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RITORNO ALLA CITTA!

- ATTI DEL CONVEGNO - 1


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RITORNO ALLA CITTÀ
Rigenerazione urbana nelle città storiche ed europee: ipotesi a confonto

Convegno ed atti a cura di:


Piero Correnti, Caterina Grisaffi, Angelo Gueli,
Carlos Plaza, Elisabetta Vannni, Giovanni Voto
Elaborazione testi a cura di Carla Cicali

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RITORNO ALLA CITTÀ
Rigenerazione urbana nelle città storiche ed europee: ipotesi a confonto

PROGRAMMA DEL CONVEGNO

16 SETTEMBRE 2009
PALAZZO VECCHIO - SALONE DE’DUGENTO
h 9,30 – 13,30

Saluti e presentazione:
Arch. Marco Jodice
Presidente Ordine degli Architetti PPC di Firenze
Dott. Dario Nardella
Vicesindaco della Città di Firenze

Moderazione e presentazione dei relatori Angelo Gueli

Intervengono:
10,00 Prof. Arch. Marco Romano
"Come progettare una città: teoria e pratica"
10,45 Prof. Arch. Franco Purini
“ Oltre Palazzeschi”
11,45 Prof. Arch. Gabriele Tagliaventi
“Nuove città eco-compatte per il mondo che esce dalla crisi”
12,30 Prof. Arch. Sergio Los
“La città solare”

h 15,00 – 19,30

Moderazione e presentazione dei relatori Elisabetta Vannini

Intervengono sul tema del convegno e con delle relazioni sulla città di Firenze:
I Presidenti dei Quartieri 1,2,3,4,5, i Presidenti e Direttori di ConfCommercio, CNA,
ConfArtigianto, ConfEsercenti, Compagnia delle Opere, interventi di Architetti.
In ordine alfabetico :Luca Barontini, Stefano Capretti, Andrea Ceccarelli, Elena Ciappi,
Giuseppe D’Eugenio, Minu Emad, Leonardo Galli, Federico Giannassi , Laura Landi,
Roberto Maestro, Stefano Marmugi , Luigi Nenci, Marco Nestucci, Pietro Pagliardini, Elisa
Palazzo, Gianluca Paolucci, Francesco Pilati, Gianfranco Potestà, Uliano Ragionieri,
Antonio Saporito, Gianna Scatizzi, Massimiliano Silveri, Maurizio Talocchini, Maria Luisa
Ugolotti, Cristiana Valenti, Antonella Valentini, Sergio Ventrella, Giovanni Voto.

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SOMMARIO

RINGRAZIAMENTI E INTRODUZIONE AL CONVEGNO 6


Angelo Gueli

COME PROGETTARE UNA CITTÀ: TEORIA E PRATICA 9


Marco Romano

OLTRE PALAZZESCHI 25
Franco Purini

NUOVE CITTÀ ECO-COMPATTE PER IL MONDO CHE ESCE DALLA CRISI 31


Gabriele Tagliaventi

FIRENZE CITTÀ SOLARE


Sergio Los 60

IMMAGINI DEL CONVEGNO 99

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ANGELO GUELI
RINGRAZIAMENTI E INTRODUZIONE AL CONVEGNO

Grazie all’opportunità concessa dalla triennale degli Architetti di Firenze insieme al


gruppo di amici di Studium City ho gestito l’organizzazione del convegno di oggi e
avrò il compito di fare da moderatore, compito che cercherò di assolvere nel
modo più discreto possibile limitando al massimo il mio tempo e lasciando la
parola agli ospiti di oggi.
Ho però piacere di fare dei ringraziamenti, in primo luogo grazie a tutti voi per
essere intervenuti, , un ringraziamento speciale al Padrone di casa Il Vicesindaco
Dario Nardella che dimostra un notevolissimo interesse per le questioni urbane,
grazie al presidente dell’Ordine degli architetti Marco Jodice per la sua presenza,
grazie ai professori Sergio Los, Franco Purini, Marco Romano e Gabriele Tagliaventi
per aver accettato il nostro invito, grazie alla collega Marilena D’Ambrosio per
l’instancabile lavoro di coordinatrice della triennale, grazie agli amici di Studium
City qui presenti Piero Correnti, Caterina Grisafi, Carlos Plaza, Elisabetta Vannini,
Giovanni Voto per lo sforzo organizzativo, e infine ma non per ultimo grazie allo
sponsor la Comiluce di Milano senza la cui generosa partecipazione il convegno
non avrebbe potuto aver luogo.
Permettetemi di fare una brevissima premessa, dopo di ciò mi limiterò a cedere la
parola ai nostri ospiti.
La città occidentale e di conseguenza la città italiana per come noi la
conosciamo è un insieme complesso di volumi e superfici occupate da
un’innumerevole quantità di funzioni con il conseguente insieme di relazioni
funzionali e non, fra questi luoghi e spazi. L’enorme complessità che
cotraddistingue la città europea, porta in se un insieme di problematiche che con
gli ultimi 40 anni del secolo scorso hanno continuato a lievitare senza incontrare, a
quanto si può evidentemente constatare,delle risposte risolutive.

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Se da un lato le statistiche ci raccontano che in Italia sempre più persone negli
ultimi anni hanno ricominciato a vivere in piccoli centri urbani e sempre più gente
ha stabilito la propria residenza al di fuori del contesto urbano, d’altro canto non
possiamo negare quanto ancora le grandi città siano l’abitat più desiderato ed
utilizzato dall’uomo.

Le città sono state e continuano ad essere degli attrattori di popolazione. Se


questa capacità magnetica della città europea è lievemente diminuita negli
ultimi anni, come possiamo ben vedere questo non succede per le città delle
nazioni in via di sviluppo che continuano ad essere degli enormi catalizzatori
intorno ai quali si condensano le speranze, i desideri, le ambizioni e i bisogni di
milioni di persone.
Ma alle statistiche sfugge la nuova e massiccia inurbazione che l’Italia dovrà
affrontare per potere sopravvivere nei prossimi decenni, ovvero l’inurbazione dei
migranti provenienti da altri continenti. Questa ondata di flussi migratori lungi
dall’essere una iattura sarà invece ciò che permetterà al nostro modus vivendi di
perpetrarsi per ancora qualche decennio fino a quando, volente o nolente,
saremo costretti ad attivare meccanismi di decrescita tali da consentire la
sopravvivenza di Stato Sociale e Democrazia, sempre che questi due ultimi
elementi fra qualche anno continueranno ad essere considerati ineludibili, cosa
che non posso che sperare per noi ed i nostri figli.
È ovvio che le città in questo panorama saranno teatro dei maggiori stati di
tensione, poiché in esse si concentreranno sempre più attese e richieste sociali sia
da parte dei nuovi arrivati, con le loro istanze di riscatto sociale, che da parte di
coloro che, più radicati sul territorio, richiederanno maggiori attenzioni e
pretenderanno di appartenere ad una nuova aristocrazia razziale.
Cosa che evidentemente già avviene nelle regioni del nord Italia. La
progettazione urbana non può risolvere questi problemi, ma deve però
affrontarli ,conoscerli e porli sul piatto della bilancia.

La città per come la conosciamo negli ultimi secoli non ha fatto altro che
crescere, crescere e ancora crescere e questa e l’unica cosa che la città sa fare
veramente bene in barba a qualsiasi PRG regolamento, Piano strutturale,
Previsione, Piano quinquennale o che so io. Se la città ha bisogno di crescere lo fa
punto e basta, lo fa con l’abusivismo selvaggio delle città del sud Italia (compresa

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Roma), lo fa con le favelas del Sud America, lo fa con i quartieri teleguidati degli
imprenditori del profondo nord, lo fa con l’occupazione dei centri storici da parte
dei migranti, lo fa attraverso un infinito numero di trucchi ed inganni, lo fa
trasformando le fogne di Budapest in una “città dei Bambini” lo fa anche
trasformando una tendopoli di profughi in Palestina in una città nel deserto.
La città è una mandria imbufalita in grado di travolgere il mandriano se solo lui si
distrae. Ecco perché devono essere individuati degli strumenti che consentano di
sorvegliare e guidare i nostri aggregati urbani. E questi strumenti non possono
essere più le campiture colorate dei piani regolatori o dei più moderni piani
strutturali, ma dovranno tornare ad essere quelli del disegno e del progetto su
scala urbana ed umana.
La giornata di oggi vuole quindi essere un opportunità per ascoltare dalla voce
dei nostri esimi colleghi, idee lungamente ponderate sulla città e sui suoi modi di
sviluppo e rigenerazione che in essa si possono attuare, idee e concetti che
parlano di progetto, che parlano di disegno urbano. Oggi lo so per certo non
sentiremo parlare di concetti (passatemi il termine ) diabolici e opportunistici quali
biggness o Junkspace che qualcuno vorrebbe far assurgere a teoremi
compositivi, oggi sentiremo parlare di progetto, di visione progettuale e umana
della città fatta per gli uomini e non a immagine e somiglianza dei sistemi
ipercapitalistici a cui ci hanno abituato le riviste da archistar. Oggi voleremo alto,
perché si parlerà di progetto e di visione progettuale della città.

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MARCO ROMANO
COME PROGETTARE UNA CITTÀ: TEORIA E PRATICA

Sono molto contento per essere stato invitato a questo seminario qui a Firenze
anche perché il nuovo sindaco Matteo Renzi ha dichiarato che d’ora in avanti i
progetti urbanistici non li avrebbero più proposti i privati, come Ligresti, ma li
avrebbe studiati il Comune. È corsa infatti in questi ultimi anni questa bizzarra
teoria, non solo a Firenze ma anche a Milano o a Roma, che debbano essere gli
imprenditori edilizi a progettare i
nuovi quartieri della città, un
compito invece da mille anni tra
quelli fondamentali
dell’amministrazione pubblica,
orgogliosa manifestazione della
civitas. E proprio qui, nel salone
dei Cinquecento, Giorgio Vasari
ha voluto rappresentare
duecentocinquant’anni dopo - a
dimostrazione di quanto ancora i
fiorentini fossero consapevoli di
come il suo piano regolatore
avesse condizionato il destino
della città - Arnolfo di Cambio
che ne mostra il disegno ai suoi
reggitori.
Sono stato quindi molto contento
di questa dichiarazione di Renzi e
ho pensato che avrei potuto Arnolfo di Cambio che mostra ai maggiorenti di Firenze
il progetto delle nuova città

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presentare la mia candidatura per disegnare
la città, e in primo luogo, oltre che davanti al
vicesindaco, davanti ai miei colleghi. Perché?
Perché quello che dirò per sostenerla
comporta un minimo di chiarimento sul
versante disciplinare, sulla mia storia di
urbanista.
Sono stato per dieci anni il direttore della rivista
‘Urbanistica’, sono stato per cinque o sei anni
direttore del dipartimento di Urbanistica della
Le dichiarazioni del Sindaco Renzi
Facoltà di Architettura di Venezia, ho tenuto
ovviamente in tutto questo periodo un corso di
“urbanistica”. Ma, quando avevo quasi cinquant’anni, mi sono chiesto se tutte le
cose che insegnavo, sostanzialmente tutte le regole disciplinari che la maggior
parte di voi ha studiato in tutte le facoltà italiane, fossero vere. La legittimazione di
un professore universitario è quella di credere e di verificare che quanto insegna
sia in quel momento una verità: se mi viene il dubbio che non lo sia allora è meglio
ricominciare a studiare e a cercare una nuova verità.
Queste crisi disciplinari non succedono soltanto nel nostro campo: per esempio il
campo delle scienze economiche è in questo momento solcato non tanto dai
problemi di autoflagellazione sulle colpe della crisi finanziaria, quanto proprio dalla
discussione sui principi stessi della teoria economica neoclassica, che moltissimi
studiosi non condividono ormai più ma che sistematicamente vengono ancora
insegnati nelle facoltà di economia.
Il nocciolo della riflessione che sono stato costretto a fare venticinque anni fa – la
sintetizzo rapidamente perché entrando nel dettaglio ruberei tutta la mattinata –
è che voi non potete progettare una città soddisfacendo solo delle sue funzioni
immediate, perché le funzioni dureranno meno dei suoi muri: la consistenza
materiale di una città durerà molto più a lungo di qualsiasi funzione per la quale
l’abbiate progettata, sicché, dopo un po’, decadrà e diventerà un campo di
rovine, di manufatti cioè privi del loro scopo originario. E’ cosa che per esperienza
sapete benissimo, tutti i piani regolatori basati sull’idea che la città dovesse
rispondere a funzioni che fosse possibile individuare attraverso discipline collaterali
(la sociologia, l’economia, la teoria dei bisogni...) hanno fatto in tempo a
dimostrarsi nei miei primi cinquant’anni di vita un fallimento.
Dunque bisognava ricominciare, sicché mi sono chiuso in casa sette anni a

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studiare e di queste ricerche vi racconto ora l’esito, pubblicato nei miei libri ma qui
riassunto.
La città è un’opera d’arte, se accettiamo che un’opera d’arte sia un manufatto
progettato per esserlo e che qualcuno lo ritenga tale, e del resto se alzate gli
occhi, queste intenzioni estetiche le riconoscete de visu nella decorazione di
questa sala, che dunque è per questo opera d’arte:1 e anche le città sono
un’opera d’arte, perché se impariamo a leggerle sono impregnate di intenzioni
estetiche.
Le facciate delle case (quelle che vedete fuori da queste finestre2) sono state
infatti costruite con l’intenzione che fossero belle. Questa inattenzione di farle belle
ha i suoi buoni motivi: il fatto è che per appartenere a uno dei centomila Comuni
nati in Europa mille anni fa il cittadino doveva avere il possesso di una casa, e
ancora oggi, se voi vi trasferite a Bologna, lì vi chiederanno il vostro indirizzo,
vorranno sapere dove abitate e a che titolo. Nel resto del mondo non è così; la
società araba – quella di là del Mediterraneo con la quale avevamo allora
contatti continui nella penisola iberica, nelle Baleari e in Sicilia - è organizzata per
clan e quindi la vostra residenza non ha nessun rilievo, l’importante è
l’appartenenza di sangue a un clan, e negli Stati Uniti forse che abbiate una
carta di credito.
Invece in Europa è nata mille
anni fa una civitas aperta - cioè
non fondata su legami di sangue
che da un lato sono irreversibili e
che dall’altro sono impossibili da
acquisire dopo la nascita - una
civitas della quale potete a
pieno titolo diventare cittadini
anche trasferendovi da un’altra
città, purché nella nuova
abbiate il possesso di una casa, e
siccome la civitas è anche una
società mobile ciascuno di noi
mostra la propria collocazione
nella geografia sociale cittadina
nella facciata della sua casa. Se
a piazza di Siena con le sue varie facciate dipinta da
infatti la condizione per essere Ambrogio Lorenzetti nell’affresco del Buongoverno nel
cittadini è quella di avere il palazzo dei Priori

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possesso di una casa e questa è una società mobile, in cui il vostro status non è
quello della nascita ma quello che voi conseguite col vostro lavoro, la facciata
della casa è decorata per mostrarlo a tutti gli altri cittadini. Ecco qua: palazzo
Strozzi mostra uno status che è diverso da quello riconoscibile nelle facciate delle
case che vedete là di fronte oggi3.
Se da dieci secoli le facciate delle case delle città europee sono in qualche
misura decorate, perché chi le abita possa mostrare a tutti la propria collocazione
sociale, possiamo dunque affermare che sono un’opera d’arte, perché sono state
fatte con l’esplicita intenzione di farle belle.
Questo non è mai successo nelle città arabe, fatte di muri bianchi con lievi
aperture che, se erano decorate come a Sanaa, lo erano con motivi standard
ripetuti senza alcuna relazione con la condizione sociale dei loro abitanti, perché
non aveva alcun senso mostrare esternamente uno status, dal momento che la
condizione sociale di ciascuno era quella del clan cui apparteneva, a sua volta
chiuso in se stesso: al Cairo all’inizio dell’Ottocento c’erano ottanta enclaves
completamente chiuse, che aprivano le porte al mattino e le richiudevano la

L’immaginaria piazza di Alessandria d’Egitto


sera, e lì dentro abitava un clan. dove Gentile Bellini dipinge le nude facciate

I cittadini tutti insieme esprimono poi il rango della loro città rispetto alle altre
attraverso i temi collettivi. Il palazzo municipale dove stiamo, la chiesa principale, il
teatro, il museo, la biblioteca, il giardino pubblico - e molti altri che elenco nel mio
primo libro, L’estetica della città europea - sono temi comuni a tutte le centomila
città europee, villaggi o capitali che siano, ciascuno con l’architettura più
elegante e rappresentativa che la manifestazione del proprio rango suggeriva a
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ogni città, e li troverete sempre medesimi da Edimburgo a Trapani o da Siviglia a
Danzica.
Questo ha fatto sì che i problemi dell’immigrazione per mille anni siano stati
attenuati dal fatto che chi si spostava da una città all’altra e nella nuova
prendeva possesso di una casa, trovava anche i medesimi temi collettivi della sua
città d’origine e quindi era immediatamente ipso facto integrato nella nuova
dalla sua capacità di comprenderla. E’ uno dei grandi problemi che abbiamo
con gli immigrati da altre civiltà, per esempio gli immigrati della civiltà islamica,
perché mancando altrove questi temi collettivi manca anche il loro meccanismo
di integrazione simbolica, sicché per loro oggi la città non funziona più come ha
funzionato per secoli, come veicolo di integrazione degli immigrati.
Tutto questo però non ci autorizza ancora a dire che la città sia un’opera d’arte,
perché se lo sono le case e se lo sono i temi collettivi, fatti esplicitamente per
essere i più belli possibile nel confronto con gli altri cittadini e con le altre città, non
potremmo asserire che la città nel suo insieme sia un’opera d’arte se noi in
Europa non avessimo inventato le piazze e le strade tematizzate, che non esistono
in nessun altro paese, in nessun’altra civiltà.
Le piazze sono una specifica invenzione europea, che le città dell’Islam o della
Cina non hanno né conoscono. La piazza principale è nata alla fine del
dodicesimo secolo davanti al palazzo municipale come sede appropriata
dell’assemblea cittadina che eleggeva il consiglio la cui sede appropriata era nel
suo salone d’onore, nel salone dei Cinquecento. In seguito sono nate altre piazze
ciascuna con il suo nome: la piazza del mercato, la piazza davanti al convento -
davanti a Santa Croce, a Santa Maria Novella, a San Marco -, poi la piazza della
chiesa, poi le piazze monumentali, con un’architettura coordinata intorno come
la piazza dell’Annunziata, infine le piazze nazionali, dedicate alla gloria della
nazione.
Poi ci sono le strade tematizzate: la strada principale con i negozi di maggiore
rilievo, come via dei Calzaiuoli, poi la strada monumentale dove si addensano i
palazzi dei maggiorenti di una città oppure, come gli Uffizi, progettata apposta
con un’architettura unitaria; poi ci sono le strade trionfali, che a partire dal
Duecento hanno in fondo una porta o se possibile un tema collettivo o comunque
un edificio rilevante; e infine le passeggiate, i boulevard, i viali alberati che escono
dalla città nella campagna. Queste strade tematizzate si distinguono dalle strade
dove semplicemente si affacciano le case, sicché ogni città è immaginabile
come una grande rete simbolica di strade e di piazze tematizzate sullo sfondo
delle vie minori:

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e qui nasce ed è discernibile e leggibile la volontà estetica della città.
Ogni tanto matura lentamente in Europa un nuovo tema collettivo, una nuova
strada o una nuova piazza tematizzata, come quando nel tardo Cinquecento
arrivò a Firenze la passeggiata, proveniente da Siviglia intorno al 1575, poi
passata a Valencia, e diventata in seguito il prototipo delle passeggiate europee,
quando Maria de’ Medici, che aveva a Firenze la consuetudine di una
passeggiata serale in carrozza alle Cascine, arriva a Parigi sposa di Enrico IV e
pretende davanti alle Tuileries il corso della Regina, sul bordo della Senna invece
che sulla riva dell’Arno: non si era mai vista una strada larga 80 metri e lunga 800,
che diventerà il modello di tutte le passeggiate che tutte le città d’Europa, dal
villaggio alla capitale, cercheranno di imitare, beninteso ciascuna alla propria
scala.
Quando matura in Europa un nuovo tema collettivo ogni città si domanda dove
disporlo e naturalmente sceglierà il posto dove fargli fare miglior figura. E dove
farà miglior figura? Per esempio in una strada o in una piazza già tematizzata, la
loggia dei Lanzi in piazza della Signoria qui a Firenze o i teatri nel boulevard du
Temple a Parigi. E se arriva una nuova strada o una nuova piazza tematizzata la
traccerà in sequenza con le strade tematizzate già esistenti.
Dunque la disposizione delle piazze e delle strade tematizzate e dei temi collettivi
in una città è l’esito di un’intenzione estetica deliberata e perfettamente leggibile,
un’intenzione estetica che si confronta con un’intenzione estetica analoga
dispiegata in tutte le altre città europee. Perché? perché nello stesso momento
tutte le città si trovano a dover esaltare i medesimi temi collettivi.
La strada principale di una città è quasi sempre disposta tra la piazza principale e
quella che in quel momento era l’uscita ritenuta più importante. Qui è via dei
Calzaiuoli che andrà formandosi tra piazza della signoria e il duomo, allora ai
margini settentrionali della città, con una evidente e leggibile intenzione estetica
che ci consente di confrontarla con un’altra altrettanto leggibile intenzione
estetica di un’altra città: non solo cioè l’intenzione estetica è esplicita, ma è
anche leggibile, perché chiunque comprende lo stile di quella specifica città
facendo un confronto con le altre che conosce.

Questa è Firenze4: vedete qui gli Uffizi disposti in sequenza con la piazza
principale cui segue la strada principale, via de Calzaiuoli, che arriva davanti al
duomo (Firenze non avrà mai una vera piazza del duomo – le piazze davanti alla
chiesa sono state inventate agli inizi del Quattrocento, sicché molto spesso le
chiese costruite prima non hanno una piazza davanti). Di seguito la strada

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monumentale, via Larga,
avviata da Cosimo de’
Medici con il suo palazzo,
tracciata in modo da essere
in sequenza con la piazza
del convento di San Marco e
che molto tempo dopo verrà
conclusa con piazza della
Libertà, una piazza
monumentale circondata
da un’architettura
omogenea e origine dei
boulevard.
Questa sequenza, che attraversa la città, è poi intersecata da altre sequenze
minori: piazza Indipendenza, di nuovo piazza San Marco, piazza dell’Annunziata,
una piazza monumentale con la statua del granduca sottolineata dalla strada
trionfale di via dei Servi.
Queste sequenze poi continueranno al di là dei boulevard in altre piazze disposte
deliberatamente in sequenza con quelle che già c’erano, con una volontà di
continuità che riconoscete anche Oltrarno nella sequenza che parte da San
Lorenzo, che tocca piazza della Repubblica per poi arrivare davanti a palazzo
Pitti e al teatro.
Eliminata la rete delle vie semplicemente residenziali la città, quella costituita dalle
piazze tematizzate e dai temi collettivi, emerge come un’opera d’arte, perché
abbiamo visto ed è evidente l’intenzione estetica con la quale strade e piazze
tematizzate sono state disposte in sequenza una dietro l’altra: ci si immaginava
infatti che disponendole con una certa ratio estetica la città sarebbe stata più
bella. Cosimo de Medici costruisce il suo palazzo in via Larga perché è
consapevole che qui potrebbe continuare una cospicua sequenza rettilinea già
tracciata ma anche suggerisce una sequenza a croce, una figura copiata
vent’anni dopo a Ferrara da Biagio Rossetti, dove il palazzo dei Diamanti sarà
disposto con la stessa collocazione rispetto alla croce di strade con cui è disposto
il palazzo di Cosimo de’ Medici: ecco comparire un’altra consuetudine estetica
come quella della sequenza piazza principale>strada principale.
Ora tocchiamo il vero problema: la città europea è una città aperta, perché
chiunque ne potrebbe far parte, è mobile, perché una volta che ne sia divenuto
cittadino, chiunque può trovarvi una collocazione e uno status appropriato, e
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infine è democratica. L’essere democratica non ha tanto a che vedere con il
meccanismo di elezione dei suoi organismi di governo, quanto col fatto che è
ideologicamente egualitaria, cioè tutti i suoi cittadini, purché abbiano il possesso
di una casa, hanno il diritto di avere un loro proprio punto di vista su qualsiasi
questione. Poi beninteso il diritto di voto varia, il modo in cui vengono eletti i
rappresentanti della civitas è ondeggiante, e ancora oggi i problemi tecnici delle
elezioni restano sempre sul tappeto, ma resta il carattere fondamentale che i
cittadini dovrebbero essere sempre percepiti come eguali perché, come
dicevano i trattatisti dell’epoca, l’invidia sociale è il primo motore della sedizione.
Ma la città, la nostra città europea, da mille anni produce disuguaglianze, perché
siamo fautori della libertà di iniziativa e quello che Max Weber chiamava ‘l’homo
oeconomicus’ - nato intorno al Mille in Europa – con le sue diverse attività
individuali produce differenze nella ricchezza cui corrisponde una gerarchia
all’interno della città, una gerarchia che entra in conflitto con la sua immagine
egualitaria.
Per questo fin dal Duecento tutte le città adottavano disposizioni per impedire
che la ricchezza fosse mostrata in pubblico in maniera eccessiva: le donne
potevano avere soltanto due vestiti e occorreva registrarli, il numero degli invitati
a un pranzo di nozze era rigorosamente fissato, il numero delle portate era
contato, il numero dei polli per ogni portata era sottoposto alle leggi suntuarie ed
era persino vietato avere le lenzuola di lino, perché troppo preziose: a Venezia poi
tutte le gondole erano nere e tutte uguali.
Ma se questa strategia delle leggi suntuarie poteva continuare ad avere una sua
efficacia, rimaneva il problema della casa, della differenza tra palazzo Strozzi e le
case qui di fronte. Pensate al sogno di Leon Battista Alberti, nella tavola di Urbino,
che ha davanti i palazzi in pieno stile rinascimentale e sullo sfondo le case degli
artigiani, anch’esse decorate ma con una qualità architettonica deliberatamente
diversa.

La tavola albertiana a Urbino


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Che i palazzi siano diversi dobbiamo accettarlo, perché poi i palazzi più
ragguardevoli, quando non intendano mostrare la volontà di primeggiare nella
sfera politica cittadina, sono per la loro bellezza un ornamento condiviso della
città, ma resta il problema che il sito della casa nell’urbs è diverso per i diversi ceti
sociali. Sebastiano Serlio, intorno al 1516, rileva questa differenza osservando che
le famiglie più ragguardevoli abitano nel centro della città, vicino alle piazze e ai
luoghi nobili, mentre invece i poveri abitano vicino alle porte. Siccome i temi
collettivi sono prodotto della collettività, i ricchi stanno più vicini alle piazze, ai
luoghi nobili, perché questa vicinanza conferma nell’urbs la loro egemonia, o
quantomeno la loro disposizione al vertice della gerarchia della civitas.
La periferia è quella cosa lì: la periferia da mille anni sono quei quartieri della città
non solo geometricamente lontani da quel centro dove in maniera privilegiata
vengono disposti i temi collettivi più importanti e dove abitano i più ricchi, ma è
anche il posto dove non ci sono temi collettivi o dove i temi collettivi sono più
modesti.
Questo è stato il grande problema sullo sfondo di come dare forma alla città:
perché l’unica, la vera funzione, il vero scopo della città europea, quello che
permane nei secoli, è stato di consolidare nei muri dell’urbs l’identità delle
persone come cittadini della civitas, e da mille anni l’urbs (salvo negli ultimi
cinquant’anni) costituisce il riconoscimento visibile della dignità di tutti suoi
cittadini, e ha sempre avviluppato nel sentimento della loro identità anche i
cittadini meno fortunati, quelli che abitavano in periferia.
Per evitare che i cittadini dei quartieri periferici fossero sottorappresentati le
soluzioni sono state essenzialmente due: quella di tracciare grandi e vistose strade
tematizzate, in modo che chi abita lontano, anche a distanza rilevante dal centro
cittadino, non si senta perduto – voglio dire che chi abita a sei o sette km dal
centro di Parigi e vede l’Arco di Trionfo in fondo a una strada larga 120 metri non
ha di certo l’impressione di essere in periferia, ha la sensazione di essere
pienamente coinvolto nella dimensione simbolica della città. Ma chi abita nelle
banlieues moderne, dove ormai mancano tutte le strade e le piazze tematizzate,
è spesso non soltanto un emarginato sociale ma anche un emarginato simbolico:
lì inizia il deserto del senso, lì manca il riconoscimento collettivo della dignità delle
persone che vi abitano.

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Ecco allora come la
faccenda è stata
affrontata a San
Giovanni Valdarno, che
voialtri fiorentini avete
fondato alla fine del
Duecento e che è stata
progettata da Arnolfo di
Cambio.
Ar nolfo traccia tre
strade: quella in mezzo è,
ovviamente, la strada dei maggiorenti – forse i mercanti, forse i possidenti - tant’è
che le case sono di tre piani, mentre le due strade laterali sono destinate le case
degli artigiani e dei popolani, alte solo due piani. Queste due strade secondarie
sfociano da un lato sulla piazza principale proprio come la strada principale, e se
quest’ultima è dal lato opposto tematizzata dalle due porte della città, Arnolfo,
che non può ovviamente disporre un’altra porta, può però tematizzarle con una
torre delle mura: torri, se guardate bene, il cui posto geometricamente corretto
sarebbe a metà del tratto delle mura, ma che sono state deliberatamente
spostate per fare da fondale alle due strade secondarie, in modo da evitare, nei
limiti del possibile, la sensazione di emarginazione sociale di chi le abita.
Questa è invece la città modello di
Eiximenis, un teorico catalano della
fine del Trecento, che suggerisce
un’altra maniera per risolvere lo stesso
problema, ed è a dire una piazza
principale e quattro quartieri, ciascuno
con al centro una sua piazza, in modo
che il cittadino ritrovi comunque un
riconoscimento simbolico all’interno
del proprio quartiere: una piazza con il
convento perché, come ho detto
prima, la piazza della chiesa non era
ancora stata inventata.

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Questo disegno dovreste conoscerlo
tutti, perché avete studiato in una
facoltà d’architettura, è la Sforzinda,
con otto strade maggiori dalla piazza
centrale alle porte tra le quali otto
quartieri – è esattamente lo schema
di Eiximenis che avete visto prima,
solo in forma circolare e con otto
strade maestre anziché quattro – con
la loro piazza, percorsi da una strada
che da un lato ha accesso alla
piazza principale della città e
dall’altro, come a San Giovanni
Valdarno, è chiusa dalle mura.

Questa è la pianta di Palmanova,


con tre strade maestre dove sono
disposti i palazzi più importanti e
accanto, da una parte e all’altra, un
quartiere, esattamente come l’avete
visto prima nel disegno della
Sforzinda: per via di questo schema
geometrico, di mettere una strada
principale con ai lati due filari di case
importanti e poi due quartieri con le
loro piazze, Palmanova ha nove lati.
Andiamo oltre. Alla fine del
Settecento, la Rivoluzione francese,
in una notte di luglio - faceva caldo,
erano già le tre o le quattro di mattina - prende la decisione che il proprietario di
un terreno ne possa disporre in tutti i modi possibili, anche di costruirci a piacere –
una grande decisione rivoluzionaria.
Ecco che nel corso dell’Ottocento tutte le grandi città si pongono il problema di
come preservare almeno il sedime delle strade che sono tuttavia necessarie per
servire i lotti dei privati, e studiano piani urbanistici (questo è il piano di Milano) in
cui disegnano la rete stradale di tutto il territorio, limitando così la libertà assoluta
di costruire sul proprio terreno.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 19


In se stesso disegnare l’intera rete
stradale di una nuova città non
costituisce una novità – che altro
avevano fatto dopotutto Arnolfo a
San Giovanni Valdarno o L’Enfant a
Washington? – ma nel progetto di
Milano è evidente la
preoccupazione di assicurare una
adeguata tematizzazione anche ai
quartieri più lontani dal centro, da
un lato attestando sulla cerchia
interna dei boulevard passeggiate lunghe più di due km e larghe 90 metri, la
stessa larghezza degli Champs Elysées, chiuse come viale Argonne dalla vista
trionfale di una nuova chiesa, e dall’altro aprendo cinture di boulevard sempre
più ampi andando verso la periferia, 30 o 40 o 50 metri.

La stessa cosa la vediamo


nel piano di Barcellona. La
parte meno rilevante di
questo piano sono gli isolati
quadrati con gli angoli
smussati, mentre la parte
importante è la
tematizzazione dei quartieri
nuovi. Mentre nel progetto
di Milano, Beruto ha
immaginato che gli
conveniva disporre i
boulevards con un
andamento circolare
intorno alla città antica, qui, demolite le fortificazioni, Cerdà ha tracciato grandi
boulevard diritti ma sempre con il medesimo scopo, fare in modo che i cittadini
che abitano lontani dal centro non si sentano emarginati, perché abitano
accanto a un boulevard largo 50 metri che sicuramente non è la strada di un
piccolo paese e che li conduce verso il centro della città, boulevard intersecati
da larghe passeggiate come quella disposta in sequenza con il parco realizzato
RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 20
al posto della cittadella e conclusa sulla Gran Via da un arco di trionfo e come
quella della Expo degli anni Trenta con il celebre padiglione di Mies van der Rohe.
Tutta l’attenzione dei progetti di allora era quella di fare in modo di coinvolgere la
città intera nella sua sfera simbolica, che non è fatta dal reticolo delle vie
residenziali e dagli isolati ma è costituita da queste grandi strade tematizzate, che
si distinguono per la dimensione e per la sequenza nella quale sono disposte.
Questo è il problema che abbiamo di fronte da mille anni, e queste che ho
illustrato sono le soluzioni che sono state messe in campo per risolverlo o quanto
meno attenuarlo.
Da cinquant’anni la parte nuova delle città è stata progettata, su istigazione
delle avanguardie artistiche, cancellando le strade e le piazze tematizzate, le
passeggiate e i boulevard che Le Corbusier chiamava icasticamente rue corridor.
Il risultato sono periferie dove abitano persone che non vedono riconosciuta la
loro dignità di cittadini, e che potrebbero abitare invece che in questa città da
qualsiasi altra parte, in qualsiasi altra città, senza che esista una testimonianza
visibile e consolidata del loro essere cittadini di Firenze.
L’essere cittadino di una città vuol dire partecipare anche della discussione
collettiva sui suoi problemi, ma prima di tutto di avere il riconoscimento della
propria appartenenza alla città e quindi del diritto ad avere la propria opinione: e
la condizione fondamentale della nostra
vita, ma non soltanto nella nostra
società, è che esistano segni visibili e
riconoscibili della nostra appartenenza.
Di questa faccenda c’è consapevolezza
in giro per l’Europa: non è che qui noi
viviamo in un modo isolato.

Questo è il caso dei nuovi quartieri di


Madrid progettati a partire dal 1985 che,
vedete, sono disposti a seguire le
sequenze fondamentali della città
esistente e che adottano, all’interno del
loro disegno, delle passeggiate e delle
strade tematizzate che evocano e
cercano di reimpiegare quelle che si
trovano nella città costruita prima del
1950.
RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 21
Ma a mio parere questo è un disegno troppo grossolano, perché la grana del
progetto ha una scala eccessivamente grande, sicché vi mostro due progetti
che ho studiato con una grana più minuta, più consona a quella che chiamiamo
dimensione umana e che altro non è che la scala appropriata al nostro habitat.
Questo è il progetto del piano regolatore di Modena, affidato a sequenze di
strade e di piazze tematizzate.

Il problema è stato quello di ridisegnare l’intera rete delle strade e delle piazze
tematizzate nella misura umana, cioè con la varietà e con le distanze con le quali
sono state disegnante le città di una volta. Naturalmente le dimensioni sono un
po’ diverse da quelle del centro storico, ricopiarle sarebbe una stravaganza, ma
vedete che abbiamo una sequenza, ad esempio la piazza di una chiesa, un
boulevard che è più stretto, poi diventa più largo nella piazza dove c’è una
scuola, poi incontriamo una passeggiata che ci conduce al centro. Poi
incontriamo un tema collettivo là dove le strade divergono, qui c’è una piazza
monumentale, là c’è una piazza del mercato. Qui ci sarà una piazza con le
scuole, qui c’è il teatro con di fronte una sua piazza, qui l’ingresso del giardino

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 22


pubblico, qui all’incrocio con la tangenziale è anche possibile immaginare due
grattacieli che inquadrano la vista lontana dalla Ghirlandina, il simbolo della città.
Ma questa attenzione per il simbolo c’è anche in questa strada, una strada
pedonale, ciclabile al massimo, che ha lo scopo di fare in modo che tutti quelli
che abitano in questi quartieri nuovi sgangherati abbiano (come si dice: ‘anche
noi poveri abbiamo diritto alla nostra parte di felicità’) la prospettiva di questa
strada tematizzata dal lontano dal simbolo della città.
C’è poi un problema di recupero delle periferie: vedete qui in fondo, sulla sinistra,
questo viale curioso sul quale sono stati affacciati una serie di isolati costruiti
intorno a un giardino comune, dove giocano i bambini, e che costituisce una
sorta di verde blindato all’interno della città: ma questo viale non va da nessuna
parte, e il nostro progetto si propone di legarlo alla rete simbolica di tutte le altre
strade e piazze tematizzate della città.

Infine, vediamo un altro


progetto, dedicata
all’amministrazione comunale
di Firenze, quello di Reggio
Emilia che pone un problema
bizzarro: qui c’è uno stadio -
che esiste già, non come quello
che vorreste fare a Firenze - e
dall’altra parte del tracciato
dell’autostrada, strettamente
parallelo, il tracciato ferroviario
della TAV con la nuova stazione
progettata da Calatrava

Sicché si sono trovati in questa


bizzarra situazione, in cui la
parte futura della città è in
qualche misura polarizzata
dalla stazione ma è anche
separata dalla città esistente.
Abbiamo allora progettato
questa sequenza, con le stesse

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 23


strade tematizzate di Modena, una lunga passeggiata trionfale lungo il fronte
dello stadio che arriva nell’unico posto dove possiamo passare sotto alla ferrovia
e sotto all’autostrada perché i sottopassi esistono già. Qui dobbiamo immaginare
un recinto chiuso come un antico castello qualcosa come un antico castello dove
chi entra non abbia la percezione che sopra gli passa l’autostrada o la TAV: e
questo sarà un compito degli architetti, il mio compito finisce nel disegnare una
città del nord in cui la nuova stazione sarà come tutte le stazioni affacciata su una
sua piazza e avrà davanti un boulevard trionfale concluso da una grande piazza
rotonda, che a sua volta chiudi il motivo della sequenza originata dallo stadio.
Mi preme qui sottolineare ai colleghi, cui va il mio ringraziamento per la pazienza
fin qui dimostrata, che questo è il mestiere di progettare città e che quando il
sindaco
verrà da me a chiedermi di fare un progetto per Firenze, apriremo un grande
laboratorio dove verranno invitati tutti quelli che vogliono esercitarsi in questo
lavoro progettando e imparando con noi, perché si impara a disegnare una città
esercitandosi così.
Grazie.

Note:
1
Indica il soffitto a cassettoni del Salone de’ Dugento.
2
Indica fuori dalle finestre le faccite di piazza della Signoria.
3
Indica nuovamente fuori dalle finestre.
4
Comincia la proiezione di immagini

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 24


FRANCO PURINI
OLTRE PALAZZESCHI

Il ragionamento proprio in questo intervento parte dal capitolo iniziale di ‘Sorelle


Materassi’ il famoso libo di Palazzeschi, con un riferimento particolare all’edizione
1934. In quelle pagine il grande scrittore fiorentino teorizzava in modo abbastanza
esplicito una differenza genetica tra la collina e la pianura. Per lui la collina è il
luogo di una bellezza che deve essere preservata, mentre la pianura è uno spazio
amorfo dove va a finire tutto ciò che è scarto, rifiuto, disordine, abbandono. ‘ Vi
porterò alcuni nomi di queste colline – scrive Palazzeschi – riuscendo essi, meglio
assai delle parole a dimostrarci tale evidenza: Bellosguardo, e notate che molte
ve ne sono ove lo sguardo è ancora più bello, Il Gelsomino, Gramante, Poggio
Imperiale, Torre del Gallo, San Gelsolè, Settignano, Fiesole, Montereggi, Castel di
Poggio, Montebeni, il Poggio delle Tortore, Montiloro, L’incontro, L’Apparita,
Monte Asinario, il Giogo, Montemorello. Sentite invece i nomi della pianura: Le
Panche, Le Caldine, Peretola, Legnaia, Soffiano, Petriolo, Brozzi, Campi, Quinto,
Quarto, Sesto, anche la fantasia pedestre si spegne, sembrano gli evirati
dell’immaginazione.’ La contrapposizione messa in scena da Palazzeschi oppone
due mondi: da una parte quello della bellezza paesistica rappresentato dalla
collina e dall’altra il mondo del casuale, dell’indeterminato, del caos
contemporaneo. Tale distinzione non si è limitata all’ambito letterario, passerà
successivamente nelle idee relative allo sviluppo di Firenze che Edoardo Detti
formalizza nel suo piano regolatore. Non so se l’urbanista fiorentino conoscesse
questo brano. Comunque, anche se inconsapevolmente fece propria l’intuizione
palazzeschiana e la tradusse nel piano.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 25


La collina è quindi considerata come il luogo dell’intangibilità, della perfezione
ambientale mentre la pianura diventa il luogo della contemporaneità, dove va a
finire ciò che non ha possibilità di far parte di questa immagine mitologica.
All’interpretazione negativa delle espansioni planari se ne contrappone una
positiva. In effetti quando il riconoscimento della pianura come il luogo della
contemporaneità, non è del tutto negativo, contenendo un determinante
versante positivo. Detti intravede nella conurbazione planare, che da Firenze
attraverso Prato arriva fino a Pistoia, un potente asse ordinatore del territorio,
strutturando la pianura secondo modalità avanzate capaci di trasformare in
senso avanzato l’intero sistema della metropolitania fiorentina. A questo proposito
è obbligatorio il nesso che si stabilì negli anni ’60 tra l’elaborazione delle ipotesi
relative alla piana e le proposte innovative elaborate all’interno della Facoltà di
Architettura di Firenze. Leonardo Ricci e Leonardo Savioli dettero vita in quel
periodo a un certo numero di sperimentazioni progettuali delle quali riuscirono a
realizzare alcuni frammenti, che trasferivano il divenuto ben presto celebre
concetto dell’edificazione planare sul piano dell’utopia, aprendo la strada al
lavoro, dei gruppi radicali di cui facevano parte progettisti ancora attivi oggi a
Firenze, come Adolfo Natalini. Per inciso c’è da mettere in evidenza che la scelta
di non edificare la collina ha un’origine più pittorico-letteraria che strettamente
urbanistica. Basta a questo proposito ricordare non solo alcune scene del film
‘Camera con vista’ di James Ivory, del 1987 ambientato nel suggestivo paesaggio
ondulato a est di Firenze, la pittura post-cezanniana di Ardengo Soffici la pittura
neoprimitiva di Ottone Rosai, il quale sembra dedicare straordinarie e opere
pittoriche all’idea endemica del mondo collinare. L’affresco presente nella
caffetteria della Stazione di Santa Maria Novella un canto perfetto alla bellezza di
questo universo. La pittura di Soffici e quella di Rosai sono due cristallizzazioni
temporali del paesaggio dei rilievi collinari, un’affermazione di esteticità assoluta
da contrapporre al tumulto della pianura.
Riflettendo su questa affermazione nasce un grosso problema teorico, che forse
qualche giovane architetto potrebbe affrontare. Firenze è la patria della
prospettiva, che è la scienza e l’arte di assegnare un senso estetico al
distanziamento tra gli oggetti, alla misura dello spazio. Non è chiaro perché,
essendo la prospettiva l’arte di distanziare gli oggetti conferendo a tale atto in
senso estetico il piano, sul quale il problema prospettico è stato impostato e risolto
sia visto negativamente. È come se si costruisse una prospettiva, per non vederla
guardando al di sopra di lei, dove si incontrano i rilievi, che sono non, per così dire
al centro, della regola prospettica. Quanto detto fa comprendere la

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO - 26


contraddizione messa in evidenza non è tanto un problema di teoria, di storia o di
critica dell’architettura, ma un problema più concreto e ravvicinato di sguardo
progettuale sulla città. Le contraddizioni che sono presenti oggi nella cultura
architettonica fiorentina, derivanti da questa contrapposizione, sono pienamente
simboleggiate a Novoli dal grande Tribunale di Leonardo Ricci, il cui linguaggio è
riconoscibile pur se l’opera non è stata eseguita del tutto secondo il suo progetto
e, accanto, dal quartiere di Leon Krier, sapientemente interpretato, sul crinale tra
modernità e altra modernità, da Natalini. Lì si rispecchiano due concezioni diverse
dello sviluppo planare. Da una parte l’idea di Leonardo Ricci che lo considera
come il luogo di nuovi monumenti che non cercano più il sostegno autorevole
dello sfondo collinare, ma si radicano coraggiosamente nella pianura
esaltandola. L’edificio si trasforma esso stesso in collina autonoma, profilandosi
aggressivamente sull’edilizia circostante. Questa scelta si confronta con
l’atteggiamento più mimetico e si potrebbe dire più strategico di Krier e Natalini, i
quali riecheggiano la strutturazione dei centri storici attraverso un disegno che
presenta alcune sinuosità, alcuni accidenti planimetrici del tipo di quelli che il
tempo sa produrre. Sinuosità e articolazioni stratificate che possono essere imitate.
L’area di Novoli è molto interessante. Essa lo è ancora di più da quando si è
aggiunta agli altri edifici l’opera di Giorgio Grassi, che interviene in questo
conflitto schierandosi dalla parte di Natalini recuperando in senso elevato la
concezione albertiana di città. Si tratta di un esperimento storicistico-accademico
sinceramente ispirato, condotto fino in fondo con rigore logico e poetico. Vista la
negatività iniziale dell’edificare della pianura, come estrema razio, che quello
che è venuto fuori in pianura sia tutto negativo e molti fiorentini con i quali sono
da molti anni in contatto vedono l’espansione interna in termini molto negativi,
parlano della periferia fiorentina in termini assolutamente dispregiativi, perché
forse non conoscono quella di Roma. Io quando vengo qui nella periferia di
Firenze trovo parti che sono invece molto apprezzabili. In realtà strutturalmente si
può definire questo contesto diciamo planare fiorentino un incrocio incompleto di
identità. Quindi non è vero che un territorio urbanizzato è disidentitario, una
congerie e un ammasso di non-luoghi, per citare Marc Augè. In realtà ci sono
identità che sono mutevoli, stratificate, metamorfiche, plurali, quindi ci sono risorse
e riconoscibilità dispiegate che bisogna appunto selezionare, mondi che si
attraversano, confliggono, si accordano con strategie chiare e condivise, cioè si
accordano nonostante non ci siano strategie urbanistiche e architettoniche
ancora chiare e condivise. Ciò che ne risulta è un mosaico urbano dai tratti
labirintici nel quale si stagliano centri commerciali, fabbriche, case ripetute, case

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 27


singole, eccetera, un mosaico caotico che aspetta da sempre alcuni interventi
per guadagnare finalmente una sua necessità.
Vorrei dire quelle che sono le mie opinioni su come si possa vedere che cosa si
può fare, prendendo l’esistente per quello che è, quindi senza pensare a piani
astratti di ridisegno di tutto il sistema planare fiorentino. Allora alcune parole
chiare e concettuali sono: densificazione, equivalenza teorica e pratica tra
preesistente e nuovo, cioè evitare un luogo comune della cultura italiana, che è il
privilegiare le tracce del passato. Cioè tutti gli amministratori dicono: ‘ma come ,
abbiamo un patrimonio enorme di contenitori, di edifici, usiamo quelli,
recuperiamo.’ Questa è una strategia sicuramente necessaria, ma non basta,
quindi occorre da una parte recuperare il patrimonio del passato, ma dall’altra
capire che è inevitabile costruire il nuovo. Quindi occorre che si alleino queste
due realtà e non siano costantemente messe in conflitto, come succede di
sentire, io debbo dire, in ogni città. C’è sempre qualcuno che dice: “ma come,
c’è questo, utilizziamo questo”, non se ne può fare a meno.Se ne fa a meno
ufficialmente, tanto si costruisce lo stesso, pensate all’Italia, da Roma in giù. Ecco
l’atteggiamento vincolistico dell’urbanistica ha alimentato il perverso, tremendo,
irrecuperabile fenomeno dell’abusivismo, che è ormai è irrecuperabile. Non
sappiamo cosa fare: da Roma alla Sicilia non è possibile…. Allora: densificazione,
equilvalenza tra il vecchio e il nuovo, semplificazione normativa, scala media:
l’Italia non tollera grandi interventi, la nostra è una cultura urbanistica fatta di
entità limitate. Per esempio la grande edificazione planare fiorentina ha bisogno
che siano rintracciati all’interno di essa corpi urbani limitati, ma a questo ci
arriviamo nelle prospettive operative. Quindi queste sono le parole chiave-
concettuali. Invece le operazioni da fare, secondo me, neanche costose debbo
dire, in gran parte ci sono, ma non sono conosciute, perché non sono portate a
conoscenza della comunità, quindi la gente non le vede, se non a livello
subliminale. Creare una rete verde, in qualche modo rinaturalizzare tutta
l’edificazione planare, riedificazione non a costo zero – niente a costo zero – ma
che si può fare. Si può pensare al verde non come un generico standard, ma
come una rete verde che connette in modo diverso e alternativo ciò che è già
costruito rendendolo riconoscibile, facendo quell’operazione di riprerimetrazione
che consenta di riguadagnare la scala media contro l’invivibilità, ne parlava
anche Marco Romano prima, che è data anche da un altro termine che
aggiungo ai suoi: l’impossibilità di misurare. Spesso cioè l’abitante delle grandi
periferie moderne non sa misurare dove abita e se non sa misurare sta male,
sente dentro di sé una fortissima sensazione di insicurezza. L’insicurezza nasce da
RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 28
qui. La base dei fatti del 2005 nelle banlieue parigine nasce da qui, ha alla radice
l’impossibilità di sapere dove si è, non si riesce a sapere dove si abita. Occorre
che siano introdotte nella periferia urbana queste modalità di riconoscimento,
che riutilizzino le aree abbandonate che permettono di capire dove siamo, ci
sono moltissime aree che non si sa di chi sono, non si sa a che cosa servono, ma
che possono avere un ruolo estremamente diverso, ridisegnare limiti e margini
precisi, perché senza limiti e margini precisi io non riesco a misurare e provo quella
sensazione di spiazzamento e di disorientamento che è veramente perversa. A
volte ci capita di provare questa sensazione tremenda di non sapere dove siamo,
abbiamo perso la strada. Ecco, nelle periferie contemporanee e in quella
fiorentina, questa sensazione è fortissima. Poi bisogna riattivare un ciclo, anche
economicamente (premi di cubatura), che introduca l’architettura sostenibile
come pratica costante. Però per farlo non è che ci si può limitare al politicamente
corretto: ‘ah, sarebbe bello avere un’architettura sostenibile’, ma bisogna fare in
modo che la gente capisca che gli conviene, quindi abbattere le case obsolete
(ce ne sono tantissime), ricostruire con interventi sostenibili, magari con premi di
cubatura o con altre facilitazioni che i comuni possono benissimo mettere in atto
e quindi rinnovare un patrimonio edilizio che in Italia è molto scadente. E poi in
questa seconda operazione bisognerebbe attivare procedure di sperimentazione
che contemplino anche la partecipazione. Non sarebbe male riprendere spunto
da alcune grandi esperienze che si sono avute in Italia, penso alla stagione di De
Carlo, per fare degli interventi veramente concordati con la popolazione del
quartiere, cosa che invece non è stata fatta con la ricostruzione dell’Aquila. Io
non ho visto i risultati, il governo sarà stato anche efficiente, ma certo se è
mancato il momento partecipativo, la cosa non può alla fine avere un buon
risultato, perché verrà sempre vista come una cosa buona che viene però da un
altro contesto e che non è stata scelta. La terza misura, per così dire, è la
localizzazione di un sistema di architettura di qualità, di landmark, architettura
prevalentemente pubblica, che dovrebbe ridisegnare appunto un circuito di
riconoscibilità. Come diceva Marco Romano nei tessuti, abbiamo la regola aurea
dei 300 m., sappiamo che se gettiamo punti non più lontani dei 300m. tutto
diventa permeabile e la gente può possedere capillarmente il proprio spazio di
vita. Perché quello che manca nella nostra città è un possesso che non è fisico,
ma è mentale, emotivo e quindi sociale, quindi diventa valore di scambio
fondamentale; se manca questo ce lo dobbiamo mettere. E questo si può fare
perché sono operazioni che hanno un costo, ma non un costo impensabile, anzi si
potrebbe pensare che questo costo rientri nella normale manutenzione urbana,
RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 29
quindi bisogna spostare le attività cittadine di manutenzione verso un piano di
miglioramenti anche modesti, perché, non è che si possa ridisegnare tutto, ma
credo che in questo modo si possano ottenere dei risultati di grandissima
importanza. Diciamo che a fronte di un intervento pari a dieci, si può benissimo
ottenere un risultato pari a 80, 90, e sarebbe già miracoloso. Una città come
Firenze potrebbe già arrivare a mettere in atto queste pratiche. In questo modo, e
qui chiudo, si potrebbe andare oltre Palazzeschi e riconciliare il mondo della
collina, che è rimasto ideale, favoreggiato, che è rimasto ancora ciò per cui
vengono i turisti (e ci vengono anche a vivere), col mondo, per adesso trascurato,
negativo, della grande espansione urbana, di pianura, in modo tale che questi
due mondi, finalmente dopo secoli, possano per così dire, stabilire un accordo. Il
tutto sotto il segno di un’altra introduzione celebre che riguarda Firenze, di Mary
McCarthy, che descrivendo Firenze apre con la Loggia dei Lanzi davanti a
Palazzo Vecchio e dice: ‘Mai vista in una città un’immagine di violenza e di
terrore così forte’. Quindi se c’è violenza alla radice di Firenze, come c’è nelle
radici di tutte le città, ma qui particolarmente avvertibile come appunto si è
accorta Mary Mc Carthy, questa stessa violenza significa forza, significa energia,
proprio quella che sarebbe necessaria per compiere questo atto d’amore verso
quei due mondi, collinare e planare, attraverso il quale si possano di nuovo
incontrare.
Grazie.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 30


GABRIELE TAGLIAVENTI
NUOVE CITTÀ ECO-COMPATTE PER IL MONDO CHE ESCE DALLA CRISI

Desidero ringraziare gli


organizzatori di questo
convegno e,
ovviamente, il Comune di
Firenze che mette a
disposizione una tale sala
che, appunto, non è
indifferente al tema del
convegno. Devo anche
dire che ho annotato la
frase del Presidente
dell’Ordine il quale,
stamattina, ci ha ricordato
come la città sia fatta di cittadini. Sembra, una cosa talmente semplice da
passare inosservata, ma, poiché è l’argomento della mia relazione, vorrei partire
proprio da qui.
Viviamo in un’epoca che, con un po’ di sano ottimismo americano, possiamo dire
che esce da una grande crisi, dalla peggiore crisi economica dal 1929. Non ne
usciremo immediatamente, ci saranno dei periodi ancora turbolenti, un po’ come
quando viaggiamo in aereo sull’Atlantico e incontriamo le usuali turbolenze,
ormai, però, la rotta è stata decisa. Il governatore della FED, Ben Bernanke, è
stato bravissimo, i governi hanno messo in gioco una quantità di denaro
spaventosa, la seconda depressione è evitata.
Il problema è, oggi, che il mondo sarà differente da quello che ha visto svilupparsi
la crisi, ma il problema può diventare un’opportunità. Il mondo sarà diverso da
RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO - 31
quello che conosciamo, soprattutto di quello degli ultimi decenni del secolo
passato e dei primi anni di questo nuovo. Il tema centrale credo sia quello di
costruire una città efficiente: accessibilità, densità, (ed è importante che in questa
sala non sia stato il primo ad usare questa parola, che era politicamente molto
scorretta fino a qualche tempo fa), trasporto pubblico, perché, se teniamo a una
qualche idea di sostenibilità, dobbiamo inevitabilmente fare una politica di
trasporto pubblico.
Usciamo quindi da una crisi e ci domandiamo, esistono immagini di questa crisi?
Sì, che esistono, siamo pieni di immagini di questa crisi. Questa è una di quelle che
mi piace di più: siamo in Cina e credo che sia un magnifico esempio di sviluppo
dissennato che la crisi
economica ha reso
assolutamente evidente.
(fig.1) Ci sono dei
grattacielozzi buttati lì
come dei dadi, i miei
amici americani dicono:
“come gente colpita da
un ictus, gente che è
incapace di articolare
parole e frasi compiute.
Ha problemi di
articolazione e di
gesticolazione. E' come
regredita a una fase
infantile e getta gli
edifici sul territorio come dei dadi”. Come vedete il territorio fa una brutta fine.
L’architettura fa una brutta fine. L’economia fa una brutta fine: queste tre cose
sono collegate.
Una delle immagini di questa crisi è l’arresto delle costruzioni, succede in migliaia
di casi, la fonte di questi dati è l’associazione dei costruttori di skyscrapers. I
grattacieli sono uno dei simboli più facili da individuare, i più naive (che tutti noi
vorremmo costruire, allettati dal nostro ego e dalle parcelle colossali), ma il
crepuscolo dei grattacieli in quasi tutto il mondo, è un’altra immagine di crisi.
Ci sono decine e decine di articoli su questo, ci sono questi grattacieli interrotti,
(fig. 2) per cui uno non sa più se sono delle sculture, dei progetti dell’avanguardia
contemporanea. Invece, molto semplicemente, le maestranze se ne sono

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO - 32


andate, le banche o le
compagnie di costruzioni
hanno fatto bancarotta ed è
un’immagine di questa crisi,
un’altra delle immagini di
questa crisi.
Molte città hanno pensato,
nella maniera più naive
possibile, che, per divenire
moderni, bastava costruire un
grattacielo. Una ricetta che va
bene nelle periferie di tutt'Italia,
da Bolzano a Caltanissetta,
ovunque. Si fa un grattacielo e siamo moderni! Non ci sono soltanto i grattacieli,
questi meravigliosi simboli fallici, e adesso abbiamo visto che, per aderire di più
alla realtà, al processo naturale di degenerazione, vengono addirittura fatti storti.
Geniale. Per meglio aderire al
problema organico di cui
soffrono moltissimo maschi
adulti, adesso i grattacieli li
fanno storti.
Ma ci sono anche le villettopoli,
la crisi è infatti cominciata
nell’analogo americano di
villettopoli, con i subprime,
questi enormi suburbs che le
banche hanno finanziato e che
oggi si presentano così (fig. 3),
completamente abbandonati.
Negli Stati Uniti in centinaia e
centinaia di casi hanno
provocato le foreclosures, oggi resta questo: non c’è nulla, non c’è più nulla.
E Google Earth è un altro dei fantastici strumenti che abbiamo a disposizione per
evitare di ripetere gli errori del secolo passato. Se guardate l’immagine in basso a
destra, potreste essere attirati dal verde, da questo bel verde, da questo enorme
square. Qui siamo a Detroit e quel verde non è tanto bello, perché se guardate le

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 33


immagini in alto a sinistra
vedrete lo stesso quartiere
nel 1949. Cioè, nel 1949
c’era un quartiere dentro
quello square. Lo square
c’è non perché ha fatto un
piano Olmsted o Burnham,
come a San Francisco, a
Boston, a Washington D.C.,
ma c’è perché quest’area
è stata abbandonata,
perché Detroit è passata
da 2.200.000 abitanti a
600.000 abitanti e se Marchionne non fa un miracolo, Detroit nei prossimi anni
svolgerà il ruolo di set gratuito per film di fantascienza come Robocop o Robocop
2. Non c’è bisogno di costruire scenografie, si va a Detroit e quello che vedete è
quello che rimane della città. Questa è un’altra immagine (fig.4), siamo nel centro
di Detroit, tutto quel verde che vedete non è verde di una città giardino, è il verde
di isolati che sono stati distrutti, cioè tutte le case sono state distrutte perché la

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 34


gente se n’è andata e se la casa rimane in piedi diventa pericolosa perché ci
vanno le gangs di robocops, eccetera. Allora c’è un servizio federale, (non della
città, perché non ha i soldi) che demolisce gli isolati, e quindi quello che voi
vedete adesso è questo patchwork di verde e di spazi che sono ideali per le
ambush, cioè le imboscate. Da questo fenomeno deriva il fatto che a Detroit non
esiste un valore del mercato immobiliare, perché semplicemente nessuno ci vuole
andare ad abitare. Il prezzo medio di vendita di una casa nel mese di novembre
2009 è stato di 18.000 dollari. Non al metro quadrato. Per l'intera casa.
Ovviamente il presidente americano se n’è accorto, è stato eletto per questo, e
una cosa fantastica è stato il suo statement in novembre. La priorità che
abbiamo, se vogliamo uscire da questa crisi, è costruire una città efficiente.
Lui è andato oltre ovviamente, ha detto: una città compatta e basata sul
trasporto pubblico.
Immaginate cosa vuol dire nella nazione che ha prodotto GM, Chrysler, Ford; due
delle tre, non vi sfugga, hanno dichiarato bancarotta. Di questi temi noi ce ne
occupiamo a Bologna con la quinta edizione della nostra triennale “A vision of
Europe”, dove sono mostrati ottantotto progetti di città eco-efficienti, costruite,
quindi non sono idee, e questo è il catalogo (fig. 5) 1.

Perché dobbiamo farlo? Perché è una priorità. Solo negli Stati Uniti?
Ovviamente no.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 35


Qui abbiamo un parallelo (fig. 6), uno dei tanti che abbiamo costruito, che mostra
un problema, se volete direttamente legato al debito pubblico italiano.
Abbiamo in alto una
serie orizzontale data
di tre città, quella
centrale è quella
dove vivo, cioè
Bologna, e poi a
sinistra Bilbao e, a
destra, Palma di
Maiorca. Se leggiamo
questa immagine
orizzontalmente le tre
città hanno la stessa
popolazione, circa
370.000 abitanti.
Bilbao ne ha un po’
meno, 356.000. Però
Bilbao e Bologna
hanno due rette
parallele che indicano
il loro andamento
demografico negli
ultimi 40 anni: Bologna
da 500.000 abitanti, mai raggiunti, nel 1971 oggi ne ha 370.000, quindi per strada si
è persa la città dove insegno, cioè Ferrara. E se la città è fatta dai cittadini,
dovete capire che amministrare una città non è più un problema di Destra o di
Sinistra, ma di avere un progetto per ricostruirla.
Chi amministra questa città, amministra una fantastica città che nel giro di
trent’anni ha perso il 20% del proprio reddito e poi è stata talmente intelligente
che nel 1971 si estendeva su 5.000 ettari di territorio urbanizzato e oggi,
ovviamente, poiché ha perso 130.000 abitanti, il territorio urbanizzato è cresciuto
fino a 9.000 ettari, cioè quasi raddoppiato. Se lo fate in un’azienda privata, questa
dovrà presentare i libri in tribunale, perché si chiama bancarotta. Guardiamo
l’immagine a sinistra: Bilbao, duemila ettari.
Duemila rispetto a novemila è meno di un quarto.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 36


La gente visita Bilbao e dice che a Bilbao, rispetto a Bologna, ci sono il metrò e il
tram. A Bologna non esiste né il metrò, né il tram, perché non si possono fare, la
città è troppo tentacolare e dispersa. Capite che esistono ovviamente delle
ragioni fisiche, scientifiche, perché questo non può succedere. Non è casuale,.
Poi c’è Palma di Maiorca, interessante perché dentro c’è il quarto aereoporto più
grande d’Europa, quindici milioni di turisti ogni anno (quindici milioni: l’Italia, per
avere un’idea, fa trentacinque milioni di turisti all’anno), ci sono tantissime
seconde case e il territorio urbanizzato di Palma di Maiorca riesce ad essere di
7.000 ettari, quindi 2.000 ettari meno della magnifica Bologna, avanzata e civile. È
un bel confronto, questa situazione è trasversale alla politica, cioè a Bologna
abbiamo avuto amministrazioni di Sinistra per 50 anni, ma ne abbiamo avuta
anche una di Destra e la retta del diagramma ha continuato a scendere sempre
nella stessa direzione.
Allora facciamo un altro confronto, questa volta verticale, cioè prendiamo gli
stessi ettari, 9.000, e ci poniamo questa domanda: che cosa sta dentro 9.000
ettari? E scopriamo che c’è una simpatica città che si chiama Parigi, un comune,
un’amministrazione comunale, che sta dentro a 9.000 ettari come Bologna, però,
a dispetto di Bologna, ha, oggi, 2.150.000 abitanti, e, con tutto l’orgoglio che
possono avere i miei concittadini, non riesco a dire che sia più brutta di Bologna.
Questo significa costruire una città in modo efficiente.
Una città di 2.150.000 abitanti su 9.000 ettari. Divisa in 20 città e in 84 quartieri.
Con 6 stazioni ferroviarie, 14 linee di metropolitana, 5 di metropolitana regionale
(RER), ministeri, musei, università, ospedali, parchi, etc.
Bisogna che i nostri amministratori se ne rendano conto. E' evidente che, usciti da
questa crisi, abbiamo altri cinque anni per la prossima bolla e poi altri cinque,
perché questo è il meccanismo. Se non cambiamo il meccanismo, ci ripiombiamo
dentro inevitabilmente, come ci ha spiegato Allan Greenspan.
Questo è un confronto che può esser fatto per tantissime città, un altro che
abbiamo fatto è Modena - San Sebastian: stessa popolazione: circa 180.000
abitanti.
Modena i suoi 180.000 abitanti li disperde su 4.000 ettari, San Sebastian su 2.000.
Andiamo a vedere come sono distribuiti questi abitanti: sono distribuiti non solo sul
doppio degli ettari, ma andando a vedere il modello organizzativo scopriamo che
a Modena, ci sono un milione di metri quadrati di superficie di grande
distribuzione. Quindi c’è inquinamento, si va nei mall, negli ipermercati e si usa
l’auto. Se riempiamo il territorio di ipermercati è inutile che, dopo, prendiamo un
giorno della settimana, il giovedì in Emilia Romagna, e facciamo “le giornate

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 37


senz’auto”. Andate a vedere a San Sebastian ce n’è un decimo di superficie di
Mall, non il 10 % in meno, ma 1/10.
Quindi una, San Sebastian è una città eco-compatta, l’altra, Modena, è una città
“sprawllata”, dispersa.
È un problema scientifico!
Il confronto lo possiamo fare fra Ferrara e Salamanca, o fra tantissime altre città.
Qui si vede come funzionano e quindi possiamo misurare scientificamente quanto
è accessibile una città rispetto ad un’altra. È interessante, la valutazione del rischio
legato al petrolio: se il petrolio scende come risorsa o se finisce (e finisce, lo
sappiamo, dipende quando come ci hanno spiegato James Howard Kunstler2 e
Yves Cochet3), o se il suo prezzo aumenta, (le due cose possono essere legate),
che cosa fanno questi abitanti che sono sprawllati?
Adesso mi immagino quelli di Reggio Emilia che abitano vicino alla stazione per
l’alta velocità, il giorno che non hanno la possibilità di prendere la macchina per
andare dall’altra parte, quelli che per esempio abitano nelle periferie e vanno
tutti i giorni nei centri commerciali, cosa succede il giorno che petrolio costerà
come due anni fa, tre anni fa o come costerà tra tre anni, o tra dieci anni o, molto
probabilmente, non ci sarà più?
Allora, esiste una possibilità di uscita da questa crisi, però non è assolutamente
detto che la seguiamo, perché siamo degli animali che hanno un gusto perverso
per l’errore, ma se vogliamo, possiamo uscirne, se riconosciamo a chiamare le
cose con il loro nome.
Per esempio, il termine periferia preferisco trattarlo in due modi: slab-urbia e sub-
urbia, sono due modi tipologici di creare un ambiente che non è quello urbano.
Slab è quello europeo – c’è pochissimo negli Stati Uniti – slab è la piastra di
cemento quella dura: sono
i Corviale, i Gallaratese, i
Pilastri, le Vele, les Banlieues
dell'Ile-de-france, i
Markisches Viertes di
Berlino, etc...
Questa è un immagine
della periferia di Lisbona
(fig. 7), è nuovo
quest’intervento, cioè lo
stanno facendo oggi. Se
voi usate lo zoom, scoprite

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 38


che non c’è nessun marciapiede, non c’è nessun negozio, non c’è nessuno spazio
pedonale. Si può vivere in una maniera sostenibile in questo modo? Questo è
fatto, per esempio, dall’amministrazione pubblica di Lisbona, che mi ha mandato
un libro di duecento pagine, pieno zeppo di queste porcherie e poi uno si chiede
come mai il nostro deficit aumenta e le nostre città invece di migliorare
peggiorano.
Questa è slab-urbia!
Anzitutto non è efficiente, consuma territorio esattamente come sub-urbia. E'
astratta, priva d'identità, anti-umana, aliena, triste, generatrice d'inquinamento e
d'insicurezza.
Voi vi ricorderete senz’altro di questa pubblicità che è comparsa su tutti i
quotidiani nazionali (fig. 8), è geniale perché è fatta dalla BMW che vende
automobili e vi mostra un tipico sub-urbs, cioè un tipico ambiente nordamericano.
In Europa siamo totalitaristi allora facciamo le slab-urbia, in America, sono più
liberali, e, quindi, fanno le villette, le sub-urbia.
Americani ed Europei, inquiniamo tutti il territorio.
Solo in modo differente.
La BMW dice: “non è facile essere una persona riconoscibile in un ambiente del
genere”, che poi è un ambiente costruito per l’automobile. Non sono degli
ambienti efficienti, se uno vuole andare a prendere un litro di latte deve passare
ore in automobile. Se
un ragazzo vuole
incontrare una ragazza
quando è in età
riproduttiva, passa
delle ore nel traffico.
Per qualunque attività,
sono legati
all’automobile. Non si
vive bene così.
Chiunque è stato negli
Stati Uniti, sa che non si
vive senza automobile,
esattamente come
nelle slab-urbia, non si
vive bene.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 39


Non si vive nella periferia di Bologna senza automobile, nessuno, sano di mente lo
fa. E questa è la situazione di oggi (fig. 9): a sinistra abbiamo, il centro di Huston, i
grattacielozzi che creano
questo simpatico
ambiente fatto di
parcheggi. Invito le
signore che non hanno
voglia di emozioni forti a
non attraversare questa
distesa di parcheggi dopo
le cinque di sera.
A destra abbiamo i sub-
urbs abbandonati, dove
la classe media che sta
perdendo il reddito si
trova isolata, senza più soldi
e scopre che senza soldi non può più fare nulla, perché la città non esiste più.
Questi due sistemi commercialmente si reggono su quest’altro mostro che è il mall,
il centro commerciale, (fig 10) che è l’immagine fisica più forte della
disuguaglianza, della possibilità di dare a uno, (che in Emilia Romagna si può
chiamare Coop, in Lombardia si può chiamare Esselunga) di fare un enorme
profitto a scapito dei cittadini. Questo lo potete fare perché siamo in un mondo
libero ed esiste libertà di
scelta, però se lo fate,
non facciamo poi la
“giornata senz’auto”.
Perchè diventa patetico
fare le “giornate
senz'auto” in queste
condizioni. Perché la
gente nel mall ci va con
l’automobile, non ci va a
piedi. Quindi se lo
vogliamo fare, se questa
è la nostra scelta politica,
sociale, culturale, lo

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 40


possiamo fare, siamo liberi, ci sono varie strade davanti a noi, ma dopo non
lamentiamoci. Quello che provochiamo è l’ingorgo scientifico: non sono gli
abitanti stupidi, incivili, non sufficientemente colti, a creare il problema. Ma il
problema esiste perché tutte le mattine, per sopravvivere, escono dagli enormi
slab-urbia, escono dalle simpaticissime sub-urbia, vanno a lavorare nei
grattacielozzi o a fare spesa nei mall e ci vanno in automobile.
E questi sono i panorami quotidiani, quindi se vogliamo una civiltà basata
sull’automobile, sappiamo come fare, se vogliamo fare qualcosa di diverso,
dobbiamo chiaramente cambiare rotta.
Esiste oggi il mondo urbano, ed esiste il mondo sub-urbano. Il mondo sub-urbano
può anche essere in centro, moltissimi centri si stanno sub-urbanizzando, perché è
un fatto tipologico: non ci sono i negozi, la popolazione se ne va, si desertifica.
Queste sono delle malattie, delle patologie che si possono curare come le
patologie mediche, e possono attecchire anche negli organismi sani, non è detto
che il centro storico, perché è centro storico allora è salvo. E’ assolutamente
geograficamente
equipollente.
Quindi nell’idea
primordiale di città
esiste insito un concetto
che ci dice come, se
vuole essere efficiente, è
meglio che sia
compatta. Per esempio
nella periferia di
Bologna, abbiamo una
densità di 0,39 abitanti
per ettaro. Venendo
dalle nostre facoltà
sappiamo che una città-giardino, che è il livello più basso di densità di città, è
teorizzata a 0,6. Chi sono i geni della pianificazione che hanno costruito una città
di 0,39 abitanti per ettaro che, scientificamente non riesce a creare città?
Esiste un modello, che è il modello della città policentrica, che può crescere, è
una città compatta che può crescere a tantissimi livelli e può essere un borgo,
può essere un villaggio, può essere una città, può essere una metropoli e questo è
il sistema organico di sviluppo. E non è un sistema che conosciamo da oggi, è un

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 41


sistema che conosciamo bene, oggi abbiamo la chance di recuperalo per
costruire la città di domani.
Su cosa è basato questo sistema?
Invece di piani regolatori di centinaia di pagine, si fanno di non più di 50 pagine e
sono form-based, cioè sono basati sulla forma. Per cui chiunque anche se non è
un tecnico, (un cittadino come al tempo delle terre murate medioevali), riesce a
dialogare con il potere e a capire che cosa si può più o meno fare. Quindi c’è un
transetto e ci sono sei zone, si passa dalla zona di campagna, dove non si
costruisce, a delle zone di riserva, a delle zone al limite con la città e poi dopo
esistono T4, T5, T6, che sono le
zone urbane, le zone generali, il
centro di quartiere e il centro
della città. E il cambiamento è
questo, quello che infatti si sta
attuando e si sta cercando di
attuare negli Stati Uniti, un
cambiamento verso l’urbano,
cioè l'abbandono del modello
Slab-urbia / Sub-urbia.
Oggi, in Italia, viviamo un po’
come in un romanzo di Dumas, il
suo, forse, più bello: Vent’anni
dopo. Facciamo oggi le cose

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 42


che gli americani hanno fatto
venti o trenta anni fa. Oggi
costruiamo i centri
commerciali, oggi costruiamo
villettopoli, perché ci siamo
liberati, tanto per esser chiari,
del comunismo e quindi
facciamo libero mercato
dovunque.
Villettopoli e ipermercati,
quello che loro avevano fatto
quaranta o cinquanta anni fa.
Loro adesso cambiano, perché hanno capito che altrimenti non vanno avanti, noi
costruiamo gli ipermercati, loro invece non li fanno più.
Una città efficiente deve avere una corretta densità; se non si ha una corretta
densità non si può avere un sistema di trasporto pubblico, e, se non si può avere
un sistema di trasporto pubblico, allora si usa l’automobile. Amen.
Loro sembra l'abbiano capito.
Noi navighiamo nel buio.
Questa è Strasburgo e questi
sono i vari tram (fig 11). (Dopo
possiamo fare un referendum
e decidere quello che
preferiamo), a Bologna c’è un
sistema geniale, cioè il primo
tram in Europa, che non è su
ferro. L’unico, anche se, in
realtà, ce n’è un altro ma non
piace dirlo, perché è in una
povera, sperduta città spagnola: Castellon.
L’unico tram che va su gomma si chiama filobus, cominciamo a chiamare le cose
col loro nome e forse riusciamo a risolvere i problemi.
Ma il cambiamento inizia a manifestarsi anche da noi, per esempio in Francia.
Dopo la crisi delle banlieues, nel 1995/6 e 10 anni dopo, 2005/2006, perché è un
processo che si ripete, è stata creata la ANRU: Agence Nationale pour la

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 43


Rénovation Urbaine (www.anru.fr), che fa queste cose, cioè demolisce ogni anno
centinaia di slab-urbia, centinaia.
Sono operazioni incredibili e quello che si costruisce al suo posto, è una parte di
città. L’idea primordiale, come diceva prima Marco Romano è questa: la gente
deve trovare un’identità, e non può trovare un’identità se viene collocata dentro
queste cellule astratte. Possono essere fatte in un qualsiasi stile, possono essere
moderniste ma anche classiche. Il fatto è, che per far parte di una comunità, va
ricercata la riconoscibilità urbana, solo così può avvenire il cambiamento. Se
invece di guardare le riviste di architettura, leggessimo i giornali e il web,
scopriremmo che sono pieni zeppi di centinaia di casi. L’altro giorno dei
grattacielozzi sono stati demoliti
a Maux, a qualche km da Parigi,
su iniziativa del sindaco François
Copé, e poi ne andranno via
altri cinque. Ci sono centinaia di
questi casi.
È divertente sapere che le stesse
cose che vengono demolite in
massa in Francia oggi
ottengono il permesso di
costruire nelle nostre città. Ma il
cambiamento verso l’urbano
avviene non solo nelle slab-
urbia, avviene anche con i
centri commerciali, che a
dispetto del Signor Coop e del
Signor Esselunga, negli Stati Uniti
non si fanno più, e non da ieri.
Nel 2003, la CNN Money, non il
Centro Nazionale contro gli
Ipermercati, ha fatto una
fantastica trasmissione, che ho
cercato dopo di copiare, dal
titolo: “La fine dell’era degli
Ipermercati”
La trasmissione, e l'epoca finita, sono del 2003.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 44


Nel 2008 non ne è stato
costruito nessun
ipermercato negli Stati
Uniti e quest’anno se ne
demoliranno dai
trecento ai
quattrocento.
Questo è uno dei tanti:
Cinderella City
Shopping Mall (fig 12).

Questo è sintomatico
del cambiamento. Ma
che cosa si fa al suo
posto?
Chiedetevi se non esiste
un’immagine migliore
della crisi se non
l’ipermercato. E' mai
esistita, nella storia
millenaria della nostra
civiltà, ma anche di
quella cinese, o di quella
indiana, giapponese,
maya, inca, l’idea che uno
prenda dieci ettari di
territorio, costruisca su un
terzo di questi ettari e, per
di più, costruisca a un solo
piano?
Neanche il più stupido al
mondo avrebbe mai fatto
una cosa di questo
genere.
E’ un idea brutale, che è il
simbolo della crisi, come la

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 45


gente che viene espulsa dalle case, mandata via perché non è capace di
pagare il debito.

Perché avviene il cambiamento?


Perché funziona, perché conviene a tutti.
Conviene al proprietario che demolisce il baraccone obsoleto e fa un’operazione
immobiliare di tre – quattro piani su tutti i dieci gli ettari.
Conviene ai cittadini, che alla fine vengono ad acquistare un appartamento
vicino al negozio e quindi a fare la spesa a piedi, esattamente come nei centri
storici .
Conviene all’amministrazione pubblica che non manda le pseudo-ronde nei
parcheggi o l’esercito per controllare un territorio che è esploso.
Questo nell’immagine è un altro ipermercato demolito (fig. 13), la Coop lo
potrebbe fare benissimo oggi a Bologna. Ci sono tanti di questi casi, c’è un sito
fantastico che si chiama: www.deadmalls.com, dove ne potete trovare a
centinaia.
Negli Stati Uniti non si fanno più, però si fanno da noi, vent’anni dopo. Alexandre
Dumas colpisce ancora.

Prendiamo il South Glenn Mall (fig. 14). Hanno fatto anche una festa quando
l’hanno demolito. Che cosa si fa dunque al posto di questi mall? Si fa questo. (fig.
15) Che cos’è?

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 46


Guardiamolo bene: è un quartiere
urbano tradizionale, innovativo,
ecologico, compatto, efficiente.
C’è una densità sufficiente a far
andare la gente a piedi, l’automobile
non è il diavolo, quindi si può circolare
in automobile, ma se si vuole si può
anche non prenderla. E come sapete,
se andate a Parigi, voi non prendete
l’automobile, a Parigi, per abitante, ci
sono metà delle automobili di
Bologna. Perché?
Non è che la gente a Parigi è intelligente e a Bologna è stupida, ma la gente, se
vive in un ambiente che offre la possibilità di andare a piedi o di usare il trasporto
pubblico, non la prende naturalmente. Quindi funziona.
Poi in Italia si fa un’altra cosa. Si fanno i raddoppi delle autostrade e delle
tangenziali, ma se ci svegliamo scopriamo che anche questi oggi si demoliscono
in America.
Ormai ne sono state demolite a
decine a San Francisco, a New York,
a Boston, a Chicago. Questo (fig. 16)
è il caso di Milwaukee una bellissima
tangenziale urbana. A Bologna
stiamo finanziando il raddoppio,
perché siamo avanti e questa è
Milwaukee, vedete com’è?
Questo è com’era, una tipica
tangenziale sopraelevata all'interno
dell'area urbana. Ma è stata
demolita e che cosa si fa al suo
posto? Ovviamente ci costruiscono.
Ci costruiscono una serie di nuovi
quartieri urbani compatti.
Dato che il terreno dell’autostrada urbana distrugge l’economia della città,
impoverendolo, creando aree di degrado, deprezzando il valore di tutte le aree
residenziali adiacenti, lo rimuoviamo e abbiamo una fantastica risorsa per

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 47


costruire una città di domani senza
invadere la campagna.
Senza, cioè, distruggere una risorsa
vitale. Allora, come fare una città
efficiente oggi?
Bisogna dare delle risposte ai nostri
amministratori.
Primo copiate Parigi, fatela identica, copiatene il principio. Perché è la città più
bella del mondo, la città che ha più turisti al mondo. Perché funziona. E’ fatta di
venti città che si chiamano arrondissements, ciascuno ha circa centomila abitanti,
ciascuno ha il suo municipio,
la sua piazza, il suo mercato,
le sue scuole, i suoi licei.
Quindi quando andiamo a
Parigi e diciamo: ‘Ah, che
bello, ogni quartiere ha il suo
mercato, la sua strada coi
negozi, la sua piazza, non ce
l’ha perché Dio è molto
gentile verso gli abitanti
dell’Ile-de-France, ma
perché i suoi architetti e i
suoi pianificatori, soprattutto
quel genio che era il barone
Haussmann, l’hanno
costruita centocinquanta
anni fa, per essere una città
bella ed efficiente.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 48


Vediamo com’è fatta (fig. 16):
ci sono spazi monumentali,
che è sicuro ci debbano
essere, spazi dove circola
l’automobile, (finché il petrolio
continuerà ad esistere ne
avremo bisogno), ma poi ci
sono dei quartieri ad alta
densità, ma con sette piani.
Sette piani, bisogna spiegarlo
bene agli amministratori, è un
problema democratico. Se
domani viene l’emiro di Dubai
e mi chiede di costruire un
grattacielo, giuro glielo faccio,
ma non è democratico,
perché sempre le nostre città
hanno avuto la regola
dell’altezza, che è
fondamentale per far sì che
qualunque abitante sia
veramente uguale rispetto alla
legge.

E gli unici edifici alti sono gli edifici pubblici: il simbolo del comune, il simbolo della
collettività, l’edificio sacro.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 49


Come a Washington D.C. Dove nessun
edificio è più alto della prima trabeazione
del Campidoglio. Altrimenti è evidente, è
un simbolo chiarissimo di mancanza di
democrazia.
Andate nei quartieri periferici di Parigi, e
trovate i negozietti aperti fino alle dieci di
sera in tutte le strade. Come a New York
City, come a Madrid.
Come non ci sono più a Bologna.
E quindi potete vivere bene in una città
compatta, potete vivere se siete giovani, se
siete anziani, se siete ricchi, anche se siete
poveri.
In questa immagine si vede come è divisa
Parigi (fig. 17).
E quando scoprite che funziona davvero
bene?
Quando acquistate una casa a Parigi. Il
prezzo delle case varia, infatti, a seconda
del quartiere. Ciascuno degli 84 quartieri in
cui è divisa ha il suo prezzo e, quindi, tutto è
trasparente. Quindi dieci città,venti
arrondissement, ottantaquattro quartieri.
A Bologna siamo più avanti, i quartieri sono
delle strane amebe che non hanno nessun
riferimento con la realtà.
I quartieri a Parigi sono 84 su 9.000 ettari. A
Bologna 9 su 9.000 ettari !
Come faranno mai i”poliziotti di quartiere” a
Bologna? Poveri.
Poi la metropolitana, OK, i grandi assi ci
sono, ma ci sono anche i grandi centri di
quartiere, tantissime piazze, i negozi. Poi in
queste città compatte ed efficienti si
scopre quello che non esiste più nelle

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 50


periferie padane: le drogherie! Uno va a New York, va a Parigi e vede che ci sono
drogherie ovunque (fig. 18), che funzionano tranquillamente e, allora, si
domanda: una drogheria, perché da
noi non c’è più? Perché è il simbolo del
passato? No, perché i nostri brillanti
pianificatori e amministratori continuano
a progettare amebe che non hanno
alcun riferimento con la realtà sociale
ed economica, tutte basate su teorie
del 1920, cioè di almeno cento anni fa,
che sono la cosa più outdated che si
possa immaginare:
Continuiamo a costruire oggi sulla base di teorie di almeno cento anni fa,
esattamente come se i nostri amministratori oggi pretendessero di governarci con
le teorie politiche di cento anni fa. Avete idea? Comunismo, fascismo, nazional-
socialismo. Tutte cose che, grazie a Dio, non esistono più.
I negozietti: cercateli nelle periferie italiane!
Ma nelle metropoli, nelle città compatte ci sono eccome nel 2010.
E i parchi, ci sono anche loro ovviamente: dentro le città compatte ci possono
tranquillamente essere anche parchi.
Come si può fare allora per costruire, oggi, una città compatta?
E Firenze potrebbe essere la prima città italiana a lanciare un nuovo Rinascimento
della città italiana attraverso una nuova politica di città e quartieri compatti.
Per chiarire la strategia, vi
mostro tre esempi a scale
difefrenti: un centro di
città, una nuova città, un
nuovo borgo.
Il primo è tutto nuovo,
siamo in una banlieue
dure che si chiama Plessis
Robinson (fig. 19, 20, 21).
Nel 1989 è arrivato un
sindaco il quale ha
deciso di demolire 2.400
appartamenti, li ha

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 51


demoliti in vent’anni e al
suo posto che cosa ha
fatto, ha costruito un
centro città, perché ha
pensato che il problema
fondamentale fosse
quello che si diceva
prima: gli abitanti si
ribellano, perché
pensano di essere di
seconda classe rispetto
agli abitanti di Parigi.
Siamo a sette chilometri
da Parigi e lui che cosa
ha fatto? Ha costruito un
centro urbano.
Come? Ha chiesto
ovviamente ai suoi
architetti che lo
facessero basandosi
sull’architettura
regionale: a Parigi
l’architettura di Parigi, a
Bari quella di Bari, a
Madrid quella di Madrid.

Quindi tutto quello che


vedete nelle immagini è
nuovo, del tutto nuovo,
brand new: ci sono le
strade, i negozi, gli
abitanti, ci sono gli
alloggi di edilizia
economico popolare. Va
anche detto che in Francia hanno una legge fantastica, per cui almeno il 10%
dell’intervento deve essere di edilizia economico popolare, non come da noi

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 52


dove c’è il marchio ‘tu
abiti in quella casa
perché sei povero” no, tu
puoi abitare qui e là,
perché se disperdiamo è
più intelligente e
vantaggioso per tutti.
Questo è il plastico di
questa nuova città (fig.
22), gli edifici non
superano i cinque-sei
piani, c’è sempre un
limite di altezza. C’è un
mercato. Pensate bene, un mercato!
Viene fatto un mercato nuovo con sotto cinque piani di garage interrati e il
mercato funziona. Non c’è l’ipermercato, ma c’è il mercato, ci sono i negozi, c’è
una densità sufficiente per cui la gente scende e va a piedi a fare la spesa.

Quindi abbiamo una città moderna, perché tutti amiamo la modernità, ma


basata su un’identità regionale. La città ovviamente è compatta, quindi esiste un
limite, al di là di quello c’è la campagna e la natura. Questa nell’immagine è la
città realizzata (fig 23), tutto quello che vedete, l’acqua, le rocce, il parco, le
case, il mercato è tutto artificiale, non c’era prima, tutto nuovo.
Se andate su internet a vedere il valore immobiliare di Plessis Robinson, scoprite
come sia il più alto della regione, cioè la gente vuole veramente andarci a vivere.
Si costruisce a dei ritmi enormi, perché la gente questo modello lo vuole, vuole
fuggire allo stigma della periferia, di
sub-urbia e slab-urbia.
Questo è il mercato, nuovo, ci
andate, e lo trovate pieno zeppo di
mercanzie. E, poi, vi viene da ridere a
pensare che nelle nostre città si dice
che un mercato tradizionale e le sue
mercanzie appartengono ad un’altra
era.
Questa (fig. 24) è una strada del

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 53


centro che andrebbe presa a modello, ci sono i negozi (quelli che non ci sono
nella periferia di Bologna), le macchine circolano, ma la sezione della strada è
ridotta in modo tale da facilitare l'attraversamento pedonale, ci sono dei
marciapiedi e c’è una qualità: si capisce che siamo a Parigi, non siamo a Firenze,
non siamo a Bologna, non siamo a Valencia, siamo nella regione di Parigi!

Poi c’è una città più grande,


questa è completamente
nuova, una città di 50.000
abitanti, creata dal nulla con un
interessante esperimento
amministrativo, perché è
realizzata su cinque comuni: si
chiama Val d’Europe (fig. 25, 26,
27) e questa città è costruita
dalla Disney. La Disney ha
ottenuto per quarant’anni dal
gover no francese questo
territorio, ha costruito il suo parco
che ha dodici milioni di turisti
all’anno, non raggiunge il punto
di guadagno e quindi come
guadagna Disney? Costruendo
una città, cioè vendendo alle
persone quel che il mercato
immobiliare dell'Ile-de-France non offre: la possibilità di vivere in un ambiente
urbano, tradizionale, parigino, fuori da Parigi, a un prezzo accessibile, cioè a 3.500
Euro al metro quadrato, invece che i 7.000-10.000 di Parigi.
Questa è la città nuova, è vicina al parco di Eurodisney, la fermata prima dell'
RER, è una città che si può definire T.O.D., cioè transit oriented development,
perché è basata sul trasporto pubblico: ha due fermate dell’RER, la fermata
regionale e la stazione alta velocità al centro di un interscambio più importante
d’Europa. Cioè da quella stazione andate a Marsiglia in tre ore, a Londra in due, a
Bruxelles in un’ora, a Bordeaux in tre ore e mezza e ovviamente anche a
Strasburgo in due e quindi a Monaco in quattro.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 54


Questo è il piano
regolatore (fig. 28) . Il
piano regolatore è basato,
come Parigi, su quartieri.
Una città compatta, divisa
in quartieri tradizionali, e la
proprietà rimane al 10% a
Disney. Quindi la Disney
tiene moltissimo alla sua
architettura, non vuole che
sia una città fatta come
decidono gli architetti, ma
che sia costruita secondo
un codice; Parigi è
costruita secondo un
codice architettura
haussmaniana, un codice
francese tradizionale. Gli
edifici pubblici possono
essere modernisti, why
not? Qualche oggetto
esotico può esserci in un
ambiente a forte identità.
Questa è la stazione,
quindi ci si arriva con il
mezzo pubblico
comodamente, non ci si va come nelle nostre periferie solo in automobile.

Questa è la piazza
centrale con il caffè
progettato da Léon Krier
(fig. 29), questa è Place
d’Arianne (fig. 30), una
delle piazze centrali, con
negozi, caffé, b a r,
ristoranti, uffici.. Questa è

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 55


un’altra strada e c'è un
hotel.
Dunque, cinquantamila
abitanti, una caserma
dei pompieri,
un'università, un
ospedale, e la più
grande galleria
commerciale, il più
grande centro
commerciale urbano
che esiste in Europa,
accessibile con il metrò,
l'RER.
Quest’immagine è
simpatica (fig. 31), a
sinistra c’è l’edilizia
economico-popolare, a
destra c’è la scuola.
Poiché la scuola,
perdonate l’ironia, è
fatta con fondi pubblici,
è un’architettura
modernista e quindi è
quella cosa strana a
destra, quella a sinistra
invece, che è fatta coi
fondi di Disney, è
tradizionale. E questi
sono i vari quartieri che si
costruiscono, che
sfuggono a tutte le
nostre facoltà di
architettura, a tutte le
nostre riviste.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 56


Quindi abbiamo visto il
centro città, il quartiere, la
città, ora passiamo al borgo.
Quest’altro è un intervento
che abbiamo fatto
recentemente a Bologna
(fig. 32, 33, 34) e che mi
piace, perché inizia con
un’altra immagine di slab-
urbia: Casteldebole, 1983.
Siamo veramente in
periferia, più periferia non si
può, siamo all’uscita
dell’autostrada e questo era
l’ambiente vagamente
staliniano che uno si
beccava e si becca anche
oggi uscendo dalla città, per
ricordare a tutti che il mondo
non è bello, ma è grigio ed è
triste.

Poi però gli anni passano e


veniamo approcciati dagli
abitanti del quartiere che
avevano rifiutato il progetto,
guarda caso, di due torri e ci
chiedono di costruire un centro di quartiere tradizionale, “alla bolognese”. La cosa
è simpatica perché io ho lavorato anche con i due architetti che avevano fatto il
progetto delle torri, sono diventato anche amico loro, perché hanno capito lo
spirito della città compatta e, forse, si sono anche entusiasmati all’idea. L’idea è
quella di fare l’opposto di quello che si è fatto per 50 anni. Siamo in periferia,
quindi non gli riproponiamo il centro storico, perché non ha senso secondo me,
ma gli proponiamo l’architettura che la periferia di Bologna avrebbe avuto se si
fosse sviluppata organicamente secondo la sua tradizione, cioè secondo il piano
regolatore del 1889. Giallo e rosso diceva il Piano di Carducci, costruite tutti gli

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 57


edifici che volete,
basta che siano di
due colori, giallo e
rosso: quelli di
Bologna. A Firenze,
fateli come vi pare,
bianchi, grigi, queste
tonalità.
Questo è il progetto, il
10% sono negozi, ed è
compatto, cioè
abbiamo costruito su
un terzo della
superficie disponibile
dal Piano Regolatore.
Un terzo borgo
compatto, due terzi
parco. Nell’ufficio
comunale ci
guardavano attoniti,
perché non
sprawllavamo come
fanno tutti; devo dire
che l’enorme
Cooperativa per la
quale abbiamo
progettato era
abbastanza intimorita
all'inizio, perché normalmente non si fanno queste cose, non si costruisce lungo la
strada, non si fa una piazza, non si fanno delle corti.
Non si costruisce “alla bolognese” a Bologna. No, di solito a Bologna si fa
qualunque cosa, purché non abbia carattere bolognese. Così, arrivano in visita
degli architetti di Buenos Aires e, dopo un ampio tour della città, mi dicono,
esterefatti: “ma questa non è la bella città che credevamo. E' un fracaso, un
casino”.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 58


Abbiamo provato a convincere la Cooperativa, ci siamo riusciti e,
fortunatamente, l’hanno venduto tutto e quindi ne abbiamo fatto anche un altro
progetto. Quella campagna che vedete lì davanti non è una campagna, ma è
un parco artificiale, che per noi è il limite della città, che per noi deve essere
compatta, deve avere un limite. Alla città si deve permettere di crescere, perché
la città è come un organismo, quando un organismo smette di crescere è una
brutta notizia. Se gli abitanti non crescono, brutto segno, perché le tasse le
pagano gli abitanti, non gli UFO. Se non abbiamo abitanti, dopo non possiamo
avere l’autobus, non possiamo avere l’ospedale. Ma fuori no, deve esistere un
limite dove non si deve costruire, perché se vogliamo permettere ai nostri figli di
vivere c’è un limite che deve essere riservato alla campagna. E la città non si
deve estende a macchia d’olio.

Ritorno alla città: oggi abbiamo la chance di un ritorno alla città? Sì, se
guardiamo bene la situazione, se facciamo un'analisi corretta. Viviamo un’epoca
completamente diversa da quella degli anni 20 del secolo passato. Siamo
radicalmente differenti, usiamo questi fantastici strumenti come il computer e l'i-
Phone, viaggiamo in aereo (sei ore da Parigi a New York). Possiamo fare tantissime
cose che nel ‘900 non facevamo. Abbiamo anche conosciuto i terribili errori del
‘900, nessuno di noi si sogna di riproporci di andare in giro in camicia nera o rossa,
abbiamo capito che il sistema migliore è la Democrazia:
Questo cambiamento, dal Totalitarismo alla Democrazia, lo possiamo realizzare
anche in architettura e quindi abbiamo davanti un compito che è anche
affascinante, costruire la città di domani.
Una città accessibile, efficiente, compatta e, lasciatemi dire, migliore di quella del
Passato.
Grazie.

RITORNO ALLA CITTA’ - ATTI DEL CONVEGNO - 59


SERGIO LOS
FIRENZE CITTÀ SOLARE

Voglio anch’io ringraziare per l’invito a tornare alla città. Il titolo “Ritorno alla città”
mi sembra infatti molto pertinente, anche se tornando alla città, oggi, troviamo le
rovine della città, perché noi non siamo una generazione e una cultura capaci di
costruire le città. A fare le città erano i cittadini che, a loro volta, erano prodotti
dalle città.
Oggi le città producono
utenti di servizi urbani che -
non essendo più cittadini –
non sono in grado di fare le
città. Basta ricordare le
ingenue utopie urbane del
secolo scorso, nessuno dei
loro autori pensava ai
cittadini ma a rendere più
funzionale l’accesso ai servizi
urbani. Essi non desideravano le città, non avevano nessun rammarico per la loro
progressiva scomparsa, erano soprattutto impegnati a fare qualcosa che non
assomigliasse a quelle città che producevano cittadini: consideravano antiquate
le città e volevano fare qualcosa di diverso. Oggi sappiamo fare di tutto:

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 60


macchine straordinarie, andare sulla luna e tornare, esplorare l’universo, però,
anche se tutte queste macchine sono migliori di quelle che hanno costruito i
nostri antenati, le loro città restano molto meglio delle nostre. Mentre le macchine
sono progredite le città sono regredite. Non c’è una città decente i cui abitanti
ne siano effettivamente orgogliosi, ho visto qui gli apprezzabili tentativi di
Tagliaventi, ma questo è un problema più profondo che dovremmo cercare di
spiegarci, con una maggiore consapevolezza. Alle città non chiediamo più di
farci sentire a casa, dal loro funzionamento vogliamo solo essere facilitati e
intrattenuti.
Al mio intervento ho dato il titolo augurale “Firenze città solare”, perché tempo fa
mi è stato chiesto di portare qui a Firenze, una mostra - allestita a Genova tre anni
fa nell’ambito del Festival della Scienza - che si chiama appunto: “Città solari”.
Spero ancora che questa iniziativa non sia tramontata poiché essa tende a
dimostrare che fino a poco tempo fa, relativamente poco rispetto alla storia
umana, le città erano tutte solari e quindi, specialmente in un clima temperato
come quello italiano, avremmo potuto benissimo realizzare delle città solari se
non fossimo stati in qualche modo colonizzati dalla pressione ideologica degli
impianti tecnologici, che rifila macchine per climatizzare dovunque, anche dove
non sarebbero necessari, sprecando energia, inquinando e, peggio ancora,
rendendo gli architetti incapaci di riconoscere i luoghi e di sentirne i climi.
L’architettura ha perduto così la sua dimensione sentimentale e si è trasformata in
uno strumento elementare che offre prestazioni al posto della poesia. Cerchiamo
di fare un po’ il punto perché è importante capire dove stiamo con questa
transizione post-urbana.
La prima questione che intendo porre riguarda l’aumento della domanda di
città. Il secolo scorso ha avuto una straordinaria urbanizzazione, impressionante,
come è stato evidenziato: in soli cent’anni, dall’inizio alla fine del ‘900 siamo
passati da una popolazione urbana che era un decimo di quella globale a quella
attuale che supera la metà.
La seconda questione, che mi pare molto importante e che sta provocando
l’ormai tristemente noto surriscaldamento del pianeta, proviene dal modo
irrazionale in cui sono normalmente calcolati e descritti i bilanci energetici, essi

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 61


sono caratterizzati per occultare,
piuttosto che per evidenziare, il
senso effettivo del n o s t ro
consumare energia (fig 1).
Descrivendo un bilancio
energetico per settori economici,
troviamo un diagramma generico
che specifica dove l’energia è
consumata ma non ne distingue gli
usi finali. Non chiarisce a coloro
che volessero risparmiarla quali
interventi dovrebbero effettuare
per ridurne il consumo.
Risparmiando energia elettrica, per esempio, lascerei intatti i consumi di
quell’energia termica che uso per climatizzare tutti gli edifici. I bilanci non dicono
come sia ripartita l’energia consumata, tra energia elettrica, meccanica ed
energia termica. Non mi dicono inoltre a quale domanda di energia termica

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 62


devo rispondere, se devo fornire energia ad alta temperatura oppure energia a
bassa temperatura. Questa confusione è un imbroglio. I fisiciinsegnano che non
possiamo non risparmiare energia, nelle sue varie trasformazioni l’energia
impegnata resta sempre la stessa, è la sua capacità di fare lavoro, è la sua
essergia, che dobbiamo risparmiare. Nei processi energetici l’energia ad alta
temperatura, capace di fornire molto lavoro, si trasforma nella stessa quantità di
energia ma a bassa temperatura, con una capacità molto minore di fornire
lavoro.
Dunque, usando per una climatizzazione che potrebbe essere perseguita con
energia a bassa temperatura, l’energia ad alta temperatura che potrei meglio
usare per produrre lavoro, spreco energia. L’introduzione dei combustibili fossili
nella climatizzazione - anche negli edifici dei paesi di clima temperato che
potrebbero sostituirla con l’intelligenza compositiva dei progettisti - produce un
irrazionale uso dell’energia, inquinamento, distrugge risorse economiche,
competenze progettuali, e invece di correggere questo errore riqualificando il
patrimonio architettonico delle nostre città, propone per risparmiare petrolio la
costruzione di centrali nucleari che producono energia elettrica. Il senso di
ritornare in manicomio invece che ritornare alla città si avverte osservando il
diagramma della figura, che mostra come gli usi energetici per la climatizzazione,
energia a bassa temperatura, rappresentino la metà dell’intera energia
consumata, il doppio di quella per i trasporti che sono un quarto e il doppio di
quella per la produzione che costituisce l’altro quarto. Confondendoli con tutti gli
altri consumi - energia ad alta temperatura che può produrre energia elettrica
che, a sua volta, si può trasformare in energia meccanica - nei vari settori
economici non possiamo comprendere dove identificare i consumi per
climatizzare gli edifici, che sono contenuti senza poterli distinguere nei diversi
settori, residenziale, commerciale, industriale, agricolo, ecc. Potendo invece
distinguere i consumi destinati alla climatizzazione da tutti gli altri, presenti nei vari
settori, capiremmo che per ridurli sarebbe meglio riqualificare edifici e città
invece che costruire centrali nucleari.
Ne parlo qui poiché, in un certo senso, interessano proprio il ritorno alla città da
parte della cultura architettonica. Nelle città solari non sono climatizzati soltanto

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 63


gli edifici, come accadeva e accade nelle culture dei climi freddi, ma è la città,
le sue strade che orientano gli edifici, le sue piazze, i suoi giardini. Per le carenze
della cultura architettonica e per la sua elusione delle città, sprechiamo l’energia,
da usare per raggiungere alte temperature, anche per raggiungere quelle basse
richieste dalla climatizzazione. Mettere in un edificio un impianto che usa
combustibili, rari e non rinnovabili che muoverebbero un aereo, per raggiungere
una temperatura di venti gradi è peggio di una superstizione, è criminale.
Basterebbe un po’ di intelligenza progettuale per usare in modo adeguato il sole,
senza sprecare risorse non rinnovabili e senza inquinare le nostre città.
Tutto questo accade non solo nell’Europa continentale, che ha un clima freddo,
ma anche in un paese come l’Italia che, appartenendo all’Europa mediterranea,
ha un clima temperato. Noi non viviamo in Siberia o in Finlandia, consumare metà
dell’energia per climatizzare è assolutamente sproporzionato, come abbiamo
visto, anche rispetto all’energia che consumiamo per trasporti e produzione, che
insieme consumano quanto la climatizzazione. Questa immagine, che gira su
internet, dimostra la sensibilità femminile per il riscaldamento del pianeta (fig. 2).

Tutta quell’energia che abbiamo consumato per climatizzare oltre che essere
utilizzata nel modo più irrazionale e antiscientifico, inquina moltissimo ed è la
causa dell’effetto serra. Dobbiamo quindi ridurre drasticamente questa energia
da combustibili fossili usata nella climatizzazione, sia perché il petrolio sta finendo
(finalmente direi io, credo che dovremmo festeggiare la sua fine), sia perché

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 64


l’inquinamento, surriscaldando il pianeta, è diventato tale da imporre la chiusura
degli impianti prima ancora che il petrolio per alimentarli finisca.
Se è vero che sulla cultura architettonica pesano grosse responsabilità per questa
situazione, è altrettanto vero che gli architetti potrebbero fare moltissimo per
superarla. Dobbiamo perciò trovare delle modalità di climatizzazione alternative
che ci consentano di ridurre in maniera drastica l’uso dei combustibili fossili,
attraverso un uso appropriato della composizione architettonica. La
progettazione bioclimatica regionale rappresenta proprio tale modalità che,
diversamente da altre modalità che non interferiscono con l’architettura, ne
modifica radicalmente il sistema simbolico e la composizione perché fa svolgere
alla forma dell’involucro architettonico i compiti attualmente svolti dall’impianto.
Evidenzia soprattutto quanto sia inaccettabile lo stile internazionale,
autobiografico, dell’architettura attuale.
James Lovelock ci ha spiegato che la terra è un organismo, quindi i danni che
facciamo in qualunque punto del pianeta non sono mai danni locali. Il pianeta
reagisce come un animale, sempre integralmente. Se diamo una martellata a
una pietra, si rovina soltanto il punto dove l’abbiamo colpita col martello, ma se
la diamo alla coda oppure alla
zampa di un cane, reagisce il
cane, non la coda o la zampa. Il
pianeta sta reagendo al
surriscaldamento globale -
come è possibile vedere da
tanti esempi che vengono
continuamente riportati - in
maniera integrale, reagisce
globalmente come un animale
non come una pietra.
Oltre che essere un organismo, il pianeta è ormai interconnesso da una rete di
canali di trasmissione e comunicazione di informazioni, per cui è molto più simile a
una specie di grande cervello con un complesso di connessioni legate ai processi
di apprendimento, che a un semplice organismo animale. È interessante notare

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 65


che il cervello, per certi versi,
potrebbe essere assimilato alla
città, alla rete delle sue strade;
intendo dire che la città è
essenzialmente un sistema di
comunicazioni.
Spesso si crede che quelle reti di
strade siano sempre esistite,
emerse assieme alle città.
Questo non è vero. Molte città
ne sono prive, alle case si accede dal tetto e vi sono grandi corti interne,
mancano però quelle reti di strade che connettono direttamente tutte le case.
La città articolata per strade emerge contestualmente al linguaggio codificato,
circa duemilacinquecento anni avanti Cristo, ed emerge in regioni di clima arido,
cioè caldo secco, in luoghi molto distanti tra loro anche se caratterizzati da
analoghe condizioni climatiche. Le città che ricordiamo sono Tel El Amarna sul
Nilo in Egitto, Babilonia sul Tigri in Mesopotamia, Monenjo-Jaro intorno all’Indo in
India e poi Shang sul Fiume Giallo in Cina, che presentano caratteristiche
abbastanza analoghe, tutte nel clima arido a 30° di latitudine nord dell’emisfero
boreale. È come se il primo gesto dell’architettura fosse stato quello di fare
ombra, costruire appunto grandi porticati all’aperto. Qual’è la ragione per cui le
città si sviluppano in queste regioni? La mia spiegazione proviene
dall’interpretazione che ho dato della città come sistema di comunicazione.
Nel clima arido la rete di spazi urbani, l’architettura civica, rimane operante tutti i
mesi dell’anno, il clima lo consente sempre, con l’aiuto minimo dell’ombra offerta
dai grandi porticati. Penso che nelle regioni di clima freddo quelle reti civiche,
che rendevano le città dei sistemi di comunicazione, non potevano emergere
poiché l’architettura civica, operante come un urban web, avrebbe potuto
funzionare solo nei mesi estivi. Come non avrebbe potuto funzionare nelle regioni
di clima tropicale dove, per le frequenti piogge, sarebbe stata operante in modo
intermittente. Non è un caso che in queste regioni le città si siano formate molto
più tardi di quelle emerse nei climi aridi e temperati.

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 66


Queste regioni, fredde e tropicali,
preservano una cultura
essenzialmente nomadica per
molti secoli, sia pure per ragioni
diverse, forse tuttora presente.
Anche per questo le città, che
richiedono l’apporto di una
cultura stanziale, emergono
molto tardi in questi due climi,
solo quando la tecnologia riesce
a neutralizzare mediante
tecniche impiantistiche l’influenza
del clima. La successiva colonizzazione tecnologica da parte delle regioni
nomadiche di clima freddo, basata sulla diffusione degli impianti, annullerà i
vantaggi caratteristici delle regioni climatiche temperate e aride, nelle quali non
a caso la cultura delle città si era sviluppata molto prima.
L’architettura attuale con la sua urbanistica, fondata sulla civiltà meccanica
termoindustriale delle regioni fredde, opera come se il pianeta avesse dovunque
lo stesso clima, freddo o tropicale, o meglio come se fosse indifferente al clima.
Prima delle città che inventano l’architettura civica reticolare, esistevano
precedenti insediamenti urbani che non ne erano dotati. Çatal Hüyük, per
esempio, un insediamento scoperto da un archeologo inglese nell’Anatolia
meridionale, una regione della Turchia sud-orientale, è molto importante e anche
molto denso.
Costruito in un periodo che precede quello citato, esso manca di reti stradali
interne,anche se per il clima avrebbe potuto averle.
La costruzione di città regionali bioclimatiche rappresenterebbe anche il modo
migliore per ridurre gli sprechi di energia non rinnovabile e il conseguente
inquinamento. In Italia, sapremmo realizzare degli edifici che addirittura non
consumano affatto energia per climatizzare, alcuni di essi li abbiamo anche
realizzati. Dunque, un’architettura bioclimatica costruita in una città bioclimatica
potrebbe ridurre drasticamente sia l’inquinamento, sia il consumo di risorse,

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 67


energetiche e materiali, non rinnovabili.
Mostrando in queste due fotografie un suo progetto, dice Rem Koolhaas “Riuscirà
Dubai a evitare un sovraffollamento di geni?” (fig. 3). A vedere questa diapositiva
non mi sembra proprio un sovraffollamento di geni, non certo di genialità
architettoniche. Mi sembra piuttosto la noiosa, conformista, manifestazione di
un’architettura come “bella
addormentata”. L’architettura
che vediamo pubblicata nelle
riviste patinate, non dà
l’impressione di essere
impegnata a risolvere i
problemi che abbiamo e a
farlo con una certa urgenza e
genialità creativa. Mi msembra
piuttosto impegnata a
divertire, nel senso etimologico
del latino “divertere”, volgere
altrove, deviare. L’attuale
architettura è essenzialmente
una distrazione.
Se prendiamo Firenze, si vede che la parte centrale della città rappresenta la
città compatta antica correttamente orientata mentre la città che la circonda è
quella moderna, diffusa e
disorientata. È come se la
città fosse scoppiata, come
se da centripeta (che si dirige
verso il centro) fosse diventata
centrifuga (che mette in fuga
il centro)! Nelle culture
dell’Europa mediterranea la
città è centripeta poiché i suoi
cittadini sono abitatori di

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 68


strade, nelle culture dell’Europa
continentale la città è centrifuga
poiché i suoi cittadini sono abitatori di
case. Invece di riconoscere una
crescita coerente con quella città
compatta, antica, mediterranea,
troviamo una caterva di
accampamenti sub-urbani composti
da gente estranea che ha
parcheggiato le proprie case
individuali attorno alla città per usarne
i servizi urbani, in un modo che non
tiene conto dell’orientamento, assolutamente indifferente ai luoghi.
Questo è un disegno di Colin Rowe
(fig. 4) che mostra la differenza tra la
compattezza della città antica e la
dispersione, lo sprawl, della città
moderna. Però tutti quelli che si
occupano di sostenibilità - o meglio di
resilienza, cioè di come idurre la
vulnerabilità delle nostre città
attraverso interventi che ne riducano
la dipendenza dall’esterno - invitano a
fare città compatte. La figura mostra quindi la trasformazione più urgente che
dovremmo attivare perseguendo la sostenibilità che consiste nel compattare le
periferie, in modo da far loro raggiungere una certa densità. È la densità infatti
che consente di realizzare all’interno delle città una transizione dalla mobilità
veicolare, sia pubblica che privata, alla mobilità pedonale.
La densità potrebbe quindi ridurre l’impatto delle automobili e delle autostrade,
cosa molto rilevante sia dal punto di vista dello spreco di suolo che dal punto di
vista dello spreco di energia e dell’inquinamento urbano.
Vi sono due modi caratteristici di perseguire la densificazione delle città:

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 69


• quello rappresentato dal tessuto caratteristico delle città compatte antiche
nelle aree di clima temperato e arido formato da isolati,
• l’altro rappresentato da una moltitudine di oggetti edilizi alti, gli avveniristici
grattacieli proposti dalla modernità, che proviene dal tessuto caratteristico delle
città di clima freddo e tropicale.
Il tessuto formato da isolati relativamente bassi ma compatti, affacciati su reti di
architettura civica contrasta con la congerie di alti bizzarri fabbricati privi di
architettura civica, con le reti stradali affollate di veicoli, comprendenti grattacieli,
condomini e villette.
Prendiamo queste due
contrapposte modalità
insediative (fig. 5), per
comprendere come
possiamo interpretare la
città dal punto di vista del
sistema di comunicazione. I
luoghi dove primariamente
si svolgono tutte queste
comunicazioni, questi
incontri, queste relazioni
interpersonali, sono le strade e l’attacco a terra degli edifici. È lì che chiunque
volesse sfruttare commercialmente la presenza di tanti potenziali clienti andrebbe
a mettersi, è lo spazio dove si sviluppa la vita sociale delle persone, dove può
crescere il capitale sociale della città. Consideriamo ora, per confrontare
l’efficacia comunicativa dei due sistemi insediativi questi tre parametri: a) – la
lunghezza dell’attacco a terra, b) - la sua distanza dall’asse della strada su cui si
affacciano gli edifici che la costituiscono e c) - la loro altezza che misura la
distanza da tale strada delle persone che li abitano.
Nel tessuto compatto per isolati delle città formate nell’Europa mediterranea, il
parametro (a) è molto più rispondente al suo ruolo comunicativo che nel tessuto
disperso per oggetti edilizi separati (il pavillon system) delle città formate
nell’Europa continentale e nel Nord-America. Inoltre, per il parametro (b) la

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 70


lunghezza dell’attacco a terra può raddoppiare nel tessuto per isolati se
combinata con quella presente sull’altro lato della strada, cosa impossibile con la
distanza dall’asse stradale caratteristica dell’altro tessuto.
Il terzo parametro riguarda l’altezza dell’edificio e quindi la distanza dalla strada
da parte delle persone che vivono nell’edificio, soprattutto nei piani alti. Mentre
con gli edifici bassi degli isolati il contatto con la strada, con l’architettura civica è
facile e immediato, nei grattacieli con facciate continue che sigillano l’edificio
tale contatto con la strada è fuori luogo, assente.
Se consideriamo questi tre parametri, si capisce subito, come nel caso del
pavilion system a destra, l’attacco a terra si riduce moltissimo, la distanza dall’asse
stradale rende inutilizzabile l’attacco che si trova nell’edificio di fronte e in un
edificio sigillato da facciate continue, il contatto con la strada è assolutamente
assente. Questa è una delle prime osservazioni che fa Jane Jacobs sulle città
americane, criticando appunto i processi di Urban Renewal che miravano a
realizzare un tessuto come quello a destra. Lei si basava su questioni di sicurezza
che oggi sono diventate assolutamente centrali, perché se noi prendiamo quella
strada, oltre ad avere maggiore sicurezza perché la gente è sulla strada
continuamente, ha prestazioni molto interessanti anche dal punto di vista
bioclimatico.
Cioè abbiamo confrontato i consumi di energia di un tessuto per isolati con quello
per ville, condomini e grattacieli, questa soluzione per isolati rappresenta
un’alternativa molto efficiente dal punto di vista della climatizzazione
risparmiando energia. Però, oltre alla sostenibilità, alla riduzione dei consumi e alla
sicurezza, evidentemente questa soluzione offre anche un’opportunità sociale,
perché è la strada che consente di far vivere la città proprio per le relazioni che si
creano tra i suoi concittadini.
Questo è un diagramma di Fresnel (fig. 6), questa area nera del quadrato
perimetrale è uguale all’area nera del quadrato centrale e questo fa capire
quanto l’isolato sia molto importante anche dal punto di vista della sua resa
volumetrica, cioè se io realizzo questi isolati anche con altezze contenute di
quattro-cinque piani, praticamente raggiungo delle densità molto consistenti e
quindi quando parliamo di compattezza o di densità, dobbiamo distinguere la

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 71


densità del grattacielo dalla densità dell’isolato.

Colin Rowe fa sempre la differenza tra:


• il paradigma dell’acropoli della città greca, dove ci sono dei monumenti e
degli oggetti edilizi straordinari e
• il paradigma del foro, dove troviamo invece la piazza e gli spazi urbani articolati
della città romana. In questa gli spazi urbani prevalgono sugli oggetti edilizi, che
pure ci sono.

Naturalmente il nostro paesaggio, lo avete visto anche prima, è formato da

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 72


condomini orizzontali, da
condomini verticali o
grattacieli, che sono fatti
apposta per tenere divisi e
separati i cittadini. Ai cittadini
viene promessa una privacy,
o una felicità solitaria o
comunque individuale, che
non viene mai realizzata,
perché di fatto questa
privatezza è assolutamente
illusoria. Dobbiamo perciò immaginare soluzioni radicalmente diverse.
Abbiamo fatto una serie di ricerche, nell’ambito del PFE (Progetto Finalizzato
Energetica) con CNR ed ENEA, presentate anche in due convegni internazionali,
organizzati nel 1985 da
SYNERGIA, la società di
servizi che ho fondato con
Natasha F. Pulitzer nel 1980.
Il primo convegno intitolato
“La città del sole” si svolge
a Trieste nel novembre
1985, con l’obbiettivo di
trasferire a livello della città
una serie di ricerche che
erano state svolte a livello
di edificio. Abbiamo cominciato a studiare dal punto di vista della climatizzazione
(perché questo è uno dei vantaggi dei tipi delle nostre città italiane) non solo lo
spazio all’interno dell’edificio, ma lo spazio tra gli edifici, cioè lo spazio di una
piazza o lo spazio di una strada. Abbiamo fatto un modello basato sul metodo
delle differenze finite e abbiamo cominciato a lavorare cercando di capire in che
modo la strada è in grado di produrre microclima, quali strade sono in grado di
produrre e migliorare il microclima e quindi quali strade sono frequentabili anche

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nei mesi invernali perché sono protette dal vento, sono soleggiate, dato che ci
sono momenti in cui il clima, pur restando temperato, può essere anche
abbastanza freddo. Poi abbiamo preso una serie di tipologie do tessuto urbano,
abbiamo visto i vari orientamenti e i vari modi in cui il sole raggiungeva questi
edifici per sperimentare una serie di tipi insediativi nei loro spazi esterni invece che
al loro interno. Nella parte in basso della figura (fig. 7) vedete quei disegni, quei
diagrammi, che sono fatti appunto per studiare come all’interno di quello spazio
urbano si muovevano le temperature, come variavano le temperature all’interno
di quelle strade o piazze. Qui ne mostro due soltanto, ma naturalmente di tipi di
tessuto urbano ne abbiamo studiati molti, sotto ci sono dei riferimenti tipologici e
sopra c’è il modello su cui abbiamo fatto queste analisi. Il modello che è apparso
più conveniente, anche per quanto riguarda gli spazi aperti, è quello in alto a
destra, che è il modello per isolati.

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Bisogna anche notare che, almeno nella maggior parte dei casi di climi aridi e
temperati, il sapere dei progettisti non è impegnato a climatizzare gli edifici, ma a
climatizzare la città, quindi gli edifici sono climatizzati come parti della città.
Questa immagine presenta alcune raccomandazioni sintetiche tratte dai risultati
degli studi (fig. 8). Bisogna naturalmente proteggere certe piazze colpite dal
vento con alberi, con vegetazione o con edifici, l’effetto delle basse temperature
è accentuato dal soffiare del vento. Abbiamo osservato che gli spazi aperti con

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un andamento estovest funzionano meglio di quelli con asse nord-sud. Studiando
le potenzialità bioclimatiche del territorio Trentino troviamo che l’osservazione
riguardante l’orientamento delle strade vale anche per quanto riguarda le
vallate, che presentano risultati analoghi. Nelle vallate con andamento nord-sud il
sole d’inverno si alza tardi e tramonta prestissimo mentre nella vallate con asse in
direzione estovest scalda per mote ore del giorno il versante sud soleggiato. In
queste valli troviamo, e proprio sul versante sud, la maggior parte degli
insediamenti. Abbiamo studiato questo isolato solare (fig. 9) che ha altezze
diverse e che distribuisce tipologie differenti al suo interno. Quelle che si trovano
sul lato nord della strada estovest sono diverse da quelle che si trovano sul lato
sud della stessa strada. Mentre le prime sono più alte e unilaterali, avendo sullo
stesso lato sia il sole che lo spazio urbano, le seconde sono più basse (per
consentire l’accesso al sole alle prime di fronte) e bilaterali avendo il sole da una
parte e l’architettura civica dall’altra. Anche nelle strade con asse nord-sud
progettiamo tipologie bilaterali ma diverse nel lato est rispetto a quello ovest di
tali strade.
Le facciate di questi edifici devono inoltre essere tali da ombreggiare quelli
adiacenti con corpi aggettanti. Si presentano dunque 4 famiglie tipologiche per
gli edifici che costituiscono i 4 lati dell’isolato; aggiungendo le 4 tipologie che si
trovano negli angoli dell’isolato, pure diverse per i vari orientamenti, si ottengono
otto differenti famiglie tipologiche per ogni isolato (fig. 10).
L’accesso a questi isolati è reso possibile da una rete duale che intreccia la
circolazione veicolare (segnata in rosso) e la circolazione pedonale (segnata in
blu), per distinguere le due modalità circolatorie e restituire a quella pedonale
quel ruolo
di facilitatore di relazioni interpersonali che ha sempre avuto. Abbiamo
sperimentano in una serie di progetti la validità di questo assetto. Il “Progetto
Finalizzato Energetica”, ha consentito di analizzare e verificare mediante
simulazioni e computazioni le prestazioni delle varie tipologie, elaborando dei
progetti guida, come modelli tipologici, presentati e vari convegni e pubblicati
nell’ambito del CNR/ENEA PFE. Su diversi edifici costruiti sono state effettuate
anche valutazioni dirette mediante monitoraggio del loro funzionamento. Questo

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è un modello che fa vedere le corti interne (fig. 11), la strada che attraversa
questo isolato, è disposta dietro l’ombra dell’edificio più alto, perché in quel posto
è bene non mettere nulla, di qualsiasi destinazione d’uso si tratti. All’interno
abbiamo pensato invece a porre delle corti sopraelevate di un piano, sotto le
quali mettiamo i parcheggi e sopra orti e giardini pensili. Abbiamo così la
possibilità di uscire al primo piano, sia che si tratti di abitazioni che di uffici,
direttamente su tali giardini oppure orti all’interno della città. Naturalmente,
tirando su queste corti interne
abbiamo un soleggiamento
maggiore, da confrontare
nell’immagine in basso,
rispetto a quello che
succederebbe se avessimo
dei piazzali a raso. Avendo
negli attacchi a terra la
maggior parte delle attività di
tipo artigianale, commerciale
o professionale, quindi una
vita che si svolge
direttamente sulla strada e
con un bisogno minore degli
spazi retrostanti, appare del
tutto ragionevole
sopraelevare queste piastre.
Consideriamo ora il centro di
Firenze (fig. 12). Questa è la
parte romana della città di
Firenze, si può vedere il cardo
nord-sud e il decumano est-
ovest. Le tipologie edilizie
sono cambiate molto più del
tracciato stradale, della rete

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stradale, del sistema reticolare dell’architettura civica, ceh resta quello romano.
Quindi potremmo, lavorando sugli edifici, realizzare delle città solari.
Naturalmente, non intendo consigliarvi di coprire con collettori solari gli edifici del
centro storico, sono però sicuro che, studiando un’adeguata riqualificazione degli
edifici in rapporto al loro orientamento, la climatizzazione naturale della città, e
non soltanto degli edifici, potrebbe avere un’efficacia maggiore dell’attuale. Se
la città fosse andata avanti
con questa logica, sia pure
con una serie di varianti,
avrebbe avuto una migliore
qualità ambientale, uno
spreco di energia minore e
nessun inquinamento. In
questa interpretazione
della Firenze romana si
riconosce il cardo e il
decumano.
Nella figura successiva (fig. 13) sono illustrate delle ricerche che abbiamo svolto
per il PFE combinando variamente uno stesso appartamento, uno stesso modulo
insediativo tipico delle costruzioni italiane, per ottenere diverse tipologie edilizie,
case isolate, a schiera, bifamiliari a uno, due, tre piani, condomini, torri e altre. Per
ognuna di esse abbiamo calcolato i consumi di energia, con diversi orientamenti,
dai quali si possono identificare quelle che presentano le migliori prestazioni. È
stato un lavoro molto sistematico, all’interno del quale abbiamo considerato
anche l’influenza esercitata dai tracciati stradali sui quali si affacciano gli edifici.
Oggi prevalgono tessuti urbani caratterizzati dalla presenza di oggetti edilizi
reciprocamente isolati, secondo la cultura del Pavilion System, affacciati su una
rete per la circolazione veicolare affollata di macchine. Un tessuto che non
produce cittadini ma che presuppone un insediamento abitato da individui
indipendenti, in competizione reciproca, che vedono nel prossimo un avversario
piuttosto che un amico. Nella maggior parte dei condomini viene valorizzata una
privacy impossibile, così è come se girassimo le spalle ai coinquilini dai quali ci

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 80


aspettiamo disturbi più
che aiuti (fig 14), è come
se non volessero
guardarsi in faccia. Nella
città storica invece
quando gli edifici si
affacciano sulla strada
vissuta in modo
conviviale, è come se
fossero in una tavolata,
come siamo qua, a
guardarci l’un l’altro.
Anche in tante città solari c’è il difetto che gli edifici guardano tutti verso il sole
per essere edifici solari, ma che si girano le spalle l’un l’altro. Possiamo dire che
sono solari, ma che non formano città. Variando invece le tipologie sui diversi lati
delle strade variamente orientate, riusciamo a integrare – negli edifici come negli
spazi aperti - sia i requisiti della bioclimatica che quelli della città che, per il suo
effetto conviviale, stimola le relazioni interpersonali.
Vi sono nella storia molte esperienze, naturali e colte, di uso del tessuto urbano per
isolati, uno molto noto è quello che Ildefonso Cerdà sviluppa per la città di a
Barcellona. La differenza dell’isolato che ho presentato, rispetto a quello del
piano Cerdà, consiste nel
proporre una circolazione
p e d o n a l e
topologicamente duale di
quella veicolare e da essa
indipendente, invece di far
correre i marciapiedi
intorno agli isolati,
parallelamente alle strade
veicolari (fig. 15). Questo
progetto è originato da

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diverse ricerche che dimostrano come quando facciamo circolare le automobili
insieme ai pedoni, come nel caso di Barcellona, le relazioni interpersonali
all’interno di quella strada tendono a diminuire in proporzione all’aumentare del
traffico. In alcune città invece questo non è avvenuto. A Buenos Aires hanno
preso le “quadriculas” del centro e hanno distinto le strade alternativamente in
pedonali e veicolari. Sono così arrivati a uno schema, che anche Louis Kahn
aveva proposto per Philadelphia, un po’ come quello a destra.

Questa immagine mostra i’indagine svolta da D. Appleyard, (fig. 16), che ha


preso una strada, l’ha studiata in tre diversi momenti: prima dell’introduzione del
traffico o con un traffico molto debole, poi con un traffico mediamente intenso,
poi con un traffico molto consistente e ha contato il numero degli amici e il
numero dei conoscenti. È possibile così vedere quanto il traffico influenza la
progressiva riduzione delle relazioni interpersonali, o meglio quanto meno la
riempita di traffico veicolare fosse in grado di stimolare queste relazioni tra le
persone, rispetto a quella iniziale. Nelle città storiche invece questo stimolo a
produrre capitale sociale continua tuttora. Naturalmente, lavorando sui progetti si
possono fare diverse variazioni: in questa immagine (fig. 17) la parte gialla è la
parte pedonale, sempre tenendo conto dell’orientamento. L’orientamento delle
strade resta fondamentale se voglio fare un edificio che diventi bioclimatico, con

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le strade studiate per avere
la climatizzazione negli spazi
aperti si può fare, senza
l’orientamento posso ridurre
i consumi e quindi anche
l’inquinamento solo in
misura ridotta.
Dalle cose che ho detto
finora emerge una
concezione secondo la
quale le città hanno sempre
due aspetti fondamentali: le
città nascono per risolvere
problemi di ordine strumentale, dalla difesa alla sopravvivenza, all’alimentazione
e per affrontare tante altre questioni di carattere strumentale, ma le città
nascono anche per realizzare sistemi di comunicazione, funzionano un po’ come
un linguaggio che fa comunicare in modo intelligente le persone che le abitano.
Quando queste due dimensioni sono bilanciate le città operano in modo
appropriato, è però facile comprendere che quando prevale la dimensione
strumentale o quando prevale quella comunicativa, quando dunque una
dimensione prevarica e si
impone sull’altra, la città
attraversa uno stato di crisi.
Mi pare anche evidente
che se considero Firenze, le
sue periferie abbiano un
carattere più strumentale
della città storica, che
continua a mantenere una
dimensione propriamente
comunicativa.
Tanto è vero che le

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persone, quando vogliono incontrarsi, partono dalle periferie per venire in centro.
Apprezzo molto, naturalmente, la presentazione che evidenzia gli arrondissement
di Parigi, perché sono convinto che le città dovrebbero diventare delle
costellazioni di villaggi urbani, all’interno dei quali dovrebbe aumentare il valore di
questa dimensione comunicativa. I villaggi urbani dovrebbero anche perseguire
una maggiore autonomia, raggiungere quindi una maggiore resilienza, ovvero
una minore vulnerabilità, che consiste in una maggiore capacità di sviluppare
conoscenze locali, di apprendere le specificità dei luoghi abitati. Senza con
questo escludere che la città funzioni anche globalmente.
Questo è un intervento che abbiamo realizzato a Lana di Merano (fig. 18), dove:
in una piazza dalla quale abbiamo tolto il traffico, non solo le persone si
incontrano tra loro, ma fanno venire anche altre persone che vivono nei
condomini intorno e in quella piazzetta si è creata una socialità nuova, molto
attiva.
Questo spazio è stato
anche monitorato
d a l l ’ a g e n z i a
internazionale per
l’energia (IEA
Inter national Energy
Agency), per vedere se
effettivamente quella
climatizzazione dello
spazio aperto era
r i s c o n t r a b i l e .
Effettivamente abbiamo pubblicato anche i dati e nella piazzetta abbiamo sia
d’estate che d’inverno delle condizioni climatiche migliori di quelle che stanno a
cinquanta metri fuori dalla piazza. Il progetto tiene conto del fatto che dobbiamo
avere un lato protettivo, un lato dove arriva la maggior parte dei venti frequenti,
specialmente d’inverno, e un altro aperto al soleggiamento. Questo succede
anche nell’architettura delle Barchesse, nell’architettura di Andrea Palladio,
poiché l’architettura antica lo ha sempre fatto, questi porticati aperti non erano

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 84


semplicemente aperti per questioni monumentali o per questioni architettoniche,
avevano sempre una ragione climatica
molto precisa. Vitruvio regola addirittura la profondità del portico in rapporto alla
latitudine, quindi coglie il carattere bioclimatico del portico, che se ha la giusta
profondità riceve tutto il sole nei mesi invernali quando è basso e mette in ombra
invece l’edificio durante l’estate, quando il sole è alto.
Nell’immagine (fig. 19) il muro
verde è quello protettivo, ed è
quello più chiuso, è quello che
sta a nord, sia nell’edificio a
nord, sia nell’edificio a sud.
Quello rosso e giallo è invece il
muro solare e all’interno c’è una
piazza dove praticamente
rispetto all’edificio si inverte
l’orientamento: nell’edificio il
muro è a nord e il colonnato è a
sud, mentre invece nella piazza il colonnato si trova a nord e il muro protettivo si
trova a sud. Questo naturalmente dà anche il senso dell’orientamento all’interno
della piazzetta.
Questo è un disegno di come è
venuto l’edificio (fig. 20), le
automobili le abbiamo messe
sotto la piazza e al centro della
piazza abbiamo messo un albero.
Questa che vedete è una finestra
nella piazza che è stata ricavata
dalle ricerche che ho mostrato
prima sulle reti di spazi urbani,
perché è vero che la strada est-
ovest è ottimale dal punto di vista della climatizzazione, ma bisogna lasciare ogni
tanto delle aperture perché altrimenti quando il sole è troppo basso il

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soleggiamento verrebbe a mancare. Dalle foto si vede la distinzione tra il lato
nord della casa in linea a nord rispetto al lato nord di quella protetta che si trova
sull’altra parte della piazza (fig.
21). Qui si vede che hanno
costruito dei luoghi per
mangiare all’aperto, davanti
all’orto ci sono delle serre solari
con sopra i balconi. Nella
schiera che sta a sud della casa
in linea abbiamo invece le serre
al primo piano, anche questo
quindi è un edificio climatizzato.
Di questo pure abbiamo dati, sia
dell’edificio sia della piazza.
Nell’immagine (fig. 22) un
progetto per l’area “Michelin” di
Trento, anche qui si vede il
modello duale che intreccia la
circolazione pedonale con
RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 86
quella veicolare e che genera i
vari isolati del tessuto urbano
proposto. In fondo a questi
percorsi pedonali si arriva al
viale che conduce al Palazzo
delle Albere che è un
importante centro culturale.
Quello che si può vedere
nell’immagine (fig. 23) è un
progetto che abbiamo
elaborato per contestare le torri
proposte a Bassano del Grappa
da Paolo Portoghesi. È stata una
contestazione tanto efficiente
con la partecipazione dei
cittadini da modificare il governo della città. L’amministrazione che voleva

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costruire le torri aveva sottovalutato il valore del consenso politico al progetto, ed
è stata battuta dall’amministrazione che invece voleva difendere la città da
quell’intervento.

Portoghesi tra l’altro proponeva delle torri di acciaio che assomigliano più
all’architettura di Renzo Piano che alla sua. Non si capisce perché sia venuto a
Bassano a proporre queste torri, come non aveva mai fatto durante la sua vita. Il
nostro progetto propone un tessuto urbano, comprendente pure una torre, per far
capire che il problema non riguardava la tipologia edilizia ma l’architettura
civica, il sistema reticolare di spazi pubblici che rende sociale la vita della città,
che produce capitale sociale e i cittadini che lo costituiscono. La progettazione
bioclimatica dell’architettura civica oltre che proporre il modello duale di
circolazione definisce anche il corretto orientamento degli edifici e le loro
variazioni tipologiche situate nell’isolato. Nella figura a sinistra si vede questo
tessuto come lo vede il sole in dicembre a mezzogiorno, in alto alle nove del
mattino, in basso alle due del pomeriggio. Si evidenzia così quanto le facciate

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 88


siano capaci di captare radiazione e quindi di climatizzare gli edifici. Queste sono
alcune viste della piazza che il progetto propone al posto delle torri (fig. 24) con
una serie di animazioni dei tetti sempre motivate dal sole e dal clima. Si può
riconoscere la soluzione illustrata prima, con la parte pedonale, la piazza e la
piastra che accoglie il parcheggio sotto orti e giardini, tutto intorno la circolazione
veicolare.
Questo è un concorso per
inviti, progettato per un’area
di Mestre (fig. 25) dove
doveva esserci un
insediamento universitario,
lungo via Torino.
Nell’immagine a sinistra è
presente la situazione
com’è, a destra si vede la
soluzione proposta, nella
quale abbiamo ricostruito un
tessuto urbano composto da una serie di isolati, mantenendo gran parte degli
edifici esistenti e realizzando, anche qua, il sistema duale di circolazione
pedonale e veicolare. Il progetto realizza un ambiente composito dal punto di
vista delle destinazioni d’uso,
quindi capace di adeguarsi
a diversi scenari di
espansione dell’area
universitaria. Se l’università
non occupa gran parte degli
spazi è possibile farli
occupare dalla città, perché
è del tutto irrilevante la loro
specificità funzionale, con
piccoli adeguamenti possono essere usati in un modo o nell’altro. Naturalmente,
anche per fare questo progetto sono partito dalla rete pedonale e veicolare

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 89


degli spazi urbani,
d a l l ’ a rc h i t e t t u r a civica,
anche questa considerata
dal punto di vista solare,
distinguendo le parti più in
ombra da quelle più
soleggiate, e inserendo gli
edifici dopo avere composto
tale rete. Anche le varie
tipologie edilizie sono state
definite per segmenti di
spazio urbano. Gli interventi in cui risulta articolato l’intero progetto rappresentano
tanti piccoli passi programmati, quindi si possono realizzare tanti piccoli
investimenti, in modo da poter correggere retroattivamente le scelte nel corso
dell’intervento complessivo. Perciò, invece che recintare un grande cantiere
urbano, trasformarlo completamente e poi riaprirlo, questo è un intervento che si
può benissimo realizzare mantenendo in funzione tutta l’area urbana, con le
strade che ci sono, aggiungendo, togliendo e sostituendo gradatamente quello
che è previsto dal progetto.

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RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 91
Nelle immagini che seguono ci sono altri casi (fig. 26): quello a destra è uno studio
che abbiamo fatto per il CER, si tratta di una ricerca che applica un tessuto per
isolati allungati, con varie tipologie edilizie, diverse ma sempre corrette rispetto al

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ruolo e alla posizione che occupano. In alto, uno studio svolto da alcuni amici del
Martin Centre di Cambridge in Inghilterra, che hanno ricostruito una diversa
distribuzione dei volumi del centro di New York, dove si trova il Rockfeller Centre,
mostrando che si potrebbero costruire dei grandi isolati, con una quantità molto
maggiore di spazi verdi e una distribuzione diversa degli stessi volumi.
Quello sotto è un modello di circolazione proposto da Christopher Alexander che
dimostra l’efficienza di un sistema di strade dove si distinguono nettamente le
strade urbane locali di accesso agli edifici da quelle intraurbane di
attraversamento veloce.
Le barchesse (fig. 27)
sono sempre
per fettamente
orientate, le loro
caratteristiche
mmor fologiche
esemplificano un tipo
consolidato nelle cui
costruzioni è difficile
distinguere il sistema
compositivo colto di
Andrea Palladio oppure
quello di Vincenzo Scamozzi, di Francesco Muttoni e di altri architetti veneti, da
quello “volgare” di molti auto-costruttori che, come lo chiamava Dante, si
potrebbe definire una specie di “parlar materno”. Un sistema diffuso di sentimento
dell’abitare questi luoghi, del sentirsi a casa, che emerge direttamente
dall’esperienza del vivere negli edifici, quando questi non avendo l’impianto non
potevano essere internazionali. Mentre negli edifici che costruiamo oggi, non si
potrebbe passare l’inverno senza un
mpianto (e neanche l’estate), in quegli edifici storici non si sarebbe potuto
abitare senza quell’architettura bioclimatica. Quindi l’impianto ha avuto un esito
disastroso sull’intelligenza degli architetti. È mia ferma convinzione che quanto gli
architetti imparano a operare senza l’impianto, o con il minimo di impianto, tanto

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 93


migliore msarà
l’architettura. Questo è un
edificio di Andrea Palladio
(fig. 28), guardando le
barchesse dei contadini egli
vedeva l’architettura
classica, che ha saputo fare
benissimo, ma che dal
punto di vista del
funzionamento climatico
non è molto diversa dalla
loro.
Adesso vi presento velocemente un edificio che abbiamo realizzato qui a Prato,
con un mio amico veneto-fiorentino, Antonio Marcon, e Natasha Pulitzer. Questo
edificio presenta una
configurazione a
“S” (fig. 29, 30, 31).
Ve d e t e com’era
l’ambiente intorno al
luogo della scuola di
Montemurlo, in
provincia di Prato. Il suo
contesto mostra tutte
quelle fabbriche, si
tratta di un Istituto
Professionale per la
moda, così abbiamo pensato che era giusto farlo guardare verso l’interno,
costruire un edificio introverso, quindi affacciato su una corte. Poi quando
abbiamo considerato l’orientamento del lotto e immesso il sole, abbiamo capito
che la corte doveva ruotare di 45°, ma ruotando la corte avremmo spaccato
completamente il lotto da un lato all’altro. E allora abbiamo tagliato il lotto e
abbiamo messo le corti verso l’esterno (pur mantenendole protette dal contesto)

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 94


invece che verso l’interno, e abbiamo fatto quelle due corti, due mezze corti
sfalsate, in modo da poter unire, in una specie di percorso stradale, tutte le aule e

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i

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laboratori di questo istituto per la moda. Nei due triangoli agli estremi in alto e in
basso, che prospettano direttamente sugli spazi urbani pubblici, abbiamo
disposto in basso la biblioteca, perché potesse essere frequentata anche dalla
città, e in alto per lo stesso motivo un auditorium. La parte centrale è invece
quella più direttamente legata alle attività della scuola. Le corti non sono
completamente chiuse, sono schermate ma anche parzialmente aperte.
Con l’energia solare si può
fare anche la sedia
elettrica, quindi non basta
l’utilizzo dell’energia solare
per essere sicuri di far bene,
in America ho visto
presentare delle città solari
che sono terribili (fig. 32).
Quindi, se il sole ci portasse
a fare queste città
dovremmo avere qualche

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 97


nostalgia verso i combustibili fossili. C’è invece un’altra possibilità, che non è stata
sperimentata dopo la crisi dell’energia (fig. 33), ma che è molto significativa di
quello che si può fare (che in parte si è fatto) con l’architettura bioclimatica.
Questi sono ambienti, esterni e interni, climatizzati perfettamente ma senza
impianti e quindi mi auguro che la nostra cultura architettonica, risvegliandosi,
cominci finalmente a preoccuparsi e a gioire della fine del petrolio, che renderà
gli architetti molto più creativi, immaginativi e capaci di realizzare un’architettura
radicata, regionale e in grado di esprimere l’abitabilità dei luoghi.

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IMMAGINI DEL CONVEGNO

RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 99


RITORNO ALLA CITTA! - ATTI DEL CONVEGNO 100
APPUNTI

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