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103/2010
Eduardo Giordanelli
RESOURCE DEVELOPMET ITERATIOAL ITALIA SRL
Beppe di Biase
RESOURCE DEVELOPMET ITERATIOAL ITALIA SRL
Jim Blenkinsop
PRODUCTIVITY EUROPE
300 operai e tecnici non giudicavano credibili gli obiettivi fissati dalla direzione aziendale.
Dopo solo tre mesi li avevano raggiunti e superati. Questo caso dimostra come, a volte, il
principale ostacolo ad un miglioramento trasformativo dipenda non dalle strutture aziendali o
dalle competenze tecniche ma dagli schemi interpretativi delle persone (Mezirow, 2003).
Eduardo Giordanelli, Beppe Di Biase, Jim Blenkinsop
1 – Teoria
1.1 – “Dilemmi disorientanti”
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ticonzero No. 103/2010
2 – Il case study
La Videocolor di Anagni è stata negli anni ’80 e ’90 il più importante produttore
europeo di tubi catodici per televisori. Era una fabbrica che faceva utili, con un
livello di produttività record e buona innovazione. Quando all’inizio del 2000 il
mercato TV è passato agli schermi piatti, dopo il passaggio di proprietà dalla
francese Thomson all’indiana Videocon, è iniziato un lungo e sofferto piano di
conversione industriale. Il piano originale di iniziare a produrre schermi tv al plasma
poco a poco è naufragato.
Al momento del nostro intervento, marzo 2008, i 900 lavoratori della divisione
plasma erano in cassa integrazione straordinaria con forti tensioni sindacali.
Appariva meno nebuloso, ma comunque incerto, il destino dei 500 dipendenti, su
tre turni, della divisione assemblaggio LCD.
Nei nostri primi incontri con il team dirigente abbiamo riscontrato un’ampia
condivisione sugli obiettivi da perseguire. In particolare la linea di assemblaggio per
poter diventare competitiva doveva essere in grado di assemblare, testare e
imballare un LCD utilizzando meno di 10 minuti di manodopera diretta, inclusi i
servizi di logistica asserviti all’assemblaggio. L’alta direzione era consapevole che le
linee di assemblaggio attualmente in uso erano state progettate sia per i televisori
a tubo catodico che per gli LCD e che il passaggio a un sistema di produzione a
celle specificamente progettate per gli LCD era essenziale per riuscire a ridurre il
tempo di assemblaggio da 32 a 10 minuti/pezzo.
L’obiettivo concordato era da considerarsi realistico in quanto altre fabbriche in Asia
lo avevano ottenuto producendo modelli simili. Il nostro lavoro era estremamente
semplice: progettare il processo a celle e formare gli operai a lavorarci… l’unico
dettaglio era che il sistema era già stato proposto da tecnici koreani e rifiutato dagli
operai.
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Tornando al case study, noi ci trovavamo di fronte a persone che non potevano
credere che una semplice riorganizzazione del processo produttivo basato su
principi lean potesse aumentare la produttività del 300%.
Abbiamo per prima cosa dimostrato con un gioco di simulazione che, cambiando
l’organizzazione del lavoro, era possibile migliorare il tempo di assemblaggio del
1000%, riducendo la fatica degli operatori. Gli strumenti del gioco sono stati
bicchierini di carta e bustine di zucchero.
A quel punto abbiamo iniziato un dialogo con i partecipanti per individuare le
principali barriere al cambiamento. Le principali erano:
- Se anche fosse possibile assemblare un LCD in 10 minuti, perché lo
dovremmo fare? Perché ci dovremmo ammazzare di lavoro con ritmi
insostenibili (nonostante quello che avete dimostrato con il vostro giochino)?
- Se ci dovessimo riuscire l’azienda avrà bisogno di meno dipendenti. Perché
dovremmo aiutare la proprietà a mandarci via?
- Se i movimenti di assemblaggio sono gli stessi perché una cella di 4-6 persone
dovrebbe essere più veloce di una linea di 50 persone?
- Se le celle dovessero funzionare, come cambierà il nostro lavoro? Saremo in
grado di farlo?
- Il lavoro di assemblaggio è un lavoro per operai non qualificati. Così perdiamo
la nostra professionalità…
Questi preconcetti sono fondamentalmente gli stessi che hanno avuto anche i
partecipanti ai gruppi di lavoro successivi. Sarebbe stato impossibile far capire ed
applicare correttamente i principi di assemblaggio lean se non avessimo prima
affrontato questi ostacoli.
1 Da bambini tendiamo a voler imparare come adattarci con successo alle regole implicite di
comportamento della società o, se ci ribelliamo, è per motivi egoistici. È solo nell’età adulta che iniziamo
a riflettere sulle ragioni alla base delle regole di comportamento e di interpretazione dei fatti nostre e
degli altri (vedi Habermas, 2001).
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Purtroppo gli esseri umani non sono, come sostengono gli ottimisti, esseri pensanti
alla continua ricerca di un significato, ma piuttosto abitudinari che assegnano gli
stessi significati alle loro esperienze, lasciando così fuori dal loro campo di
percezione tutto ciò che non si adatta allo schema interpretativo abituale.
Alcuni giochi hanno avuto lo scopo di chiarire i presupposti economici alla base di
ogni progetto di cambiamento, eliminando i fraintendimenti che generano sospetti e
sfiducia. Abbiamo dedicato ad ogni gruppo il tempo sufficiente affinché fosse chiaro
a tutti non solo l’obiettivo (i 10 minuti), ma anche le ragioni economiche che lo
sostenevano, senza mai negare l’esigenza aziendale di ridurre il personale.
Via via che il lavoro progrediva abbiamo potuto cambiare il nostro stile di
facilitazione per passare da una dimensione trasformativa a una dimensione
comunicativa.
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L’andamento di questo case study ha favorito una riflessione interna fra noi sulla
centralità dei “dilemmi disorientanti” nei progetti di cambiamento. Riesaminando i
nostri progetti del passato siamo arrivati alla conclusione che miglioramenti
significativi di performance sono legati alla “dissoluzione” di dilemmi disorientanti
nelle organizzazioni clienti. Questi dilemmi non sono altro che gli esempi più
clamorosi, a volte folcloristici, che abbiamo incontrato nella nostra esperienza
professionale di resistenza al cambiamento. Non sempre ad opera degli operai, a
volte anche della direzione aziendale.
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