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No.

103/2010

La produttività migliora del 300% con l’apprendimento


trasformativo: un case study

Eduardo Giordanelli
RESOURCE DEVELOPMET ITERATIOAL ITALIA SRL
Beppe di Biase
RESOURCE DEVELOPMET ITERATIOAL ITALIA SRL
Jim Blenkinsop
PRODUCTIVITY EUROPE

300 operai e tecnici non giudicavano credibili gli obiettivi fissati dalla direzione aziendale.
Dopo solo tre mesi li avevano raggiunti e superati. Questo caso dimostra come, a volte, il
principale ostacolo ad un miglioramento trasformativo dipenda non dalle strutture aziendali o
dalle competenze tecniche ma dagli schemi interpretativi delle persone (Mezirow, 2003).
Eduardo Giordanelli, Beppe Di Biase, Jim Blenkinsop

1 – Teoria
1.1 – “Dilemmi disorientanti”

Perché non riusciamo ad applicare le best practice presenti in altre aziende?


Perché la nostra azienda non ha più successo?
Perché non capiamo le mosse della concorrenza? ( o perché con i nostri clienti non
c’è più l’intesa di una volta?)

Questi sono alcuni esempi di “dilemmi disorientanti” (Mezirow, 2003) in azienda.


L’apprendimento trasformativo (da ora in poi AT) testa, valida ed eventualmente
cambia i presupposti non funzionali, alla base dei nostri comportamenti, per
ottenere:
- una interpretazione più coerente fra attese, mezzi e risultati;
- un ampio consenso sulle nuove interpretazioni dei fatti
- strategie di azione più efficaci

Gli individui gestiscono i “dilemmi disorientanti” se prima individuano i presupposti


logici, emotivi, psicologici e sociali che ostacolano il cambiamento, e poi cercano
schemi interpretativi piú funzionali per sperimentare infine nuove azioni
(Mezirow,2003). La stessa strategia può essere valida per le organizzazioni:
organismi di persone permeate dalla stessa cultura aziendale e orientate a obiettivi
comuni.

La riflessione critica sui presupposti è una strategia dell’AT utile a garantire un


processo di miglioramento continuo sulle due dimensioni tipiche dell’attività umana
(Habermas, 1986):

- la dimensione comunicativa, relativa a come imparare a lavorare in modo


sempre più efficace all’interno di un gruppo partecipando alle decisioni e alle
azioni in maniera motivata e attiva
- la dimensione strumentale, relativa a come gestire al meglio il mondo
materiale che ci circonda. Nel mondo aziendale: imparare ad applicare
tecniche di miglioramento del processo, del prodotto o del servizio.

Quando si usano tecniche strumentali per manipolare le persone siamo in presenza


di un comportamento improprio, che dovrebbe risultare meno performante di quello
comunicativo (Habermas, 2001).

1.2 – Il nostro approccio standard

In azienda operiamo con:


- lavoro di squadra
- analisi del processo lavorativo condotta direttamente dalle squadre aziendali
(da noi facilitate)
- misure di performance condivise
I miglioramenti della produttività riscontrati oscillano tra il 15% ed il 30% in
assenza di investimenti tecnologici significativi. Lo confermano i numerosi studi
applicativi su lavoro di squadra e balanced scorecard ispirati tra gli altri a Deming
(1982), Schein (1988, 1987), Norton e Kaplan (2001), come pure studi specifici sul
rapporto fra coinvolgimento dei dipendenti e performance aziendale (Bagnato e
Paolino, 2009).

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ticonzero No. 103/2010

Raramente incontriamo resistenze preconcette al nostro approccio, per cui la


maggior parte del nostro lavoro di facilitazione si svolge nelle dimensioni di
apprendimento comunicativo e strumentale: aiutiamo le persone a concordare sul
“come fare” le cose e non sul “perché farle”; questo permette, fra l’altro, di
procedere nel percorso di cambiamento in tempi relativamente rapidi.

2 – Il case study
La Videocolor di Anagni è stata negli anni ’80 e ’90 il più importante produttore
europeo di tubi catodici per televisori. Era una fabbrica che faceva utili, con un
livello di produttività record e buona innovazione. Quando all’inizio del 2000 il
mercato TV è passato agli schermi piatti, dopo il passaggio di proprietà dalla
francese Thomson all’indiana Videocon, è iniziato un lungo e sofferto piano di
conversione industriale. Il piano originale di iniziare a produrre schermi tv al plasma
poco a poco è naufragato.
Al momento del nostro intervento, marzo 2008, i 900 lavoratori della divisione
plasma erano in cassa integrazione straordinaria con forti tensioni sindacali.
Appariva meno nebuloso, ma comunque incerto, il destino dei 500 dipendenti, su
tre turni, della divisione assemblaggio LCD.
Nei nostri primi incontri con il team dirigente abbiamo riscontrato un’ampia
condivisione sugli obiettivi da perseguire. In particolare la linea di assemblaggio per
poter diventare competitiva doveva essere in grado di assemblare, testare e
imballare un LCD utilizzando meno di 10 minuti di manodopera diretta, inclusi i
servizi di logistica asserviti all’assemblaggio. L’alta direzione era consapevole che le
linee di assemblaggio attualmente in uso erano state progettate sia per i televisori
a tubo catodico che per gli LCD e che il passaggio a un sistema di produzione a
celle specificamente progettate per gli LCD era essenziale per riuscire a ridurre il
tempo di assemblaggio da 32 a 10 minuti/pezzo.
L’obiettivo concordato era da considerarsi realistico in quanto altre fabbriche in Asia
lo avevano ottenuto producendo modelli simili. Il nostro lavoro era estremamente
semplice: progettare il processo a celle e formare gli operai a lavorarci… l’unico
dettaglio era che il sistema era già stato proposto da tecnici koreani e rifiutato dagli
operai.

Quando abbiamo avuto il primo incontro con supervisori e tecnici ci aspettavamo le


solite domande su come fare, magari in un clima di tensione dovuto alle voci di
prossimi licenziamenti e di chiusura del settore del plasma. Ciò che ci sorprese fu la
risata generale all’obiettivo dei 10 min/pezzo: una risata sincera che doveva
preludere ad un discorso finalmente serio. Quando capirono che noi non stavamo
scherzando la prima reazione fu di interpretare l’obiettivo come una mossa politica
della proprietà per giustificare la chiusura dell’intera fabbrica.
Avevamo pianificato una riunione di 4 ore per condividere insieme ai tecnici ed ai
supervisori i benefici che avrebbe comportato l’introduzione di un sistema a celle
produttive e del lavoro di squadra e ci siamo ritrovati in mezzo alle proteste e alla
proposta di una marcia su Roma per difendere gli italiani dagli indiani.
Noi eravamo consapevoli che l’obiettivo era raggiungibile, ma anche che era
assolutamente inutile iniziare un confronto su chi avesse ragione.
Recentemente avevamo iniziato un approfondimento all’interno della nostra società
per valutare quale approccio formativo usare in situazioni del genere e così Jim ed
Eduardo, che si trovavano in aula in quel momento, decisero di adottare un modello
di facilitazione trasformativa e di tentare di fare emergere tutte le barriere logiche,
psicologiche, emotive e sociali al cambiamento.

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Eduardo Giordanelli, Beppe Di Biase, Jim Blenkinsop

2.1 L’apprendimento trasformativo

A proposito di AT facciamo ricorso ad un esempio improprio usato da Mezirow (in


realtà l’AT è specifico dell’età adulta e l’esempio va considerato in via analogica1):
quando un bambino deve imparare a leggere, guarda le pagine e nota solo che
sono piene di piccoli disegni (le lettere). Alcuni bambini, infatti, imparano a scrivere
prima che a leggere perché si ricordano come si disegna una parola. I bambini
hanno bisogno di essere rassicurati per imparare a leggere e ricordiamo domande
del tipo: “Mamma, mi continuerai a leggere le favole anche se imparo a leggere?”
Poi d’improvviso, in pochi giorni, i bambini capiscono e non vedono più le parole
come disegni: guardano le parole e le leggono. Molti non sono più in grado di
ricordarsi i caratteri tipografici, non vedono più i disegni sulla pagina. Ora il
momento in cui i bambini capiscono la lettura è il momento in cui bisogna insistere
a farli leggere, per evitare che si verifichi l’analfabetismo di ritorno e che si debba
ricominciare tutto da capo. In altre parole il momento della comprensione non
basta, ci vuole una pratica continua sostenuta da rassicurazioni a livello pratico,
emotivo e psicologico. Se i genitori non mantengono la parola e smettono di
leggere le favole i bambini possono perdere interesse alla lettura.

Tornando al case study, noi ci trovavamo di fronte a persone che non potevano
credere che una semplice riorganizzazione del processo produttivo basato su
principi lean potesse aumentare la produttività del 300%.

Abbiamo per prima cosa dimostrato con un gioco di simulazione che, cambiando
l’organizzazione del lavoro, era possibile migliorare il tempo di assemblaggio del
1000%, riducendo la fatica degli operatori. Gli strumenti del gioco sono stati
bicchierini di carta e bustine di zucchero.
A quel punto abbiamo iniziato un dialogo con i partecipanti per individuare le
principali barriere al cambiamento. Le principali erano:
- Se anche fosse possibile assemblare un LCD in 10 minuti, perché lo
dovremmo fare? Perché ci dovremmo ammazzare di lavoro con ritmi
insostenibili (nonostante quello che avete dimostrato con il vostro giochino)?
- Se ci dovessimo riuscire l’azienda avrà bisogno di meno dipendenti. Perché
dovremmo aiutare la proprietà a mandarci via?
- Se i movimenti di assemblaggio sono gli stessi perché una cella di 4-6 persone
dovrebbe essere più veloce di una linea di 50 persone?
- Se le celle dovessero funzionare, come cambierà il nostro lavoro? Saremo in
grado di farlo?
- Il lavoro di assemblaggio è un lavoro per operai non qualificati. Così perdiamo
la nostra professionalità…

Questi preconcetti sono fondamentalmente gli stessi che hanno avuto anche i
partecipanti ai gruppi di lavoro successivi. Sarebbe stato impossibile far capire ed
applicare correttamente i principi di assemblaggio lean se non avessimo prima
affrontato questi ostacoli.

1 Da bambini tendiamo a voler imparare come adattarci con successo alle regole implicite di
comportamento della società o, se ci ribelliamo, è per motivi egoistici. È solo nell’età adulta che iniziamo
a riflettere sulle ragioni alla base delle regole di comportamento e di interpretazione dei fatti nostre e
degli altri (vedi Habermas, 2001).

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ticonzero No. 103/2010

Purtroppo gli esseri umani non sono, come sostengono gli ottimisti, esseri pensanti
alla continua ricerca di un significato, ma piuttosto abitudinari che assegnano gli
stessi significati alle loro esperienze, lasciando così fuori dal loro campo di
percezione tutto ciò che non si adatta allo schema interpretativo abituale.

I preconcetti dei supervisori e degli operai erano quantomeno sintomatici di un


atteggiamento vittimistico poiché erano così riassumibili:
- Stiamo male, ma migliorare le cose è contro il nostro interesse.
- Noi siamo parte di un’aristocrazia operaia, siamo operai di produzione dove
erano necessarie competenze, cura, intelligenza e ora siamo costretti a fare
questo stupido lavoro in cui dobbiamo semplicemente avvitare, cablare e
inscatolare…

Purtroppo eravamo consapevoli che per raggiungere l’obiettivo dei 10 minuti le


persone dovevano essere in grado di cogliere la sostanziale differenza fra un
assemblatore standard ed un assemblatore esperto. Per apprezzare la differenza, le
persone dovevano interessarsi al lavoro e prendere coscienza che stavano passando
da una tradizionale attività di produzione ad un lavoro meno faticoso ma perfetto,
paragonabile a un “gesto” atletico o artistico.

Lavorando con 6 gruppi successivi di 50 persone l’uno, operai, tecnici ed addetti


alla logistica, abbiamo usato giochi di simulazione e discussioni di gruppo per
aiutarli a superare i loro preconcetti individuali e collettivi. Li abbiamo sempre
aiutati a ricostruire i collegamenti concettuali fra i giochi fatti in aula e la realtà
aziendale. I 10 minuti/pezzo sono diventati via via obiettivo non difficile,
raggiungibile... da superare!

Alcuni giochi hanno avuto lo scopo di chiarire i presupposti economici alla base di
ogni progetto di cambiamento, eliminando i fraintendimenti che generano sospetti e
sfiducia. Abbiamo dedicato ad ogni gruppo il tempo sufficiente affinché fosse chiaro
a tutti non solo l’obiettivo (i 10 minuti), ma anche le ragioni economiche che lo
sostenevano, senza mai negare l’esigenza aziendale di ridurre il personale.

La fase di applicazione in fabbrica dei concetti discussi in aula si è dimostrata un


processo ideale per mettere alla prova le idee degli stessi operatori. Le idee
venivano valutate in base alla loro efficacia e non a principi di autorità: è stata
un’iniezione di fiducia a molte persone che hanno iniziato a mettere in evidenza
qualità latenti di leadership collaborativa (Preskill e Brookfield, 2009). La
facilitazione di questa sperimentazione intensa e diretta sul processo operativo ha
dimostrato che con supporto adeguato, una organizzazione in cui collaborazione e
risultati fossero diventati centrali avrebbe potuto superare la cultura precedente
radicata sul più tradizionale, ma ormai inefficace, sistema di comando e controllo.
Tutti i supervisori sono stati costretti a riesaminare il loro ruolo ed i loro metodi. Per
alcuni non è stato facile: ne sono derivate azioni correttive di riallineamento con la
nuova vision.

Via via che il lavoro progrediva abbiamo potuto cambiare il nostro stile di
facilitazione per passare da una dimensione trasformativa a una dimensione
comunicativa.

2.2 Apprendimento comunicativo

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Eduardo Giordanelli, Beppe Di Biase, Jim Blenkinsop

L’apprendimento comunicativo può avere luogo solo se si realizzano condizioni di


mutuo rispetto, uguale opportunità di parola e disposizione all’ascolto (Mezirow,
2003)
Da una situazione iniziale in cui molti si rifiutavano di osservare gli sprechi della
routine quotidiana (“a queste cose ci deve pensare tempi e metodi”) e di dare il loro
contributo (“non siamo pagati per pensare!”)siamo passati progressivamente a una
situazione in cui, cronometro alla mano, le squadre delle celle decidevano quale
poteva essere il modo migliore di suddividersi il lavoro e di coordinarsi con tecnici,
supervisori e logistica. Gli stessi operatori hanno giudicato l’esperienza
“entusiasmante”.
Molti pensavano che la direzione “tanto non ci ascolterà mai”. Hanno dovuto
ricredersi durante le sessioni di presentazione dei risultati all’alta direzione. L’idea
che “prendere le decisioni insieme” poteva realizzarsi con atteggiamento
pragmatico, veloce e produttivo ha iniziato a prendere piede. Capacità di ascolto,
fiducia reciproca, cura dei particolari, hanno cambiato i comportamenti quotidiani di
molti operai, supervisori e dirigenti.

2.3 Apprendimento strumentale

Instaurato questo senso di fiducia reciproca è stato possibile iniziare a facilitare un


processo decisionale partecipativo nella dimensione strumentale: in questo ciclo di
prove ed esperimenti aziendali le squadre di lavoro hanno applicato i concetti lean
testando e migliorando diverse configurazioni di sistemi di assemblaggio (linee di
assemblaggio più corte, celle a 6, 4 ed 1 persona), di sistemi di rifornimento alle
celle, di suddivisioni di lavoro fra gli addetti alla logistica, ecc.
Le persone hanno imparato a prendere le decisioni secondo il modello PrOACTIVe
(Hammond et al, 1999):
- Pr: definire il problema
- O: stabilire gli obiettivi
- A: valutare varie alternative
- C: stabilire le conseguenze
- T: date le conseguenze fare le debite Transazioni fra i vari obiettivi. Per
esempio: le competenze delle persone non erano sempre omogenee, quindi
si è rinunciato sia alla rotazione al 100%, che alle celle ad 1 persona,
almeno in prima fase.
- I: Implementazione.
- Ve: Verifica.

Per facilitare l’apprendimento gli operai hanno condotto personalmente: alcune


Analisi degli Sprechi e delle attività a valore aggiunto; analisi di bilanciamento delle
linee e delle celle; matrici delle competenze; istruzioni operative bilanciate per le
celle a 4 o a 3 persone (in caso di assenze).

Hanno misurato la loro performance oraria e realizzato semplici statistiche per


guidare un processo di miglioramento continuo.

Quando i miglioramenti hanno portato i tempi di assemblaggio sugli 11-12 minuti


gli stessi operai hanno capito che per migliorare ulteriormente era necessario
ottimizzare e standardizzare i movimenti. Si sono istituite delle celle-palestra dove
praticare continuamente i movimenti “perfetti” secondo le teorie di K. Anders
Ericsson (2006) su come diventare “esperti”. I tempi di assemblaggio alla fine si

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sono stabilizzati attorno ai 9’ e 20’’ a pezzo.

2.4 Conclusioni del case study

La crisi economica ha rischiato di rendere inutile questo risultato sulla produttività.


Mentre scriviamo corrono voci di una conversione industriale dell’intera azienda.
Crediamo che la testimonianza del responsabile delle Risorse Umane Dott. Andrea
Lo Sasso sia il commento più efficace a questa impresa:

“Ci abbiamo provato e ci è andata bene! Riassumerei così, semplicemente,


lʼesperienza che abbiamo fortemente voluto realizzare con la RDI.
Nellʼambito di un più ampio progetto di riqualificazione del personale, abbiamo
voluto coinvolgere le maestranze su un argomento che poteva apparire non
appropriato, vista la condizione di crisi in cui versava ed ancora naviga lʼAzienda.
Con la sapiente regia della RDI abbiamo potuto coinvolgere ed ottenere lʼattenzione
delle maestranze sullʼindispensabilità di coniugare la produzione con un
atteggiamento sempre indirizzato al miglioramento continuo.
Nel corso delle molte sessioni di training on the job si è davvero risvegliata la
capacità degli operai di dare contributi, non solo verso gli obiettivi numerici ma
soprattutto verso quelli qualitativi, senza considerare i suggerimenti per il
miglioramento dei prodotti.
I risultati sono stati eccellenti. A parere di molti questo stesso intervento andrebbe
realizzato anche presso gli stabilimenti indiani.
Jim, Eduardo e Beppe hanno registrato un grande successo, anche personale,
essendo stati capaci di instaurare un clima di fiducia e collaborazione da parte di
tutti. Non era unʼimpresa facile dato che la Società sta vivendo il 5° anno di Cassa
integrazione straordinaria e che il futuro appare ancora oggi incerto.
La formula adottata è valida sia per lʼindustria, qualsiasi sia la vocazione, sia per i
servizi in quanto fa leva sul fattore di produzione in assoluto più complesso:
lʼattitudine ed il comportamento umano.”

2.5 Riflessioni per il futuro

L’andamento di questo case study ha favorito una riflessione interna fra noi sulla
centralità dei “dilemmi disorientanti” nei progetti di cambiamento. Riesaminando i
nostri progetti del passato siamo arrivati alla conclusione che miglioramenti
significativi di performance sono legati alla “dissoluzione” di dilemmi disorientanti
nelle organizzazioni clienti. Questi dilemmi non sono altro che gli esempi più
clamorosi, a volte folcloristici, che abbiamo incontrato nella nostra esperienza
professionale di resistenza al cambiamento. Non sempre ad opera degli operai, a
volte anche della direzione aziendale.

Avevamo risolto in maniera spontanea dilemmi disorientanti nella nostra esperienza


precedente, ma ad Anagni abbiamo applicato una metodologia che affronta in
maniera esplicita la tematica dell’apprendimento trasformativo negli adulti. Alcuni
dei vantaggi sono:
- la possibilità di ricercare scientificamente le storie sui dilemmi disorientanti
che bloccano lo sviluppo organizzativo dell’azienda (Epifani, Bigi e
Montanari, 2007)
- la possibilità per i facilitatori di poter scegliere i momenti in cui indurre i
partecipanti di una riunione a riflettere criticamente sui fatti aziendali
(apprendimento trasformativo) e i momenti in cui si deve semplicemente

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cercare un accordo operativo sulla migliore azione da seguire (dimensione


comunicativa).
- La necessità di introdurre “palestre” dove esercitarsi nei nuovi
comportamenti che superano il dilemma disorientante per evitare ricadute…
il bambino deve esercitarsi a leggere!

La validità generale di questi aspetti, ovviamente, deve essere confermata da test


più approfonditi, come avverrà nel progetto di ricerca per un dottorato presso la
University di Bristol che ha il più importante dipartimento in Europa
sull’apprendimento trasformativo.

BIBLIOGRAFIA
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Deming W.E. (1982) Out of the crisis (Cambridge, Massachusetts Institute of
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Epifanio A., Bigi N., Montanari F. (2007) Le storie nelle organizzazioni: uno
approccio narrativo allo studio dei processi organizzativi in Ticonzero 74/2007
Ericsson K.A., Charness N., Feltovich P., Hoffman R.R. (2006) The Cambridge
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Press)
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razionalita’ sociale. (Bologna, Il Mulino)
Habermas, J (2001) Verità e giustificazione. (Bari, Laterza)
Hammond J., Keeney R., Raiffa H (1999) Smart choices (Boston, Harvard Business
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Kaplan R. Norton D. (2001) The strategy focused organisation (Boston, Harvard
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Mezirow, J. (2003) Apprendimento e Trasformazione (Milano, Raffaele Cortina
Editore)
Preskill S. e Brookfield S.D. (2009) Learning as a way of leading (San Francisco,
Jossey Bass)
Schein E. (1988) Process Consultation, vol1 2nd Ed. (New York Addison Wesley)
Schein E. (1987) Process Consultation, vol 2 (New York Addison Wesley)

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