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DONNE D’AVANGUARDIA

Le ragazze arrabbiate che sconvolsero l’arte

Alla Gnam di Roma le opere “femministe” degli anni ’70.


Dalla Sherman alla Woodman, mettevano in gioco se stesse

di Lea Mattarella – Su La Repubblica del 27 febbraio 2010

ROMA. La fotografia dell’artista austriaca Valie Export che la inquadra con il


broncio, un mitra in mano e i pantaloni strappati a mostrare i genitali è la
chiave per capire la mostra Donna: avanguardia femminista negli anni ’70
allestita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma fino al 16 maggio
(catalogo Electa) .

Le 17 protagoniste dell’esposizione, curata da Angelandreina Rorro e Gabriele


Schor, sono infatti tutte più o meno nella stessa condizione: messe a nudo e
molto, molto arrabbiate.

Le 200 opere esposte provengono dalla


Collezione Verbund di Vienna,sono
state eseguite da artiste diverse per
formazione e luogo di origine, ma
accomunate da una stessa radicalità.
Negli anni Settanta erano tutte
giovanissime. E se oggi le ragazze
fantasticano di diventare veline, loro
sognavano di cambiare il mondo. E' una
bella differenza che mette
immediatamente in moto il motore
della nostalgia.

La prima regola per combattere la


tirannia di un mondo espressivo
declinato al maschile e quella di
mettersi in gioco in prima persona (“il
personale è politico" si diceva allora). E di utilizzare mezzi differenti da quelli
consolidati. Se la storia dell'arte non ha riconosciuto - se non per poche
eccezioni - l'importanza del contributo femminile nel campo della pittura, alle
donne non resta che abbandonarla.

Fotografia, performance, filmati sono strumenti più giovani che permettono


anche di affrontare tematiche differenti dal passato e, fino a questo momento,
considerate tabù. Lo stupro, per esempio, compare nella pittura sotto forma
leggendaria e mitologica: il Ratto delle Sabine, Giove che seduce con l'inganno.
Le “donne-artiste-femministe" invece lo mostrano, lo denunciano, ne rivelano
l'orrore. Una delle prime opere di Ana Mendieta, cubana, esiliata negli Stati
Uniti dopo la rivoluzione castrista, scomparsa nel 1985 a 37 anni, è la messa in
scena del luogo in cui avvenuta una violenza carnale:lei è lì seminuda, coperta
di sangue a sbattere in faccia al mondo ciò che le donne subiscono e a volte
nascondono, quasi come fosse una loro colpa.

Ciò che annare evidente attraversando


le sale di questa mostra quasi
completamente in bianco e nero e che
le donne annullano definitivamente il
confine tra arte e vita. E questo è
caratteristico dell'avanguardia, termine
che la Schor ha scelto con orgoglio nel
titolo, perché, parafrasando una
vecchia canzone popolare, “sebben che
siano donne" a tutte riconosce un ruolo
precursore.

Come succede in letteratura, esplorare


l'arte dalla parte di lei significa trovarsi
di fronte a un racconto personale,
intimo che ha la capacità di diventare
universale. Gertrude Stein la
chiamerebbe un'autobiografia di tutti.
Anzi di tutte.

Di queste artiste conosciamo quasi sempre il viso perché soggetto privilegiato


delle loro opere è il proprio il corpo, come l'americana Hannah Wilke, così
bella da essere stata accusata da molte femministe di “flirtare” con lo
spettatore. Quando, nel 1975, lascia che la sua nudità sia violata dalla
presenza di gomme da masticare appiccicate a deformarla, nessuno puo
immaginare quanto sarebbe diventata estrema la sua scelta dimettere in
mostra se stessa. Lo farà nella malattia, denudata, fragile, devastata dalla
chemioterapia. Scompare nel 1993 a 53 anni, dopo aver dimostrato, con e
sulla sua pelle, quanto quello della bellezza sia un falso mito, uno stereotipo
ridicolo e pericoloso.

C'è un destino di morte precoce che accomuna queste artiste, come se la


battaglia le avesse consumate. Ma all’aspetto tragico e a quello di denuncia,
incarnato soprattutto dalle performance di Leslie Labowitz e Suzanne Lacy
contro la sopraffazione fisica e psicologica di cui sono vittime le donne, si
accompagna una gran de ironia, spesso tradotta nel travestimento.

Fin da subito questo il mezzo espressivo di Cindy Sherman, forse la più


celebre esponente di questa irrequieta “quota rosa” dell'arte, di cui sono
esposte le piccole foto in bianco e nero de gli esordi e un film che gioca sul
ruolo della donna-bambola.

Sono sempre commoventi le fotografie di Francesca Woodman, suicida a soli


23 anni: piccole immagini in cui il corpo dell'artista, quasi sorpreso
dall'autoscatto, sembra cercare continuamente un nascondiglio. E sono una
scoperta le opere surrealisteggianti di Birgit Jürgenssen e di Renate
Bertlmann, mai esposte in Italia.

Così come il video dell'egiziana Nil Yalter dove si denuncia una pratica in
vigore in alcune zone rurali della Turchia. Alle donne infeconde, ma anche, in
una strana corrispondenza, a quelle ribelli, l'imam poteva scrivere una
preghiera sul ventre e cancellare gli errori con la lingua.

E, per finire, la bellissima serie di fotografie della tedesca Annegret Soltau.


Nel 1975, si copre la faccia con un filo che diventa una tessitura, una
ragnatela, forse una prigione: ci vorranno le forbici per liberarla.

Il cammino verso l'emancipazione ha bisogno di tagli radicali e non di mimose.


Le artiste lo sanno.

Le immagini: Francesca Woodman, “Selfportrait” (Talking to Vince), 1976 – in alto –


e Renate Bertlmann “Zärtliche pantomime”, 1976 - in basso.

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