multa, sospensione a
licenziamento con preavviso e licenziamento senza preavviso (giusta causa).
Nel contratto collettivo dei metalmeccanici (è un contratto modello, come quello del
commercio) sono previste sanzioni conservative (richiamo scritto, multa, sospensione)
per:
- non si presenta al lavoro, non giustifica l’assenza, lo sospende, esce prima
- lieve insubordinazione verso i superiori
- eccessiva lentezza o negligenza nelle sue mansioni
- per disattenzione o negligenza causa guasti alle attrezzature
- sia trovato ubriaco/divieto di fumare
- lavori in concorrenza fuori dall’azienda
- lavori fuori dall’orario di lavoro, usando macchine dell’azienda, con materiali propri (non
dell’azienda)
- trasgredisce gli obblighi contrattuali
E’ previsto, invece, il licenziamento con preavviso (al contrario non è previsto dal
contratto collettivo del commercio) quando:
- infrazioni alla disciplina del lavoro non così gravi da prevedere il licenziamento per
giusta causa
- sensibile danneggiamento colposo al materiale di lavorazione o al materiale dello
stabilimento
-esecuzione di lavori c/terzi fuori dall’orario e senza materiali aziendali (capita nel
terziario con l’uso del computer)
- rissa nello stabilimento fuori dai reparti di lavorazione (anche nel parcheggio)
- abbandono del posto di lavoro da parte di personale cui siano affidate mansioni di
controllo/sorveglianza

Diritto del lavoro Pagina 28 di 62 a.a. 2005-2006


- assenze non giustificate prolungate per oltre 4 giorni consecutivi oppure lavoratore
che non rientra dalle vacanze, con disagio dell’organizzazione dell’azienda (es. ferie non
fruibili dai colleghi)
- condanna a pena detentiva del lavoratore anche se non connessa all’attività lavorativa
(lede l’immagine dell’azienda).
Dal contratto dei metalmeccanici si nota che tra i vari tipi di sanzione esiste una
differenza:
- le mancanze di lieve entità sono sanzionate con sanzioni conservative
- se le mancanze sono notevoli sono sanzionate con licenziamento con preavviso
- le mancanze più gravi sono sanzionate con licenziamento senza preavviso
Ad esempio, l’insubordinazione ai superiori può diventare grave, può essere reiterata nel
tempo, anche se per piccoli/futili motivi
Licenziamento per giusta causa art. 2119 c.c., la causa non deve consentire la
prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro (fatto grave). Chi lo vuole far
valere deve contestarlo con immediatezza (non dopo 1 o 2 mesi…) e questo giustifica la
mancanza del preavviso. Anche il lavoratore può recedere per giusta causa.
Differenza tra licenziamento senza preavviso e licenziamento con preavviso. Il preavviso
ha natura reale: se c’è il licenziamento con preavviso e il lavoratore si ammala, la malattia
sospende il periodo di preavviso. D’altra parte il licenziamento con preavviso permette di
non pagare il periodo di preavviso. Quindi è importante vedere quando il licenziamento
con giusta causa è legittimo. Il giudice può anche convertire un licenziamento in un altro.
La differenza sarebbe la gravità dell’inadempimento. Vi è, però, opinione diversa che
sostiene la differenza qualitativa: secondo questi la giusta causa può essere per fatti
esterni che mirino la fiducia del rapporto di lavoro, anche non per violazioni contrattuali.
Ad esempio, impiegato di banca che fa una rapina a 1000 km di distanza; spaccio di
stupefacenti da parte di addetti di farmacia; furti da parte di personale di vigilanza
(commessi fuori dall’azienda). La dottrina cerca di giustificare la mancanza di fiducia
nelle ipotesi di licenziamento con giusta causa, riferendosi all’art. 1159 c.c. (relativo alla
somministrazione) per le prestazioni periodiche continuative. Nel rapporto di
somministrazione (art. 1564 c.c.) si ha la risoluzione del contratto (venir meno della
fiducia).
Il limite da considerare è l’art. 8 dello statuto dei lavoratori “E’ fatto divieto al datore
di lavoro di fare indagini”: questo limite è mobile, ossia stabilito dal giudice.
Secondo il contratto dei metalmeccanici, il licenziamento per giusta causa può avvenire
per (rileva la gravità):
- grave insubordinazione ai superiori
- furto nell’azienda; in ogni caso e di ogni entità
- danneggiamento volontario a macchine e attrezzature
- abbandono del posto di lavoro a cui possa derivare pregiudizio all’incolumità delle
persone
Si applica l’art. 7 dello statuto dei lavoratori ai licenziamenti per giusta causa o per
giustificato motivo? Secondo l’art. 7.4 non possono essere disposte sanzioni disciplinari
che comportino modifiche sostanziali nel rapporto di lavoro.

Diritto del lavoro Pagina 29 di 62 a.a. 2005-2006


I due licenziamenti sono ontologicamente disciplinari, nonostante il comma 4, si devono
applicare le garanzie dell’art. 7 al licenziamento per giustificato motivo o per giusta
causa.

26 Aprile 2006 – prof. Vettor

Differenze tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo: sostanzialmente è la


gravità dell’inadempimento della parte lavoratrice. Il giustificato motivo oggettivo è
(seconda parte art. 3, legge 604/1966) legato a motivi produttivi dell’impresa. L’autorità
giudiziaria che deve giudicare sulla legittimità di un recesso con tale motivo, non può
sindacare sulle scelte dell’imprenditore (libertà ex art. 41 Cost.). L’autorità giudiziaria
può, però, controllare se l’imprenditore ha valutato la possibilità di “ripescaggio” del
lavoratore (impiegandolo in altri segmenti dell’attività produttiva).
Secondo l’art. 2103 c.c. il datore di lavoro può cambiare le mansioni del lavoratore in
senso verticale (solo se migliorativo) o in senso orizzontale (su mansioni equipollenti).
Viene impedito, quindi, al datore di lavoro di operare delle modifiche in senso
peggiorativo. Tuttavia ci sono delle eccezioni: per esempio, la lavoratrice in gravidanza,
nel caso in cui tale stato contrasti con le mansioni per cui è stata assunta, il datore può
peggiorare la sua situazione lavorativa (per tutelare la salute della lavoratrice e del
nascituro).
L’art. 2103 c.c. ha lo scopo di tutelare la professionalità del lavoratore e questa
tendenza può essere invertita per scongiurare il caso maggiore di sanzione, ossia il
licenziamento. Il tema del recesso per giustificato motivo oggettivo è legato al tema del
licenziamento collettivo (art. 11, legge 604/1966). Infatti, si può applicare o tale legge,
oppure la legge 223/1991 per i licenziamenti collettivi.
E’ sempre necessario giustificare un recesso? Fino alla legge 604/1966 il datore di
lavoro poteva recedere dal contratto senza fornire alcuna giustificazione.
Successivamente è stato introdotto il principio della giusta causa. Prima della legge
604/1966, valeva l’art. 2118 c.c. (“ad nutum”) per cui le parti potevano recedere, fatto
salvo il preavviso (entrambe le parti, senza alcuna differenziazione). Questa regola è
rimasta come eccezione nel nostro ordinamento, ma nell’ambito di ipotesi previste
tassativamente e cioè:
- lavoratori in prova (discipl. Art. 2096 c.c.). Il patto di prova deve essere antecedente o
contestuale, e deve essere stipulato (pena la nullità) in forma scritta;
- lavoratori domestici (in ragione del tipo di rapporto fiduciario);
- dirigenti (in ragione del rapporto tra il datore di lavoro e i suoi dirigenti). Comunque in
contrattazione collettiva sono avviati degli accordi per ridurre tale libertà del datore;
- lavoratori ultrasessantacinquenni in possesso dei requisiti pensionistici.

27 Aprile 2006 – avv. Bianchi

Diritto del lavoro Pagina 30 di 62 a.a. 2005-2006


Licenziamento per colpa del lavoratore. Viene valutata la colpa per l’impossibilità di
continuazione del rapporto. Gli inadempimenti minori, se ripetuti, assumono una maggior
gravità. Il licenziamento per giusta causa è dovuto ad atti così gravi da non consentire la
continuazione, anche temporanea, del rapporto di lavoro.
Caso pratico 1
Lavoratore addetto al banco della carne, con mansioni di banconiere, in un supermercato.
Egli ha acquistato della carne nello stesso supermercato, tuttavia ha eseguito
personalmente la prezzatura (in realtà, dovrebbe farla qualcun altro) e, al controllo alla
cassa, è risultato che il valore di ciò che c’era nel sacchetto era superiore al prezzo
applicato. Il datore procede al licenziamento per giusta causa (sanzioni disciplinari ex
art. 7 dello statuto dei lavoratori). Il datore, per prima cosa, contesta il comportamento
al lavoratore, il quale entro 5 giorni deve rispondere.
Le possibili difese, in questo caso, sono:
- ammissione della colpa ma il danno subito dal supermercato è minimo;
- non ammissione della colpa, sostenendo l’errore;
- tentativo di scaricare la colpa su un altro dipendente, dicendo che ha preparato lui il
pacchetto.
Anche nei casi di negligenza sono previste sanzioni per il lavoratore (di tipo
conservativo). In questo caso pratico, il lavoratore potrebbe anche invocare la mancanza
di proporzionalità (tra il licenziamento e l’atto compiuto).
In questo caso si può far valere la tesi della gravità del comportamento perché il
lavoratore ha usato le sue mansioni/compiti, con dolo, per trarne vantaggio. La Corte di
Cassazione ha stabilito che, ai sensi dell’art. 2106 c.c., deve essere attribuita rilevanza
all’entità del lucro, ai fini di valutarne il licenziamento. La Cassazione fa riferimento,
oltre alla legge 604/1966, anche ai supremi valori tutelati dalla Costituzione (il
licenziamento toglie sostentamento al lavoratore ed alla sua famiglia). Ci deve essere
proporzionalità tra il danno subito dal datore di lavoro e il valore del lavoro stesso. La
Cassazione sostiene, inoltre, che se il danno è di lieve entità non è interrotto il rapporto
fiduciario. Tuttavia la giurisprudenza ha effettuato anche interpretazioni differenti
(danno lieve ma interruzione del rapporto di fiducia). Non ci sono mai soluzioni univoche
per ogni caso.
Sentenza Cassazione nr. 3270/1998
Assistente di volo Alitalia, viene trovata con 8 g di Marijuana sul volo di ritorno da
Caracas. L’Alitalia licenzia la lavoratrice che viene però reintegrata sia in giudizio di
primo grado, sia in appello. La Cassazione fa un’analisi delle decisioni dei giudici di primo
e secondo grado per stabilire se hanno operato correttamente nel dichiarare illegittimo
il licenziamento. Secondo la Cassazione, il giudice di merito avrebbe dovuto valutare se il
comportamento della lavoratrice violava la professionalità nello svolgimento delle
mansioni. Non basta valutare i fatti astrattamente. La Cassazione ha rimesso il caso al
giudice di merito.
Caso pratico 2
Lavoratrice presso azienda di raccolta e commercializzazione di mele. Sono state
trovate delle mele nell’armadietto della stessa. Dopo il licenziamento è stata

Diritto del lavoro Pagina 31 di 62 a.a. 2005-2006


reintegrata, infatti il giudice di merito ha valutato che le mansioni svolte non erano
collegate al rapporto fiduciario. Infatti svolgeva mansioni di semplice operaia: l’episodio
era unico ed era improbabile che ci fosse reiterazione di reato. Ella non era addetta al
controllo di altro personale, né alla custodia del materiale.
Caso pratico 3
Addetto alla cassa di una banca. Ha fatto un prelievo di £ 2.000.000 senza restituirli.
Egli ha sostenuto che si era dimenticato di restituirli. Nel caso, si è valutato il lavoro
(anche con mansioni di responsabilità) e, quindi, la gravità di tale atto.
Caso pratico 4
Autista che sottraeva parte del gasolio dall’autocarro. Il licenziamento è stato
considerato legittimo, perché:
- è stato preso in flagranza di reato;
- gli sono stati sequestrati una tanica e una pompa col tubo per togliere il gasolio
(presunta reiterazione).
Tale comportamento lede il vincolo fiduciario con l’azienda.

02 Maggio 2006 – prof. Vettor

Obblighi gravanti sul datore di lavoro:


- controprestazione retributiva;
- obbligo di sicurezza (ex art. 2087 c.c.). Il datore di lavoro ha l’obbligo della tutela della
salute, dell’integrità morale del lavoratore (si deve guardare alla particolarità e alla
tecnica del lavoro).
L’art. 2087 c.c. è una norma che esplica la sua funzione sia sotto il profilo della
prevenzione, sia sul piano risarcitorio (in base a questa norma, infatti, i giudici hanno
valutato il risarcimento del danno).
Sarà il datore di lavoro a dover provare di aver adempiuto. L’art. 2087 c.c., avendo un
contenuto indeterminato, è servito ex-post (quando la lesione si era presentata),
fallendo sotto il profilo della prevenzione.
Negli anni ’50 si assiste ad un fenomeno di produzione di normative molto intenso, ad
integrazione di tale articolo. I caratteri di tali normative sono: estrema analiticità,
estremo tecnicismo, estrema specificità (quasi inconoscibile dal giurista ma di dominio,
invece, di ingegneri e tecnici). Ad esempio: Dpr 55 per la costruzione dei ponteggi, Dpr
203 per la rimozione di polveri sui luoghi di lavoro.
Negli anni ’90 c’è stato un secondo gettito di normative, in forza dell’intervento
dell’Unione Europea. A esempio: direttiva quadro (madre) nella quale vengono indicati gli
obblighi generali relativi alla sicurezza, da attuare nei singoli Stati membri. Subentra un
nuovo concetto per il quale alla sicurezza devono partecipare, non solo il datore di lavoro,
ma anche i lavoratori. Cambia, quindi, la filosofia relativa alla concezione di sicurezza sul
lavoro. Il D.Lgs. attuativo 626/1994 ha risposto a tale direttiva e si è andato ad
aggiungere alle normative già vigenti. Attualmente il quadro in Italia, relativo alla
sicurezza sul lavoro, è la risultanza di art. 2087 c.c., del D.Lgs. 626/1994 e delle altre
normative. Con la spinta comunitaria si ha che entrambi (datore e lavoratore) devono
Diritto del lavoro Pagina 32 di 62 a.a. 2005-2006
partecipare al raggiungimento della sicurezza. La 626 contiene un obbligo di
informazione della parte lavoratrice sui rischi del lavoro e i sistemi di prevenzione. I
lavoratori devono frequentare uno specifico corso. Il lavoratore, inoltre, nello
svolgimento del suo lavoro, deve attivarsi in via prevenzionale. La 626 prevede come
principale obbligo delle imprese, la valutazione dei rischi e le soluzioni per la
riduzione/eliminazione degli stessi. Le imprese che non hanno redatto la valutazione dei
rischi non possono assumere lavoratori a tempo determinato. La 626 prevede delle
figure di mediazione (RLS - Responsabile Lavoratori Sicurezza): per le imprese con meno
di 15 dipendenti il RLS può essere eletto tra i lavoratori; per le imprese con più di 15
dipendenti la figura deve essere prevista nelle rappresentanze sindacali. La 626 non ha
abrogato la legislazione degli anni ’50. La 626 è il punto di avvio della seconda fase di
produzione di norme. Sono state emanate anche ulteriori norme (utilizzo dei
videoterminali, etc.)
Nel 1978, con la riforma del sistema sanitario, è sorto il problema: come è possibile
conoscere tutte le normative/obblighi? Si è posto il problema di redigere un testo unico,
con le varie normative suddivise per settore. Tale testo unico (che era stato redatto) è
stato bocciato nel 2005.
L’art. 2087 c.c. è da considerarsi abrogato? No! è una norma ancora vigente che
definisce degli obblighi ulteriori rispetto alle altre normative vigenti. Esso stabilisce un
principio entro il quale il datore di lavoro non è più imputabile per inadempimento, infatti
si dice che l’art. 2087 c.c., in forza dei criteri di particolarità, esperienza e tecnica,
costituisce chiusura alla normativa. Il datore non sarà più responsabile nella misura in cui
egli ha soddisfatto il criterio della massima sicurezza tecnologicamente possibile. Quindi
il datore di lavoro può essere considerato inadempiente anche se ha rispettato la
legislazione vigente, e ciò può avvenire se egli non ha soddisfatto il criterio della
massima sicurezza tecnologicamente possibile.

03 Maggio 2006 – prof. Vettor

L’art. 2087 c.c. entra in vigore anche se le parti non l’hanno espressamente previsto.
Neanche se si è derogato, infatti non è derogabile in senso peggiorativo. L’art. 2087 c.c.,
sotto il profilo prevenzionistico, non ha avuto esito positivo perché ha un contenuto
troppo generico. La figura del RLS Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza non è
un obbligo ma un onere. Può, quindi, non esserci. I corsi di formazione sono, invece, un
obbligo. L’azienda può usufruire di agenzie che possono avere o no l’impegno delle risorse
economiche per la sicurezza; se questa è in capo al lavoratore egli ne risponde anche
penalmente. L’art. 2087 c.c. è una normativa di chiusura ed impone un obbligo di diligenza
al datore di lavoro (es. deve mettere a disposizione i DPI più adatti e tecnologicamente
migliori).

Cause di sospensione del rapporto di lavoro

Diritto del lavoro Pagina 33 di 62 a.a. 2005-2006


Quando è possibile sospendere legittimamente la prestazione di lavoro senza sciogliere il
vincolo del rapporto di lavoro? Nei casi come malattia, gravidanza, puerperio, infortunio,
servizio militare, richiamo alle armi, riposo settimanale, congedo matrimoniale, ferie,
aspettativa (per motivi di salute, personali, cariche elettive, etc.), sciopero, permessi
studio.
Si distingue la sospensione per impossibilità sopravvenute nel rapporto di lavoro
(malattia, infortunio, puerperio, gravidanza, servizio militare) e le altre sospensioni.
Quanto detto è riferito al rapporto di lavoro subordinato, infatti molte delle figure
sopra esposte non trovano applicazione nel lavoro autonomo.
Gravidanza e puerperio
Il nostro ordinamento prevede nell’art. 37 Cost. la parità di lavoro indipendentemente
dal sesso. E’ possibile operare una diversificazione nei trattamenti giuridici, nel caso
della maternità. Sotto il profilo della disciplina antidiscriminatoria per motivi di sesso, la
legislazione è costituita da:
- legge 903/1977 (legge italiana);
- legge 207/1976 (legge attuativa di una direttiva comunitaria
Nella legge 903/1977 si tutelava l’uguaglianza formale (non è possibile non assumere in
ragione del sesso, etc.). Questa legge attuava la Costituzione, secondo quanto previso
nell’art. 3.
Una successiva legge 125/1991, è entrata in vigore a seguito di una raccomandazione
dell’U.E. (non di una direttiva). Il legislatore del 1991 riteneva necessaria l’introduzione
di norme ad esclusivo beneficio delle lavoratrici, proprio per favorire un’eguagliamento
delle stesse rispetto agli uomini. E’ il fenomeno delle pari opportunità.
IL D.Lgs. 145/2005 (attuativo di una direttiva comunitaria) ha ulteriormente modificato
il quadro legislativo e ha modificato le leggi 903/1977 e 207/1976, soprattutto sotto il
punto di vista delle molestie sessuali e della discriminazione indiretta. Prima del 2005 i
casi di molestie venivano trattati in via giurisprudenziale (perché non c’era la specifica
legge, cioè il D.Lgs. 145/2005). Quando i giudici hanno dato una tutela lo hanno fatto
spesso ex art. 2087 c.c. perché il datore di lavoro deve assicurare l’integrità fisica e
morale dei lavoratori. Spesso le discriminazioni sono anche per razza, orientamento
sessuale, etc.
Le cause di sospensione per gravidanza, infortunio, malattia e puerperio sono previste
all’art. 2110 c.c. e, per il servizio militare, all’art. 2111 c.c. Nel primo caso il trattamento
retributivo non viene sospeso e viene così erogato: 80% grava sull’Inps (il datore anticipa
il trattamento per poi rivalersi sull’istituto previdenziale). Tale 80% può raggiungere il
100% (totalità della retribuzione) se previsto dalle rappresentanze sindacali (in tal caso
la differenza grava sul datore di lavoro). La tutela della maternità trovava sede nella
legge 1204/1971 nella quale si diceva:
- la lavoratrice, dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno del bambino, non
poteva essere licenziata, salvo eccezioni tassative espressamente previste (colpa grave,
se il contratto era a termine, in caso di una cessazione dell’impresa);

Diritto del lavoro Pagina 34 di 62 a.a. 2005-2006


- riconoscimento dell’astensione obbligatoria ( 2 mesi prima del parto e 3 mesi dopo). Se
la lavoratrice si presentava in tale periodo, doveva essere allontanata (perché mirava alla
tutela della salute);
- riconoscimento di un ulteriore periodo di astensione (di natura facoltativa, non
obbligatoria) per un massimo di 6 mesi, entro il primo anno di vita del bambino. In tale
periodo, se attivato, era prevista la retribuzione per il 30%.
Nel 2000, il D.Lgs. 53, attuativo di una direttiva comunitaria,ha modificato questa
legislazione, per cui la tutela deve essere riconosciuta non solo alla madre ma anche al
padre, nell’ottica della funzione genitoriale. Il D.Lgs. 53/2000 prevede:
- l’astensione obbligatoria diventa “congedo di maternità” o “congedo di paternità”. La
retribuzione resta dell’80%, salvo contrattazione collettiva. Totale durata 5 mesi (3+2).
- è possibile, previa presentazione della documentazione medica, ridurre l’astensione
pre-partum e ampliare quella post-partum.
- il padre gode del congedo di paternità ma di natura derivata (se la madre non ne
beneficia). Egli potrà beneficiare di 3 mesi di astensione dopo la nascita del bambino.
Ad oggi, c’è il testo unico relativo alla tutela della maternità e paternità , che è il D.Lgs.
151/2001:
- l’astensione facoltativa diventa “congedo parentale” ed èd un diritto che spetta
ugualmente a lavoratori e lavoratrici. La durata massima è di 6 mesi (la somma tra la
madre e il padre non può superare i 10 mesi e il singolo può prenderne al massimo 6).
Per incentivare i padri a prendere l’astensione, il legislatore ha previsto che se il padre
usufruisce del congedo per 3 mesi consecutivi, gli viene “regalato” un mese in più.
Il congedo parentale può essere usufruito entro gli 8 anni di vita del bambino. Tale legge
fornisce una tutela anche ai genitori non biologici. Mentre nel caso del genitore solo, il totale
di cui può usufruire è 10 mesi.

04 Maggio 2006 – prof. Vettor

Le norme costituzionali che delineano le linee programmatiche per la tutela della lavoratrice
madre e del nascituro sono l’art. 3 (principio di uguaglianza) e l’art. 37 (nella parte riferita alla
lavoratrice madre). La legislazione ordinaria, invece, si è occupata dei principi della non
discriminazione e della tutela della maternità attraverso la legge 903/1977 (recepimento di
una legge comunitaria), relativa alla non discriminazione sessuale in ambito lavorativo.
Successivamente è stata emanata la legge 125/1991, la quale però non ha carattere
cogente, infatti è nata a seguito di una raccomandazione dell’Unione Europea. La legge
125/1991 introduce il principio di produrre un uguagliamento delle condizioni socio-
economico, solo attraverso questo sistema si può dire che il principio di eguaglianza è
effettivamente attuato. La normativa si è ulteriormente sviluppata con il D.Lgs. 145 /2005,
anch’esso strumento di recepimento di una direttiva Europea, che ha analizzato ulteriori
aspetti quali le molestie sessuali.
Per quanto concerne la maternità, la prima legislazione che se ne è occupata è la 1204/1971
i cui tre punti di forza sono:
1) c’è un’interdizione al potere di recesso del datore di lavoro, tale interdizione va dal
momento dell’insorgere della gravidanza fino al primo anno di vita del bambino. In questo
periodo, nel caso si determinasse un atto di recesso, ci sarebbe una presunzione di
comportamento illegittimo, infatti, il licenziamento sarebbe di natura discriminatoria;

Diritto del lavoro Pagina 35 di 62 a.a. 2005-2006


2) c’è un periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, che va da due mesi prima della data
presunta del parto e tre post-parto. In tale periodo la lavoratrice è obbligata a sospendere
l’attività lavorativa per tutelare la propria salute e quella del nascituro e comunque ha diritto
alla retribuzione. Il trattamento economico previsto è del 80% che può essere esteso al 100%
attraverso accordi collettivi. L’80% è a carico dell’Inps, il quale non lo eroga in prima battuta
in quanto viene anticipato dal datore di lavoro che poi si rivale sull’Inps. Mentre per le
eventuali differenze concordare oltre l’80% esse sono a carico del datore di lavoro.
3) c’è l’astensione facoltativa fino a sei mesi, in cui però la retribuzione viene diminuita fino al
30%, salvo altri accordi attraverso i contratti collettivi.
Con l’ultimo D.Lgs. 53/2000 questa tutela è stata ampliata, infatti prevede un congedo
parentale del quale può usufruire anche il padre. Inoltre muta la durata dell’astensione, il
periodo entro cui l’astensione può essere usufruita ed il trattamento economico. Per quanto
riguarda la durata del congedo parentale, ciascun genitore può astenersi dal lavoro per 6
mesi, senza alcun diritto di retribuzione, però la sommatoria dei due periodi non può
superare i 10 mesi. L’unica eccezione, effettuata per incentivare la richiesta del congedo da
parte dei padri, è la possibilità di un mese bonus, a seguito della richiesta di un periodo
continuativo di 3 mesi (pertanto il totale della sommatoria diventa 11 mesi).
La richiesta del congedo può avvenire non più entro il compimento di un anno del bambino,
bensì entro gli 8 anni. Il congedo parentale, proprio perché valorizza la funzione genitoriale,
di spalma su un arco temporale più ampio.

Il trattamento economico del congedo parentale prevede una retribuzione minima del 30%,
salvo la possibilità per il lavoratore di chiedere quota del TFR per pareggiare il minor introito.
Il congedo parentale funziona, in sostanza, in questo modo: se si decide di usufruire di tutta
l’astensione subito (entro il primo anno di vita del bambino) si ha diritto al 30% della
retribuzione; laddove invece si decidesse di scaglionare l’astensione per usufruirne
successivamente, non è più garantito il 30% della retribuzione, ma solo se il nucleo
famigliare non supera un certo reddito. Mentre in passato l’astensione facoltativa prevedeva
un versamento del 30% a carico dell’Inps, salvi ulteriori %, a carico del datore di lavoro,
derivanti da accordi collettivi.
Il genitore solo può usufruire del congedo parentale per la totalità dei 10 mesi. Nei casi
particolari di infermità fisica di uno dei due genitori, l’altro viene considerato “solo” e può
usufruire del congedo come “solo”.
La malattia è un'altra di quelle ipotesi di sospensione per incapacità sopravvenuta che
comportano, quindi, la conservazione del posto e della retribuzione (art. 2110 c.c.). Tuttavia,
la conservazione del posto non è a tempo indeterminato, infatti ci sono delle soglie che se
superate, il rapporto può essere legittimamente risolto. Tali soglie sono stabilite nei contratti
collettivi (o secondo gli usi) e prevedono la valutazione del comporto secco (singolo evento di
malattia) e del comporto per sommatoria (in un certo arco di tempo), definendone i valori. Il
lavoratore ha l’obbligo di avviso tramite raccomandata con ricevuta di ritorno.
Un’altra possibile causa di sospensione è il servizio militare (viene sospeso l’obbligo
retributivo ma rimane quello della conservazione del posto). Il D.Lgs. 53/2000 ha poi previsto
ulteriori pause/permessi, quali, i congedi formativi, i congedi famigliari, i congedi per malattia
del bambino (tutti a costo zero per il datore di lavoro).
Queste tutele non sono previste per i lavoratori autonomi e per quelli a progetto.
La tutela della maternità per le lavoratrici a progetto è prevista solo nella forma
dell’astensione obbligatoria. Il congedo di maternità per la lavoratrice a progetto è previsto
per i 5 mesi e, di conseguenza, il termine del progetto (durata del contratto) si prolunga di 5
mesi. La lavoratrice a progetto però, a differenza di quella di subordinata, non ha l’obbligo di
astensione, infatti può, per ipotesi, lavorare fino all’ultimo giorno prima del parto ed usufruire
dei 5 mesi tutti post-partum (la lavoratrice dipendente ha l’obbligo dell’astensione e, al
massimo, può portare da 2 ad 1 i mesi prima del parto). Questo perché il lavoro subordinato,

Diritto del lavoro Pagina 36 di 62 a.a. 2005-2006


proprio perché tale, è soggetto all’eterodirezione e la lavoratrice non vi si può sottrarre, pena
la violazione dell’obbligo di diligenza (perciò il legislatore interviene impedendo che la
lavoratrice si presenti fisicamente sul luogo di lavoro). Per il lavoro autonomo, proprio in
quanto autonomo, si ammette che la lavoratrice possa continuare ad esercitare la propria
attività lavorativa, proprio perché libera di auto-organizzarsi in modo libero, svincolata
dall’eterodirezione (il legislatore non ha quindi la necessità di intervenire con un divieto per
alzare la soglia di protezione). L’altro elemento di differenza è che, sotto il profilo della
retribuzione, interviene l’Inps; diversamente dalla lavoratrice dipendente qui si ha
l’erogazione della prestazione retributiva direttamente dall’Inps a cui è necessario fare
domanda diretta (cambiano i tempi in quanto non è definito il tempo di retribuzione da parte
dell’Inps). Un’ulteriore differenza è che mentre la lavoratrice dipendente non risente
dell’anzianità contributiva (anche se è una neo assunta, usufruisce dell’80% della
retribuzione), la lavoratrice a progetto risente dell’anzianità contributiva.
Anche per quanto concerne la malattia vi sono delle differenze rilevanti: c’è un comporto
secco.

La cessazione del rapporto di lavoro in riferimento al licenziamento individuale.


E’ legittimo nella misura in cui è sorretto da una giustificazione (requisito sostanziale) e
rispetta alcuni requisiti formali o procedurali (requisito formale).
Nel momento in cui il datore decide di porre termine al vincolo contrattuale, ha l’obbligo di
indicare i motivi del licenziamento? La legge 604/1966 (e successive modifiche) non prevede
l’obbligo contestuale dei motivi, tuttavia prevede, in quanto è onere del datore di lavoro la
prova della sussistenza di una ragione del licenziamento, che il lavoratore richieda
l’indicazione dei motivi. Tale richiesta può essere inoltrata decorsi 15 gg dal ricevimento della
lettera di licenziamento. A quel punto scatta sì un obbligo e il datore di lavoro deve entro i
successivi 7 gg indicare i motivi del recesso.
Quindi i requisiti formali consistono ella forma scritta del recesso (in altri termini, il recesso è
illegittimo se viene intimato oralmente). Sia l’assenza dei requisiti sostanziali, sia l’assenza
dei requisiti formali può integrare motivi di illegittimità del recesso. Un recesso intimato senza
motivi configura un’ipotesi di nullità del recesso, ma analogamente configura un’ipotesi di
invalidità anche l’assenza del requisito formale.
Nell’ipotesi in cui il recesso sia giudicato illegittimo, le sanzioni intimabili nei confronti del
datore di lavoro sono differenti a seconda della differenza numerica dell’impresa:
- fino a 15 dipendenti si applica la disciplina della legge 604/1966 (si parla di tutela
obbligatoria),
- oltre i 15 dipendenti si applica l’art. 18 dello statuto dei lavoratori (si parla di tutela reale).
Nella tutela obbligatoria, laddove il licenziamento sia illegittimo, il legislatore prevede una
tutela di tipo alternativo: per un verso prevede la riassunzione o una tutela di tipo
indennitario. Le due tutele sono alternative: la scelta tra una e l’altra viene effettuata dal
datore di lavoro, il quale potrà quindi scegliere di adempiere alla sanzione o riassumendo il
lavoratore o pagandogli l’indennità sostitutiva.
Nell’ipotesi di riassunzione del lavoratore, il legislatore considera che il precedente rapporto
di lavoro sia da intendere concluso e ad esso, in via sanzionatoria, subentrerà un nuovo
rapporto di lavoro. Ciò implica l’azzeramento di tutti gli istituti retributivi collegati al
precedente rapporto di lavoro (devono essere liquidati tutti i trattamenti come TFR, ferie
maturate, etc.). Dal momento della nuova assunzione iniziano a ricorrere ex novo tutti gli
istituti retributivi.
Nell’ipotesi di pagamento dell’indennità sostitutiva, il datore di lavoro può pagare da 2,5
mensilità fino ad un massimo di 6 mensilità. Se il lavoratore ha un rapporto ultradecennale si
può arrivare fino a 10 mensilità (l’anzianità ha la sua influenza). Il giudice opta per la
massima sanzione delle 6 mensilità quando c’è un grave omissivo comportamento da parte

Diritto del lavoro Pagina 37 di 62 a.a. 2005-2006


del datore di lavoro. In termini concreti, un datore di lavoro di una piccola impresa può
sostanzialmente recedere ad nutum, salvo il pagamento di una penale.
Nella tutela reale si presuppone che il rapporto non si sia mai interrotto nella misura in cui è
dichiarato illegittimo, ed è per questo che si parla di tutela reale: se il rapporto non si è mai
interrotto, ciò implica che il lavoratore dovrà essere reintegrato con analoghe mansioni, più il
pagamento di 5 mensilità a titolo di risarcimento del danno. In più, visto che non è possibile
adempiere al posto del datore di lavoro, il legislatore ha ideato un meccanismo di coazione
indiretta che favorisca la tempestiva attuazione dell’ordine del giudice: il pagamento delle
retribuzioni al lavoratore a partire dalla data della sentenza (è come se il licenziamento non
fosse mai stato intimato, in quanto giudicato illegittimo).

16 Maggio 2006 – prof. Vettor

I requisiti sostanziali e formali del licenziamento individuale: quello sostanziale è la


motivazione (giusta causa disc. art. 2119 c.c., giustificato motivo oggettivo/soggettivo disc.
Legge 604/1966); quello formale è la forma scritta ab sustantiam. La lettera raccomandata
può anche non contenere i motivi del recesso, dopodiché il lavoratore può accettare il
licenziamento oppure richiedere, entro 15 gg, che gli vengano indicate, in forma scritta, le
motivazioni. Il datore di lavoro deve rispondere entro 7 gg.
Se il datore di lavoro non dovesse indicare le ragioni del recesso, avrebbe un onere di prova
sui motivi del recesso? Sì, perché la legge 604/66, all’art. 5, prevede l’onere della prova dei
motivi del recesso in capo al datore di lavoro.
Il dirigente può essere licenziato oralmente? No, infatti anche per esso sussiste la forma
scritta, però non è necessario addurre una giustificazione (in quanto il rapporto si basa sulla
fiducia).Pertanto, per il dirigente si configura un’ipotesi di recesso ad nutum (disciplinato
all’art. 2118 c.c.). Le altre ipotesi di libero recesso sono collaboratori domestici, lavoratori in
prova, lavoratori ultra sessantacinquenni in possesso dei requisiti pensionistici).
Quando il recesso è ritenuto illegittimo dall’autorità giudiziaria, si innesca il meccanismo della
tutela ed entra in funzione l’apparato sanzionatorio. E’ necessario distinguere le imprese con
più o meno di 15 lavoratori: nel primo caso si parla di tutela reale, nel secondo di tutela
obbligatoria.
La tutela obbligatoria prevede due possibilità per il datore di lavoro: egli può o riassumere il
lavoratore (il primo rapporto è concluso e ne subentra uno nuovo, quindi i trattamenti relativi
al precedente rapporto devono essere liquidati e gli istituti retributivi vengono azzerati);
oppure, in alternativa, il datore può pagare un’indennità che va da 2,5 a 6 mensilità. A
seconda della gravità dei motivi dell’illegittimità viene definita dal giudice l’entità di tale
indennità.
La tutela reale prevede che, se il licenziamento viene considerato illegittimo dal giudice, il
rapporto non si sia mai concluso, pertanto il datore di lavoro deve reintegrare il lavoratore e
pagargli la retribuzione per tutto il periodo in cui questo non ha lavorato (retribuzioni
pregresse), fino al momento in cui il lavoratore viene reintegrato (questo è uno strumento di
coazione indiretta per far sì che il datore attui la decisione del giudice quanto prima). Inoltre,
il datore deve al lavoratore 5 mensilità per il risarcimento del danno.
Il lavoratore, come previsto dall’art. 18 legge 300/1970, se ritiene difficoltosa la sua
reintegrazione in azienda, può esercitare il diritto di opzione, ossia scegliere di monetizzare
la reintegrazione e ciò corrisponde a 15 mensilità (da aggiungere alle 5 mensilità per il
risarcimento e alle altre mensilità relative al periodo decorrente dall’illegittimo recesso alla
decisione del giudice).
Il potere di recesso del datore di lavoro, nei limiti della 604/1966, è libero. Ci sono casi in cui
il potere di recesso viene interdetto comunque, anche in presenza di una giusta causa
(purché non si presenti particolarmente grave)? Sì, la maternità, infatti, l’interdizione al

Diritto del lavoro Pagina 38 di 62 a.a. 2005-2006


legittimo recesso va dall’inizio della gravidanza a…. Un recesso nel periodo di gravidanza a
puerperio è considerato di natura discriminatoria.
Il recesso motivato da ragioni discriminatorie (per motivi sindacali, etnico-razziali, di
orientamento sessuale, religiosi, politiche, etc.) è vietato. In questi casi, l’art. 18 trova
attuazione anche nelle aziende con meno di 15 dipendenti.

I licenziamenti collettivi (legge 223/1991) sono differenti dai licenziamenti individuali, infatti è
la stessa legge 604/1966, all’art. 11 comma 2, a dichiarare la propria estraneità al problema
dei licenziamenti collettivi per riduzione del personale.
Il problema dei licenziamenti collettivi non è stato trattato da una legge, bensì dall’autonomia
collettiva, cioè ha costituito oggetto di accordi, i contratti collettivi. Questi consentivano una
pluralità di licenziamenti per motivi organizzativi/aziendali a patto che tali licenziamenti si
sottoponessero ad una specifica procedura. Per un lungo periodo la materia è stata regolata
da accordi collettivi, i quali, per loro stessa natura, non trovano un’applicazione generalizzata
ma trovano applicazione nei confronti di chi sono iscritti alle organizzazioni sindacali
stipulanti l’accordo. La tutela, quindi, c’era ma copriva alcuni settori e non altri; copriva le
vicende di licenziamento rispetto a quelle aziende che fossero iscritte alle organizzazioni
sindacali stipulanti l’accordo. Per le altre imprese non vi era alcuna disciplina.
Ad un certo punto l’Unione Europea, negli anni ’70, in coincidenza con le prime grandi crisi di
tipo economico (di tipo petrolifero), interviene con una sua regolamentazione e lo fa in tre
volte: la prima appunto negli anni ’70, poi successivamente e poi recentemente con una terza
direttiva che è un po’ la somma delle due precedenti. L’ordinamento italiano, dopo aver avuto
due procedimenti di infrazione per mancato adempimento delle direttive, decide, solo nel
1991, di disciplinare la materia e di colmare, quindi, il vuoto legislativo, solo in parte riempito
dall’intervento dell’autonomia negoziale collettiva.
Nasce la legge 223/1991 che affronta la nozione di licenziamento collettivo. La definizione
che viene data si appoggia su due criteri (requisiti definitori): il primo criterio si può definire di
tipo numerico-temporale, il secondo di tipo qualitativo.
Il criterio numerico-temporale stabilisce che siamo di fronte ad un licenziamento collettivo
quando esso coinvolge almeno 5 lavoratori, in uno specifico arco temporale di 120 gg. Un
altro criterio numerico è rappresentato dalla consistenza numerica dell’impresa che deve
avere un’unità produttiva superiore/uguale a 15 dipendenti.
Il criterio qualitativo determina che il licenziamento deve essere caratterizzato da una
specifica causale e la legge dice che deve essere conseguenza di una riduzione o
trasformazione di attività di lavoro (causale di natura oggettiva).
Questi criteri devono ricorrere tutti contemporaneamente per richiamare la nozione di
licenziamento collettivo, se ne manca uno si ricade nella disciplina del licenziamento
individuale per motivi oggettivi.
Come si accede ad un licenziamento collettivo? In cosa consiste la disciplina applicata al
licenziamento collettivo?
Si può accedere alla procedura di licenziamento collettivo per due vie: in via diretta o in via
indiretta. Comunque la disciplina è unica. Per via diretta è quando l’imprenditore, in presenza
di una crisi aziendale di tipo irreversibile, decida di intimare una serie di licenziamenti. Per via
indiretta è quando l’imprenditore, dato che con il decorso un certo periodo le cose si
potrebbero risanare, chiede l’aiuto dello Stato attraverso un ammortizzatore sociale e cioè la
cassa integrazione straordinaria (l’INPS interviene nell’erogazione della retribuzione). Dopo
tale periodo si potrebbe avere un rientro della crisi aziendale oppure un’inevitabile espulsione
della parte lavoratrice eccedente attraverso il licenziamento collettivo che qui viene a
chiamarsi licenziamento per messa in mobilità.
In realtà le due ipotesi non sono differenti, solo che una è differita e l’altra è immediata.
Come per il licenziamento individuale, per il licenziamento collettivo la tutela non si spinge
alla valutazione nel merito delle scelte aziendali (l’ordinamento non interviene a sindacare le

Diritto del lavoro Pagina 39 di 62 a.a. 2005-2006


scelte organizzative imprenditoriali), ma c’è una procedimentalizzazione, infatti, la legge
impone all’imprenditore l’osservanza di una determinata procedura (mentre per il
licenziamento individuale la legge richiede che ci sia la possibilità di un ripescaggio).
Tale procedura si articola in due fasi: una fase sindacale necessaria e una successiva
eventuale di tipo amministrativo (da attuare solo nei casi in cui la prima fase ha dato esito
negativo). La fase sindacale consiste in una comunicazione scritta, che il datore di lavoro
deve produrre in capo alle rappresentanze sindacali aziendali (RSU o RSA), contenente la
sua volontà di “espellere” un certo numero di dipendenti, offrendo una serie di alternative al
recesso. Se l’impresa e il sindacato non si accordano sulle scelte alternative, si passa alla
seconda fase cioè quella di tipo amministrativo che si svolge dinanzi all’autorità
amministrativa (direzione provinciale del lavoro) la quale invita a sua volta le parti ad un
nuovo tentativo di conciliazione. Se anche tale tentativo fallisce, si ha la possibilità per
l’impresa della messa in mobilità dei lavoratori.
Come avviene la scelta dei 5 o più lavoratori da licenziare? I criteri di scelta sono stabiliti
dalla legge e sono: i carichi di famiglia, l’anzianità, esigenze tecnico-produttive ed
organizzative. Questi criteri sono di natura sussidiaria rispetto a quelli che possono essere
individuati dai sindacati in sede di contrattazione collettiva. Quindi, la contrattazione collettiva
diventa fonte primaria di disciplina.
Anche il licenziamento collettivo, ai fini della validità, richiede la forma scritta. Pertanto un
licenziamento privo della forma scritta o che non ha seguito correttamente tutta la procedura,
è inefficace e comporta il reintegro.

17 Maggio 2006 – prof. Vettor

I licenziamenti collettivi, prima della legge 223/1991, erano disciplinati dagli accordi quadro
(l’autonomia negoziale collettiva) ma questi erano insufficienti perché erano applicabili solo ai
soggetti iscritti alle organizzazioni stipulanti l’accordo. Gli elementi essenziali della disciplina
della 223/1991 sono: criterio numerico temporale e qualitativo. La differenza tra il
licenziamento individuale e quello collettivo sta, per quest’ultimo, sotto il profilo numerico
temporale e non causale. Le vie per accedere al licenziamento collettivo sono due: diretta ed
indiretta. La tutela, in caso di licenziamento collettivo, si articola in un procedimento: c’è una
procedimentalizzazione degli obblighi datoriali (invece, nel licenziamento con giustificato
motivo oggettivo la garanzia è rappresentata, non dal procedimento ma, dall’obbligo del
ripescaggio). La procedura si articola in due fasi: quella sindacale e quella, eventuale ,
amministrativa. Se entrambe le fasi falliscono, si ha la possibilità del datore della mobilità dei
lavoratori. I soggetti da licenziare vengono discriminati attraverso dei criteri di scelta, ossia:
carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Questi criteri
operano in via sussidiaria (assenti i criteri negoziali), infatti la determinazione dei criteri è
oggetto della contrattazione collettiva.

SECONDA PARTE: DIRITTO SINDACALE


I rinvii al diritto sindacale sono numerosi nel diritto del lavoro. Dal primo fenomeno
associativo (società di mutuo soccorso) ha origine il diritto sindacale.
I principali argomenti del diritto sindacale sono: 1) la libertà sindacale, cui si collega il tema
attività sindacale; 2) la contrattazione collettiva; 3) il diritto di sciopero. A questi temi si
collegano altrettante sfere dell’agire collettivo.
La libertà sindacale
Questo tema rinvia al fenomeno dell’associazionismo, della coalizione dei lavoratori. Un
primo “assaggio” del fenomeno associativo si è avuto con la costituzione delle società di
mutuo soccorso (uno stare assieme dei lavoratori per aiutarsi a fronte di eventi che
caratterizzano la vita umana). In varie fasi della storia, questo fenomeno era connotato da

Diritto del lavoro Pagina 40 di 62 a.a. 2005-2006


elementi di illiceità (nel ventennio fascista). Le cose cambiano in modo radicale con la
Costituzione italiana: l’art. 39 disciplina espressamente il tema della libertà sindacale. Con
ciò prende avvio anche uno sviluppo successivo della legislazione ordinaria, in funzione
attuativa/integrativa, di questo articolo 39.1. La legislazione ordinaria che si occupa della
libertà sindacale è la legge 300/1970 (statuto dei lavoratori), nel cui ambito troviamo il titolo II
“della libertà sindacale” interamente rivolto ad integrare profili giuridici connessi al tema della
libertà sindacale, ma altresì il titolo III “dell’attività sindacale”. Questa legislazione è
esplicativa di indicazioni e raccomandazioni provenienti dall’organizzazione internazionale
del lavoro (ILO).
Con la Costituzione italiana viene accolto il principio della libertà sindacale, mettendo una
pietra sul passato. Si ha una legittimazione costituzionale della libertà sindacale e,
successivamente, negli anno ’70, un’integrazione da parte del legislatore.
Art. 39.1 Cost.: “L’organizzazione sindacale è libera”
* A chi si applica? Cioè qual è l’efficacia soggettiva di questa norma? Vi è una duplicità di
opinioni: alcuni ritengono che questo articolo esplichi efficacia nei confronti dei solo
lavoratori, mentre altri considerano la norma applicabile ad entrambi i fenomeni (lavoratori e
datori).
La prima interpretazione implica che ci si chieda se esista una norma, disciplinante il
fenomeno associativo delle organizzazioni datoriali, diversa dall’art. 39. La risposta si trova
nell’art. 18.1 Cost. “I cittadini hanno libertà di associarsi liberamente, senza autorizzazione,
per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”. C’è da fare, però, la seguente
considerazione: mentre in un caso il legislatore costituente considera intrinsecamente lecita
l’organizzazione sindacale, nel caso dell’art. 18 costituisce un diritto nella misura in cui il fine
dello stesso non sia vietato ai singoli dalla legge penale. In altri termini, il fenomeno
associativo datoriale non viene affermato come valore di per sé stesso ma risente di un
vaglio di liceità, mentre per quanto concerne il fenomeno associativo della parte lavoratrice
l’art. 39.1 non subordina ad alcuna condizione l’organizzazione sindacale.
Secondo l’altra interpretazione l’art. 39 dovrebbe essere uniformemente applicato sia alle
organizzazioni datoriali, sia alle organizzazioni sindacali della parte lavoratrice.
* “L’organizzazione sindacale è libera”: perché organizzazione e non associazione o gruppo?
Perché il legislatore costituente ha cercato di scegliere una espressione massimamente
inclusiva di tutti i fenomeni associativi. L’espressione “organizzazione” è la più ampia e quindi
maggiormente adatta a rappresentare la pluralità di fenomeni associativi che si potevano
dare nella realtà.
* La parola “sindacale” all’interno dell’art. 39.1 è un’espressione che non può essere
interpretata né sulla base di un indagine lessicale, né servendosi del linguaggio
costituzionale. Per trarre il senso di questa parola, infatti, si dice che si deve guardare a dati
di esperienza (anche la nozione di sciopero è qualcosa che discende da ciò che il senso
comune in un momento storico intende essere “sciopero”). Lo studioso del diritto sindacale
Gino Giugni, dice che per trarre il significato dell’espressione “sindacale” bisogna ispirarsi a
due criteri: un criterio teleologico (o finalistico) e un criterio strutturale. In base al criterio
teleologico è sindacale un atto o un’attività diretti all’autotutela di interessi collegati a relazioni
giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro. L’attività di lavoro per cui si parla di autotutela
sindacale può anche non essere da lavoro dipendente, ma può anche essere collegata l
lavoro autonomo. E’ rilevante dichiarare un atto come attività sindacale. In base al criterio
strutturale è sindacale l’atto o l’attività che presuppone l’aggregazione dei soggetti (una
collettività). Ma attività sindacale attiene anche al singolo, dimensione individuale che non va
esclusa (promozione, proselitismo ai fini di autotutela: queste attività godono della copertura
sindacale).
* La parola “libera” all’interno dell’art. 39.1, come deve essere interpretata? Significa forse
anche che posso sottrarmi a fenomeni associativi, restare fuori da organizzazioni sindacali?

Diritto del lavoro Pagina 41 di 62 a.a. 2005-2006


Sia da parte datoriale che da parte dei lavoratori, tale libertà è da interpretarsi sia in
un’accezione positiva che negativa.
Ci sono anche altri due articoli che contengono tali concetti e precisamente sono gli artt. 14 e
15 dello statuto dei lavoratori (legge 300/1970). Art. 14: “Diritto di associazione e di libertà
sindacale. Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività
sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”. L’art. 14 richiama l’art.
39.1 Cost. per rafforzarlo, chiarendo che la libertà d’organizzazione sindacale è anche nei
luoghi di lavoro (dove potrebbe essere più fortemente repressa). Art. 15: “Atti discriminatori.
E’ nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla
condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne
parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni,
nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della
sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le
disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di
discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata
sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”. In questo articolo la lettera a) è
l’opposto della legislazione americana.

18 Maggio 2006 – avv. La Ratta

La condotta antisindacale, regolata dall’art. 28 dello statuto dei lavoratori. L’art. 28 prevede
un particolare procedimento volto alla repressione della condotta antisindacale. E’ un
procedimento molto efficace per rendere effettivo il principio di attività sindacale e il diritto di
sciopero, quindi l’art. 28 dello statuto dei lavoratori è chiaramente a tutela dei diritti sindacali
(libertà e attività) e il diritto di sciopero. E’, pertanto, una norma fondamentale.
Art. 28.1: “Repressione della condotta antisindacale. Qualora il datore di lavoro ponga in
essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività
sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni
sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il
comportamento denunziato…..”
Questo è uno strumento volto a reprimere tutti i comportamenti del datore di lavoro diretti ad
impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché il diritto di sciopero.
Leggendo questo articolo si evince che la condotta antisindacale si ha tutte quelle volte in cui
ci si trovi di fronte ad un comportamento del datore di lavoro diretto ad impedire o limitare
l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale e del diritto di sciopero. Non c’è, quindi, una
definizione specifica di “condotta antisindacale”. Quindi di tale comportamento non sono
specificate le caratteristiche strutturali, bensì l’individuazione della condotta sindacale si ha in
base all’idoneità del comportamento a ledere i beni protetti (libertà e attività sindacale e diritto
di sciopero). La condotta antisindacale, così come è regolata dall’art. 28 della legge
300/1970, non è individuata con una fattispecie specifica bensì con una fattispecie aperta.
Ogni volta che si fa un procedimento ex art. 28, il giudice non si troverà di fronte una norma
che individua già la fattispecie, ma dovrà analizzare il comportamento del datore di lavoro per
capire se lede i diritti protetti. Come mai il legislatore non ha dato una definizione di condotta
antisindacale precisa? Perché si è pensato che questo potesse essere uno strumento di
tutela migliore rispetto a quello probabilmente previsto se ci fosse stata una fattispecie
specifica descritta. Questo perché una fattispecie così aperta permette di ricomprendere
all’interno della norma stessa tutti i comportamenti, purché mirati a ledere i diritti di libertà
sindacale e di sciopero. E’ significativo il termine usato: “comportamento”, infatti ciò vuol dire
che la repressione della condotta antisindacale, nel particolare procedimento previsto dall’art.
28 dello statuto dei lavoratori, si applica a tutti i comportamenti (non solo ad atti giuridici,

Diritto del lavoro Pagina 42 di 62 a.a. 2005-2006


bensì anche a veri e propri comportamenti materiali, per esempio minacce,comportamenti
omissivi).
Nella norma c’è scritto anche (comportamenti) “diretti ad impedire…”, però la parola “diretti”
non vuol dire intenzionali. Nel senso che la condotta antisindacale non presuppone la
volontarietà dell’atto stesso ma, ai fini della qualificazione di un comportamento come
antisindacale, è sufficiente che il comportamento sia oggettivamente idoneo a ledere il bene,
anche solo in via potenziale. Il giudice deve vedere se il comportamento denunciato
potenzialmente lede o limita i diritti protetti, non deve verificare anche se il datore di lavoro
che l’ha posto in essere voleva proprio con quel comportamento ledere un diritto protetto. Il
comportamento è comunque antisindacale. Ci sono dei casi, in realtà, in cui questo cd.
animus antisindacale può assumere rilievo, e sono i cd. casi di plurioffensività: sono tutti quei
casi che possono rappresentare una lesione di diritti su più profili (nel caso di specie, sono
quei comportamenti che possono rappresentare sia una lesione dei diritti sindacali tutelati
dall’art. 28, sia possono rappresentare una lesione di un diritto del singolo lavoratore). Per
esempio, un caso di licenziamento di un lavoratore è chiaramente una lesione della tutela
giuridica del lavoratore però, tale licenziamento potrebbe essere conseguenza dell’attività
sindacale svolta dal licenziato e, quindi, tale licenziamento, in via indiretta, lede anche
l’attività del sindacato a cui era iscritto il lavoratore. Per cui questo comportamento è
plurioffensivo. Ne consegue che l’art. 28 può esser applicato anche nei casi i cui ci sia una
lesione di un interesse del singolo lavoratore, questo perché, dopo una prima interpretazione
restrittiva della norma che diceva che l’art. 28 era stato pensato solo per tutelare gli interessi
collettivi del sindacato, si è detto che (interpretazione odierna) l’art. 28 dello statuto dei
lavoratori è una norma che deve tutelare i diritti sindacali in senso ampio. Chiaramente anche
i singoli lavoratori sono titolari di diritti sindacali e quindi un comportamento del datore di
lavoro che leda il diritto del singolo lavoratore può essere considerato antisindacale anche
perché va a ledere comunque il diritto sindacale che ha quel singolo lavoratore e, per via
indiretta, quindi anche l’interesse collettivo del sindacato in senso generale.
In sostanza, l’art. 28 è esperibile anche nei casi di lesione di diritti soggettivi del singolo
lavoratore, proprio perché spesso i comportamenti antisindacali sono plurioffensivi.
In altri casi, un licenziamento disciplinare (sanzione più grave del potere disciplinare che ha il
datore di lavoro) di un lavoratore che non svolga attività sindacale potrebbe essere un
legittimo esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro. Quindi, la giurisprudenza dice
che per individuare un comportamento antisindacale è necessario trovale l’animus
antisindacale del datore di lavoro. Ciò vuol dire che è necessario provare, non solo che il
comportamento lede l’attività sindacale, ma anche che l’intento del datore di lavoro era
proprio quello di limitare l’attività sindacale. Quindi se tendenzialmente la giurisprudenza dice
che per la qualificazione della condotta antisindacale non è necessario trovare la volontà del
datore di lavoro di ledere i beni protetti, bensì basta provare che il comportamento stesso è
idoneo a ledere i beni protetti, in questi casi, invece, la giurisprudenza dice (nella maggior
parte dei casi) che bisogna trovare un qualcosa in più che è questo animus antisindacale. E’
chiaro però che è difficile riuscire a dare una prova della presenza di questo animus
antisindacale, pertanto, per questo motivo, c’è un’interpretazione un po’ meno restrittiva che
dice che anche in questi casi comunque l’elemento soggettivo non può avere una rilevanza
assoluta ai fini della qualificazione della condotta antisindacale. Questo è un po’ quel
principio che c’è nei casi di discriminazione, nel senso che il nostro ordinamento prevede una
tutela per la discriminazione, in cui la prova della discriminazione stessa la si può avere non
in via diretta ma mediante degli indizi (altrimenti non si riuscirà mai a trovarla). E’ sufficiente
che ci siano una serie di circostanze ed indizi per cui si presume che quell’atto sia
discriminatorio.
La fattispecie di comportamento antisindacale dettata dalla norma è aperta. Ma quali sono le
ipotesi individuate dalla giurisprudenza, nel corso degli anni? Nell’analizzare le ipotesi di
condotta antisindacale è necessario tenere distinti il concetto di antisindacalità di fatto e

Diritto del lavoro Pagina 43 di 62 a.a. 2005-2006


antisindacalità giuridica e quindi tutelata dall’art. 28, perché spesso vanno a confondersi,
mentre esiste nell’ordinamento il normale conflitto datore/lavoratore. Occorre distinguere tra
condotta antisindacale e conflitto. Caso per caso, sarà , quindi, necessario analizzare il caso
specifico e vedere se il datore supera la cd. antisindacalità di fatto e si pone in lesione dei
diritti sindacali previsti dal nostro ordinamento.
* Un primo tipo di ipotesi di condotta antisindacale è collegato allo svolgimento delle trattative
tra il datore di lavoro e il sindacato. Nel nostro ordinamento, in realtà, non c’è un obbligo a
trattare, per il datore di lavoro. Nel caso di trattative, come si fa a dire quando il datore di
lavoro non rispetta le prerogative sindacali? Bisogna interpretare il comportamento del datore
di lavoro in base ai criteri di buona fede e ragionevolezza (è normale che ci sia conflitto
perché questo fa i suoi interessi, ma deve rispettare il principio di buona fede). Ad oggi
comunque, gli stessi contratti collettivi prevedono le materie da trattare e delle apposite
procedure, pertanto è necessario rispettarle, per non cadere in ipotesi di comportamenti
antisindacali.
* Un’altra ipotesi di condotta antisindacale è collegata al diritto di sciopero. Si potrebbe avere
un comportamento antisindacale tutte le volte in cui il datore di lavoro si pone in lesione del
diritto di sciopero. Tuttavia, ci sono una serie di comportamenti che sono di difficile
qualificazione: le cd. forme di sciopero anomalo. Per esempio lo sciopero degli straordinari.
In questi casi il datore di lavoro ha dei diritti anche lui ed è pertanto necessario valutare, volta
per volta, come si pone in reazione a queste forme di sciopero. In realtà comunque la
materia dello sciopero, ai fini della qualificazione del comportamento antisindacale, è
semplice da interpretare perché ormai ci sono determinate procedure da seguire; rimangono
però fuori tutte quelle situazioni di sciopero anomalo, di forme di lotta non specifiche, in cui,
volta per volta, si dovrà andare a vedere il comportamento del datore di lavoro, ai fini della
qualificazione come antisindacale del comportamento stesso.
* Un’altra ipotesi di comportamento antisindacale consiste in realtà in un legittimo esercizio di
poteri previsti dall’ordinamento per il datore di lavoro (esempio precedente dell’esercizio del
potere disciplinare in senso ampio o anche del potere direttivo). Per esempio, il cambio di
mansioni ad un lavoratore che svolge attività sindacali: da un lato può essere visto come
esercizio del cd. ius variandi, quindi del potere del datore di lavoro di cambiare mansioni del
lavoratore; ma se è una punizione per l’attività sindacale, in tal caso deve essere qualificato
come antisindacale. In questi casi il discrimine l’antisindacalità giuridica e il legittimo esercizio
di un potere del datore di lavoro passa dall’accertamento dell’elemento soggettivo, cioè
dell’intento del datore di lavoro di ledere o limitare l’attività sindacale, i diritti sindacali o il
diritto di sciopero.
Negli ultimi anni si è assistito ad una specie di procedimentalizzazione del potere del datore
di lavoro, cioè ci sono state leggi che, nel tentativo di delimitare i poteri del datore di lavoro,
hanno stabilito tutta una serie di obblighi di informazione e partecipazione nei confronti del
sindacato. Ad esempio nei casi di licenziamento collettivo, ove il datore di lavoro ha la
possibilità di porre in essere più licenziamenti, rispettando però una procedura per arrivare
alla scelta dei lavoratori.
* Se il datore di lavoro non dà informazione ai sindacati di voler avviare questa procedura o
se non rispetta la procedura per identificare i lavoratori da licenziare, si ha una condotta
antisindacale. Quindi, un’altra ipotesi di condotta antisindacale può sussistere in tutti i casi in
cui il datore di lavoro non rispetta questi diritti di informazione e partecipazione aventi fonte
legale. Questa è l’interpretazione maggioritaria (non è scritto).
C’è un altro caso, molto singolare perché il legislatore prevede proprio la conseguenza
dell’antisindacalità del comportamento, che è quello del trasferimento d’azienda: c’è una
specifica norma che dice che devono essere date informazioni ai sindacati e se ciò non
succede, il comportamento è antisindacale ai sensi dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori (è
un caso di tipizzazione della fattispecie di antisindacalità, che invece, ai sensi dell’art. 28, non
ha una sua definizione specifica).

Diritto del lavoro Pagina 44 di 62 a.a. 2005-2006


I diritti di informazione e partecipazione (o di concertazione) sono oggi spesso contenuti nei
contratti collettivi.
La finalità dell’art. 28 è la repressione della condotta antisindacale, ma chi può attivare
questo procedimento? In riferimento alla legittimazione attiva, ossia quali sono i soggetti che
possono adire in giudizio con l’art. 28, la norma dice che sono gli organismi locali delle
associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. Da ciò scaturiscono i due requisiti
che devono avere le organizzazioni sindacali perché possano essere considerate legittimate
ad agire ex art. 28: 1) organismi locali; 2) associazioni sindacali nazionali. I requisiti devono
essere entrambi presenti. L’organismo locale è quella articolazione periferica di una struttura
nazionale (normalmente coincide con i sindacati provinciali di categoria). La ratio di questa
scelta sulla legittimazione attiva dell’art. 28 è collegata al fatto che si pensa che gli organi
periferici siano più vicini alle concrete situazioni di lavoro e quindi quelli che meglio possono
valutare i risvolti antisindacali della condotta del datore di lavoro che si vuole censurare.
Il primo elemento dell’organismo locale normalmente coincide con il sindacato provinciale di
categoria, questo però con riferimento alle tre sigle sindacali e cioè Cgl, Cisl e Uil, ma negli
ultimi anni si sono affacciate nuove sigle sindacali (es. Cobas) che hanno deciso di
organizzarsi in maniera diversa da quella delle tre sigle principali, quindi, a volte, non hanno
neanche una struttura provinciale di categoria, allora ci si è chiesti: qual è in questi casì
l’organismo locale che può agire in giudizio ex art. 28? Si è detto che in questi casi si fa
riferimento allo statuto dell’organizzazione stessa per individuare qual è l’organismo più
territoriale che c’è e questo avrà diritto ad agire ex art. 28.
L’altro requisito è la nazionalità la quale deve essere valutata con un criterio di effettività,
ossia ci la nazionalità ci sarà tutte quelle volte in cui il sindacato svolga attività sindacale più
o meno sull’intero territorio nazionale. La valutazione con il criterio di effettività vuol dire che
(diversamente da quanto detto per l’altro requisito) in questo caso non basta che un
sindacato si proclami come nazionale per dire che, allora, è in possesso del requisito previsto
dalla norma. Bensì deve effettivamente svolgere attività sindacale sull’intero territorio
nazionale (deve dare prova di avere una diffusione, etc.)
Per quanto riguarda, invece, la legittimazione passiva, ossia chi può esser chiamato in causa
da un’associazione sindacale avente i requisiti sopra detti, l’art. 28 stabilisce che sono i datori
di lavoro (si è di fronte ad un contratto di tipo subordinato). Il procedimento previsto dall’art.
28 è di tipo sommario, cioè deve essere, ai sensi della norma, veloce e quindi
necessariamente non può essere a cognizione completa. Ciò vuol dire che il giudice deve
decidere velocemente sulla base di un’istruttoria minima, alla fine della quale il giudice
decide. L’art. 28 addirittura dice che il procedimento dovrebbe durare solo 2 gg (anche se
non succede mai). Il procedimento finisce con un decreto motivato che può essere opposto,
in quel caso si aprirà un procedimento ordinario a cognizione piena (il giudice potrà
esercitare tutti i poteri istruttori per vedere se veramente quel comportamento è antisindacale
o meno). Se non vi è opposizione della parte che perde, il decreto è definitivo. Il giudice con il
decreto ordina la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.
Anche in questo caso la norma non è specifica, infatti non individua i provvedimenti che il
giudice deve adottare, quindi, caso per caso, il giudice, oltre ad ordinare la cessazione del
comportamento, è libero di adottare ogni tipo di provvedimento purché sia tale da eliminare
gli effetti della condotta antisindacale. Per esempio, nel caso di licenziamento di un
lavoratore per motivi antisindacali, il giudice, con decreto ex art. 28, per rimuovere gli effetti,
ad esempio, dovrà ordinare al lavoratore di rientrare al posto di lavoro. Si ha quasi un ordine
di reintegro come quello previsto dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori.
Visto che il fine del procedimento è la repressione della condotta antisindacale e, per questo,
viene dato al giudice un potere molto ampio, un requisito implicito che si deduce è che la
condotta antisindacale, perché possa essere eliminata con l’utilizzo di questo strumento,
deve essere attuale (al momento della domanda devono persistere ancora quegli effetti).

Diritto del lavoro Pagina 45 di 62 a.a. 2005-2006


23 Maggio 2006 – prof. Vettor

Libertà sindacale (rif. art. 39 Cost.): “L’organizzazione sindacale è libera”. Ci sono le due
tesi: vale solo per i lavoratori, vale anche per i datori di lavoro. Il termine
“organizzazione” è usato di proposito. Il termine “sindacale” ha una definizione
teleologica e una strutturale. Il tema “libertà” va inteso sia in senso positivo, sia in senso
negativo (sono libera di prendervi parte come no). Ciò è chiaro nell’art. 15 della legge
300/1970.
Art. 28 dello statuto dei lavoratori. Si applica quando si determina una condotta
antisindacale (della libertà sindacale, della condotta sindacale e il diritto di sciopero -
art. 40 Cost. “Diritto di sciopero”). Causale generale: licenziamento per giusta causa,
nozione di contratto a termine, licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Procedimento ex art. 28 (nel caso di licenziamento per motivi antisindacali): il sindacato
adisce il giudice del lavoro, se egli ritiene che la violazione sussista, ordina con decreto
al datore di lavoro la cessazione del comportamento illegittimo.

La contrattazione collettiva
Si era prodotta con una caratteristica che, a seguito dell’avvento della Costituzione, si è
persa. Nel periodo corporativo esisteva il sindacato unico (non c’era una dialettica) che
era un soggetto di diritto pubblico. Dopo la Costituzione, le organizzazioni sindacali sono,
invece, privatistiche. Nel primo art. delle preleggi il contratto collettivo costituiva una
fonte e quindi aveva un’efficacia erga omnes. Con la Costituzione cambia tutto. L’art. 39
Cost. definisce come bene la libertà sindacale; in questo art. si vede quali dovevano
essere le caratteristiche del contratto collettivo (39.2 obbligo di registrazione; 39.3 gli
statuti dei sindacati devono seguire il principio democratico; 39.4 il sindacato può
stipulare contratti collettivi-ciascuno in proporzione dei suoi iscritti-con efficacia erga
omnes per la categoria rappresentata. Dopo la Costituzione, i sindacati hanno queste
caratteristiche e il contratto collettivo è efficace? No. Infatti l’art. 39, dal comma 2 in
poi, non ha trovato attuazione per due motivi:
- i sindacati di allora non avevano alcuna intenzione di sottoporsi a controlli pubblici sulla
loro composizione (a causa dell’esperienza avuta nel periodo fascista). Quindi i sindacati
non sono persone giuridiche.
- la particolare opposizione alla legge relativa alla consistenza numerica da parte del
sindacato (allora Cisl) espressivo della maggioranza di governo di allora (DC).
Ciò ha ostacolato una legge attuativa dell’art. 39 che sancisce il diverso peso, in sede di
stipulazione degli accordi, in ragione della consistenza numerica.
I sindacati sono quindi associazioni private disciplinate dal Codice Civile nel titolo delle
persone.
Come è il contratto collettivo post-costituzionale? (terzo modello di contrattazione).
Quali sono le sue caratteristiche?

Diritto del lavoro Pagina 46 di 62 a.a. 2005-2006


- non è efficace erga omnes, infatti è un contratto di diritto privato non diverso, in linea
di principio, di quello stipulabile tra privati. Quindi la disciplina applicabile è la parte
delle obbligazioni sul Codice Civile.
Il contratto collettivo corporativo era un contratto tipico (rif. artt. 2070 c.c. e
seguenti, ma adesso non più applicabili).
Oggi il contratto collettivo viene definito di diritto comune.
In conclusione, i modelli sono tre: corporativo, costituzionale e post-costituzionale (o di
diritto comune).
E’ un contratto “extra ordinem” e quindi non ha efficacia erga omnes.

24 Maggio 2006 – prof. Vettor

Transizione dal modello di contrattazione costituzionale a quello di diritto comune.


L’inattuazione dell’art. 39 Cost. ha generato un vuoto di regolamentazione applicabile ai
rapporti di lavoro. Nel 1944 viene meno il sistema corporativo e, quindi, viene meno
l’apparato di regole che quel sistema aveva prodotto. L’art. 39 Cost., di conseguenza, si
pone il problema di sostituire a quel modello contrattuale un nuovo modello capace di
regolare il rapporto di lavoro. Nella fase post-costituzionale i rapporti di lavoro
risultavano privati di gran parte delle regole derivanti dal contratto corporativo, a causa
dell’inattuazione dell’art. 39. Chi ne risentiva di questa mancanza di regole? La parte
lavoratrice. Nel 1959 fu emanata la legge 741 (legge Vigorelli), la quale stabiliva
l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi che fossero stati recepiti con decreti
(l’efficacia viene data in forza di un atto di legge). In concreto, si sono andati a
registrare i contratti corporativi collettivi che venivano recepiti come decreto il quale
avrebbe poi esplicato i suoi effetti nei confronti di tutti. I giudici costituzionali hanno
constatato l’incostituzionalità di tale meccanismo nel momento in cui si è cercato di
reiterare la legge Vigorelli. Infatti, essa doveva essere solo provvisoria, svolgere la
funzione di “tappo”. Nel momento in cui il legislatore volle rendere tale meccanismo
permanente, i giudici lo dichiararono illegittimo (in violazione dell’art. 39 Cost.).
Ad oggi c’è ancora la situazione dell’inattuazione dell’art. 39 Cost. e il contratto
collettivo resta disciplinato dal diritto privato ed efficace nei confronti delle parti
stipulanti aderenti alle organizzazioni sindacali. Anche recentemente effetti
generalizzati delle contrattazioni collettive ma non più in via legislativa ma in via
d’interpretazione giudiziale. Attraverso l’interpretazione estensiva, è stato possibile
anche, in alcuni casi, applicare le pattuizioni contrattuali collettive a tutti i lavoratori
anche se non aderenti al sindacato. L’inattuazione dell’art. 39 Cost. pone il problema
dell’efficacia della contrattazione di diritto comune. Il contratto collettivo rappresenta
una contrattazione in tutela della parte lavoratrice; il contratto collettivo è destinato a
designare regole di protezione della parte lavoratrice (in quanto viene considerata in una
posizione di debolezza contrattuale, rispetto al datore di lavoro).
La disciplina ha sviluppato alcune regole costitutive il diritto sindacale, relative al teme
della derogabilità/inderogabilità delle stesse regole. Le regole sono date principalmente

Diritto del lavoro Pagina 47 di 62 a.a. 2005-2006


da: legge, contratto individuale (ad esempio, anche se non è espressamente richiamata
dalle parti, la regola di fonte legale applicabile l’obbligo di sicurezza oppure l’obbligo di
fedeltà, di diligenza, della retribuzione, etc. – parlando di contratto di lavoro
dipendente). Poi ci sono anche le pattuizioni individuali, per esempio aumento del nr. di
giorni di ferie o comunque negoziazione di qualcosa in più di quanto preveda la legge. Non
è possibile, in via di contrattazione individuale, derogare in senso negativo (peggiorativo)
proprio per la ratio protettiva del lavoratore e per l’inderogabilità in pejus.
Come si atteggia il contratto collettivo rispetto alle contrattazioni individuali? La
dottrina ha stabilito, in una prima fase, che il contratto collettivo rispondesse alle
stesse logiche del contratto privato, rispetto alla legge (deroga solo in senso
migliorativo, mai in senso peggiorativo). Questo non soltanto nei confronti della legge ma
anche nei confronti del contratto individuale. In base a quale quadro legale la dottrina ha
fatto stabilire questo principio dell’inderogabilità in pejus?
1) per la ratio stessa del diritto del lavoro (a protezione del lavoratore)
2) attingendo dalla disciplina tipizzata del contratto collettivo corporativo (art. 2060
c.c. e seguenti). Nella fattispecie, si fa riferimento all’art. 2066 c.c. “Inderogabilità”.
L’art. 2113 c.c., modificato nel 1973, prevede che accordi/rinunzie che hanno per oggetto
diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili (della legge, dei contratti
collettivi) non sono valide. Ci sono quindi norme disponibili e norme indisponibili nel
contratto collettivo.

25 Maggio 2006 – avv. La Ratta

La contrattazione collettiva è quella attività normativa di regolazione che le parti sociali


svolgono seguendo dei modelli codificati dalla prassi. Tale attività non è regolata da
alcuna legislazione, quindi le procedure si sono formate nel tempo per prassi. Le regole
pertanto non sono fisse. Non è possibile fare una classificazione dei tipi di
contrattazione collettiva.
Dopo il contratto corporativo inizia la contrattazione collettiva che si sviluppa per
accordi interconfederali (stipulati tra confederazioni dei lavoratori e dei datori, che
hanno ambito di applicazione in un determinato settore economico). I contenuti
interconfederali di questo periodo disciplinavano anche le tabelle di minima retribuzione.
Ciò, però, si scontrava con l’esigenza di differenziare le retribuzioni tra le varie
categorie interne al settore stesso.
Agli inizi degli anni ’50 inizia a svilupparsi la contrattazione a livello di categoria (anche
se rimane quella interconfederale). La contrattazione di categoria (per esempio, quella
dei metalmeccanici) inizialmente si occupa dell’aspetto retributivo. Il contratto
collettivo regola una disciplina centralizzata (valida per tutto il territorio nazionale).
Negli anni ’60 nasce la cd. contrattazione articolata: a livello interconfederale viene
prevista una disciplina con dei rimandi per alcune materie. Vi è, quindi, la disciplina
nazionale che detta le regole generali e poi l’altra per la regolazione di alcuni istituti.

Diritto del lavoro Pagina 48 di 62 a.a. 2005-2006


Alla fine degli anni ’60 questo sistema salta perché inizia a svilupparsi la contrattazione
collettiva aziendale. Questo viene definito il periodo della contrattazione non vincolata.
Spesso gli accordi nazionali intervengono solo dopo e non fanno altro che recepire ciò
che era stato accordato a livello aziendale.
Negli anni ’70 il sistema si ricentralizza e si ricompone.
Negli anni ’80 le parti sociali iniziano a cambiare atteggiamento ed il sindacato inizia a
farsi carico della crisi economica del periodo. Il sindacato cerca, quindi, di gestire la
politica economica del momento. Gestione della flessibilità. In questo sistema vengono in
luce quegli accordi definiti “triangolari” (accordi in cui il governo non fa solo da arbitro
tra i sindacati, i lavoratori e i datori di lavoro, ma diventa una parte e si assume degli
obblighi per garantire una determinata politica economica).
Negli anni ’90 viene stipulato il protocollo del 23 luglio 1993 che disciplina i redditi e,
inoltre, al suo interno, ha una parte che disciplina gli assetti contrattuali (i livelli della
contrattazione, i rapporti tra i livelli stessi e le procedure). Inoltre, si dà anche il
compito di regolare i sindacati. E’ un protocollo, quindi un accordo contrattuale e non ha
valore di legge ma è importante perché vuole risolvere i problemi. Non essendo una legge,
se viene violato, non ci sono sanzioni. Gli assetti contrattuali prevedono: il contratto
nazionale di categoria (CCNL) e, di secondo livello, la contrattazione territoriale o
aziendale. A livello nazionale, pertanto, definisce degli aspetti ed individua, poi, delle
materie di competenza della contrattazione di secondo livello. Per evitare conflitti si
definisce che tali materie siano ben distinte. Il protocollo del 23/07/93 prevede anche
la procedura per la stipula dei contratti collettivi e la loro efficacia temporale. Lo scopo
del protocollo è anche quello di evitare contrasti tra i due livelli, indicando
specificamente le materie di competenza di uno e dell’altro. Il protocollo stabilisce che il
contratto collettivo ha valore per 4 anni per la parte normativa, mentre per la parte
economica vale 2 anni. Al termine di questi anni deve essere firmato un nuovo contratto
collettivo. Il protocollo dice che le piattaforme contrattuali per il rinnovo del CCNL
devono essere presentate 3 mesi prima della scadenza. Nel mese successivo alla
scadenza le parti non possono prendere iniziative unilaterali. Subentra poi l’indennità di
vacanza contrattuale. Cosa succede se un contratto collettivo è peggiorativo rispetto a
quello precedente? Ci sono due teorie: la prima è quella dell’incorporazione per la quale la
disciplina collettiva è incorporata nel rapporto di lavoro individuale e quindi tali
condizioni rimangono lì e non possono essere modificate; la seconda ritiene che la
disciplina collettiva sia eteronoma e quindi le condizioni possono essere riviste anche in
pejus, basta che non vengano “toccati” i diritti acquisiti già entrati a far parte del
patrimonio del lavoratore. Nei contratti c’è una clausola di ultra attività che permette al
contratto scaduto di produrre effetti fino alla stipula di quello successivo (per evitare
vuoti legislativi). Ciò è contenuto anche nell’art. 2074 c.c. valevole, però, per i contratti
corporativi, pertanto per i CCNL non può essere applicato, ecco il motivo per cui viene
inserita la clausola dell’ultra attività.
Se ci sono dei contrasti tra i due livelli di contrattazione, quale prevale? Se il contratto
aziendale ha una disciplina peggiorativa rispetto a quella nazionale, quale si applica? Ci
sono differenti teorie:

Diritto del lavoro Pagina 49 di 62 a.a. 2005-2006


- attuare quella più favorevole;
- attuare il criterio gerarchico, con la prevalenza di quello nazionale su quello aziendale;
- attuare il criterio della specialità, con la prevalenza di quello che disciplina il caso
specifico (quindi, dovrebbe prevalere quello aziendale su quello nazionale)
- attuare il criterio della competenza (questo è il sistema considerato più idoneo), con
riferimento alla competenza di uno o dell’altro contratto nel disciplinare una determinata
materia. Si vanno a vedere le competenze che erano state stabilite precedentemente.
Nei casi però, per esempio, in cui la contrattazione aziendale è uscita dalle materie di
sua competenza, non si può dire che le condizioni stabilite siano nulle (perché non stiamo
parlando di leggi ma di contratti).
Per il settore pubblico, invece, il problema è risolto perché c’è un articolo del testo unico
che stabilisce che, in caso di contrasto, prevale quello nazionale (è nullo quello
territoriale).
I vari livelli di contrattazione sopra detti, riguardano il modello di lavoro subordinato
standard (a tempo indeterminato).

30 Maggio 2006 – prof. Vettor

Con la caduta dell’ordinamento corporativo si ha il ripristino della libertà sindacale e le


organizzazioni sindacali perdono i connotati pubblicistici e rientrano nell’area del diritto
privato. Di conseguenza, nella mancata attuazione dell’art. 39, la contrattazione collettiva
diviene espressione di autoregolamentazione di interessi di soggetti privati.
Con la legge Vigorelli 741/1959 - “norme transitorie per garantire minimi di trattamento
economico e normativo ai lavoratori” - (legge di delega) veniva chiesto al governo, sia, di
emanare decreti legislativi con la funzione di estendere condizioni minime di tutela, sia che si
tenesse conto, nello sviluppo di questi decreti, delle clausole contenute nelle contrattazioni.
Si chiedeva, cioè che, nella stipulazione, si tenesse conto delle clausole dei contratti collettivi
privatistici, privi del requisito della generalità, perché quella contrattazione era di tipo
privatistico. Si è detto che la legge Vigorelli ha costituito un escamotage, un modo per
aggirare il problema dell’inattuazione dell’art. 39.
Il Parlamento aveva fatto un tentativo per rendere più stabile, cioè meno provvisorio e più
permanente, il meccanismo di estensione dei contratti collettivi, emanando una legge (legge
1027/1960) che prorogava di 10 mesi i termini per il deposito dei contratti collettivi,
consentendo così ancora al Governo di emanare i decreti legislativi di estensione dei nuovi
contratti stipulati nel frattempo. La Corte Costituzionale annullò la legge 1027/1960
affermando che “anche una sola reiterazione della delega toglie alla legge i caratteri della
transitorietà e dell’eccezionalità”. Censurata la legge di proroga, la Corte salvò invece la
legittimità costituzionale della legge Vigorelli. Con questa legge il legislatore non aveva voluto
dare attuazione all’art. 39, ma si era limitato a collegare il regime dei contratti di diritto
comune con il regime dei contratti con efficacia generale, per mezzo di un regolamento
transitorio.
Il contratto collettivo che si produce prevalentemente è il contratto collettivo di diritto comune
che però non costituisce l’unica tipologia di contratto collettivo (ci sono anche altre ipotesi
contrattuali come quella post-costituzionale, corporativo, oppure ex decreti legislativi a
seguito della legge Vigorelli, etc.) che è un contratto di diritto privato, disciplinato dalle norme
del codice civile che regolano le obbligazioni.
Il principale aspetto problematico generato da questo tipo di contratto è l’efficacia. In base
alle regole civilistiche, esso vincola soltanto gli aderenti alle organizzazioni sindacali

Diritto del lavoro Pagina 50 di 62 a.a. 2005-2006


stipulanti. Questo è il problema dell’efficacia soggettiva (a chi si applica). L’altro aspetto
problematico è come questo contratto si inserisce nell’ambito delle fonti che tradizionalmente
regolano un rapporto di lavoro. Questo è il problema dell’efficacia oggettiva (come si
relazione con le altre fonti).
Il problema dell’efficacia, sia sotto l’aspetto oggettivo, sia quello soggettivo, si pone in
relazione non a tutti i contenuti caratterizzanti un contratto collettivo, ma si pone nei confronti
della sua parte/funzione normativa (parte in cui un contratto collettivo stabilisce minimi di
trattamento economico-normativo). In relazione a questa parte si discute e si sono sviluppate
regole di risoluzione del problema dell’efficacia (che non ha valore erga omnes).
Il tema dell’efficacia oggettiva può essere così sintetizzato: problema del rapporto tra
contratto collettivo e contratto individuale .Si è detto che la legge è inderogabile in pejus da
parte delle contrattazioni private individuali. Il rapporto tra contratto collettivo e contratto
individuale è regolato dal meccanismo dell’inderogabilità in pejus; ciò significa che il contratto
individuale non può derogare in senso peggiorativo al contratto collettivo (ma solo in senso
migliorativo). Naturalmente ciò è vero nella misura in cui alle parti stipulanti il singolo
contratto individuale sia applicabile quel contratto collettivo. Questa questione attiene al
problema dell’efficacia soggettiva.
Nel contratto collettivo corporativo, che era un contratto tipico, infatti aveva una sua specifica
disciplina, l’inderogabilità in pejus era disciplinata dall’art. 2077 c.c. Nel contratto collettivo
post-corporativo c’è una regola che ci indichi con certezza questo meccanismo? Esiste, ma
questa regola è uscita dopo che la dottrina e la giurisprudenza avevano cercato di dare una
soluzione interpretativa a questo problema, dato che era assente una specifica disciplina.
Qual è la regola che ha definito in modo chiaro questa relazione dell’inderogabilità in
pejus/derogabilità in melius? L’art. 2113 c.c. il quale dice che il contratto individuale non può
derogare al contratto collettivo nella misura in cui esso stabilisce norme
inderogabili/imperative/non disponibili; cioè nelle parti in cui il contratto collettivo stabilisce
regole inerenti al trattamento economico-normativo del lavoratore.
Prima che si arrivasse alla soluzione del problema attraverso l’art. 2113 (nato a seguito della
riforma della processo del lavoro, nel 1973, legge 503), la dottrina aveva cercato di spiegare
l’inderogabilità in pejus in due possibili modi: richiamandosi ai generali principi del diritto
civile, oppure valorizzando dati normativi estranei ai principi civilistici.
Il primo modo risolutivo è riconducibile allo studioso Santoro Passarelli che risolve il
problema attraverso la seguente successione di ragionamenti: l’autonomia collettiva
negoziale di un soggetto rappresentativo di un insieme di persone è espressione di un
interesse collettivo, pertanto tale interesse deve prevalere sull’interesse individuale. Egli si
appoggia al codice civile e in particolare alle norme sul mandato irrevocabile (artt. 1723 e
1726 c.c.)
Il secondo modo risolutivo, appoggiato da altri studiosi, si basa su dati normativi estranei al
codice civile: la prevalenza del contratto collettivo su quello individuale va ricercata nell’atto
di adesione di un singolo soggetto al sindacato.
Entrambi le tesi però non riuscirono a spiegare il carattere reale dell’inderogabilità in pejus,
ossia a spiegare la sostituzione automatica della disposizione contenuta nella contrattazione
peggiorativa. Per questo motivo si sono formate ulteriori tesi per spiegare, appunto, il
carattere reale dell’inderogabilità e qui si possono annoverare quelle tesi che si sono
appoggiate all’art. 39 Cost. e cioè la supremazia gerarchica dell’autonomia collettiva su
quella individuale. Oppure la tesi, molto diffusa sino agli anni ’70, di coloro hanno richiamato
l’art. 2077 c.c. ma i contrari hanno sostenuto che tale articolo non era applicabile in quanto
riferita al contratto collettivo corporativo.
Successivamente, a seguito della riforma del ’73, si addivenuti all’art. 2113 c.c. che sancisce
la regola dell’inderogabilità in pejus di tutte le norme di carattere imperativo.
Il tema dell’efficacia soggettiva.

Diritto del lavoro Pagina 51 di 62 a.a. 2005-2006


Le regole codicistiche prevedrebbero l’estensione del contratto collettivo soltanto nei
confronti di chi aderisce all’organizzazione sindacale stipulante quel contratto, tuttavia si è
cercato di trovare vie alternative al fine di produrre un’estensione quanto più ampia di
applicazione del contratto.
Le estensioni che si sono prodotte sono derivate in via dottrinale/giurisprudenziale
(interpretativa) oppure in via legislativa.
Per le estensioni in via giurisprudenziale si distinguono due situazioni:
a) caso in cui il datore di lavoro aderisce all’organizzazione sindacale stipulante
b) caso in cui il datore di lavoro non è iscritto ad alcuna organizzazione sindacale stipulante il
contratto
a) laddove il datore di lavoro sia iscritto all’organizzazione sindacale stipulante, egli dovrà
applicare il contratto collettivo non solo nei confronti dei lavoratori iscritti, ma anche nei
confronti di coloro che non siano iscritti. Questo perché si ritiene che sia interesse del datore
di lavoro avere una uniformità di trattamenti economico-normativi.
In questo caso si avrebbe quindi un’estensione automatica a tutti i lavoratori.
b) per il caso in cui il datore di lavoro non sia iscritto ad alcuna organizzazione sindacale
stipulante, si sono escogitate varie soluzioni per favorire l’applicazione del contratto di lavoro.
Ci sono tre possibili vie di soluzione:
- rinvio esplicito: nel momento in cui si ha, in un contratto individuale, un richiamo esplicito ad
un contratto collettivo vigente o da stipularsi in un determinato periodo, si ha l’applicazione di
quel contratto collettivo. Si ha quindi un’applicazione automatica, pur essendo assente il
requisito dell’adesione.
- richiamo per fatti concludenti: anche dove non si abbia alcun richiamo esplicito, ma si abbia
un comportamento concludente conforme al contratto collettivo, si evidenzierebbe la volontà
di dar luogo a quel contratto collettivo
- applicazione del combinato disposto: meccanismo che si regge sull’applicazione del
combinato disposto art. 36 Cost. e art. 2099² c.c.

31 Maggio 2006 – prof. Vettor

Il contratto collettivo = contratto di diritto privato (nel sistema post-corporativo, post-


costituzionale). Il contratto collettivo post-corporativo non è l’unico possibile, infatti, per
esempio, vi sono: il modello corporativo (art. 39 comma 2 e 3 – 1° comma: “l’organizzazione
sindacale è libera”, gli altri commi parlano, invece, delle condizioni che deve avere il
contratto collettivo); il modello ex decreto legislativo a seguito della legge Vigorelli 741/1959
(questa legge chiedeva al governo di emanare decreti legislativi che permettessero di
riconoscere minimi di trattamento economico-normativi, inoltre la legge di delega prevedeva
anche che si tenesse conto di quelle clausole contenute nei contratti collettivi che però non si
potevano generalizzare a causa dell’inattuazione dell’art. 39). Successivamente si è cercato
di rendere permanente questo meccanismo, attraverso la legge 1027/1960, ma la Corte
Costituzionale ha stabilito l’illegittimità della proroga, in quanto il meccanismo della legge
Vigorelli doveva essere transitorio, di tamponamento di una situazione di vuoto regolativo dei
rapporti di lavoro in forza del venir meno del sistema corporativo.
Si è parlato del problema dell’efficacia soggettiva e oggettiva.Visto che questo contratto è di
diritto comune e quindi vincolerebbe soltanto le parti aderenti alle organizzazioni sindacali
stipulanti, allora ci si è posti il problema se sia possibile estendere l’applicazione anche a chi
non ha aderito (questo è il problema dell’efficacia soggettiva). Mentre l’aspetto dell’efficacia
oggettiva si chiede quale sia la collocazione del contratto collettivo rispetto alle fonti
concorrenti la regolazione del rapporto di lavoro, in primis il contratto individuale.
Il problema dell’efficacia soggettiva/oggettiva si pone solo per la parte del contratto relativa
alla funzione normativa.

Diritto del lavoro Pagina 52 di 62 a.a. 2005-2006


Per quanto riguarda l’efficacia oggettiva, la soluzione è stata trovata con la regola
dell’inderogabilità in pejus o derogabilità in melius. Questo è un meccanismo di natura reale,
ciò significa che, nel caso in cui il contratto individuale derogasse in pejus al contratto
collettivo, automaticamente si applicherebbe il contratto collettivo.
Ci sono due teorie che hanno cercato di spiegare il meccanismo dell’inderogabilità in pejus.
La prima richiamava il diritto civile sostenendo la prevalenza del contratto collettivo su quello
individuale in funzione della motivazione per cui il contratto collettivo esprime l’interesse
collettivo che pertanto deve prevalere sull’interesse individuale. Questa teoria si richiamava
alle norme del mandato irrevocabile (artt. 1723² e 1726 c.c.).
La seconda teoria si appoggiava ad aspetti estranei al codice civile e, seconda essa, la
prevalenza del contratto collettivo su quello individuale era giustificata dall’atto di adesione
del singolo al sindacato (quell’atto è sufficiente a motivare la prevalenza della norma.
Tuttavia queste due teorie non guardavano al carattere reale, per cui si sono create nuove
tesi, alcune in relazione all’art. 39 e altre all’art. 2077 c.c. che regolava la contrattazione
corporativa. Successivamente, finalmente, si è arrivati ad una soluzione legislativa, con l’art.
2113 c.c., che sancisce l’inderogabilità in pejus delle norme del contratto collettivo di
carattere imperativo.
Per quanto riguarda l’efficacia soggettiva, le soluzioni interpretative di tipo dottrinale sono
state le seguenti. Se il datore di lavoro è iscritto si ha un’estensione automatica del contratto
collettivo anche ai lavoratori non iscritti. Se il datore di lavoro non è iscritto, ci sono diverse
soluzioni e cioè: richiamo esplicito, comportamento concludente, azione del combinato
disposto dell’art. 36 Cost. e art. 2099 c.c.

Sempre in riferimento all’estensione dell’efficacia soggettiva, vi sono state soluzioni


interpretative anche di tipo giurisprudenziale. L’estensione dei trattamenti economici si è
potuta effettuare attraverso l’uso combinato di due norme, una costituzionale (art. 36 Cost.) e
una codicistica (art. 2099²). Questa operazione parte dal presupposto secondo cui l’art. 36
Cost. avrebbe un’immediata precettività, cioè dice l’art. 36 Cost., nella parte in cui riconosce
al lavoratore un trattamento economico proporzionato e sufficiente alla quantità e qualità del
lavoro e tale da consentire una vita dignitosa per sé e per il proprio nucleo famigliare,
costituisce un diritto soggettivo perfetto che è immediatamente azionabile da parte del
lavoratore.
Nel momento in cui un lavoratore si rivolgeva al giudice perché adduceva l’insufficiente o
mancato riconoscimento del diritto retributivo nei termini previsti dall’art. 36 Cost., i giudici
consideravano nulla (come inesistente) quella clausola retributiva in contrasto con la norma
costituzionale (in base al concetto dell’immediata precettività dell’art. 36 Cost.). Il venir meno
di una clausola sul punto, determinava la necessità di un’integrazione, cioè che qualcun altro
integrasse la regola mancante perché considerata nulla. Sotto questo profilo veniva in
soccorso l’art. 2099² c.c. ai sensi del quale la retribuzione deve essere determinata dal
giudice (la regola decostruita deve essere ricostruita dal giudice) il quale può ricostruirla,
come previsto dall’art. 2099², secondo equità. L’equità è espressione del senso di giustizia
del giudice ma, onde evitare che questo senso di giustizia defili entro pericolosi soggettivismi,
egli deve, nella definizione del livello retributivo, richiamarsi a quanto definito sul punto dalla
contrattazione collettiva di settore (ove erano indicati i minimi retributivi). Si è trovato, quindi,
un modo per aggirare il problema dell’efficacia soggettiva e questo modo è stata la tecnica
più efficace escogitata a livello giurisprudenziale.
Le soluzioni dell’estensione dell’efficacia soggettiva, delle quali si è occupato il legislatore,
sono, invece, le seguenti.
Per stimolare l’applicazione di un contratto collettivo, una tecnica molto utilizzata è stata
quella di riconoscere ai datori di lavoro agevolazioni/benefici perlopiù fiscali e contributivi,
nella misura in cui essi applicavano condizioni uniformi a quanto veniva stabilito nei contratti

Diritto del lavoro Pagina 53 di 62 a.a. 2005-2006


collettivi. Il prototipo di questa tecnica è l’art. 36 dello statuto dei lavoratori intitolato “obblighi
dei titolari di benefici dallo Stato e degli appaltatori di opere pubbliche”.
Un’altra tecnica che stimola l’estensione dell’efficacia soggettiva, è quello che si trova nella
legge che disciplina il trattamento dei lavoratori straneri (cittadini extra-comunitari) e cioè la
legge testo unico D.Lgs. 286/1998 sulla quale, nel 2002, è intervenuta una riforma cd. Bossi-
Fini. Nel D.Lgs. 286/1998 si trova l’art. 22³ (rimasto immodificato dalla riforma) nel quale si
dice che il trattamento contrattuale dei lavoratori stranieri non dovrà essere differente da
quello riconosciuto ai lavoratori italiani.

Nota a parte: nel sistema della contrattazione collettiva di diritto comune, la categoria perde
della sua pregnanza. Nella misura in cui io sono vincolata in quanto aderisco
all’organizzazione sindacale stipulante, è nella mia libertà sindacale aderire al sindacato che
più mi aggrada (e lo stesso vale per il datore di lavoro). Il datore di lavoro, per esempio, può
scegliere di aderire o di rinviare per via esplicita o per fatti concludenti, a contratti collettivi
che non asseriscono il mio settore merceologico. Si potrebbero avere delle segretarie che
hanno come contratto collettivo applicabile quello dei metalmeccanici. Quindi, nel sistema del
contratto collettivo di diritto comune, vale l’adesione all’organizzazione sindacale stipulante,
non vale la categoria.

Esiste il fenomeno, molto esteso, dei contratti collettivi espressamente previsti dalla legge,
che è questione diversa da quella dell’estensione legislativa del contratto collettivo. I contratti
collettivi espressamente previsti dalla legge sono contratti che fuoriescono, assumono tratti di
specialità rispetto alla generica categoria del contratto collettivo di diritto comune. Ciò perché
questi contratti espressamente previsti dalla legge non costituiscono una mera/spontanea
espressione dell’autoregolamentazione di interessi privati, ma sono contratti, espressamente
previsti dalla legge, chiamati a svolgere una funzione di tipo integrativo e, in certi casi,
addirittura sostitutiva, della stessa legge. Questo perché il legislatore ritiene che per alcuni
profili di disciplina sia meglio una regola collettiva, cioè che la mediazione collettiva riesca
meglio a rappresentare gli interessi contrapposti, di quanto non riesca a fare il legislatore. Lo
considera uno strumento migliore, più adeguato (infatti molto spesso il legislatore conferisce
una disciplina di cornice e per molti profili di disciplina rinvia alla mediazione collettiva). Le
tecniche utilizzate sotto tale profilo sono diverse, ma essenzialmente due:
1) la norma legale pone in essere una regola di massima, attribuendo al contratto collettivo il
compito di integrare questa regola. Per esempio, nel D.Lgs. 61/2000 (successivamente
modificato) relativo al part-time;
2) la norma legale pone in essere una regola suppletiva, da applicare quando la materia non
è stata regolata da un contratto collettivo. Per esempio, nei criteri di scelta per i licenziamenti
collettivi, indicati dalla legge in via suppletiva (art. 5 della legge 223/1991).
I contratti collettivi espressamente previsti dalla legge godono di un trattamento diverso,
rispetto ai contratti collettivi di diritto comune, sotto due principali profili: a) dei soggetti
stipulanti; b) dell’efficacia.
a) i soggetti della parte lavoratrice che possono sottoscrivere il contratto collettivo, in
particolare in relazione ai soggetti rappresentativi della parte lavoratrice, sono qualificati o
nominati e sono essenzialmente le rappresentanze sindacali aziendali rsa, oppure soggetti
maggiormente rappresentativi a livello comparativo. In altri termini, questo contratto collettivo
gode di un trattamento speciale nella misura in cui la parte lavoratrice sottoscrive tale
contratto in una forma rappresentativa qualificata. Tali soggetti sono individuati dalla legge.
b) hanno efficacia generale nella misura in cui, anche implicitamente, la legge riconosce al
contratto tale efficacia. Però sorge il dubbio di illegittimità costituzionale: ma come è possibile
estendere l’efficacia aggirando l’art. 39? La dottrina è arrivata a tale conclusione: nella
misura in cui questo contratto, proprio in quanto ad esso è attribuita una funzione

Diritto del lavoro Pagina 54 di 62 a.a. 2005-2006


integrativa/suppletiva, collabora alla realizzazione della volontà legislativa, allora non si
ritiene di non essere in presenza di una violazione dell’art. 39, commi 2, 3, 4.
Questi tipi di contratto, quindi, derogano la regola della non efficacia generale.

01 Giugno 2006 – prof. Vettor

Le rappresentanze sindacali. Il fenomeno delle rappresentanze sindacali, espressive della


parte lavoratrice, che godono di una particolare attenzione da parte del legislatore e ciò
proprio in ragione di alcuni requisiti, che tali rappresentanze devono avere, esplicative della
loro rappresentatività. Il legislatore sostiene queste rappresentanze attraverso il
riconoscimento dei cd. diritti sindacali. La cd. legislazione di sostegno trova sede nel titolo III
dello statuto dei lavoratori, intitolato “Dell’attività sindacale”, che è una parte di necessario
compendio al titolo II “Della libertà sindacale”, cioè nella misura in cui la legislazione
riconosce la libertà sindacale, insieme costruisce delle regole a sostegno del fenomeno
associativo, affinché esso possa estrinsecarsi con azioni materiali, nella misura in cui questo
associazionismo assume determinate caratteristiche di rappresentatività.
Nell’art. 20 e seguenti troviamo elencati i cd. diritti sindacali (referendum, permessi, etc.). Il
fenomeno associativo destinatario dei diritti sindacali è quello visualizzato nell’art. 19 dello
statuto dei lavoratori, che è l’articolo di apertura del titolo III.
Il riconoscimento dei diritti sindacali opererà in tutte le imprese o solo in quelle con
determinate caratteristiche? Ci sono casi in cui il titolo III non trova attuazione? Sì, laddove
l’impresa non raggiunga le 15 unità. Quindi, i diritti sindacali non vengono riconosciuti nei
casi in cui l’impresa non raggiunge una certa soglia dimensionale. Tali diritti sindacali
presuppongono una selezione di soggetti, cioè vengono presi in considerazione solo quelli di
cui all’art. 19 “Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali”.
Il problema da porsi è: perché il legislatore, tra i possibili soggetti fruitori dei diritti sindacali,
ne ha selezionati solo alcuni che diverranno gli unici destinatari di tali diritti? Il legislatore si è
posto il problema di selezione perché i diritti sindacali, nella maggior parte dei casi,
presuppongono un onere (permessi retribuiti, etc.) per il datore di lavoro. E quindi è
necessaria l’individuazione di un soggetto con un buon peso rappresentativo (proprio in
quanto è più rappresentativo di altri giustifica e motiva l’aggravio che il datore di lavoro dovrà
sostenere). Pertanto non tutte le possibili aggregazioni sindacali saranno fruitici dei diritti
sindacali, ma solo quelle menzionate all’art. 19 legge 300/1970.
Art. 19.1: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei
lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito: [a) delle associazioni aderenti alle
confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale]; b) delle associazioni
sindacali, [non affiliate alle predette confederazioni], che siano firmatarie di contratti collettivi
[nazionali o provinciali] di lavoro applicati nell’unità produttiva”.
Le parti indicate nelle parentesi [ ] sono state abrogate a seguito del referendum popolare
del 1995.
Quindi, dagli anni ’70 a prima del 1995, i soggetti destinatari erano quelle rappresentanze
costituite ad iniziativa dei lavoratori nell’ambito delle associazioni aderenti alle confederazioni
maggiormente rappresentative sul piano nazionale. In altri termini il legislatore consentiva le
rappresentanze aziendali purché fossero espressive nella misura in cui erano espressive
delle confederazioni maggiormente rappresentative e cioè fossero espressive del
sindacalismo storico italiano (Cgl, Cisl e Uil). Questa è una norma che rinvia al criterio della
maggior rappresentatività, la cui nozione giuridica era data dalla consistenza numerica, dalla
presenza della confederazione sul territorio nazionale, dal concetto di intercategorialità, dalla
consistente attività contrattuale. Queste caratteristiche costituivano l’ossatura del
sindacalismo storico italiano. La parte a) dell’art. 19.1 non è più vigente perché abrogata dal
referendum del 1995. La lettera b) nella stesura originaria diceva che era possibile costituire

Diritto del lavoro Pagina 55 di 62 a.a. 2005-2006


rappresentanze sindacali aziendali anche nell’ambito di associazioni, ancorché non affiliate
alle predette confederazioni, che fossero firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali,
applicati all’unità produttiva. In altri termini, questa seconda possibilità di costituzione della
rappresentanza, era data in presenza di associazioni che, pur non affiliate alle predette,
fossero comunque capaci di stipulare contratti collettivi di livello nazionale o provinciale,
applicati nell’unità produttiva. Nell’architettura dell’art. 19, ante referendum del 1995, era
previsto che si premiasse anche il fenomeno del sindacalismo autonomo (non espressivo
delle tre confederazioni Cgl, Cisl e Uil). A quale filtro selettivo fa riferimento in questa norma il
legislatore per individuare i soggetti del sindacalismo autonomo? Non vale il criterio della
maggior rappresentatività garante della rappresentatività della rappresentanza aziendale, ma
la garanzia che il soggetto sia effettivamente rappresentativo (e perciò fruitore dei diritti
sindacali e capace di imporre al datore di lavoro degli oneri/costi) è data dal fatto che risulti
una sua attività contrattuale (nella legislazione originaria, a livello nazionale o provinciale) e
che sia applicata nell’unità produttiva. Questa norma, in questa configurazione, non esiste
più perché è stata riformata dal referendum del 1995, durante il quale sono state poste le
domande se si volesse abrogare integralmente l’art. 19 oppure se si volesse integrare parte
di esso (ha prevalso la seconda soluzione). Ma perché qualcuno ha voluto che l’art. 19
scomparisse? Perché le organizzazioni sindacali di formazione recente non erano
rappresentate e quindi non avevano i requisiti dell’art. 19 e dunque non avevano le
caratteristiche per godere dei diritti sindacali.
Chi ha diritto ai diritti sindacali oggi? (l’art. 19 applicabile oggi è quello senza i contenuti nelle
parentesi quadre) pertanto l’area dei soggetti si è ampliata. Il filtro selettivo è di natura
concreta cioè si misura sulla concreta attività negoziale. Il venir meno di [nazionali o
provinciali] ha conseguenze di grande rilievo, infatti è sufficiente che l’associazione sindacale
sia firmataria di un solo contratto aziendale in nome di un solo piccolo gruppo di lavoratori,
per godere dei diritti sindacali.
Si ha quindi il prodursi di un fenomeno rappresentativo non più misurabile a livello nazionale
o provinciale ma addirittura misurabile in base alla stipulazione di contratti a livello aziendale
o di altro tipo ancora.
Chi sono le rappresentanze sindacali aziendali? Chi sono i soggetti titolari dei diritti
sindacali? Quella organizzazione/associazione che ha stipulato contratti collettivi applicati
nell’unità produttiva.
E’ necessario ricordare, però, i limiti di applicazione del titolo III, per cui si può avere una
rappresentanza senza diritti sindacali, sotto i 15 dipendenti. E’ possibile costituire una
rappresentanza sindacale anche sotto i 15 dipendenti? Certamente sì, altrimenti si avrebbe
la violazione del principio della libertà sindacale. Tali rappresentanze, al di sotto dei 15
dipendenti, avranno diritto a godere dei diritti sindacali? No, perché la legge li prevede al di
sopra dei 15 dipendenti, tuttavia il datore di lavoro potrebbe concederglieli (ma essi non
possono pretenderli).

06 Giugno 2006 – prof. Vettor

Le rappresentanze sindacali aziendali (abbr. RSA) sono rappresentanze qualificate perché


così risulta dall’art. 19 che apre il titolo III della legge 300/1970, nella quale si trovano i
requisiti di qualificazione delle rappresentanze sindacali aziendali. Questa norma è stata
modificata dal referendum del 1995.

Il legislatore degli anni ’70 non si è limitato a ribadire (“ribadire” perché è un principio scolpito
nell’art. 39.1 Cost.) il principio della libertà sindacale ma ha anche cercato di trovare un
sistema normativo capace di sostenere in concreto l’esercizio della libertà sindacale (non è
sufficiente introdurre obblighi per il datore di lavoro). E’ necessario introdurre un apparato

Diritto del lavoro Pagina 56 di 62 a.a. 2005-2006


normativo a sostegno del concreto libero esercizio della libertà sindacale. Ed è ciò che il
legislatore ha fatto negli anni ’70 con il titolo III dello statuto dei lavoratori. In questa parte
della legislazione troviamo i cd. diritti sindacali. I diritti sindacali, come detto, non sono
riconoscibili a qualsivoglia organizzazione con fini di autotutela, ma nei confronti della
rappresentanze sindacali ex art. 19. La limitazione imposta è legata al fatto che i diritti
sindacali implicano dei costi e comunque un comportamento collaborativo da parte del datore
di lavoro. Il filtro selettivo è rappresentato dall’art. 19.
Come operano in concreto questi diritti sindacali?
Alcuni diritti sono contenuti nell’art. 20 “Assemblea”, art. 25 “Diritto di affissione”, artt. 23-24
“Permessi retribuiti” e “Permessi non retribuiti”.
Art. 20.1: “Assemblea. I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui
prestano la loro opera, fuori dall’orario di lavoro, nonché durante l’orario di lavoro, nei limiti di
dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni
possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva”. SI parla del diritto di riunirsi in
assemblea: non si parla di un generico diritto di riunione ma di uno specifico modo di riunirsi
cioè in assemblea. Infatti il semplice diritto di riunione attiene al diritto alla libera espressione
del proprio pensiero che è un diritto che dovrebbe essere già compreso dal primo art. dello
statuto dei lavoratori, nel quale, appunto, viene ribadito il principio costituzionale della libera
espressione del proprio pensiero. Da questa norma appare evidente la collaborazione che
viene richiesta al datore di lavoro ai fini della concreta fruizione di questo diritto; proprio per
questo l’art. 20 stabilisce dei limiti agli oneri del datore di lavoro. Innanzitutto il diritto di
riunione si esplica in via principale fuori dall’orario di lavoro, oppure durante l’orario di lavoro
però con il limite invalicabile in senso peggiorativo delle 10 ore annue. Per avere la
retribuzione per queste ore il lavoratore deve necessariamente partecipare alle riunioni (la
ratio della norma è di incentivare la partecipazione alle riunioni).
Art. 20.2: “Le riunioni che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi
sono indette, singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali
nell’unità produttiva, con ordine del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e
secondo l’ordine di precedenza delle convocazioni, comunicate al datore di lavoro”. Un altro
limite costitutivo al diritto di assemblea è che ci vuole una convocazione ad opera delle RSA
(può essere esercitata singolarmente o congiuntamente), tale convocazione deve essere
comunicata al datore di lavoro. L’oggetto della riunione in assemblea deve concernere
materie di interesse sindacale e del lavoro. Quindi la giurisprudenza ha teso a sottolineare
l’ampiezza di significati ricompresi in questa espressione. Si è anche detto in via
giurisprudenziale che le questioni sulle quali convocare legittimamente un’assemblea
potranno anche concernere temi più ampi rispetto alle problematiche sindacali della specifica
azienda.
Art. 20.3: “Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti
esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale”. Quindi alle
riunioni possono partecipare anche dirigenti esterni del sindacato cui fa capo la RSA, a
condizione che venga dato il preavviso al datore di lavoro. Per quanto concerne il datore di
lavoro, egli non può partecipare (salvo naturalmente che sia stato invitato).
Art. 20.4: “Ulteriori modalità per l’esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite
dai contratti collettivi di lavoro, anche aziendali”. La contrattazione può modificare/introdurre
aspetti di regolamentazione inerenti la materia, con il limite della inderogabilità in pejus (per
esempio, un accordo in cui il limite delle dieci ore sia ridotto, sarebbe contro la legge).
Art. 25: “Diritto di affissione. Le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere,
su appositi spazi, che il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i
lavoratori all’interno dell’unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di
interesse sindacale e del lavoro”. Il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre appositi spazi
in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all’interno dell’unità produttiva. E’ un diritto che limita i
poteri datoriali. I materiali da affiggere devono essere in relazione alle materie di interesse

Diritto del lavoro Pagina 57 di 62 a.a. 2005-2006


sindacale e del lavoro e la loro pertinenza a tali materie è piuttosto insindacabile (è una
valutazione della rappresentanza a ritenere tali documenti inerenti alle materie del lavoro). Il
concetto di affissione si è evoluto anche in forza della tecnologia e dell’informatica (possono
esserci bacheche virtuali, soprattutto nelle grandi imprese).
Artt. 23-24: “Permessi retribuiti” e “Permessi non retribuiti”. Con questi si ha un’ulteriore
compressione del potere datoriale. Queste due norme si occupano di regolare il diritto di
assentarsi dal lavoro per svolgere attività sindacali. Il numero dei permessi è variabile in
funzione della consistenza numerica di cui è espressione la RSA. Di tali permessi possono
usufruire i dirigenti delle RSA (il dirigente sarà colui che, secondo l’art. 36 c.c. –in tema di
associazioni non riconosciute-, è stato nominato secondo le procedure previste dallo statuto
dell’organizzazione e tale nome viene comunicato al datore di lavoro).
Nell’ambito dei permessi retribuiti (art. 23) per usufruirne è necessaria una comunicazione in
forma scritta fornita, al datore di lavoro, almeno 24 ore prima. Assolta questa procedura, il
datore di lavoro non si può opporre alla fruizione di tale diritto che è un diritto potestativo (si
assiste quindi alla messa in secondo piano dell’esigenza organizzativa/produttiva del datore
di lavoro).
Nell’ambito dei permessi non retribuiti (art. 24), la norma fa riferimento all’oggetto di questi
permessi (partecipazione a trattative sindacali o a congressi o a convegni di natura
sindacale). Anche qui deve avvenire una comunicazione scritta ma 3 giorni prima e anche
qui, assolta questa procedura, ci deve essere la fruizione del permesso.
Sotto il profilo della causale del permesso retribuito e del permesso non retribuito, i confini
sono assai labili.

07 Giugno 2006 – prof. Vettor

I dirigenti sindacali, proprio per la loro posizione, godono di ulteriori benefici e vantaggi, al
fine di preservarne l’attività e la funzione sindacale. Il legislatore, infatti, nei confronti di tali
soggetti ha ulteriormente articolato la tutela, prevedendo regole specifiche (solo ad essi
applicabili) in relazione a licenziamenti arbitrari e/o discriminatori. Stabilisce, inoltre, regole
peculiari anche per quanto concerne i trasferimenti.
E’ da notare che la disciplina protettiva di tali soggetti perdura anche dopo la cessazione
formale dell’incarico, infatti essa perdura fino all’anno successivo la cessazione dell’incarico.
Quanti possono beneficiare di queste tutele? Si è formata l’opinione prevalente per cui il
numero dei soggetti beneficiari è stabilito dall’art. 23 (relativo ai permessi) ed è in relazione,
quindi, alla consistenza dell’impresa.
Per quanto concerne l’ipotesi di licenziamento arbitrario, a venire in considerazione una
norma che è al di fuori del titolo III e cioè l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, nei commi dal 7°
al 10°. L’art. 18 dello statuto dei lavoratori disciplina la tutela reale (disciplina sanzionatoria in
relazione ai licenziamenti sopra le soglie definite dalla legge 604/1966. Nei commi dal
settimo al decimo troviamo una specifica tutela riconosciuta solo nei confronti del dirigente
sindacale che sia stato licenziato, nella misura in cui si sospetta che il suo licenziamento sia
collegato a motivi discriminatori, proprio in ragione dell’attività svolta da questo soggetto. E’
una norma che configura una specifica procedura giudiziaria: si apre una vertenza e la
norma consente la produzione di un’istanza rivolta al giudice. L’istanza dovrà essere fatta
congiuntamente dal lavoratore dirigente sindacale e dal sindacato cui conferisce mandato,
adducendo la natura arbitraria del licenziamento. Ricevuta l’istanza il giudice può, in ogni
stato e grado del giudizio di merito, disporre con ordinanza (quindi, ancor prima che si vada a
sentenza) la più immediata reintegrazione del lavoratore e ciò appunto lo fa laddove ritenga
irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova in quanto alla giustificazione del recesso forniti
dal datore di lavoro. In base al comma decimo di questo art. 18, c’è un altro elemento di
anomalia rispetto alla disciplina prevista in generale per i licenziamenti individuali, data dal

Diritto del lavoro Pagina 58 di 62 a.a. 2005-2006


fatto che se il datore di lavoro non ottempera all’ordine di reintegrazione disposto con
ordinanza, oltre alle retribuzioni dovute al lavoratore, dovrà versare una somma pari a queste
ultime al fondo adeguamento pensioni.
Per quanto riguarda l’ipotesi del trasferimento, il legislatore dedica l’art. 22 dello statuto dei
lavoratori, il quale stabilisce che i dirigenti sindacali possono essere trasferiti, dall’unità
produttiva nella quale essi prestano la loro opera, solo previo nulla osta delle associazioni
sindacali cui appartengono (quindi, di un soggetto esterno). E’ da sottolineare che questa
disposizione non concerne i trasferimenti nell’ambito della stessa unità produttiva.
L’art. 26 riguarda l’attività di proselitismo e i contributi sindacali. S’intende di fare propaganda
orale o scritta ed autorizza anche la raccolta di contributi in favore delle proprie
organizzazioni sindacali. Il diritto riconosciuto ai lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro.
Entro quali limiti? La norma dice “senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività
aziendale”. Questa disposizione costituisce la naturale conseguenza di quanto stabilito
nell’art. 1 dello statuto dei lavoratori (libera espressione del proprio pensiero) ed è inoltre
strettamente collegata all’art. 14 dello statuto dei lavoratori (“Diritto di associazione e di
libertà sindacale”).
Si è posta in giurisprudenza la questione a come interpretare correttamente il limite entro cui
è legittimo il proselitismo: i giudici hanno considerato questo limite non astrattamente
definibile ma hanno sostenuto la necessità di valutare, caso per caso, tale limite (non è
possibile una valutazione ex ante di cosa possa costituire pregiudizio, semmai ex post cioè in
concreto). La norma associa all’attività di proselitismo anche l’attività di raccolta di contributi
sindacali. Un contributo sindacale è quella quota che ciascun iscritto è tenuto a versare
all’associazione cui aderisce, in relazione a quanto stabilito dalle disposizioni statutarie e
dalle deliberazione degli organi sociali della medesima associazione, e ciò al fine di costituire
fondo comune dell’associazione. Questo diritto si declina su due fronti (il proselitismo e la
raccolta di contributi sindacali). L’art. 26 è stato modificato dal referendum del 1995: lo ha
parzialmente abrogato (nella versione originaria era il datore di lavoro a raccogliere i
contributi sindacali e poi cedeva il credito, con la modifica è venuto meno il meccanismo della
cessione del credito).
E’ rilevante un’anomalia che presenta l’art. 26, rispetto agli diritti sindacali: non si rivolge alle
rappresentanze sindacali ma ai lavoratori (è una norma che non utilizza alcun filtro selettivo
sotto il profilo dei soggetti destinatari). Era così anche prima del referendum del 1995 e ciò
perché questa norma è espressione riflesso dell’art. 1 e 14 dello statuto dei lavoratori.
L’art. 21 si occupa del tema del referendum. Vi si trova un obbligo cioè quello di consentire il
referendum tra la generalità dei prestatori dell’unità produttiva o tra lavoratori appartenenti
alla stessa categoria produttiva. Le condizioni di esercizio di questo diritto sono: tale diritto si
esercita fuori dall’orario di lavoro e coinvolge il datore di lavoro nella misura in cui dovrà
predisporre il libero accesso ai locali (chiama in causa un comportamento attivo che riduce i
margini di libertà del datore di lavoro); è un diritto che si attiva a seguito della indizione da
parte di tutte le RSA, ciò è spiegato dall’intento di garantire/stimolare l’unità sindacale (il
referendum è uno strumento che viene attivato in fase iniziale di trattativa contrattuale o in
fase di raggiungimento dell’accordo - questo perché i contratti collettivi post-costituzionali
hanno efficacia limitata dalle disposizioni del codice civile, e quindi si vuole, attraverso il
referendum, consolidare un consenso). L’indizione unitaria viene prevista per scoraggiare
l’attivazione di procedure referendarie che frammentino l’unità sindacale su alcuni temi.

08 Giugno 2006 – avv. La Ratta

Il diritto sindacale e la contrattazione collettiva applicati al lavoro parasubordinato.


La libertà sindacale costituzionalmente garantita è relativa solo al lavoro subordinato o no?
Sia in dottrina, sia per interventi della Corte Costituzionale si è affermato il principio per cui la

Diritto del lavoro Pagina 59 di 62 a.a. 2005-2006


libertà sindacale, e quindi il diritto stabilito dall’art. 39 Cost., è riferibile anche ad alcuni
lavoratori autonomi, però non tutti. Il principio è che sicuramente sono titolari di libertà
sindacale anche lavoratori non subordinati ma non tutti, anche perché i principi della
Costituzione sul diritto sindacale hanno la funzione di dare un potere particolare ai lavoratori
in forza di una loro debolezza contrattuale, così da cercare di giungere all’uguaglianza
sostanziale. Quindi, se tale diritto venisse dato indifferentemente a tutti i lavoratori, verrebbe
a mancare questa caratterizzazione. Pertanto sono titolari di libertà sindacale non solo i
lavoratori subordinati ma anche taluni lavoratori autonomi che si trovino in una situazione di
dipendenza economica e, per questi motivi, hanno bisogno, al pari dei lavoratori subordinati,
di una tutela specifica e quindi del principio di libertà sindacale.

Diritto di sciopero. E’ un altro diritto che dà concretezza al diritto di libertà sindacale. E’ un


diritto fondamentale perché è la forma di lotta/di pressione più efficace prevista dalla legge. Il
diritto di sciopero è una forma di protesta che consiste nell’astensione dal lavoro e si sviluppa
parallelamente ai primi fenomeni di aggregazione ed autotutela sindacale. Inizialmente
questa forma di protesta era penalmente perseguita (prima della nascita della Costituzione);
con la Costituzione, invece, per la volontà di garantire al lavoratore dei mezzi per auto-
tutelarsi, l’art. 40 prevede il diritto di sciopero. Viene superata la concezione di Stato liberale
per raggiungere quella di Stato sociale. L’art. 40 Cost. prevede il diritto di sciopero nelle
modalità previste dalla legge ma, in realtà, fino agli anni ’90 non è mai stata emanata alcuna
legge che disciplinasse l’esercizio di tale diritto.
Solo negli anni ’90 il legislatore interviene dettando una normativa inerente lo sciopero nei
servizi pubblici essenziali, perché col tempo si era sentita l’esigenza di limitare il diritto di
sciopero per i servizi pubblici essenziali (soprattutto per i trasporti, per garantire comunque ai
cittadini un certo servizio). La disciplina intervenuta, quindi, regola solo parzialmente
l’esercizio del diritto di sciopero.
Si dice che il diritto di sciopero è un diritto pubblico di libertà perché tutela sia un diritto
collettivo che un diritto individuale, inoltre è un diritto che il lavoratore ha sia nei confronti
dello Stato, sia nei confronti del datore di lavoro (il quale non potrà attuare alcuna
conseguenza).
Chi ha diritto di sciopero? Tutti i lavoratori subordinati. Il problema nasce quando si vuole
spostare tale diritto oltre la subordinazione, cioè oltre il lavoro tipico. I lavoratori autonomi
sono titolari del diritto di sciopero? L’estensione di tale diritto è stata affermata anche ad
alcuni lavoratori autonomi e il la differenza tra chi gode del diritto e chi no è sempre questa
concezione di dipendenza economica (proprio per la ratio del diritto di sciopero che è quella
di dare una forza contrattuale maggiore al lavoratore stesso).
Una completa estensione del diritto di sciopero porterebbe ad uno spostamento dello stesso
anche in capo all’imprenditore, ma con ciò si avrebbe la serrata (il datore decide di chiudere
l’azienda e non fare lavorare per un giorno) che non è un diritto ma un reato. Pertanto il diritto
di sciopero non è esteso a tutti.
Però è anche vero che, soprattutto nel corso degli ultimi anni, si sono verificate forme di
protesta oltre i limiti del lavoro subordinato tipico e perciò hanno creato notevoli problemi. Ad
esempio, l’astensione degli avvocati, che sono liberi professionisti (quindi non possono
essere considerati lavoratori parasubordinati, in quanto per lavoro parasubordinato s’intende
il lavoro a progetto – ex co.co.co. – cioè lavoro autonomo ma con caratteristiche che lo
avvicina al lavoro subordinato). Nel caso di astensione degli avvocati non può essere
applicata la legge relativa ai servizi pubblici essenziali, in quanto non è una forma di protesta
attuata da lavoratori subordinati. Come cercare di regolamentare questa situazione? Nel
1996 è intervenuta la Corte Costituzionale affermando l’estensione della normativa
sull’esercizio dello sciopero nei servizi pubblici essenziali anche a queste ipotesi di forme di
protesta. La conseguenza è stata che nel 2000 il legislatore ha riformato la precedente legge,
cioè la legge 146/1990, e ha fatto sì che l’ambito di applicazione dei limiti e delle procedure si

Diritto del lavoro Pagina 60 di 62 a.a. 2005-2006


estendesse anche a queste astensioni collettive dei lavoratori autonomi. La legge che ha
riformato la legge 146/1990 è la legge 83/2000 ed è stato introdotto l’art. 2bis il quale
prevede che “L’astensione collettiva dalle prestazioni, ai fini di protesta o di rivendicazione di
categoria, da parte di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, che incida
sulla funzionalità dei servizi pubblici di cui all’art. 1, è esercitata nel rispetto di misure dirette a
consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili…….”. Quindi, attualmente la legge
che regola l’esercizio del diritto di sciopero, a tutela degli altri diritti che ha il cittadino, non è
applicabile solo ai lavoratori subordinati ma anche a tutti queste astensioni collettive dei
lavoratori autonomi e questo potrebbe sembrare un controsenso di quanto detto sopra ma è
da notare che la legge, volutamente, non dice “sciopero” ma “astensione collettiva”, infatti
rimane tuttora il dubbio di come debbano essere qualificate giuridicamente le astensioni
collettive. In sostanza, parlando di sciopero, nel senso previsto dall’art. 40 Cost., è vero che
si estende oltre la subordinazione ma solo in riferimento al concetto di dipendenza
economica; tutte le altre ipotesi sono astensioni collettive che hanno comunque una
disciplina identica a quella che hanno le manifestazioni di sciopero classiche. Non sono la
stessa cosa. Resta un problema di qualificazione giuridica anche se gli effetti sono gli stessi.

Per quanto riguarda l’applicazione della contrattazione collettiva anche al lavoro


parasubordinato, ci sono dei dati normativi per i quali è possibile dire che essa è applicabile
anche ai lavoratori autonomi parasubordinati (ex co.co.co. e attuali lavoratori a progetto).
I lavoro a progetto è disciplinato dal D.Lgs. 276/2003 e, l’art. 61 prevede un rimando alla
contrattazione collettiva. Art. 61.4: “Le disposizioni contenute nel presente capo non
pregiudicano l’applicazione di clausole di contratto individuale o di accordo collettivo più
favorevoli per il collaboratore a progetto”. Vuol dire che la contrattazione collettiva è possibile
anche per i lavoratori a progetto e, se favorevole, prevarrà rispetto alla disciplina dettata dal
testo di legge. Ma nel passato, è sempre stata possibile la contrattazione collettiva anche
oltre i limiti della subordinazione? Vi sono due disposizioni da tener presenti e sono l’art.
2113 c.c. e l’altra l’art. 409 c.p.c. L’art. 2113 c.c. è una norma che riguarda le rinunce e
transazioni e dice”Le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di
lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi,
concernenti i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c., non sono valide”. Questa norma afferma il
concetto di inderogabilità dei diritti previsti dalla legge o dagli accordi collettivi. L’art. 409
c.p.c. è la norma che dice quali sono i rapporti di lavoro che beneficiano del processo del
lavoro (lavoro subordinato, collaborazioni coordinate continuative, rapporti di agenzia).
Dal collegamento tra queste due norme emerge: 1) la possibilità che vi siano dei contratti
collettivi relativi anche ai rapporti di lavoro parasubordinato; 2) se esistono, sono inderogabili
in pejus dalla volontà del lavoratore (sono inderogabili al pari delle disposizioni contrattuali
relative al lavoro subordinato).
Questo problema era soprattutto per il passato perché adesso per i lavoratori a progetto è già
la legge che riconosce la possibilità dell’esistenza di contratti collettivi e la possibilità di
accordi migliorativi.
Tutto ciò è importante per il fatto che la contrattazione collettiva è intervenuta, prima della
legge, per cercare di dare una tutela anche a questi lavori atipici. Prima dell’introduzione del
lavoro a progetto i co.co.co. non avevano alcuna disposizione normativa che prevedesse un
diritto (c’erano solo le norme sopra dette). Soprattutto negli anni ’90 queste forme di lavoro
crescono sempre di più e quindi questo dibattito era estremamente attuale in quanto si
sentiva l’esigenza di ampliare le tutele oltre il lavoro subordinato a tempo indeterminato
(quindi per il lavoro subordinato atipico e per il lavoro parasubordinato). Nel 1996 le tre sigle
confederali decidono di creare, al loro interno, tre sigle sindacali con lo scopo di
rappresentare e tutelare i lavori atipici (nella Cgl nasce il Nidil, nella Cisl l’Alai e nella Uil il
Cpo). Queste nuove sigle vogliono tutelare, oltre il lavoro parasubordinato, anche il lavoro
interinale ma ciò è piuttosto difficile a causa della modalità di organizzazione stessa del

Diritto del lavoro Pagina 61 di 62 a.a. 2005-2006


sindacato e della tipologia dei lavoratori. Infatti, le caratteristiche intrinseche di questi tipi di
lavoro sono: temporaneità e trasversalità, cioè sono spesso lavori precari e sono presenti in
più settori merceologici (per cui è difficile creare un’aggregazione tra essi. L’altra difficoltà è
rappresentata dalla forma mentis del sindacato che è da lavoro subordinato.
A differenza della norma organizzazione sindacale, queste tre sigle sono trasversali cioè non
rappresentano un solo settore merceologico ma vogliono rappresentare tutta la tipologia
lavorativa. Nonostante le difficoltà legate anche a fattori sociologici, qualche risultato c’è
stato: qualche contratto collettivo è stato firmato, però prevalentemente a livello aziendale.
Questi accordi si concentrano su alcuni aspetti cruciali del rapporto di lavoro (proprio perché
non c’era nulla): 1. retribuzione, corrispettivo, 2. durata del rapporto, 3. tutela dell’ipotesi di
sospensione (maternità, malattia ed infortunio), 4. cercare di dettare una normativa per le
ipotesi di recesso (in quanto non c’è nessuna tutela sulla stabilità del posto di lavoro). 1. sono
stati individuati dei minimi di pagamento e i tempi di pagamento; 2. c’erano accordi che
prevedevano una durata minima e una massima; 3. si è cercato di garantire il diritto del
collaboratore, nel caso si ammali, ad esempio, alla sospensione del rapporto di lavoro per lo
stesso lasso temporale (il periodo si recupera dopo); 4. cercare di limitare la facoltà di
recesso per ogni ipotesi, quindi i contratti collettivi dicevano che il recesso era ammissibile
per giusta causa e venivano dettate delle ipotesi per cui era possibile recedere dal contratto.
Tutti i contratti collettivi, inoltre, prevedevano la forma scritta, sempre per dare una minima
garanzia al lavoratore.
Andando a vedere quello che prevede la legge oggi per il collaboratore a progetto, si nota
che rispecchia molto ciò che era stato definito dalla contrattazione collettiva. Quindi, ad oggi,
sembra quasi che il legislatore abbia fatto propri i risultati della contrattazione collettiva. E’
rimasta comunque la possibilità per il sindacato di portare avanti un’azione di contrattazione
collettiva per aggiungere delle tutele in senso migliorativo. Il sindacato, anche dopo la tutela
del lavoro a progetto, ha firmato degli accordi collettivi anche a livello nazionale (soprattutto
per i call center) ma non si sono ottenuti miglioramenti nella tutela perché l’impostazione di
base e sbagliata in quanto i call center non sono un vero e proprio contratto a progetto, in
realtà sono solo lavori subordinati mascherati con la forma dei contratti a progetto.
Pertanto non ci sono stati apporti sostanziali migliorativi rispetto a quanto previsto dalla
legge.

Diritto del lavoro Pagina 62 di 62 a.a. 2005-2006

Potrebbero piacerti anche