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Comunità sostenibili e responsabili

Position Paper per Terra Futura 2010

La lezione del movimento antiliberista


Ricorre in questi mesi il decimo anniversario dell’apparizione sul palcoscenico mondia-
le del movimento sociale più imponente e persistente che il mondo moderno abbia co-
nosciuto, quello per una diversa, più equa e sostenibile globalizzazione. A Seattle il 30
novembre del 1999 un movimento di migliaia di persone fermò il vertice del World Tra-
de Organization, ma pochi allora si fermarono a cercare di comprendere che un nuovo
protagonista della storia sociale stava muovendo i primi passi, limitandosi a indicare le
interne contraddizioni perlopiù legate ad alcune forme violente della sua manifestazio-
ne certamente non conformi al messaggio di critica alle forme inique, violente e distrut-
tive dei beni comuni che la globalizzazione aveva assunto.
Quel movimento ha camminato per le strade del mondo attraverso i Forum So-
ciali Mondiali e mille altre manifestazioni e in dieci anni è giunto oggi alla sua piena ma-
turazione, nonostante la miopia della politica tradizionale, l’ottusità del sistema econo-
mico e la distrazione dei mass media che continuano ad ignorarne la lezione. Un mo-
vimento difficile da etichettare secondo le categorie sociologiche più in voga perché
non one-issue, non formato solo da militanti, trasnazionale, locale e globale insieme;
composto da gruppi informali come da grandi organizzazioni nazionali, da imprese co-
me da sindacati, da famiglie e gruppi di orientamento religioso; un movimento radical-
mente contrario al neoliberismo, che si oppone alla retorica del liberismo, di un merca-
to tutt’altro che libero, che si sottrae alle regole di responsabilità.
Il tempo si è fatto carico di dimostrare la correttezza delle sue analisi. La finan-
ziarizzazione esasperata dell’economia non ha portato ad un’epoca di crescita illimitata
e ad un livellamento delle disuguaglianze bensì ad una crisi economica mondiale di
dimensioni sconosciute fino ad ora e ad una crescita delle povertà e ad un approfon-
dimento della distanza fra poveri e ricchi fra le nazioni e al loro interno. Le guerre
dell’ultimo decennio, lungi dal diffondere l democrazia e la pace in ogni angolo della
terra, hanno solo fatto crescere i caduti da ogni parte e prodotto costi insostenibili per
tutti. L’ideologia della crescita e del liberismo ha alimentato l’odio di molti popoli verso
l’Occidente e il terrorismo. Lo sviluppo fondato sui combustibili fossili ha ridotto le scor-
te e fatto crescere i costi economici e sociali delle fonti energetiche tradizionali, ma so-
prattutto ha messo in pericolo il prossimo futuro del pianeta con i cambiamenti climatici
e le conseguenze sull’ambiente. La privatizzazione della gestione di alcuni beni essen-
ziali come l’acqua non ne hanno migliorato la qualità e l’accesso. Le politiche di ridu-
zione dei sistemi di welfare hanno ridotto le possibilità di protezione sociale, non hanno
migliorato i budget pubblici e hanno contribuito a ridurre la coesione sociale.
Il movimento ha vissuto non solo e non tanto dei suoi momenti epifanici, di ma-
nifestazione esplicita e di contestazione dei meccanismi perversi della globalizzazione,
bensì delle sue proposte di cambiamento del sistema socio-economico, delle pratiche
concrete di costruzione di alternative al main stream culturale e politico. Le sue intui-
zioni vivono ogni giorno nelle esperienze di finanza etica, di cooperazione allo sviluppo,
di solidarietà sociale, di conversione ecologica dell’economia, di produzioni biologiche,
di cittadinanza attiva e di partecipazione, di tutela dei diritti dei lavoratori e dei consu-
matori, di coesione sociale. Tutte queste esperienze costituiscono oggi un patrimonio
di significativo valore per individuare una concreta e convincente via d’uscita dalla crisi
globale.
Eppure, la sua lezione più grande e feconda consiste nell’aver praticato (e non
solo teorizzato) la coerenza fra la dimensione locale e quella globale dei problemi. Ed è
proprio questa lezione che potrà essere utile se si vuole davvero uscire dalla crisi fi-
nanziaria globale diversi da come ci si è entrati.
Infatti, se la crisi sancisce il definitivo fallimento dei dogmi del neoliberismo (la
diffusione di un ordinamento privatistico su scala globale, l’assunzione a valore fondan-
te della società le intrinseche capacità autoregolative del mercato, la politicizzazione
dei cittadini e l’identificazione dell’individuo nella sua funzione di consumatore, la cre-
scita lineare dei consumi), siamo oggi ben lontani dall’aver anche soltanto posto le
premesse per un diverso modello culturale per il XXI secolo.

Sviluppo, stili di vita e responsabilità collettiva: la sfida glocale delle


comunità
La crisi impone oggi una rilettura e una profonda rivisitazione di molti concetti e
valori che hanno plasmato il mondo contemporaneo negli ultimi trent’anni.
L’idea dello sviluppo economico come di una linea continua e crescente di
benessere diffuso supportato da una disponibilità inesauribile di risorse e da un pro-
gresso tecnologico in grado di risolvere ogni problema è oggi drammaticamente smen-
tita tanto dal diffondersi della povertà quanto dall’acutizzarsi di problemi globali come i
cambiamenti climatici. Sarà piuttosto l’approccio dello sviluppo umano quello mag-
giormente adatto a tenere insieme qualità della vita ed estensione dei diritti.
La prospettiva della cooperazione in questo contesto si sposta da quella degli
“aiuti allo sviluppo” fondato su una relazione donatore-beneficiario, a quella di una re-
sponsabilità comune ma differenziata per forme sostenibili di produzione e consumo, di
distribuzione e smaltimento fondata su stili di vita che si fanno carico non solo della
presente generazione bensì delle condizioni di vita delle generazioni future.
La diplomazia fra gli Stati oggi assume un significato profondamente diverso,
come si è visto nella preparazione del vertice di Copenhagen, nel quale la crescita del
gruppo di paesi che contribuiscono al problema del clima richiede un approccio di ac-
cordo fra eguali in un mondo sempre più interdipendente.
L’idea stessa della democrazia è messa oggi a dura prova, dovendosi concepi-
re non più come il miglior sistema di governo in contrasto a forme vecchie e nuove di
populismo e concentrazione del potere, ma come un processo dinamico e partecipativo
(non solo delegante), in continua espansione, che ritiene la composizione del demos
come mobile, tale da includere ad esempio residenti non-cittadini che sono stranieri
nella cultura e nella religione. Una democrazia che esalta il suo storico intreccio con di-
verse forme di welfare. Una democrazia che oggi è chiamata a riscoprire il valore della
“sfera pubblica” e le interconnessioni tra responsabilità individuale e responsabili-
tà collettiva: è in questo incrocio che acquista un valore nuovo la comunità, come la
dimensione in cui questi diversi ambiti della responsabilità trovano significato, in una
pratica di comunità aperta, non ripiegata su se stessa nella ricerca ossessiva di una
identità che esclude le diversità e i suoi simboli, ma predisposta all’inclusione, alla coe-
sione sociale attraverso una strategia di cittadinanza attiva. Una democrazia che si
fonda non solo sulla rappresentanza elettorale, ma sull’attiva partecipazione e confron-
to della cittadinanza con chi governa e la responsabilità di questa verso la sua comuni-
tà di riferimento; che integra continuamente i momenti di delega (attraverso
l’espansione del diritto di voto a nuove categorie di cittadini non nati nella comunità ma
che in essa vivono e che contribuiscono a far crescere) e quelli di partecipazione (con
processi di inclusione e condivisione di responsabilità nelle decisioni relative alla vita
delle comunità).
E qui assume una nuovo e più intenso significato il principio di responsabilità,
che è al contempo verso i più vicini e verso gli estremamente lontani, una responsabili-
tà che scavalca i confini ottusi dell’egoismo di gruppo e quelli temporali della propria
generazione. La condizione inedita nella quale ci troviamo per cui l’uomo è diventato
più pericoloso per la biosfera di quanto la natura sia mai stata per lui, impone una nuo-
va etica, non più antropocentrica (relativa ai rapporti uomo-uomo) e non più di prossi-
mità (relativa ad azioni umane di portata circoscritta). La vicenda dei cambiamenti cli-
matici testimonia di questa necessità: le nostre azioni (o le inazioni di oggi) comportano
una responsabilità che ha i caratteri della totalità, della continuità e della proiezione nel
futuro. I confini spaziali (il pianeta) e temporali (le future generazioni) della responsabi-
lità si sono ampliati a dismisura: la biosfera entra nel novero delle cose di cui dobbiamo
essere responsabili perché su essa abbiamo potere. Ma, al contempo le serie causali
non sono reversibili ed hanno carattere cumulativo: gli effetti delle singole azioni si
sommano in modo tale che le condizioni delle azioni e delle scelte successive non so-
no più uguali a quelle iniziali. Ciò significa che hanno un significato importante anche le
azioni locali, che compiamo nella nostra comunità, qui ed ora. Ecco che la responsabi-
lità globale si congiunge a quella locale; che futuro e presente si toccano; che la comu-
nità locale si connette a quella globale a cui insieme partecipiamo.
Comunità sostenibili e responsabili: è questa, dunque, il centro della nostra
riflessione e del nostro impegno, perché è da qui che può nascere un progetto di socie-
tà capace di farci uscire diversi e davvero dalla crisi. Si tratta prima di tutto di una sfida
culturale: mentre molti richiamano ad una idea chiusa delle comunità, finanche alla lo-
ro atomizzazione, illuse di avere un affaccio sul mondo solo attraverso il tubo catodico
e di perseguire la propria sicurezza attraverso l’erezione di nuovi muri e ghetti in cui
confinare la diversità, noi sosteniamo il valore dell’apertura, della comunicazione, della
dialettica, della responsabilità e della biodiversità, convinti che solo per questa strada
può esservi un futuro sostenibile e un presente di benessere per tutti.

Le città e le nuove dimensioni di democrazia delle comunità: da i-


dentità a biodiversità
Ma è anche questa la dimensione della pratica concreta delle esperienze di un
diverso sviluppo. E’ questo il luogo delle alleanze, dove le possibilità di stili di vita re-
sponsabili e sostenibili diventano realtà e realtà sempre più significative. C’è un’altra
economia che sta crescendo in modo esponenziale e dimostra oggi il suo realismo. A-
gricoltura biologica, commercio equo e solidale, finanza etica, cooperazione, energie
rinnovabili, riuso e riciclo, welfare di comunità, imprese responsabili, green economy:
un mondo che oggi in Italia rappresenta migliaia di aziende e organizzazioni no profit, il
6% degli occupati, quasi il 4% del PIL. Ma soprattutto produce comunità sostenibili, re-
sponsabili e felici; contribuisce allo sviluppo giacché il progresso di un mondo in cam-
biamento non può misurarsi più soltanto in termini di PIL (come già la Commissione
delle Comunità Europee ha statuito in una sua recente comunicazione al Consiglio e al
Parlamento Europeo).
In queste comunità il ruolo degli individui, del privato è importante almeno
quanto quello delle aggregazioni sociali e produttive, ma non è misurato sui parametri
dell’ideologia del mercatismo, bensì su quelli della responsabilità.
Le comunità sono anche il luogo delle relazioni umane moderne, e fra tutte le
città, che per la prima volta nel 2008 hanno superato il numero di abitanti rispetto a
quelli delle campagne. Le sfide globali sono tutte nelle città.
C’è la sfida dell’incontro delle culture, non necessariamente dello scontro. La
sfida intergenerazionale, che può trasformarsi in una guerra fra poveri, tra un pensio-
nato e chi cerca un lavoro, ma può essere anche una nuova alleanza fra generazioni,
presenti e non, nella città. Il problema della giustizia sociale, quello dell’incontro delle
religioni. Anche la sfida democratica, cioè ridemocratizzare la democrazia, dare so-
stanza alla democrazia, passa attraverso le nostre città dove ancora può avvenire la
saldatura fra le istituzioni ed i cittadini e la politica ritrovare una sua credibilità. E’ nelle
città che si stanno sviluppando le buone pratiche di amministrazione, fondate sulla par-
tecipazione: esse possono dare una risposta alla corruzione e alla incapacità, alla in-
gessatura che tante volte le nostre amministrazioni nazionali manifestano.
Vi è un concreto rischio di involuzione delle democrazie moderne nella misura
in cui sottovalutano la condizione migliore in cui si sviluppano le democrazie, quella
nella quale le persone interagiscono e si mettono in relazione vantaggiosa e ragionevo-
le senza perdere la loro libertà. Per questo la democrazia costituzionale moderna attri-
buisce grande importanza a procedure, diritti, regole, cioè i mezzi formali e giuridici at-
traverso i quali le persone, diverse per opinioni, possono interagire e cooperare traen-
do vantaggio dalle loro diverse competenze. Il luogo per antonomasia dove questa in-
terazione avviene è la città. Ed è qui che si sono sviluppate esperienze che non fanno
altro che sviluppare queste interrelazioni, come i bilanci partecipativi, in cui il bilancio
comunale viene discusso con i cittadini e rivisto insieme a loro, non per togliere vigore
alle regole democratiche, ma per ridargliene.

La città è l’incontro di tutte le domande della globalizzazione, ma il territorio limi-


tato dà la possibilità di immaginare una risposta. Allora la città diventa una sfida globa-
le e locale insieme. Nella città è possibile armonizzare il globale e il locale. Pensiamo
alle buone pratiche per salvare l’ambiente, del dialogo fra diversi; oppure la sfida dello
sviluppo sostenibile: esse possono iniziare dalle città.
Le nostre città stanno diventando un crogiolo di incontro di culture, di religioni.
Nelle nostre città troviamo la moschea, la chiesa, la sinagoga, il tempio buddista: stan-
no diventando il punto di incontro di persone diverse. Le culture, le religioni fanno fatica
ad incontrarsi a livello ufficiale, ma le persone, gli individui possono accelerare questo
cammino. Perché se aprono gli occhi, si possono vedere uguali, riconoscersi: la città
può diventare il punto d’inizio di un incontro pacifico fra le diversità.

La città è anche il luogo dell’eteronomia, ovvero della dipendenza. Dopo aver


espulso dal suo seno nel corso del Novecento la produzione agricola e la produzione
energetica, ha progressivamente allontanato negli ultimi quarant’anni anche la produ-
zione industriale, mantenendo al suo interno le funzioni di comando e di servizio: finan-
za, direzione strategica, progettazione, comunicazione e marketing. Le città globali so-
no diventate semplici terminali di merci prodotte altrove. Merci che arrivano sempre più
da lontano e dai luoghi più disparati per garantire quotidianamente cibo, luce, calore e
quant’altro serve ad una metà della popolazione ondiale – quella urbana – che per
quanto “connessa”, senza quel flusso dall’esterno non sarebbe in grado di garantire la
propria sussistenza.
La scommessa ecologica del cibo di qualità e dell’agricoltura biologica, come
delle fonti rinnovabili di energia acquistano una grande valenza sociale ed economica
se diventano leve per rompere questa catena di dipendenza.
Lo slogan “chilometro zero” o “sovranità alimentare” restano formula vuota se
non rinasce l’agricoltura dentro e intorno alle città (come sta avvenendo in città come
Lima, Rosario o Medellin, dove l’agricoltura urbana diventa strumento di recupero di
territorio e dignità). Vi è da riconnettere una storia, un dialogo che si è interrotto fra
campagna e città, fra due dimensioni della comunità. Anche nelle campagne stanno
avvenendo trasformazioni importanti e nascono fermenti di una comunità sostenibile e
responsabile che, come per quanto detto per le città, trovano nella diversità l’elemento
fondamentale della vitalità delle comunità. Diversità biologica, ma anche di stili di vita,
di produzioni, di memoria, di economie. Le tante esperienze di produzioni biologiche, di
organizzazione di Gruppi di Acquisto Solidale, di esperienze di distribuzione a “Km ze-
ro”, di corretta cultura alimentare segnalano oggi la necessità di ricostruire un rapporto
positivo fra città e campagna, inteso come snodo di un sistema economico, di valori, di
beni comuni, di culture e di deindustrializzazione dell’agricoltura intensiva ed estensiva,
per recuperare il rapporto tra uomo e natura sacrificato sull’altare della crescita eco-
nomica.
Analogamente, lo sviluppo delle energie rinnovabili non è soltanto la migliore
risposta all’esaurimento di altre materie prime energetiche o ai cambiamenti climatici.
E’ anche un’opportunità per creare un modello altamente decentrato di produzione di
energia, un modello di “democrazia energetica”, per creare gradi crescenti di autono-
mia a livello di comunità di quartiere o di villaggio.

Dopo Copenhagen un ruolo nuovo per le città


Il fallimento della politica alla conferenza di Copenhagen ci impegna ancor più
di prima a “non sprecare la crisi”. Ad innestare cioè sulla crisi, economica e climatica,
una potente leva di innovazione. E qui sta la centralità delle città. Secondo il Rapporto
Stern circa l’80% delle emissioni proviene dalle aree urbane; in Italia oltre il 40% dei
consumi energetici proviene dagli usi civili, mentre i due terzi degli spostamenti avviene
in aree urbane. L’esito di Copenhagen chiede ancora più cogenza ai Paesi ricchi per
rivedere i propri modelli urbanistici, trasportistici ed energetici. La battaglia contro i
cambiamenti climatici si trasformerà così in un grande fattore d’innovazione, di proces-
so e di prodotto, attraverso la riduzione dei consumi energetici e lo sviluppo
dell’efficienza, misurandosi soprattutto con quattro grandi sfide.
La prima sfida riguarda l’edilizia. Efficienza energetica e promozione delle fonti
rinnovabili devono far ripensare il modo di costruire e di gestire gli edifici. Servono case
e quartieri che non abbiano bisogno dei condizionatori d’estate e di un forte consumo
di fonti fossili per il riscaldamento invernale. Non sono propositi visionari: già in 500
comuni italiani sono stati modificati i regolamenti edilizi in questa direzione. Non solo, il
Governo britannico ha già deciso che dal 2016 si potranno costruire solo edifici carbon
neutral.

La seconda sfida riguarda la mobilità, favorendo la mobilità ciclabile ed il tra-


sporto pubblico locale (specie su rotaia). Anche in questo caso occorre invertire la rot-
ta, arrestando l’esorbitante consumo di territorio che, insieme alla polverizzazione del
tessuto urbano, ha peggiorato significativamente le relazioni sociali, le condizioni di vita
delle persone. Abbiamo sacrificato porzioni crescenti di prezioso territorio alla mobilità
veicolare individuale (e si continua a farlo con la costruzione di nuove arterie autostra-
dali) con il risultato di incentivare l’uso del mezzo privato su gomma inquinante e stres-
sante e disincentivare il trasporto collettivo su ferro, in nome di interessi economici di
corto respiro e di gruppi industriali privati.

La terza sfida riguarda il “microclima urbano”. Le aree urbane già oggi presen-
tano temperature medie superiori di almeno un grado alla media nazionale, e in alcuni
periodi fanno registrare anche 4 o 5 gradi di più delle temperature registrate nelle aree
non urbanizzate. Serve una diversa gestione degli ecosistemi urbani, a partire dalle a-
ree verdi e dalla gestione dell’acqua, rafforzando la biodiversità e quindi la qualità dei
corridoi ecologici. E rilanciando fortemente l’agricoltura urbana e periurbana.
La quarta sfida, infine, attiene alla qualità delle relazioni sociali. Le città del
XXI secolo non possono ridursi a delle discariche della globalizzazione, per dirla con
Zygmunt Bauman. Qui, l’indifferenza e diffidenza verso la diversità etnica, culturale e
sociale, stanno peggiorando la qualità della vita, sostituendo la paura alla fiducia, la
separazione alla coesione. Le città sostenibili e responsabili sono caratterizzate da re-
lazioni sociali fondate sul dialogo, sulla cura degli spazi di relazione, sulla qualità dei
servizi sociali e culturali, sulla tranquillità, sulla comprensione reciproca. Per questo
dobbiamo incrociare i temi della sostenibilità dello sviluppo con quelli della convivenza
civile e dell’accoglienza responsabile.

Ed è per questo, ancora, che le città (al di là della loro sfera fisica) sono per noi
delle comunità. Di donne e uomini che, al di là della loro provenienza geografica, del
loro orientamento politico, religioso o sessuale, debbono contare incontrovertibilmente
sulla stessa identica gamma di diritti e doveri.

Vi è qui uno spazio nuovo, straordinario, che connette inestricabilmente il biso-


gno di una responsabilità più ampia e cogente della politica e dell’economia a livello
globale, con gli stili di vita individuali, con la responsabilità delle persone, nella consa-
pevolezza che ogni nostra singola azione ha un significato per la nostra comunità
prossima, quella che allungando la nostra ombra riusciamo a coprire, e quella più am-
pia alla quale egualmente apparteniamo e i cui confini oltrepassano i limiti della biosfe-
ra.
Piantare alberi, coltivarli e proteggerli è, realmente e metaforicamente, una atti-
vità di cura per la nostra piccola terra e insieme di fiducia e responsabilità verso il futu-
ro.
Il giudizio storico sulla generazione presente sarà condizionato da cosa sapre-
mo o non sapremo fare sui grandi temi dei cambiamenti climatici,
dell’approvvigionamento energetico, sulla biodiversità, ma anche sulla giustizia,
sull’equità, sulla qualità della vita che sapremo o meno costruire per le nostre comuni-
tà; sul bosco che avremo fatto crescere, ma anche su ogni singolo albero che avremo
piantato.

“Le vecchie fonti, alimentate dalle piogge e le nevi che la foresta ritiene, hanno ripreso a scorrere. Le ac-
que sono state canalizzate. A lato di ogni fattoria, in mezzo a boschetti di aceri, le vasche delle fontane
lasciano debordare l’acqua sui tappeti di menta. I villaggi si sono ricostruiti poco a poco. Una popolazione
venuta dalle pianure, dove la terra costa cara, si è stabilita qui, portando gioventù, movimento, spirito
d’avventura. S’incontrano per la strade uomini e donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere e
hanno ripreso il gusto per le feste campestri. Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da quando
vive nell’armonia,, e i nuovi venuti, più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier”
Jean Giono, “L’uomo che piantava gli alberi”

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