Indice.
Prefazione.
Note.
Nota bio-bibliografica.
Premessa.
Introduzione.
L'inizio.
La sua memoria.
Note.
Il suo mondo.
La sua mente.
La sua volontà.
La sua personalità.
Uno sguardo al futuro.
Appendice.
Bibliografia.
Note.
Prefazione.
Nell'ultimo decennio Lurija ha dimostrato un interesse sempre più specifico per i problemi della
memoria. Oltre che da questo libro del 1968, che pur basandosi su un materiale raccolto fin dagli
anni '20 fu preannunciato solo nel 1960, in un articolo apparso su "Voprosy psichologii", questo
interesse è documentato dagli articoli pubblicati direttamente in occidente nella rivista inglese
"Neuropsychologia". E' imminente infine la pubblicazione di due volumi sulla "Neuropsicologia
della memoria" (1) che rappresenteranno la sintesi delle ricerche di Lurija sul complesso problema
dei disturbi mnestici nelle lesioni cerebrali, sintesi della quale è stato dato un breve e lucido
riassunto nell'articolo apparso nel numero del dicembre 1971 della sopracitata rivista e da noi
1
riportata in appendice al presente volume, insieme a una rassegna sui problemi della memoria
pubblicata di recente dalla rivista "Voprosy psichologii".
Lurija è forse il più noto, in occidente, degli psicologi sovietici contemporanei. Nessun altro dei
suoi colleghi infatti ha visto così numerose traduzioni delle sue opere; d'altra parte nessun altro ha
scritto così tanto, e nei settori più vari della psicologia, sempre con una incisiva influenza sulla
ricerca successiva, come Lurija. La memoria, infatti, non rappresenta oggi che l'ultimo elemento di
una serie di ricerche di psicologia il cui inizio risale oramai a cinquanta anni fa.
Dagli studi del 1923-26 sulla psicoanalisi a quelli del decennio 1920-1930 sui rapporti tra ambiente
sociale e sviluppo intellettuale infantile (ricerche condotte in collaborazione con Vygotskij) e sulla
disorganizzazione "dinamico-oggettiva" del comportamento negli stati emotivi e nelle nevrosi ("La
natura dei conflitti umani", 1932); dalle ricerche sui rapporti tra lesioni cerebrali e processi
psicologici ("Afasia traumatica", 1947 e "La riabilitazione delle funzioni cerebrali dopo i traumi di
guerra", 1948) a quelle sulla funzione che il linguaggio ha nella regolazione del comportamento ("Il
linguaggio e lo sviluppo psicologico infantile", 1956 e "La funzione regolativa del linguaggio nel
comportamento normale ed anormale", 1961); dai lavori di sintesi sulle funzioni superiori della
corteccia cerebrale ("Le funzioni corticali superiori nell'uomo", 1962 e "Il cervello umano e i
processi psicologici", 1963 e 1970) fino ai citati studi sulla memoria, Lurija ha tuttavia dimostrato
una costante coerenza teorica che dà alla sua opera una precisa caratterizzazione nel quadro della
psicologia contemporanea (2).
Recentemente, in una conversazione con lo specialista statunitense di psicologia sovietica Michael
Cole (3), Lurija ha riconosciuto in Vygotskij la "figura decisiva dello sviluppo della psicologia
sovietica". "Quando Vygotskij - dice Lurija - comparve sulla scena, la psicologia mondiale era in
uno stato di crisi. La psicologia era divisa in due campi separati. Da una parte, c'erano le ricerche di
Pavlov e di Bechterev sui meccanismi fisiologici sottostanti il comportamento. Queste ricerche non
fornivano, tuttavia, un metodo adeguato per l'analisi delle forme più complesse dell'attività mentale
cosciente dell'uomo, come il pensiero astratto, il ricordo volontario e l'attenzione. Quest'area,
precedentemente, era stata lasciata ai filosofi idealisti e alle loro analisi soggettivistiche. I giovani
psicologi sovietici desideravano avere come proprio tema di indagine le forme complesse
dell'attività cosciente dell'uomo, ma volevano studiarle in modo oggettivo e dare una spiegazione
scientifica dello sviluppo e delle leggi delle forme superiori dell'attività mentale. Fu Vygotskij che
fornì una soluzione teorica al problema. Accettò l'idea che anche i più complessi processi
psicologici sono basati sulle combinazioni di riflessi elementari, ma si rese conto che il tentativo di
ridurre l'attività mentale ad un sistema di riflessi era un modo sbagliato di procedere... le speciali
combinazioni rappresentate nell'uomo acquistano nuove proprietà. Qui Vygotskij fece un passo
decisivo che corrisponde alle idee di Marx. Affermò che l'essenza dell'uomo, la sua coscienza, si
sviluppa quale risultato delle esperienze sociali degli uomini, della loro interazione reciproca e del
loro patrimonio culturale."
La neuropsicologia, intesa in senso stretto - e specifico della scuola sovietica - come la disciplina
che studia i processi psicologici nella loro correlazione con gli stati patologici del cervello, è il tipo
di indagine che ha permesso una tale collaborazione tra le ricerche di neuropatologia e quelle sui
processi psicologici, come il linguaggio, cui si dedicò la scuola "storico culturale" iniziata da
Vygotskij. Per Lurija la sintesi completa dei dati della fisiologia e della psicologia costituisce la
meta della ricerca futura: "Credo che nel futuro - dice ancora Lurija nella citata conversazione - la
psicologia ci apparirà del tutto diversa. Insieme ad una descrizione della struttura funzionale dei
processi psicologici, conosceremo la struttura dei processi fisiologici sottostanti. I manuali
prenderanno nota di un genere completamente diverso di psicologia concentrata sulla descrizione
della struttura interna e delle basi fisiologiche delle attività psicologiche".
Oltre allo sviluppo di questa sintesi teorica elaborata con una ricerca dalla impostazione
prevalentemente neuropsicologica (fondamentali i suoi studi sull'afasia traumatica e sui rapporti tra
le funzioni dei lobi frontali, le loro lesioni ed i processi psicologici) Lurija si è distinto, nell'ambito
della psicologia sovietica, per un'altra caratteristica non affatto trascurabile. Mentre lo sviluppo
2
degli indirizzi fisiologici, rappresentati in particolare dalla scuola di Pavlov e dalla "scuola di
fisiologia di Leningrado" (Secenov (Satchenov) Vedenskij, Uchtomskij) ha portato nell'ultimo
decennio ad un avvicinamento alle teorie modellistiche occidentali di tipo cibernetico (si vedano i
lavori più recenti di Anochin, Bernstejn, e Sokolov (4)), Lurija è rimasto aderente, nello studio dei
rapporti tra processi psicologici e processi cerebrali, ad una impostazione clinica. Secondo questa,
tali rapporti possono essere studiati solo in un diretto e costante confronto con l'uomo, sia
fisiologicamente normale che anormale, dando largo spazio ad un'analisi individuale prolungata nel
tempo, con scarsa accettazione di criteri di valutazione prevalentemente statistici e di un
atteggiamento di conseguente e facile generalizzazione. Il concetto stesso di sistema cerebrale
funzionale (5), di localizzazione dinamica delle funzioni cerebrali (6), eccetera, rappresentano,
d'altra parte, la migliore prova teorica di un'interpretazione plastica dei rapporti tra processi
cerebrali e processi psicologici tale da distogliere dalla pretesa di costruire un modello fisiologico
esplicativo del comportamento valido per ogni individuo, al di là del tempo e dello spazio.
Le origini di questa impostazione sono da ricercarsi sia nella concezione pavloviana delle differenze
fisiologiche individuali, tema che ha caratterizzato buona parte delle ricerche psicofisiologiche
sovietiche (7), sia nei concetti di individuo e di coscienza individuale e sociale, sui quali ha insistito
negli anni '20 il gruppo di psicologi rappresentato soprattutto da Vygotskij, Leontjev e Lurija.
Il presente libro di Lurija è senz'altro il documento più esemplificativo dell'interesse per l'individuo
nel complesso delle sue caratteristiche fisiologiche e psicologiche, che ancora oggi distingue la
psicologia sovietica. Dallo studio di una memoria eccezionale si passa alla intera ricostruzione della
personalità di un uomo analizzato giorno per giorno, nelle ambizioni e nei conflitti che tale
straordinaria qualità gli procurava. Questa ricostruzione viene operata, tuttavia, alla luce di una
precisa indagine sperimentale alla cui oggettività e al cui rigore nulla toglie l'atteggiamento
partecipe ed umano che Lurija ha verso il suo soggetto (8).
Dal testo di Lurija ricaviamo quindi più una lezione di metodo che una teoria definitiva della
memoria, ma questa lezione oggi ci pare la più opportuna nell'ambito non solo degli studi sulla
memoria, ma dell'intera ricerca psicologica.
Luciano Mecacci.
NOTE.
3
Postrel "un cane dai nervi di un eroe", furono definiti tali dopo essere stati studiati ciascuno per
diversi anni sulla base delle teorie pavloviane. La psicofisiologia differenziale, animale e umana, è
stata elaborata teoricamente da B. M. Teplov, la cui scuola è tuttora attiva in questa direzione di
ricerche con i contributi di V. D. Nebylitsin e collaboratori.
Nota 8: Lurija ha recentemente dato un altro esempio di indagine clinica prolungata in un libro
dedicato ad un uomo affetto da una lesione allo emisfero sinistro e da lui curato per più di venti anni
("Un mondo perduto e ritrovato", Mosca, 1971, in corso di pubblicazione presso gli Editori Riuniti).
Di Lurija gli Editori Riuniti hanno pubblicato il saggio sulla funzione regolativa del linguaggio e il
comportamento normale e anormale con il titolo "Linguaggio e comportamento", Roma, 1971.
Nota bibliografica.
Aleksandr Romanovitch Lurija è nato a Kazan nel 1902. Laureatosi alla Facoltà di scienze sociali
nell'università di Kazan, dal 1923 cominciò a lavorare nell'Istituto di psicologia sperimentale di
Mosca. Nel 1937 si laureò in medicina all'università di Mosca, dove attualmente dirige il
Laboratorio di neuropsicologia dell'Istituto Burdenko di neurochirurgia ed è professore al
Dipartimento di psicologia.
La bibliografia di Lurija è vastissima; le opere citate nella prefazione non sono che le più note.
L'elenco dei volumi tradotti nelle lingue occidentali si trova in L. Mecacci. "Western literature on
Soviet psychology: a selected bibliography", in "Conditional Reflex" (in corso di stampa). In lingua
italiana è stato tradotto: "Le funzioni corticali superiori nell'uomo", Firenze, Giunti, 1967; "Il ruolo
del linguaggio nella formazione di connessioni temporali e la regolazione del comportamento nei
bambini normali e oligofrenici", in "Psicologia e pedagogia", a cura di M. Cecchini, Roma, Editori
Riuniti, 1969, "L'organizzazione funzionale cerebrale", in "Le scienze", 1970, n. 22; "Linguaggio e
comportamento", Roma, Editori Riuniti, 1971.
"... Venuto è il tempo - disse il tricheco - di raccontare tante e tante cose... Come c'è un lago dove
l'acqua bolle, come può darsi che un bue voli in aria..."
(L. Carroll, "Through the looking-glass").
"... In compagnia della piccola Alice, noi passeremo oltre la fredda faccia dello specchio, e ci
ritroveremo nel paese delle meraviglie, dove tutto è così noto e così prossimo a noi e, nello stesso
tempo, così strano e inconsueto..."
Premessa.
Questa estate l'ho passata lontano dalla città. Dalle finestre spalancate arrivava il fruscio degli alberi
e l'odore dei campi, sul mio tavolo stavano sparsi appunti ingialliti: e io mi sono trovato a scrivere
un piccolo libro su uno strano individuo, musicista e giornalista mancato, che era divenuto un
mnemonista, era entrato in rapporto con molte personalità della cultura e, fino alla fine della vita,
era rimasto una specie d'uomo incompiuto, sempre in attesa che qualcosa di bello gli avvenisse.
Molte cose egli ha insegnato a me e ai miei amici, ed è quindi giusto che questo piccolo libro sia
dedicato alla sua memoria.
Estate 1965.
A. R. Lurija.
4
Introduzione.
Questo piccolo libro su una grande memoria ha una storia assai lunga. Per la durata di quasi
trent'anni l'autore ha avuto modo di osservare sistematicamente un uomo, la cui memoria
eccezionale era da annoverarsi tra le più forti che siano note alla letteratura sull'argomento.
Molto è il materiale che, nel corso di questo periodo, è venuto a raccogliersi, tanto da permettere
non solo lo studio delle forme e dei procedimenti principali di tale memoria, che praticamente non
aveva limiti, ma anche di descrivere, in base alle osservazioni da noi condotte, le caratteristiche
salienti della personalità di quell'uomo singolare.
A differenza di altri psicologi, che si sono dedicati a indagini su persone dotate di una memoria
eccezionale, l'autore non si è limitato alla misurazione della estensione e della durabilità di
quest'ultima, o alla descrizione dei procedimenti che il soggetto delle sue esperienze usava per la
rievocazione e la riproduzione del materiale. Assai più interessanti gli sono apparsi altri problemi.
Quali riflessi ha una memoria eccezionale su tutti gli aspetti principali della personalità umana, cioè
sul pensiero, sull'immaginazione, sul comportamento? Quali alterazioni può subire il mondo intimo
d'un uomo, il suo rapporto con gli altri, il suo stile di vita, se uno solo dei lati della sua attività
psichica - la memoria - ha uno sviluppo abnorme, e quindi introduce un mutamento in tutti gli altri
lati dell'attività psichica?
Un approccio di questo genere all'indagine dei fenomeni psichici non è cosa frequente nella scienza
psicologica, che più spesso si occupa delle peculiarità della sensazione e della percezione,
dell'attenzione e della memoria, del pensiero e dell'emozione, e solo raramente prende in esame il
problema della dipendenza di tutta la struttura psichica d'un individuo da uno dei lati dell'attività
psichica.
E' un genere di approccio, però, che ha la sua storia. Esso è stato adottato universalmente in
medicina, dove il clinico perspicace non limita mai il suo interesse al sintomo, oggetto della sua
indagine, ma sempre si sforza di comprendere in che modo il disturbo d'un particolare processo si
ripercuota sul decorso di tutti gli altri processi dell'organismo, e in che modo le alterazioni di tali
processi (che in ultima analisi hanno un'unica radice) conducano ad un'alterazione dell'intero
organismo, e all'insorgenza d'un quadro "morboso globale", di quella cioè che in medicina si
chiama una "sindrome".
Lo studio d'una sindrome include sia la conversazione col paziente, sia una serie di speciali
procedimenti sperimentali, a volte psicologici, a volte fisiologici: non deve, insomma, limitarsi
all'osservazione clinica delle circostanze morbose. E altrettanto degne d'essere indagate sono le
alterazioni che l'abnorme sviluppo d'uno degli aspetti dell'attività psichica ha l'effetto di produrre
sull'intera struttura della vita psichica, su tutta la personalità. Anche noi, in casi simili, ci troveremo
a che fare con delle "sindromi", alla base delle quali c'è un unico fattore; solo che non saranno, le
nostre, sindromi cliniche, ma psicologiche. E' appunto dell'insorgenza d'una di tali sindromi - una
sindrome prodotta da una eccezionale memoria - che noi ci occuperemo nel presente studio.
L'autore spera che gli psicologi, quando lo avranno letto, si sforzeranno di scoprire e descrivere
altre sindromi psicologiche, e d'indagare quali caratteristiche si determinino nell'individuo in
seguito all'abnorme sviluppo della sensibilità o dell'immaginazione, della facoltà d'osservazione o
del pensiero astratto, della volontà di potenza o della soggezione a una sola idea. Sarebbe, questo,
l'inizio d'una psicologia concreta che non verrebbe a perdere nulla del suo carattere scientifico.
Il fatto che un simile tipo d'indagine prenda le mosse dall'analisi d'una memoria eccezionale, e dalla
parte da essa esercitata nella formazione della vita psichica d'un individuo, non è senza vantaggi.
In quest'ultimi anni, infatti, lo studio della memoria, che per lungo tempo era rimasto stagnante, è
tornato a trovarsi al centro di animate ricerche e di frenetici sviluppi. Questo progresso è dovuto
allo sviluppo d'un nuovo ramo della tecnica: quello dei calcolatori e ad un nuovo settore della
5
scienza: la bionica, che ci ha costretto a considerare con attenzione tutti i fenomeni riguardanti il
funzionamento della nostra memoria, e ad approfondire lo studio dei processi soggiacenti alla
"registrazione" del materiale recepito e alla "lettura" delle tracce. Questo progresso è legato, altresì,
alle ultime acquisizioni scientifiche sul cervello, sulla sua struttura, fisiologica e biochimica.
Tutti questi campi non saranno da noi trattati nel presente studio allo stesso modo che non sarà
neppure trattata tutta la ricca letteratura sull'argomento. Il nostro è un piccolo libro dedicato "a un
solo" individuo, il quale si trova in possesso d'una memoria, di tipo sensorio-visivo, eccezionale per
il suo sviluppo: questo ipersviluppo determina nella sua personalità delle caratteristiche
straordinarie. L'autore cercherà di dare una descrizione quanto più possibile completa delle
peculiarità da lui osservate in quest'uomo nel corso d'un lungo periodo di tempo; e non oltrepasserà,
nel suo studio, i limiti di quanto gli è stato fornito dalle osservazioni fatte intorno a un tale
notevolissimo "experimentum naturae".
L'inizio.
6
sconcerto che mi riferì la richiesta del suo redattore; appariva pieno di curiosità per i risultati
dell'esame, sempre se fosse stato possibile eseguirlo. Così ebbe inizio la nostra conoscenza, che
doveva protrarsi per quasi trent'anni: trent'anni di esperimenti, di conversazioni e di corrispondenza.
All'esame di S. io mi accinsi con l'interesse abituale dello psicologo, ma senza molta speranza che,
dagli esperimenti, potesse risultare qualcosa di notevole.
Tuttavia, già le prime prove mutarono il mio atteggiamento, e diedero luogo a un turbamento e ad
una perplessità, che stavolta non erano a carico del soggetto in esame, ma dello sperimentatore.
Proposi a S. una serie di parole, poi di numeri, poi di lettere dell'alfabeto che lentamente gli venivo
leggendo o via via gli presentavo per iscritto. Egli, attentamente, ascoltava l'elenco o lo leggeva, e
poi, nell'ordine esatto, ripeteva tutto il materiale propostogli.
Aumentai, allora, il numero degli elementi da sottoporgli fino a 30, 50, 70 parole o cifre: e neanche
questo produceva difficoltà di sorta. S. non aveva bisogno di nessun accorgimento mnemonico:
mentre io gli presentavo quegli elenchi di parole o di cifre, lui si limitava ad ascoltarle con
attenzione, rivolgendomi a volte la preghiera di soffermarmi o di pronunciare più chiara la parola, o
a volte, nel dubbio di non averla ben distinta, a conferma me la replicava. Di solito, nel corso della
prova, teneva gli occhi socchiusi, o guardava fisso in un punto. A prova finita, chiedeva di fare una
pausa, controllava mentalmente quanto aveva ritenuto, e poi, correntemente, senza esitazioni,
ripeteva tutto l'elenco.
Le esperienze dimostrarono che, con la stessa facilità gli era possibile ripetere quei lunghi elenchi
anche all'inverso, dalla fine al principio: era in grado di dire senza difficoltà quale parola seguisse o
precedesse, nella fila, un'altra qualsiasi che gli si nominava. In tali casi, faceva una pausa, come se
cercasse di trovare la parola che ci voleva: quindi, agevolmente, rispondeva alla domanda, senza
commettere per solito errori.
Non aveva importanza per lui se le parole proposte fossero sensate o senza senso, se si trattasse di
cifre o suoni, se gli si presentassero in forma orale o scritta: gli occorreva soltanto, che un elemento
dell'elenco fosse separato dall'altro da una pausa di due tre secondi, e allora tutta la successiva
ripetizione dell'elenco non trovava in lui la minima difficoltà.
Ben presto lo sperimentatore fu preso da una sensazione che confinava con lo smarrimento. Un
aumento della lunghezza degli elenchi non procurava a S. nessun percettibile accrescimento di
difficoltà, cosicché si era costretti a riconoscere che l'estensione della sua memoria non aveva limiti
precisi. Lo sperimentatore ne risultava impotente proprio (si sarebbe detto) nel più semplice
compito d'uno psicologo: la misurazione dell'estensione della memoria. Convocai S. a un secondo,
poi a un terzo incontro. A questi, ne seguirono ancora moltissimi altri, separati tra loro, alcuni da
giorni o da settimane, alcuni da anni.
Da questi incontri la posizione dello sperimentatore riuscì sempre più complicata.
Risultò che la memoria di S. non aveva limiti precisi, non solo quanto a estensione, ma neppure
quanto alla durata di ritenzione delle impronte ricevute. Le esperienze dimostrarono che egli poteva
con successo - e senza sensibile fatica - ripetere qualsiasi lungo elenco di parole che gli si fosse
proposto una settimana, un mese, un anno, molti anni prima. Alcune di tali esperienze,
invariabilmente coronate da successo, furono condotte perfino quindici e sedici anni (!) dopo la
prima volta che l'elenco era stato da lui mandato a memoria, e al di fuori di qualunque preavviso. In
casi simili, S. si sedeva, socchiudeva gli occhi, faceva una pausa, e quindi diceva: "Sì sì... è stato in
casa vostra, in quell'appartamento... voi stavate seduto al tavolo, e io su una sedia a dondolo... voi
eravate vestito di grigio, e mi guardavate così... ecco... vedo benissimo che mi dicevate.." e qui
seguiva, senza errori, la ripetizione dell'elenco recitato quella volta.
Se si considera che, in questo frattempo, S. era divenuto un famoso mnemonista, e doveva tenere a
mente molte centinaia e migliaia di elenchi, il fatto apparirà più straordinario che mai.
Da tutto questo io mi trovai costretto a mutare indirizzo, e a dedicarmi non tanto a esperienze di
misurazione di quella memoria, quanto piuttosto a tentativi di darne un analisi qualitativa, di
descriverne la struttura psicologica.
7
In un secondo tempo, a questa prospettiva se ne aggiunse un'altra (a cui già si è accennato sopra):
quella d'indagare attentamente le caratteristiche dei processi psichici in questo fenomeno di
mnemotecnica.
Sono queste, per l'appunto, le due mete verso le quali si è orientata tutta l'ulteriore ricerca, dei cui
risultati ora che sono trascorsi molti anni - tenterò di dare una esposizione sistematica.
La sua memoria.
Lo studio della memoria di S. ebbe inizio nel 1925, quando egli svolgeva il suo lavoro di
giornalista. Si è protratto poi per molti anni, mentre, tralasciate varie professioni, egli si era tutto
consacrato alla mnemotecnica, esibendosi in pubblico.
Durante questo lasso di tempo, i processi mnestici di S., pur conservando la loro struttura iniziale,
vennero ad arricchirsi di nuovi metodi, e divennero psicologicamente diversi.
Noi prenderemo in esame le caratteristiche della sua memoria nelle tappe successive.
Dati iniziali
Tabella 1.
6680
5432
1684
7935
4237
3891
8
1002
3451
2768
1926
2967
5520
x01x
Tabella 2.
ZCSTIPR
KPOSMKS
L T O A L Ch T
MTZSKRC
eccetera
Ma in che modo si svolgeva dunque, in S., il processo della "impressione" e della consecutiva
"lettura" delle tabelle che gli venivano proposte?
A tale domanda non c'era per noi altro modo di rispondere, fuorché interrogando direttamente il
soggetto dei nostri esperimenti.
A prima vista, i risultati di queste interrogazioni apparvero semplicissimi.
S. dichiarava di "continuare a vedere" la tabella in lui impressa (com'era stata scritta sulla lavagna o
su un foglio), cosicché egli non aveva che da farne la "lettura" enumerando le cifre o le lettere che
entravano consecutivamente a comporla. Pertanto, gli era completamente indifferente se la "lettura"
dovesse incominciare dal principio o dalla fine, se bisognasse enumerare gli elementi d'una
verticale o d'una diagonale, o leggere le cifre disposte "a cornice" torno torno alla tabella. Né la
conversione delle cifre isolate in un numero unico gli riusciva più difficile di quanto sarebbe per
9
uno qualsiasi di noi, se ci si proponesse di eseguire tale operazione con le cifre d'una tabella che
potessimo tener sott'occhio per lungo tempo.
Le cifre ormai "impresse" S. continuava a vederle sul nero di quella medesima lavagna su cui gli
erano state mostrate, o su quel medesimo foglio di carta bianca; esse gli conservavano la medesima
configurazione con cui là erano state scritte: e, se per caso qualcuna non era stata tracciata con
esattezza, S. andava soggetto a farne la "lettura" in modo erroneo, scambiando ad esempio un 3 per
un 8, o un 4 per un 9.
Tuttavia, già a questo proposito, richiamavano la nostra attenzione alcune particolarità che stavano
a indicare come il processo di richiamo non avesse davvero un carattere così semplice.
Le sinestesie.
"Gli viene dato un tono della frequenza di 30 Hz e dell'ampiezza di 100 db. Egli dichiara di aver
visto, dapprima, una striscia della larghezza di 10-15 centimetri, d'un color argento vecchio:
gradatamente la striscia si restringe e sembra allontanarsi da lui, per poi trasformarsi in un oggetto
rilucente come acciaio. Gradatamente, il tono prende un aspetto di luce crepuscolare, e il suono
continua a variare d'un brillio argenteo.
Gli viene dato un tono di 50 Hz e di 100 db. S. vede una striscia marrone su un fondo cupo,
screziato di lingue rosse; al gusto, questo suono somiglia a una zuppa agrodolce di cavoli, e tale
sensazione gustativa invade tutta la lingua.
Gli viene dato un tono di 100 Hz e di 86 db. S. vede una larga striscia, che al centro ha un colore
rosso-arancione, gradatamente sfumante in rosa verso gli orli.
Gli viene dato un tono di 250 Hz e di 64 db. S. vede un cordino di velluto, coi peluzzi che si
drizzano in tutti i versi. Il cordino è colorato d'un tenue, gradevole rosa-arancio.
Gli viene dato un tono di 500 Hz e di 100 db. Egli vede un lampo che, in linea retta, spacca il cielo
in due parti. Se si abbassa l'intensità del suono a 74 db, gli appare un intenso color arancione, come
se un ago gli penetrasse nella schiena; e poi, gradatamente, l'ago si rimpiccolisce.
10
Gli viene dato un tono di 2000 Hz e di 113 db. S. dice: "E' una specie di fuoco d'artificio, d'un rosa-
rosso... una strisciolina ruvida, sgradevole... un gusto sgradevole, come di salamoia piccante...
Potrebbe fare una ferita alla mano".
Gli viene dato un tono di 3000 Hz e di 128 db. Egli vede una specie di flabello color di fuoco. Il
manico del flabello si espande in tanti puntini di fuoco..."
Le esperienze si sono protratte per parecchi giorni, e i medesimi stimoli hanno invariabilmente
provocato le medesime sensazioni. Ciò dimostra che S. apparteneva effettivamente a quel singolare
gruppo di persone, a cui va ascritto fra gli altri anche il compositore Skrjabin, nel quale appunto si
serbava in forma eccezionalmente vivace una sensibilità sinestesica di grande complessità; ogni
suono, in lui, provocava immediatamente sensazioni di luce e di colore, e anche (come vedremo più
innanzi) di gusto e di tatto...
In S. le impressioni sinestesiche si verificavano pure quando prestava ascolto alla voce di qualcuno.
""Che voce gialla e sincopata è la vostra!" esclamò un giorno che L. S. Vygotskij conversava con
lui. E, in seguito, ebbe a dire: "Ci sono uomini, sapete, che discorrono come a più voci, emettono
una vera composizione musicale, un "bouquet" di suoni... Una voce così aveva il defunto S. M.
Ejzenstejn ((1) pronuncia Ejzenshtein), da sembrare che una specie di fiamma con tante nervature
mi venisse addosso.. Io incomincio a interessarmi d'una voce simile, e non riesco più a capire che
cosa mi stia dicendo..." "Oppure, ci sono anche delle voci incostanti: spesso, al telefono, mi accade
di non riconoscere una voce, e questo, non solo se la ricezione è cattiva, ma per il fatto che un
uomo, nel corso d'una giornata, può cambiar voce venti o trenta volte... Gli altri non se ne
accorgono, ma io riesco a captarlo benissimo".
(novembre 1951)".
""Dell'audizione colorata, non sono in grado, a tutt'oggi, di liberarmi... Dapprima, il colore della
voce si espande, poi si allontana: è una cosa che impaccia, sapete? Basta che uno dica una parola, e
io la vedo: e, se a un tratto si sente un'altra voce estranea ecco che appaiono delle macchie, vengono
a comporsi delle sillabe, e io non riesco a raccapezzare più nulla..."
(giugno 1953)".
Una "linea", delle "macchie", e degli "spruzzi" non erano solo un tono, un rumore, una voce a
provocarli qualunque suono alfabetico destava in S., immediata mente, una vivida immagine visiva,
e ciascuno aveva la sua forma ben visibile, il suo colore, le sue peculiari qualità di gusto. Le vocali
erano per lui altrettante figure; le consonanti erano spruzzi, qualcosa di palpabile e di friabile, che
però manteneva sempre la sua forma.
"A [a] è un non so che di bianco, di oblungo - diceva S.: - u [i] mi distanzia, mi sfugge, impossibile
disegnarlo, mentre [j] è più aguzzo... IO [iu] è una cosa appuntita, più appuntita di e [je], e [ja] è
qualcosa di grosso, ci si può montar sopra e scarrozzare... O [o] esce dal petto, è ben largo, ma il
suono relativo cala in giù, mentre [ej] scivola di sbieco: e d'ogni suono, intanto, lo sento il sapore. E
se poi vedo delle linee, anch'esse mi danno un suono: ecco, il segno (linea con angolo ottuso) è
qualcosa che sta fra e [ej], e [y] e [j]; (linea ondulata obliqua da sinistra a destra) questo è un suono
vocale... una specie di "erre", ma non una erre pura: qui, però, non si sa se il segno vada dal basso o
dall'alto: dall'alto, è un suono, ma dal basso, non è più un suono, è una sorta di gancio di legno, di
quelli per attaccare i secchi al bilancino... Questo segno è una cosa scura, ma, a tracciarlo
lentamente, è un'altra cosa... Ecco, se voi l'aveste fatto così: (c al contrario attaccato a una linea
curva che sale da sinistra a destra uno stacco e un altro pezzo di linea curva), allora sarebbe stato
una e [je]."
11
"Per me, il 2, il 4, il 6, il 5, non sono semplicemente dei numeri: essi hanno una forma... L'1,
indipendentemente dalla sua raffigurazione grafica, è un numero aguzzo, un che di ben rifinito
tornito, solido; il 2 è più piatto, a quattro angoli, biancastro, anzi dà sul cenerognolo; il 3 è una
scheggia appuntita e gira su se stesso. Il 4 è anche lui quadrato, ottuso, somigliante al 2, ma più
imponente, più massiccio... mentre il 5 è un oggetto portato all'ultima perfezione, a foggia di cono,
di torre, ben fondato... Il 6 è il primo che gli vien dietro, dà sul bianco; l'8 è immacolato, fra latteo e
cilestrino, simile a calce... eccetera eccetera."
Non esisteva dunque, per S., quel confine ben netto che, per tutti noi, divide la vista dall'udito,
l'udito dal tatto o dal gusto. Quei residui di sinestesi che, in molti dei comuni individui, si
conservano solo in forma rudimentale (chi non sa che i suoni alti e bassi appaiono diversamente
colorati, che vi sono toni "caldi" e "freddi", che le parole "venerdì" e "domenica" hanno un alone di
colore diverso?), erano rimasti in S. come la connotazione fondamentale della sua vita psichica.
Apparsi in lui assai precocemente e serbatisi poi fino agli ultimi giorni, erano essi che - come
vedremo in seguito - segnavano della loro impronta la sua percezione, il suo apprendimento, il suo
raziocinio, ed entravano come componente essenziale nella sua memoria.
Il richiamo "per linee" e "per spruzzi" entrava in vigore nei casi in cui S. veniva a trovarsi di fronte
a suoni isolati, a sillabe senza senso, a parole sconosciute. In questi casi egli segnalava che suoni,
voci o parole gli suscitavano dentro delle impressioni visive: "globi di fumo", "spruzzi", "linee
diritte o spezzate"; a volte gliene nascevano sensazioni gustative sulla lingua, altre volte sensazioni
di morbido o di pungente, di liscio o di ruvido.
Queste componenti sinestesiche d'ogni stimolo visivo, e specialmente uditivo, erano, nel primo
periodo dell'evoluzione di S., una caratteristica essenzialissima della sua capacità mnemonica, e
solo più tardi - con lo svilupparsi della memoria concettuale e figurativa - vennero a ritrarsi in un
secondo piano, pur continuando a conservarsi in ogni sua rievocazione.
Il valore obiettivo di tali sinestesie, per il processo rievocativo, stava nel fatto che le componenti
sinestesiche creavano una specie di sfondo a ogni ricordo, apportando il complemento d'una
informazione "in soprappiù" e garantendo l'esattezza del ricordo stesso: se infatti (e lo vedremo più
innanzi) S. ripeteva una parola in modo inesatto, quelle sensazioni sinestesiche complementari, non
trovandosi a coincidere con la parola originaria, lo avvertivano che, nella sua riproduzione,
"qualcosa non andava", e lo costringevano a correggere l'inesattezza sfuggitagli.
"Io sono informato non solo dalle immagini, ma sempre da tutto il complesso delle sensazioni che
queste immagini mi destano. E' difficile definirle: non appartengono né alla vista né all'udito... Si
tratta come di sensazioni generali... Per solito, d'una parola, mi si dà a sentire sia il gusto, sia il
peso, e io non ho altro da fare: per conto suo essa mi torna alla memoria... ma descriverlo è difficile.
Sento che, nella mano, viene a scivolarmi qualcosa di oleoso.. da una massa di puntini minuti,
leggerissimi... ecco, è un lieve vellichio nella mano sinistra... e io non ho più bisogno di niente
altro!
(22 maggio 1939)."
Le sensazioni! sinestesiche, insorgenti così apertamente nel ricordo d'una voce, d'un suono isolato o
d'un complesso di suoni, perdevano la loro importanza primaria e si ritraevano in secondo piano
quando si trattava di ricordare le parole.
Soffermiamoci a precisare più in particolare questo punto.
Parole e immagini.
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E' noto che, da un punto di vista psicologico, le parole hanno un duplice significato. Da un lato,
sono complessi convenzionali di suoni, d'una complessità che può essere varia: è l'aspetto delle
parole studiato dalla fonetica. Dall'altro, stanno a indicare determinati oggetti, qualità o azioni, vale
a dire, hanno un loro proprio significato. Questo aspetto delle parole è studiato dalla semantica, e
dai settori affini della linguistica (lessicologia, morfologia). In una persona normale in stato di
veglia, le connotazioni sonore delle parole hanno un posto di secondo piano, cosicché, sebbene la
parola "skripka" [violino] si distingua dalla parola "skrepka" [fermaglio] per insignificanti
sfumature d'una sola delle sue lettere, un uomo può fare perfettamente a meno di rilevare questa
affinità di suono e, dietro a ciascuna di tali parole, scorge oggetti completamente diversi (2).
Questa preponderante importanza del lato concettuale della parola si conservava anche in S.: ogni
parola suscitava in lui un'immagine perspicua, e la differenza tra lui e le persone comuni si riduceva
al fatto che quelle immagini erano, nel caso suo, incomparabilmente più vivide e più stabili, oltre al
fatto che, infallibilmente, vi si associavano quelle componenti sinestesiche (percezioni di macchie
colorate, di "spruzzi" e di "linee" ), che erano i riflessi della struttura sonora delle parole e della
voce di chi le pronunciava.
E' perciò naturale che il carattere visivo del ricordo (che già abbiamo riscontrato sopra) conservasse
in lui il suo valore preminente anche nel caso che oggetto del ricordo fossero delle parole.
Allorché S. ascoltava, o enunciava, una determinata parola, immediatamente questa gli si convertiva
nell'immagine perspicua dell'oggetto corrispondente. Si trattava di un'immagine estremamente
vivida, e tale che gli si conservava stabilmente nella memoria: quando S. era distratto da altre cose,
l'immagine dileguava; quando si rifaceva alla situazione di partenza, l'immagine appariva di nuovo.
"Quando io sento la parola "verde", appare un vaso verde con dei fiori; "rosso", appare un uomo
con la camicia rossa, che mi si avvicina. Se sento "azzurro", ecco da una finestra qualcuno che
sventola una bandiera azzurra... Perfino le cifre mi rammentano delle immagini... Così l'1 è un
uomo fiero, diritto; il 2, una donna allegra; il 3, un uomo accigliato, non saprei perché... Il 6 è un
tale a cui si è gonfiato un piede; il 7, uno coi baffi; l'8, una donna molto grassa, un sacco su un
altro... E così, a sentire 87, io vedo questa grassona in compagnia d'un uomo che si torce i baffi."
Non è difficile accorgersi che in queste immagini, che scaturiscono da parole e da cifre, si
mescolano insieme le rappresentazioni perspicue e quelle impressioni che erano caratteristiche delle
sinestesie di S. Se, all'orecchio di lui, giungeva una parola che avesse un significato, le immagini
sovrastavano alle sensazioni sinestesiche; se la parola non aveva significato, e non provocava
nessuna immagine, S. l'accoglieva nella sua memoria "per linee": i suoni della parola si
trasformavano in macchie di colore, in linee, in spruzzi, e ciò che gli s'imprimeva dentro era questo
equivalente visivo, attinente in tal caso al lato sonoro della parola.
Quando S. leggeva di seguito una lunga serie di parole, ciascuna di queste gli suscitava
un'immagine perspicua: ma le parole, per l'appunto, erano molte, ed egli si trovava costretto a
"scaglionare" le immagini in tutta la loro serie. Molto più di frequente (e così ha continuato a fare
finché è vissuto) egli le "scaglionava" lungo una certa strada. Poteva essere una via della sua città
natale, col cortile di casa sua, vividamente stampato nell'intimo fin dagli anni dell'infanzia; poteva
essere una delle tante vie di Mosca, non di rado via Gorkij, a incominciare da piazza Majakovskij, e
di lì lentamente procedendo in giù e man mano "scaglionando" le immagini presso case, portoni e
vetrine, finché a volte, di sorpresa, non si ritrovava nella natia Torzok (Torgiok), andando a
terminare il suo itinerario... nella casa della sua infanzia! Com'è facile vedere, lo sfondo che S.
sceglieva per le sue "passeggiate intime" non era lontano dal piano del sogno, e se ne distingueva
solo per il fatto che dileguava facilmente ogni volta che l'attenzione se ne distraeva, per poi
altrettanto agevolmente ricomparire quando egli si trovava di fronte all'esigenza di ricordare la serie
di parole "registrate".
Questa tecnica di conversione della serie di parole proposte in una serie perspicua d'immagini,
rendeva comprensibile come mai S. potesse con tanta facilità riprodurre una serie anche
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lunghissima nell'ordine dato o nell'inverso, e rapidamente enunciare la parola che precedeva o
seguiva un'altra qualsiasi; e gli bastava, per far ciò, iniziare semplicemente la sua passeggiata, o dal
principio della strada o dalla fine, oppure trovare l'immagine dell'oggetto richiamato, e poi "dare
un'occhiata" a quanto stava da un lato e dall'altro di quello. La differenza dalla comune memoria
visiva, nel caso di S., stava nel fatto che le sue immagini erano di eccezionale vivezza e durata, e
che egli poteva "voltar loro le spalle" e poi, di nuovo "volgendosi" a loro, tornare a vederle a suo
piacimento (3).
Questa tecnica della memoria visiva immediata rendeva inoltre comprensibile perché S. chiedeva
sempre che le parole venissero pronunciate con dizione precisa, ben staccate una dall'altra, e in
modo non troppo veloce. La conversione delle parole in immagini, e la disposizione di quest'ultime,
esigevano un certo (sia pur breve) intervallo di tempo: e quando le parole gli venivano porte troppo
rapidamente, o lette di fila senza soluzione di continuità, le immagini che esse evocavano si
confondevano insieme, e tutto andava a finire in un caos o in un frastuono, nel quale egli non poteva
più raccapezzarsi.
La meravigliosa vivezza e persistenza delle immagini, la facoltà di serbarle per lunghi anni e di
risuscitarsele innanzi a suo arbitrio, dava a S. la possibilità di tenere a mente un numero
praticamente infinito di parole, e di conservarle per un tempo illimitato. Tuttavia, una tale capacità
di "annotazione" delle tracce implicava altresì qualche difficoltà.
Convinti, come ormai eravamo, che l'estensione della memoria di S. fosse praticamente sconfinata,
e sicuri che egli non aveva bisogno di "apprendere", ma soltanto di "stamparsi dentro" le immagini,
che poteva poi richiamare a lunghissime scadenze (daremo più innanzi degli esempi di come una
serie propostagli fosse da lui riprodotta tal e quale dopo dieci e perfino sedici anni), era naturale che
noi perdessimo ogni interesse per le prove di "misurazione" della sua memoria; ci volgemmo, così,
alle prove inverse, se cioè egli potesse "dimenticare": e cercammo di fissare diligentemente i casi in
cui gli avveniva di tralasciare una parola o l'altra della serie che stava riproducendo.
Casi simili, infatti, si verificavano; e, cosa particolarmente interessante, si verificavano con una
certa frequenza.
Come spiegare dunque i casi di dimenticanza in un uomo di memoria così potente? Come spiegare,
inoltre, che in lui potessero darsi dei casi di omissione fra gli elementi rievocati, ma non mai,
invece, dei casi di riproduzione inesatta (ad esempio, scambi della parola giusta con un suo
sinonimo, o con una parola vicina per associazione)?
Le indagini diedero una risposta immediata ad entrambi i problemi. Non era che S. "dimenticasse"
le parole che gli erano state proposte; egli le "lasciava fuori" durante la "lettura" che ne faceva, e
queste omissioni erano sempre facilmente spiegabili.
Bastava che S. "collocasse" un'immagine qualsiasi in una posizione tale, che gli riuscisse difficile
"distinguerla a vista", per esempio la situasse in un posto mal illuminato, o lasciasse che essa si
confondesse con lo sfondo, divenendo a stento ravvisabile, bastava questo perché poi, alla "lettura"
delle immagini da lui disposte, quella venisse tralasciata, ed egli la "oltrepassasse" senza
"avvedersene".
Tali omissioni, che non di rado avevamo rilevato in S. - specialmente nel primo periodo delle nostre
osservazioni, quando la sua tecnica mnemonica non era ancora sufficientemente sviluppata -
dimostravano così di non essere difetti di memoria, bensì difetti di percezione: vale a dire, si
rivelavano attinenti non già a quelle particolarità neurodinamiche, ben note agli psicologi, della
ritenzione delle parole (inibizione pre e retroattiva, estinzione delle tracce, eccetera), ma alle
altrettanto note particolarità della percezione visiva, quali la nettezza di contorni, il contrasto, il
risalto della figura sullo sfondo, alla luce favorevole, e via dicendo.
La chiave per interpretare i suoi errori si trovava dunque nella psicologia della percezione, non già
nella psicologia della memoria.
Illustreremo questo punto con estratti di numerosi resoconti di esperimenti.
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Nel riprodurre una lunga serie di parole, S. aveva tralasciato la parola "matita". In un'altra serie, era
stata saltata la parola "uovo". Infine in una terza serie, S. aveva tralasciato la parola latina - per lui
incomprensibile - "putamen".
Ecco la spiegazione che egli stesso ha dato dei suoi errori.
"Avevo situato la "matita" accanto a uno steccato (sapete, quel recinto lungo la strada), ed ecco che
la matita mi si è confusa con quello steccato, e io sono passato oltre... Lo stesso mi è accaduto con
la parola "uovo": era stato situato sullo sfondo d'un muro bianco e si è confuso con quest'ultimo.
Come potevo discernere il bianco dell'uovo sullo sfondo bianco del muro? ... Così pure, quel
"dirigibile": era grigiognolo, e mi si è confuso col grigio del lastricato... Anche la "bandiera": era
una bandiera rossa, e voi sapete che l'edificio del Mossoviet (3) è rosso, io l'avevo collocata accanto
a quel muro e l'ho oltrepassata senza accorgermene... Quanto poi a questo "putamen", non so che
cosa sia. Si trattava d'una parola talmente scura, che io non l'ho distinta... tanto più che il lampione
restava lontano...
(dicembre 1932)".
"Anche altre volte mi accade di collocare la parola in un posto buio e mi trovo ugualmente male:
ecco, per esempio, la parola "cassetta": stava in una nicchia d'un androne, e lì c'era buio, era
difficile distinguerla... O altre volte, quando viene fuori un rumore o una voce estranea, mi appaiono
delle macchie, ed esse ricoprono tutto; o vengono a intrufolasi delle sillabe che prima non c'erano, e
può darsi che io dica che c'erano... Sono cose, queste, che impacciano la memoria...
(dicembre 1932)".
Cosicché, quei "difetti di memoria" erano in S., in realtà, "difetti di percezione", o "difetti di
attenzione"; e l'analisi che ne abbiamo fatta, lungi dall'abbassare il valore della sua potenza
mnemonica, ci ha soltanto permesso di approssimarci maggiormente a una definizione dei processi
mnestici caratteristici di quell'uomo prodigioso.
E questo esame così approfondito ci ha messo in grado, nello stesso tempo, di dare una risposta
anche al secondo dei due problemi: come mai non si dessero, in S., alterazioni nei suoi ricordi.
Questo fatto si spiega facilmente con la presenza delle componenti sinestesiche nel corso
dell'"annotazione" e della "lettura" delle impronte del materiale accolto nella memoria.
Già si è detto come S. non si limitasse a trascrivere le parole assegnategli in un cifrario d'immagini
ben nette. Ogni parola che gli venisse proposta lasciava anche una "informazione supplementare",
composta da quelle sensazioni sinestesiche (visive, gustative, tattili) che insorgevano dai suoni della
parola pronunciata, o dalle immagini delle lettere scritte. E' quindi naturale che, se S. avesse
sbagliato nel "fare la lettura" di una delle immagini a cui era ricorso, la "informazione
supplementare", scaturiente dalla parola originariamente proposta, non avrebbe coinciso coi
contrassegni della parola-sinonimo o, dal punto di vista associativo, vicina, addotta nella
ripetizione: ne sarebbe risultato qualcosa di discordante, per cui egli avrebbe potuto agevolmente
constatare l'errore sfuggitogli.
Mi sovviene d'una volta che, insieme con lui, si ritornava dall'istituto dove eseguivamo le nostre
esperienze in collaborazione con L. A. Orbeli. "Non vi scorderete mica da che parte si entra
nell'istituto?" gli domandai, dimenticando con chi avevo a che fare.
"Macché, cosa dite? - mi rispose subito: - com'è possibile scordarsene? Tutto questo recinto, vedete,
è talmente salato, talmente ruvido sulla lingua, eppoi manda un suono così acuto e lacerante..."
E' dunque del tutto naturale che il confluire e l'accumularsi di quel gran numero di contrassegni che,
grazie alla sinestesi, venivano forniti dalla complessa informazione supplementare a proposito
d'ogni oggetto impresso nella memoria, servisse di garanzia per l'esattezza della rievocazione, e
rendesse altamente improbabile qualsiasi scarto da un materiale così perspicuamente determinato.
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Difficoltà.
Nonostante tanti vantaggi, la pronta memoria visiva procurava a S., indubbiamente, anche delle
difficoltà. Queste difficoltà divennero tanto più evidenti, quanto più egli si trovò costretto a
dedicarsi al richiamare un ingente e incessantemente mutevole materiale; e il fatto si verificò
sempre più spesso allorché, abbandonate le primitive occupazioni, egli divenne un mnemonista di
professione.
La prima di tali difficoltà è già stata da noi descritta. Divenuto ormai un professionista della
mnemotecnica, S. non poteva più concedere che delle immagini a sé stanti potessero confondersi
con lo sfondo, o che la loro "lettura" gli riuscisse male perché fosse difficile distinguerle a causa
d'una "messa in luce insufficiente".
Ormai, non gli era più possibile concedere che dei rumori estranei facessero sì che delle "macchie",
degli "spruzzi" o delle "linee" venissero a ricoprire le immagini da lui distribuite, e a renderle "a
stento distinguibili".
"Ogni rumore, sapete, mi è d'ostacolo... Mi si trasforma in tante linee, e mi spaventa... C'era, per
esempio la parola "omnia": ci si è mischiato un rumore, ed ecco che io registro un "omnion"...
Eppoi basta che io dica una parola qualsiasi, che dinanzi agli occhi mi appaiono subito non so che
tipo di linee... Io le palpo con le mani, e allora è come se, al contatto delle mie mani, quelle si
consumassero... appare un fumo, una nebbia... E quanto più la gente parla, tanto più io mi trovo in
difficoltà... E così, del significato delle parole, finisce che non rimane più nulla... (maggio 1935)."
Spesso accadeva che le parole, che gli si davano da ricordare, risultassero talmente lontane per
senso l'una dall'altra, da esser capaci d'infrangere quell'ordine che lui aveva scelto per la
"collocazione" delle immagini.
"Avevo appena incominciato a inoltrarmi in piazza Majakovskij che ecco, mi vengono a dire
"Cremlino", e così, improvvisamente sono costretto a trovarmi al Cremlino. Va bene, cambierò
direzione al mio filo, e lo getterò precisamente verso il Cremlino! Ma poi, ecco un "emistichio" e
così, di nuovo io sto in piazza Puskin (Pushkin)... Che se poi pronunciassero un "indiano", dovrei
per forza essere in America... E va bene, getterei il mio filo di là dall'oceano.... Ma è talmente
spossante fare tutti questi viaggi... (maggio 1935)."
A complicare in peggio le cose, spesso gli astanti si mettevano a proporgli delle parole lunghe,
imbrogliate a bella posta, o prive di senso. Questo lo spingeva naturalmente al ricordo "per linee",
fondato cioè sulle immagini visive di quei zigzag, aloni, spruzzi, in cui i suoni vocali si
trasformavano: ma era, questa, "una cosa tanto faticosa...".
Insomma, la memoria di S., a base d'immagini perspicue, veniva a dimostrarsi non abbastanza
economica; ed egli si trovò nella necessità di fare un passo innanzi per adattarla alle nuove
condizioni.
Ha inizio così, a questo punto, una seconda tappa: la tappa caratterizzata da un lavorio per la
semplificazione delle forme di richiamo; la tappa dell'elaborazione di nuovi metodi, che rendessero
possibile un arricchimento della memoria, la rendessero indipendente dalle circostanze contingenti,
garantissero una rapida ed esatta riproduzione di qualsiasi materiale in qualsiasi condizione.
L'eidotecnica.
Il primo punto intorno al quale S. dové iniziare il suo lavoro, fu la liberazione delle immagini da
quegl'influssi occasionali, che potevano metterne a repentaglio la "lettura".
L'impresa risultò semplicissima.
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"So che io debbo far attenzione a non lasciar fuori nessun oggetto: e allora lo faccio più grande. Per
esempio, vi ho detto la parola "uovo": siccome era facile non avvedersene, non solo lo faccio più
grande, ma lo appoggio alla parete d'una casa, e lo metto meglio in luce con un lampione... Ormai,
non colloco più degli oggetti in un punto di passaggio oscuro... Che ci sia una buona luce e allora
mi riuscirà facile scorgerli!
(giugno 1935)."
L'ingrandimento delle immagini, la loro messa in luce, la giusta collocazione, costituirono il primo
passo di quella "eidotecnica", che doveva caratterizzare la seconda tappa nella evoluzione della
memoria di S. Un altro procedimento consistette nell'abbreviazione e simbolizzazione delle
immagini: cosa alLa quale S. non aveva fatto ricorso nel primo periodo di formazione della sua
memoria, e che divenne invece uno dei metodi fondamentali nel periodo della sua professione di
mnemonista.
"Prima, per ricordare, io ero costretto a rappresentarmi la scena nella sua interezza. Ora mi basta
prendere un qualsiasi dettaglio convenzionale. Se mi hanno proposto la parola "cavallerizzo" mi è
sufficiente porre là un piede con lo sperone. Se, una volta, mi avessero detto "ristorante", avrei visto
l'entrata del ristorante, la gente seduta dentro, l'orchestrina rumena che accordava gli strumenti, e
tante altre cose... Ora, quando mi dite "ristorante", io vedo soltanto una specie di negozio, l'ingresso
d'un edificio, il biancichio di qualche cosa: e mi torna a mente il ristorante. Perciò
ora, anche le immagini diventano diverse. Un tempo, mi apparivano con maggiore nettezza e
realismo... Le immagini attuali non appaiono più con la nettezza e la vivezza degli anni passati... Io
mi sforzo di enucleare quel che è indispensabile.
(dicembre 1935)."
Abbreviazione delle immagini, astrazione dai dettagli e loro generalizzazione: ecco la linea sulla
quale incomincia ad avanzare l'"eidotecnica" di S.
Un analogo lavoro fu intrapreso da lui per liberarsi dell'eccessiva aderenza alla perspicuità delle
immagini.
"Una volta, per ricordare la parola "America", io dovevo protendere un lungo filo attraverso
l'oceano, da via Gorkij fino all'America, se non volevo smarrire la strada. Ora non ne ho più
bisogno. Se mi dicono "elefante", io vedo il giardino zoologico; se mi dicono "America", pongo là
lo zio Sam; "Bismarck" - ed eccomi vicino al monumento di Bismarck. Se mi dicono
"trascendente", vedo il mio insegnante Scerbin (Stcherbin), dritto su due piedi a guardare il
monumento... Non ho più bisogno di fare tutte quelle cose complicate, di trasferirmi in tante nazioni
diverse...
(maggio 1935)."
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rapidità e facilità - c'era una "semantizzazione" delle immagini sonore, mentre, come procedimento
integrativo, restava il ricorso ai complessi sinestesici, che continuavano pur sempre a "garantire" il
ricordo.
"Mi dicono: 'ubi bene ibi patria'. Io non so di che si tratti... Ma, d'improvviso, mi sorgono di fronte
Bènja [Beniamino] ('bene') e 'pater' (mio padre)... e non faccio che ricordare: stanno tutt'e due in
una casettina dentro ai boschi, e... litigano fra loro...
(dicembre 1932)."
Ci limiteremo ad alcuni esempi, che valgono a illustrare la virtuosità con cui S. si serviva dei
metodi della semantizzazione e della eidotecnica. Tra le molte centinaia di resoconti che sono a
nostra disposizione, ne sceglieremo soltanto tre, dei quali il primo dimostrerà la tecnica per
ricordare le parole d'una lingua sconosciuta, il secondo la tecnica per ricordare una formula senza
significato, e terzo quella per imprimere nella mente una serie di sillabe senza senso, che presentava
(secondo le parole dello stesso S.) un grado estremo di difficoltà. Sono esempi interessanti anche
per il fatto che chi scrive ha potuto verificarne la riproduzione, eseguita dopo molti anni (e,
naturalmente senz'alcun preavviso che la verifica avrebbe toccato appunto gli esempi in questione).
- 1. Nel dicembre del 1937, era stata letta a S. la terzina iniziale della "Divina Commedia", fino al
primo verso della seconda.
Come sempre, S. aveva pregato che le parole della serie propostagli venissero lette distintamente,
facendo tra l'una e l'altra delle piccole pause, sufficienti per lasciargli trasformare le associazioni di
suoni (vuote per lui di senso) in immagini significative.
Che egli ripetesse quei versi della "Divina Commedia" senza il minimo errore, con le medesime
cadenze con cui li aveva sentiti pronunciare, era per lui più che naturale. E più che naturale era pure
che questa riproduzione gli fosse assegnata in una verifica che, senza preavvisi, fu eseguita...
quindici anni dopo!
Ecco i mezzi di cui egli si servì per conservare i ricordo dei versi:
"Nel": io avevo pagato la quota del club, e là, nel corridoio, c'era la ballerina Nelskaja;
"mezzo": io sono un violinista e avevo posto accanto ["vmeste"] a lei un violinista che suonava lo
strumento;
"del": accanto ci sono delle sigarette "Dely";
"cammin": pure lì accanto c'è un caminetto ["kamin"];
"di": c'era una mano che indicava la porta ["dver"];
"nostra": c'era un naso ["nos"], un uomo batteva il naso in quella porta e ce lo schiacciava contro;
"vita": l'uomo sollevava un piede attraverso la soglia dove giaceva un bambino, cioè la "vita",
vitalismo; ["vitalizm"];
"mi": avevo collocato lì un'ebrea, che appunto diceva "mi" (pronuncia ebraica del russo "my": noi),
"noialtri qui siamo di troppo";
"ritrovai": questo era un alambicco ["retorta"], una specie di pipa di vetro, trasparente, che ecco
cadeva in terra e allora la mia povera ebrea correva via gridando: ""vaj"", e questo era "vaj";
"per": quella fuggiva e intanto, all'angolo della Lubjanka, su una carrozzella da nolo, ecco spuntare
mio "padre";
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"una": all'angolo di via Sucharevka c'era piantato un poliziotto dritto impalato, che stava là come un
bellissimo 1;
"selva": al suo fianco colloco un palco sul quale si mette a danzare una certa "Selva"; ma perché
non fosse la celebre Silva le assi del palco le crepano sotto: questo è il suono della vocale "e";
"oscura": dal palco sporge in fuori un asse ["os"]: sporge proprio in direzione d'una gallina
["kuritsa"]: cioè, "os-cura";
"che": potrebbe essere un cinese, Ce-cen [si noti che il "che" era stato erroneamente pronunciato
come un "ce" (n.d.a.)];
"la diritta": accanto colloco una donna, una parigina, cioè la mia assistente Margarita;
"via": e lei che dice "via" ["vasa" (vasha), vostra] e mi tende la mano;
"era": ne accadono di fatti strani nella vita d'uomo: io ho bevuto una bottiglia intera di champagne, è
per me una cosa che fa epoca, apre un'"era" nuova;
"smarrita": ed ecco che vedo un tram, dove la bottiglia di champagne fa da conducente. Nel tram c'è
seduto un ebreo col taleth sulle spalle, che legge lo "Schma Israel", cioè "sma", e con lui sua figlia
"Rita";
"Ahi": in ebraico equivale al russo "ahà!" Qui io avevo situato sempre nella stessa piazza un uomo
che starnutiva: apscí!, cosicché me ne balenavano le lettere ebraiche "a" e "h"...;
2quanto": qui al posto di quinta musicale avevo messo un pianoforte e siccome la vocale "a" ha per
me un suono bianco si trattava d'un pianoforte coi tasti tutti bianchi;
"a dir": a questo punto mi ero trasferito a Torzok, nella mia stanza col pianoforte... Vedevo, lì sopra,
il mio spartito in tedesco, che diceva "dir" ossia "te"; per indicare la "a" precedente avevo
semplicemente posto sul tavolo... che cosa? "A" è un suono bianco ed ecco che mi si era confuso
col fondo della tovaglia: così, non me ne sono più ricordato;
"qual era": mi si era presentato un uomo a cavallo, col cappello spagnolo, un antico cavaliere
["Kavaler"], ma poi scelsi altrimenti; perché non ci fosse del superfluo feci uscire dai piedi di mio
suocero un ruscello [in ebraico: "qual"] e dentro ci scorreva dello champagne ""Era"";
"è": in quanto ad "e", io lo vedevo in Gogol: "Chi ha detto eh?": Bobcinskij (Bobtchinskij) e
Dobcinskij (Dobtchinskij)?...
"cosa": la loro serva vede una capra ["koza"];
"dura": e le dice "Dove ti vai a ficcare, stupidona?" ["dura"].
Potremmo continuare con le annotazioni del nostro resoconto, ma i procedimenti per ricordare sono
già abbastanza chiari anche da questo frammento. Sembrerebbe che la caotica accumulazione delle
immagini dovesse soltanto complicare il compito di tenere a mente quattro versi d'un poema; ma il
poema era stato proposto in una lingua sconosciuta, e il fatto che S., non perdendo tra ascolto dei
versi e composizione delle immagini più di qualche minuto, sia stato in grado di riprodurre il testo
assegnato e ripeterlo... dopo quindici anni, "leggendo" i significati sulle immagini che aveva scelto
all'uopo, sta a dimostrare quale valore assumessero per lui i metodi descritti.
- 2. Alla fine del 1934, fu assegnata a S. una formula matematica artificiale (e senz'alcun
significato), e precisamente:
N. - radice quadrata - d alla seconda per X 85 fratto vx per - radice quadrata alla terza - 276 alla
seconda per 86 x fratto n alla seconda per v 264 per SV per 1624 fratto 32 alla seconda per S alla
seconda;
S. guardò attentamente la tabella con la formula, più volte se la portò vicino agli occhi, poi la lasciò
lì, restando con le palpebre socchiuse, fin tanto che non la restituì; allora fece una pausa, "passando
in rivista" dentro di sé quanto gli si era impresso nella memoria: e, passati sette minuti, riprodusse
con precisione la formula.
Ecco la sua risposta, che rivela quali fossero i metodi mnemonici da lui impiegati:
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(.)... Guardò un albero alto, che somigliava a una radice (radice quadrata), e pensò ch'era naturale
che si fosse seccato e le radici gli si fossero scoperte: c'era già, infatti, fin da quando lui costruiva lì
quelle due case ["doma"] (d alla seconda): e qui di nuovo batté col bastone in terra ( il punto del
"per")... Sono case vecchie, egli pensa, bisognerà metterci sopra una croce (X), questo darà un
grande aumento di capitale; e così, vi colloca un capitale di 85 migliaia di rubli ("85"). Il tetto lo
tien separato (la linea del fratto), e sotto, c'è un uomo che suona su un "Fermenvox" ("vx"). Si trova
accanto alla posta, e in un angolo c'è una grossa pietra (punto del "per"), perché i carri non vadano a
urtare contro le case. C'è lì anche una piazza, con un grande albero (radice quadrata), e sopra a
questo tre cornacchie (alla terza). Qui io ci ho messo un semplice 276, mentre, per indicare "al
quadrato", ho messo una scatoletta quadrata da sigarette con sopra scritto 86... Questa cifra stava
scritta dal lato opposto della scatoletta, non si poteva vedere dal punto in cui io mi trovavo: trascurai
di avvicinarmi di più e così, nel rievocare la formula, l'ho lasciata fuori... Quanto a "X", era uno
sconosciuto in mantello nero che si appressava a un recinto (linea del fratto), dall'altra parte del
quale c'era una studentessa, e lui voleva passar di là per trattenersi con quella giovane liceale "n",
carina ed elegante nel suo abito grigio; discorreva con lei, cercava di rompere i paletti del recinto
con un piede e con l'altro (alla seconda), ma quella, la liceale, non era bella per niente... Là, nella
scuola, c'è una grande lavagna... la cordicella del cassino salta, e io metto un punto (punto del
"per")... Sulla lavagna c'è scritto 264: io ci scrivo di seguito "n alla seconda b". Mi trovo nella
scuola. Mia moglie ha posato una riga, e lì siedo io, Solomon Venjaminovic' ("sv"), mentre il mio
compagno ha scritto un "1624 fratto 32 alla seconda". Io do un'occhiata a che cosa sta scrivendo e
intanto, di dietro, due studentesse (alla seconda) guardano ed esclamano perché lui non se ne
accorga: 'ss'... più piano!' ("s")."
Ebbene: una formula simile fu, senz'alcun errore, riprodotta da S. immediatamente, e una
riproduzione altrettanto esatta si ottenne a distanza di quindici anni (nel 1949), allorché, senza
preavvisi di sorta, egli fu invitato a riprodurla.
- 3. L'11 giugno 1936, S. stava facendo un'esibizione di mnemonica presso una casa di cura. Come
raccontò più tardi, in quell'occasione gli venne proposto un tema più difficile di quanti ne avesse
mai incontrati: tuttavia, se la sbrigò ugualmente con successo e, quattro anni dopo, fu ugualmente in
grado di riprodurre esattamente il materiale dell'esibizione.
Gli era stato proposto di mandare a memoria un lungo elenco, costituito da una serie di sillabe che
s'alternavano in vario modo senz'alcun significato:
1. MAVANASANAVA
2. NASANAMAVA
3. SANAMAVANA
4. VASANAVANAMA
5. NAVANAVASAMA
6. NAMASAMAVANA
7. SAMASAVANA
8. NASAMAVAMANA eccetera.
"Nell'autunno del 1936 ho avuto una seduta, che mi è sembrata la più difficile di quante ne avessi
tenute in pubblico fino a quel giorno. Voi, fin d'allora, incollaste su un foglio di carta un bigliettino,
in cui mi pregavate di descrivere quella seduta: ma, per circostanze indipendenti dalla mia volontà,
solo ora, passati più di quattro anni, mi accingo finalmente a farlo. Sebbene ormai siano passati
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parecchi anni, tutto mi è ribalenato dinanzi agli occhi con una nettezza, come se quella seduta fosse
lontana non quattro anni, ma quattro mesi.
Fra le altre prove, un assistente venne a leggermi delle parole scomponendole in sillabe staccate:
"ma-va-na-sa-na-va", eccetera. Appena udii la prima di quelle parole, io mi trovai immediatamente
su una strada che attraversava i boschi nei dintorni del paesino di Malta dove da bambino avevo
abitato in villeggiatura. Da sinistra, al livello dei miei occhi, sprizzò una linea sottilissima, d'un
giallo grigiastro (tutte le consonanti erano costruite sullo stesso suono "a"). Su quella linea, vennero
ad apparire rapidamente, in una grande varietà di tinte, di peso e di densità, gomitoli, spruzzi
chiazze, raggi di luce e altre cose del genere, raffiguranti le lettere "M", "V", "N", "S", eccetera.
Fu pronunciata la seconda parola. E subito io riconobbi le medesime consonanti della prima parola,
soltanto disposte in ordine diverso. Svoltai sulla sinistra della strada, e continuai la linea
orizzontale.
Terza parola. Perbacco, di nuovo la medesima roba, ma l'ordine era ancora diverso. Domando
all'assistente: "Ce n'è ancora molte di queste parole?". Risposta: "Su per giù, sono tutte così!". Mi
sentii imbarazzato. Quella insistente reiterazione di quattro consonanti, appoggiate alla monotona
vocale "A" (di foggia così primitiva), scrollava la mia abituale sicurezza. Se, per ogni parola,
dovevo cambiare sentierino nel bosco, e tastare ben bene, fiutare, scrutare, acquisire insomma una
sensazione precisa d'ognuna di quelle chiazze, la cosa mi sarebbe riuscita d'aiuto, ma mi avrebbe
preso parecchi secondi in più, mentre, quando ci si esibisce in pubblico, ogni secondo è prezioso.
Infatti, scorgo già un sorriso. E quel sorriso mi si trasforma in una spilla pungente: sento una
puntura acuta, diritta al cuore. Decido di far ricorso alla mnemotecnica.
Con un sorrisetto, prego l'assistente di tornare a leggermi le prime tre parole correntemente senza
scomporle in sillabe. Ed ecco che quella uniforme vocale "A" viene a formare un certo ritmo e certe
cadenze. Risultano, dalla pronuncia dell'uomo: "mavá-nasá-navá"... Allora il processo di
memorizzazione si mette in moto senza più pause e sul tempo richiesto dall'esibizione. Io ascolto e
vedo: "mava,"nasa", "nava".
1. MAVÁNASÁNAVÁ. La mia padrona di casa (MAVA), da cui abitavo a Varsavia in via
Slizkaja, sta affacciata alla finestra che dà sul cortile: con la sinistra indica verso l'interno della
stanza (NASA), e con la destra fa segno di no (NAVA) a un rigattiere ebreo, fermo in cortile col
sacco in spalla, come a dire che non ha niente da vendergli. "Muvi", in polacco, significa parlare;
"nasa" sta, convenzionalmente per il russo "nasa" (nasha) [nostra], e io m'imprimo bene che ho
mutato la "s" (con dieresis: sh) in "s"; inoltre, quando la padrona ha detto "nasa", mi è lampeggiata
dinanzi una luce color arancione, caratteristica del suono "s". "Nava", in lingua lettone, significa no.
Le vocali, via via, non avevano importanza: sapevo già che, fra tutte le consonanti, ricorreva sempre
soltanto la "a".
2. NASÁNAMÁVÁ. Il rigattiere, ormai, è uscito sulla strada accanto al portone del cortile.
Perplesso, allarga le braccia, ripetendo tra sé le parole della padrona, che "di nostro ["nasim"
Nashim)] (NASA) non c'è niente da vendere", e ammicca a una donna che gli sta a fianco, alta di
petto, una balia (NAMA: in ebraico, balia è "a'n'am"). Un passante si scandalizza e dice: ""vaj"!"
"VA"; non sta bene, intende, che un vecchio ebreo adocchi una balia.
3. SANÁMAVÁNÁ. Ecco l'inizio di via Slizkaja. Io sto sotto la torre Suchareva, dal lato della
Pervaja Mescanskaja (Meshtchanskaja) (chissà perché, durante le mie sedute di mnemonica, io
spesso mi ritrovo a questa cantonata). All'ingresso della torre c'è una slitta ["sani"] (SANA), vi
siede sopra la mia padrona di casa (MAVA), e tiene in mano una lunga tavola bianca (NA [grafia
russa: HA]) che lancia all'interno del portone della torre: ma dove? La lunga tavola è la figura
emblematica di NA [HA]- NAD [sopra] è quella stessa tavola, ma superiore alla statura d'un uomo,
superiore anche alle case di legno a un piano.
4. VASÁNAVÁNAMÁ. Ah, eccoci all angolo fra piazza Kolchoznaja e via Sretenka: siamo ai
grandi magazzini, e di fuori siedono le custodi: c'è il ben noto viso bianco di mia sorella di latte
Vasilisa (VASA). Con la sinistra essa fa un gesto negativo, a indicare che il magazzino è chiuso
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(NAVA). Il gesto è diretto alla balia (NAMA), che noi già conosciamo, e che è apparsa lì: voleva
entrare all'interno.
5. NAVÁNAVÁSAMÁ. Ehi!, di nuovo NAVA! Un istante, all'ingresso della Sretenka, appare
un'enorme, diafana testa umana tentennante come un pendolo di traverso alla strada (figura
emblematica per ricordasi del "no"). Un'altra testa uguale tentenna più in giù, presso il Kuznetskij
Most. Proprio al centro di piazza Dzerzinskij (Zerginskij), ecco sorgere una sagoma imponente: è il
monumento d'una mercantessa russa (SAMA: così, nelle opere degli scrittori russi, è stata chiamata
la massaia).
6. NAMÁSAMÁVANÁ. Ricorrere di nuovo alla balia e alla mercantessa è pericoloso. Scendo
verso il teatro Bolsoj (Bolshoj), nella piazza del quale trovo seduta la biblica Noemi (NAMA): essa
si leva i piedi e, fra le sue mani, appare un grande samovar bianco (SAMA). La donna lo porta
verso una vasca ["vanna"] (VANA), che sta sul marciapiede accanto al cinema Vostok: vasca di
lamiera bianca di dentro, verdastra di fuori.
7. SAMÁSAVÁNÁ. Oh, com'è semplice! Dalla vasca esce la grossa figura della mercantessa
(SAMA), sulla quale gettano un bianco sudario ["savan"] (SAVANA): Io sto ormai vicino alla
vasca vedo la donna di schiena. Essa si dirige verso l'edificio dov'è il Museo storico. Che cosa mi
aspetta là? Lo vedremo subito.
8. NASÁMAVÁMANÁ. Una vera sciocchezzuola! Si tratta piuttosto di combinare insieme, che di
mandare a mente. NASA, però è un'immagine aerea, che non si concreta. Ci arriverò indirettamente.
Che ne verrà fuori? "N'schama", in ebraico antico, è l'anima (NASAMA); l'anima, quando io ero
bambino, me la figuravo sotto l'aspetto dei polmoni e del fegato, che spesso vedevo sul tavolo di
cucina. Ed ecco: all'ingresso del museo c'è un tavolo su cui sta un'anima - polmoni e fegato, cioè - e
un piatto di semolino ["mànnaja"]. Un orientale sta in piedi accanto al tavolo e grida all'anima: "Vaj
vaj! (VA). Mi è venuto a noia questo semolino!" (MANA).
9. SANÁMAVÁNAMÁ. Nient'altro, ormai, che un'ingenua provocazione! Subito riconosco la
scena della torre Suchareva (alla terza parola), con l'aggiunta della particella "ma" alla fine. Nel
quartiere fra il Museo storico e il recinto del giardino Aleksandrovskij, situo quel medesimo
identico quadro, e sulla lunga tavola colloco una donna con un lattante, una mamma ["mama"]
(MA).
10. VANÁSANÁVANÁ. Ah! anche fino a domattina potreste continuare di questo passo! Nel
giardino Aleksandrovskij, sul viale centrale, ci sono due vasche di porcellana tutte bianche (a
differenza di quelle del n. 6 ). Rappresentano VANAVANA. E, nel mezzo fra le due, c'è
un'infermiera ["sanitarka"] (SANA): ed ecco tutto!"
Sarebbe inutile andare innanzi col resoconto. Al monotono alternarsi delle sillabe supplisce la
pittoresca perspicuità delle immagini, la "lettura" delle quali non presenta nessuna difficoltà.
Otto anni più tardi (il 6 aprile 1944), ebbi modo, sempre senz'alcun preavviso, di proporre a S. la
riproduzione mnemonica di questa prova, ed egli la eseguì senza la minima fatica e senza cadere in
un solo errore.
Orbene: dalla lettura dei verbali or ora citati, sarebbe naturale formarsi l'impressione di un enorme -
anche se personalissimo - lavorio logico, che da S. venisse compiuto sul materiale mandato a
memoria.
Niente di più lontano dalla verità. Tutto l'ingente e virtuosistico lavorio di cui abbiamo riportato
tanti esempi, porta il carattere d'un lavoro fatto sull'"immagine", ossia (per usare il termine con cui
abbiamo intitolato questo sottocapitolo) di una originale eidotecnica, lontanissima dai processi
logici di elaborazione delle informazioni ricevute. appunto per questo, S., eccezionalmente forte
nello scomporre il materiale assegnatogli in immagini significative, e nella scelta di tali immagini,
appare poi debolissimo nell'organizzazione logica di questo materiale: e i metodi della sua
eidotecnica dimostrano di non avere niente di comune con quella "mnemotecnica" su basi logiche e
astratte, il cui sviluppo e la cui struttura sono stati oggetto di tante indagini psicologiche (5). E' un
fatto, questo, che rivela la stupefacente dissociazione tra un'enorme memoria visiva e una completa
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ignoranza d'ogni possibile metodo di memorizzazione logica, quale appunto si poteva facilmente
constatare in S.
Addurremo due soli esempi delle prove dedicate a questo scopo.
Ai primi esordi delle esperienze con S. - sul finire, cioè, degli anni venti - L. S. Vygotskij gli
propose di mandare a memoria una serie di parole, fra cui rientravano alcuni nomi di uccelli.
Qualche anno dopo - nel 1930 A. N. Leontjev, che allora studiava a sua volta la memoria di S., gli
propose un'altra serie di parole, fra cui erano compresi dei nomi di liquidi.
Fatte queste prove, fu proposto a S. di enumerare separatamente i nomi di uccelli della prima serie e
i nomi di liquidi della seconda. A quell'epoca S. procedeva, nel ricordare, preminentemente "per
linee", e così, il compito di trascegliere le parole appartenenti a una determinata categoria si
dimostrò assolutamente superiore alle sue forze: il fatto stesso che, fra le parole assegnategli, se ne
trovassero di affini tra loro, gli era passato inosservato, e se ne avvide solo quando ebbe atto la
"lettura" di tutte le parole, e le ebbe raffrontate reciprocamente.
Analogo il caso che si verificò anni dopo, in una delle sedute che S. teneva a Saratov.
In una tabella di cifre da mandare a memoria, gli data la serie riportata qui sotto. Con grandi ed
insistenti sforzi S. riuscì ad imprimersi nella mente questa serie di cifre, applicandovi i metodi per
lui abituali di mnemotecnica visiva, senz'accorgersi affatto del semplice ordine logico, secondo il
quale le cifre erano disposte:
TABELLA 3
1234
2345
3456
4567
"Se anche mi avessero dato addirittura l'alfabeto, io non me ne sarei accorto, e mi sarei messo
onestamente al mio lavoro spiegava S. più tardi. - Forse, me ne sarei potuto avvedere nel ripetere la
serie, ai suoni della mia voce: ma, quando mi fu proposta, non ne ebbi il minimo sentore..."
Si potrebbero dare dimostrazioni migliori di quanto lontano restasse il tipo di ricordo, proprio di S.,
da quello logico, comune ad ogni individuo?
Abbiamo detto così della sua straordinaria memoria quasi tutto quello che ci è stato possibile
apprendere dai nostri esperimenti e dalle nostre conversazioni. Ed essa, a un sol tempo, è divenuta
per noi così chiara, ed è rimasta così incomprensibile!
Molte cose siamo venuti a sapere della sua complicata struttura, come cioè alla sua base ci fosse una
tenace ritenzione delle impressioni sinestesiche, come fosse improntata a un vivo carattere di
figuratività, come poi venisse ad aggiungervisi una virtuosistica "eidotecnica", capace di
trasformare ogni complesso di suoni, appena udito, in un'immagine perspicua, senza privarlo perciò
delle vecchie componenti sinestesiche.
Siamo venuti a sapere come a S, fosse sufficiente, per conseguire quello che egli definiva il modo
più semplice e facile di ricordare le cifre, la sola e immediata memoria visiva, e come la
rievocazione delle parole sostituisse questa memoria con quella delle immagini, e come il passaggio
alla rievocazione di suoni (o gruppi di suoni) senza senso, lo facesse ricorrere a un quanto mai
primitivo procedimento di ricordo sinestesico, quale un "cifrario delle immagini", di cui si giovava
nel suo lavoro di professionista della mnemotecnica.
Eppure, quanto poco sappiamo di questa memoria meravigliosa! Come ci possiamo spiegare la
tenacia con cui le immagini si conservavano in lui tanto a lungo, magari per diecine d'anni? Quale
spiegazione possiamo dare del fatto che le centinaia e migliaia di serie, impresse nella sua memoria,
non si ostacolavano a vicenda, e che egli poteva praticamente, tornare a suo piacimento a qualsiasi
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di esse dopo un intervallo di 10, 12, 17 anni? Da che cosa pote dipendere una così incrollabile
stabilità delle tracce?
Abbiamo già detto che le leggi della memoria a noi note non sono applicabili alla memoria di S.
Le tracce lasciate da un dato stimolo non ostacolavano in lui, le tracce lasciate da un altro stimolo;
non tradivano esse, sintomi di attenuazione e non perdevano la loro disponibilità a venir trascelte fra
le altre; non era possibile ravvisare in S. né dei limiti alla sua memoria quanto a estensione e a
durata, né una dinamica di affievolimento delle tracce in rapporto allo scorrere del tempo;
impossibile, in lui, enucleare l'"effetto di posizione" in forza del quale ciascuno di noi ricorda i
primi e gli ultimi elementi d'una serie meglio di quelli intermedi; e impossibile, altresì, riscontrare
quei fenomeni di reminiscenza, per cui un breve riposo conduce alla riemersione (si direbbe) delle
impronte già cancellate.
Il processo di memorizzazione, peculiare di S., obbedisce - come già abbiamo detto - piuttosto alle
leggi del percezione e dell'attenzione, che non a quelle della memoria; esso non riesce a riprodurre
una parola se non "vede" bene, o se "se ne distrae"; il riaffiorare del ricordo dipende dalla luce in
cui si trova l'immagine, dalle sue dimensioni, dalla sua collocazione, dalla possibilità che una
"chiazza" la offuschi, insorgendo da una voce estranea.
E tuttavia, questa memoria, è completamente diversa da quella memoria "eidetica", che fu studiata
nei dettagli dalla scienza trenta o quaranta anni fa.
Non si ha affatto, in S., quella sostituzione dell'immagine negativa susseguente con un'altra positiva,
che è una delle caratteristiche specifiche dell'"eidetismo": le sue immagini rivelano una mobilità
illimitata, divenendo un disinvolto strumento delle sue intenzioni. Alla sua memoria viene a
mescolarsi in modo decisivo l'influsso delle sinestesie, che la rendono così complessa e così
nettamente distinta da una semplice memoria "eidetica".
E nello stesso tempo, nonostante la complicatissima "eidotecnica" da lui sviluppata, la memoria di
S. rimane un esempio stupefacente di memoria immediata. Pur attribuendo complessi valori
convenzionali alle immagini di cui si serve, egli continua a vederle, queste immagini, a rivivere le
loro componenti sinestesiche; egli non ha bisogno di riprodurre logicamente i rapporti a cui fa
ricorso: di colpo essi gli si presentano dinanzi, non appena restaura quella situazione in cui il
processo di memorizzazione si è svolto.
Siamo, indiscutibilmente di fronte a una memoria eccezionale, che rimane una sua caratteristica
innata e individuale (6) e tutte le tecniche che egli adotta sono una semplice soprastruttura di tale
memoria, non ne sono una "simulazione", eseguita con metodi ad essa estranei e non congeniali.
Fin qui, noi abbiamo descritto le caratteristiche salienti, dimostrate da S. nel ricordo di elementi
staccati: cifre, suoni, parole.
Si conserveranno ancora tali caratteristiche se passeremo al ricordo d'un materiale più complesso,
come situazioni ben determinate, testi letterari, visi d'uomini?
Lo stesso S. ha avuto ripetutamente a lamentarsi della sua... cattiva memoria in fatto di visi!
"Sono talmente instabili, - diceva, - dipendono a tal punto dall'umore della persona, dal momento
dell'incontro, che di continuo mutano, si confondono tra loro per colore, e quindi è tanto difficile
imprimerseli nella memoria."
Qui le sensazioni sinestesiche, che garantivano nelle prove sopra descritte la conveniente esattezza
dei ricordi del materiale ritenuto, vengono a convertirsi in qualcosa del tutto apposto, e
incominciano a ostacolarne la ritenzione nella memoria. Quel lavoro di scelta di elementi essenziali,
saldi punti di riconoscimento, che ciascuno di noi compie nell'imprimersi in mente i vari volti
umani (processo che finora, è stato assai poco studiato dalla psicologia (7)), subisce in S. una
flessione evidente; e la percezione dei visi si assimila in lui a quella delle sempre diverse mutazioni
di luce e d'ombra, che si osservano quando, dall'alto d'una finestra, guardiamo al tremolio delle
onde d'un ,fiume. E chi saprebbe, infatti, imprimersi nella memoria delle onde tremolanti?
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Non meno stupefacente potrà sembrare l'altro fatto, che la memoria di brani letterari nella loro
interezza non si dimostrasse in S. troppo brillante.
Bastava che il racconto venisse letto rapidamente, perché subito egli tradisse un'espressione
preoccupata, ben presto cedeva allo smarrimento.
"No, così è troppa roba... Ogni parola mi desta delle immagini e queste irrompono una sull'altra, e
ne vien fuori un caos... Io non riesco a raccapezzare niente... eppoi, c'è di mezzo anche la vostra
voce... e per di più queste chiazze... E così, tutto mi si mischia insieme!"
Era questo che spingeva S. a leggere più lentamente, situando via via le immagini ai loro posti, e
sobbarcandosi in tal modo (come vedremo più innanzi) a un lavoro molto più arduo e sfibrante di
quello che compiamo noi tutti; in noi, infatti, non accade che, leggendo un testo, ogni parola susciti
tante immagini perspicue, e l'enucleazione dei principali capisaldi concettuali, apportatori del
massimo d'informazione possibile, si svolge con assai maggiore semplicità e immediatezza di
quanto S. non riuscisse a fare, con la sua memoria a base di immagini e di sinestesie.
"L'anno scorso - leggiamo nel resoconto d'una delle sue sedute (14 settembre 1936) - mi venne dato
il problema: "Un commerciante vendette tanti metri di tessuto..." Non appena sentii pronunciare
"commerciante e "vendette", ecco che vedo un negozio, col commerciante nascosto dietro al
bancone fino alla vita... Egli commercia in stoffe, e io vedo un avventore che mi sta voltato di
schiena... Io sto presso l'ingresso, l'avventore si sposta un pochino a sinistra, e io vedo la stoffa,
vedo un libro mastro, e tanti altri particolari che non hanno niente a che fare col problema... e così
l'essenziale mi sfugge... Ecco, ora un altro esempio. L'anno scorso, sono stato presidente di
un'organizzazione sindacale, e dovevo appianare dei conflitti di lavoro. Vengono a riferirmi di
comizi tenuti a Taskent (Tashkent), nel circo equestre, poi a Mosca, e così sono costretto a
trasferirmi mentalmente da Taskent a Mosca... Vedo ogni particolare, ma è tutta roba che debbo
metter da parte, tutta roba superflua, giacché in realtà non ha nessuna importanza dove quelli si
siano messi d'accordo, se a Taskent o in qualche altro posto; l'importante è quali condizioni siano
state stabilite. E allora io mi trovo nella necessità di stendere come un grande lenzuolo, che tenga
nascosto tutto il superfluo, cosicché nulla che non sia necessario mi appaia più alla vista..."
E' mai possibile imprimersi bene nella memoria e riprodurre un brano di lettura se, intorno alle parti
che lo compongono, rigoglia una simile quantità d'immagini, così facili a portar fuori strada rispetto
al contenuto fondamentale di questo brano?
L'arte di dimenticare.
Siamo giunti così all'ultimo problema che ci resta da chiarire, per avere un profilo completo della
memoria di S. E' un problema, di per sé, paradossale, non solo, ma la sua soluzione rimane confusa.
E tuttavia, non possiamo far a meno di affrontarlo.
Molti di noi pensano: come trovare un modo per migliorare la memoria? Nessuno si cura del
problema: quale il modo migliore per dimenticare? Nel caso di S., accade tutto il contrario. Come
imparare a dimenticare? Ecco il problema da cui egli è assillato più che da ogni altro.
Già in quanto si è detto sopra, circa le difficoltà di comprendere e di mandare a memoria un testo
letterario, si è incontrato questo problema. In un testo, i dettagli sono molti, ciascuno genera
immagini nuove, le immagini fan deviare dall'essenziale, e via via le parole ulteriori suscitano
nuove immagini: ne nasce un caos. In che modo liberarsene, non vedere più tutto ciò che complica
tanto la diretta comprensione del testo? Non vedere più, arrestare il pullulio delle immagini: così S.
stesso formulava il compito che gli si parava innanzi. Ma il suo lavoro di professionista della
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mnemonica lo poneva di fronte anche a un secondo compito: in che modo dimenticare, in che modo
scancellare le immagini, che ormai non servissero più?
Al primo dei due problemi, è relativamente facile dare una risposta. Nel suo lavorio sulla tecnica
delle immagini S. si perfeziona sempre più nell'abbreviazione di queste ultime, e i dettagli superflui
si ritraggono in secondo piano.
"Ieri sera, per esempio, ho ascoltato alla radio l'atterraggio di Levanevskij. Un tempo, avrei veduto
ogni cosa: l'aerodromo, folla, il recinto:.. Ora non più. Io non vedo l'aerodromo, mi è indifferente se
l'arrivo sia avvenuto a Tusino (Tushino) o a Mosca: vedo soltanto un piccolo spiazzo sul lastrico di
Leningrado, dove riesce più comodo accoglierlo... M'interessa di non perdere una parola di quanto
egli dice, ma dove la cosa si svolga, mi è indifferente. Se fosse stato un paio d'anni fa, avrei sofferto
a non vedere l'aerodromo, a non vedere tanti particolari. Ora mi piace, invece, di non vedere
nient'altro che l'essenziale: la cornice non ha importanza, mi appare solo quello che è necessario,
mentre tutte le circostanze collaterali non appaiono più: e questo costituisce per me un'enorme
economia."
"Io temo che sedute distinte non abbiano a confondermisi insieme. Perciò, mentalmente, cancello la
lavagna, e quasi la ricopro d'una pellicola assolutamente refrattaria alla vista e impenetrabile. E' una
pellicola che (si direbbe) srotolo fuori dalla lavagna stessa, tanto che ne avverto lo scricchiolio.
Quando la seduta ha termine, scasso ben bene tutto ciò che è stato scritto, mi discosto dalla lavagna
e, tra me, strappo via quella pellicola. Mi metto a discorrere e, intanto, è come se tra le mani
appallottolassi la pellicola... E tuttavia, non appena mi riavvicino alla lavagna, quelle cifre
potrebbero di nuovo apparire... Una minima associazione di tal genere, e neanch'io mi avvedrei più
di continuare la medesima tabella."
("da una lettera del 1939").
I tentativi di crearsi una "tecnica per dimenticare" ai quali nei primi tempi S. faceva ricorso, erano
quanto mai semplici; non sarebbe stato possibile - si chiedeva egli - procedere a un vero e proprio
"atto" di dimenticare, calato in un azione esteriore, magari "prendendo nota" di ciò che bisognava
dimenticare? Agli altri la cosa può sembrare strana, ma per S. era più che naturale.
"Per ricordare, la gente prende nota... A me, questo pareva ridicolo, e giudicavo la cosa dal mio
punto di vista: una volta che costui prende nota per iscritto, vuol dire che non aveva necessità di
ricordarsene, ché se gli fosse mancato il lapis, e non avesse potuto prender nota, allora se lo sarebbe
impresso nella mente! Dunque, se io mi annotassi per iscritto qualche cosa, saprei che non ho
necessità di ricordarmene... E, così, incominciai a far applicazione di questo in piccole cose: numeri
telefonici, cognomi, commissioni d'ufficio. Ma non ottenevo nessun risultato: continuavo a vedere,
mentalmente, la mia annotazione... Cercai pure di segnare le note su carta di tipo uniforme, e con
lapis dello stesso tipo: ma, pur sempre, non ne cavavo nulla di buono..."
Allora S. si spinse oltre: si mise a buttar via, e perfino a bruciare, le carte su cui stava scritto ciò che
doveva dimenticare. E qui c'imbattiamo per la prima volta in un fatto, a cui ripetutamente torneremo
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in seguito: la vivida immaginazione figurativa di S. non era nettamente separata dalla realtà, e ciò
che egli doveva fare interiormente sua coscienza, tentava di farlo con gli oggetti esteriori.
Ma la "magia del falò" non si dimostrò efficace quando, una volta, gettato nella stufa accesa un
foglietto tutto segnato di cifre, si avvide che sulla pellicola carbonizzata le tracce di quelle
rimanevano ancora, la disperazione lo assalì: dunque, nemmeno il fuoco poteva cancellare le tracce
di ciò che bisognava distruggere!
Il problema del dimenticare, non risolto dall'ingenua tecnica del falò, divenne così uno dei suoi
problemi tormentosi. E, a questo punto, sopravvenne una soluzione, la sostanza della quale restò
parimenti incomprensibile per lo stesso S., sia per chi studiava il suo caso.
"Una volta (era il 23 aprile) mi ero esibito a tre riprese in una stessa serata. Mi sentivo fisicamente
stanco, e cominciai a pensare come regolarmi con la quarta esibizione. Tra poco, le tabelle delle
prime tre esibizioni mi sarebbero potute sprizzare innanzi... Questo era per me un problema
terribile... Ecco, voglio proprio vedere se la prima tabella viene a sprizzarmi di nuovo, oppure no.
Quasi temevo che la cosa non accadesse. Volevo e non volevo. E così, mi metto a pensare: quella
lavagna non mi riapparirà più; e il perché è semplice: perché io non voglio! Ahàh... ma allora, se io
non voglio, quella non riappare più... Non c'era dunque altro da fare che prender bene coscienza di
questo!"
Incredibile, ma questo metodo diede i suoi frutti. Forse, qui, avrà avuto una parte la fissazione della
mente sull'assenza dell'immagine; forse si sarà trattato d'un rifiuto dell'immagine, d'una inibizione
di questa, aiutata dall'autosuggestione: ma a che scopo arrischiare congetture su quel che ci resta
oscuro? Certo è che il risultato fu evidente.
"D'improvviso mi sono sentito liberato. La consapevolezza che ormai, sono garantito dagli errori,
mi dà una maggior sicurezza. Discorro più liberamente, posso permettermi il lusso di fare delle
pause, so bene che, se non voglio, l'immagine non apparirà: e così, mi sento magnificamente..."
Ecco tutto quello che noi siamo in grado di dire della straordinaria memoria di S., del ruolo in essa
svolto dalle sinestesie, della tecnica delle immagini e della "tecnica cronologica", i cui meccanismi
ci restano tuttora oscuri...
E' giunto ora il momento di affrontare una nuova parte del nostro racconto.
Abbiamo esposto in che modo S. percepisse e mandasse a memoria ciò che lo colpiva, quanto
prodigiosamente esatti fossero i suoi ricordi, e quale straordinaria capacità di durata avessero le
immagini che insorgevano in lui; abbiamo preso visione della loro bizzarra struttura, e del lavorio
che egli doveva compiervi attorno. Ora, ci resta da fare un'escursione in quello che era il suo
mondo: nel suo pensiero, nella sua personalità.
Potrà rimanere senza peso, tutto ciò che si è detto fin qui, di fronte alla sfera delle sue percezioni, al
mondo in cui viveva? Pensava, egli, allo stesso modo che noi tutti pensiamo? Non si formavano
dunque, dentro di lui, nel suo comportamento, nella sua personalità, dei tratti peculiari, inconsueti
per qualsiasi altro uomo?
Stiamo per iniziare, come s'indovina, un racconto di cose meravigliose: e molte volte, di qui
innanzi, ci avverrà di sperimentare quell'impressione che provò la piccola Alice quando, passata
oltre la superficie dello specchio, si ritrovò nel misterioso paese delle meraviglie...
NOTE.
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VINOGRADOVA, "An objective investigation of the dynamic of semantic systems", in "British
Journal of Psychology", 1959, v. 50, pagine 89-105.
Nota 3: Per tale tecnica della "dislocazione" e della "lettura visiva" per immagini, S. si trovava assai
vicino a un altro mnemonista, il giapponese Ishihara. Confronta TUKASA SUSUKITA,
"Untersuchungen eines ausserordentlichen Gedächtnisses in Japan", in "Tohoku Psychologica
Folia", Sendai, 1933-1934, pagine 15-42, 111-134.
Nota 4: Il Soviet di Mosca.
Nota 5: Confronta A. N. LEONTJEV, "Razuitie pamjati" [Lo sviluppo della memoria], Mosca,
1931, "Problemy razvitija psickiki" [Problemi dello sviluppo della vita psichica"], Mosca, 1959.
Inoltre, A. S. SMIRNOV, "Psicologija zapominanija" [La psicologia della memoria], Mosca, 1948,
e altri.
Nota 6: Vi sono testimonianze che una memoria affine a quella qui descritta distinguesse anche i
genitori di S. Il padre - proprietario in passato d'un negozio di libri - ricordava facilmente, a dire del
figlio, il posto in cui ogni libro si trovava, e la madre sapeva citare lunghi versetti della Torah. Una
comunicazione (risalente al 1936) del prof. P. Dahle che si è occupato della famiglia di S., segnala
che una memoria non comune si è rivelata anche in un suo nipote. Tuttavia, testimonianze
abbastanza sicure sulla natura genotipica della memoria di S. non sono in nostro possesso.
Nota 7: Basterà menzionare il fatto che lo studio dei casi di alterazione patologica della facoltà di
ravvisare le persone (la cosiddetta "agnosia" delle persone o "prosopagnosia"), casi segnalati in gran
numero negli ultimi tempi sulla stampa neurologica, non è ancora giunta a nessun punto fermo per
una comprensione di questo processo quanto mai complicato.
Il suo mondo.
L'uomo vive in un mondo di cose e d'altri uomini. Egli vede degli oggetti, ode dei suoni. Percepisce
delle parole...
Accadrà in S., tutto questo, come in qualsiasi uomo normale? O il suo mondo sarà completamente
diverso nostro?
La singolare memoria di S. crea subito un vantaggio: si serbano in essa i ricordi di quei lontani,
primissimi periodi della sua vita, che invece, in ciascuno di noi, o non sono rimasti impressi, o sono
stati espulsi dall'enorme quantità delle impressioni successive, oppure si sono depositati in quello
stadio in cui ancora non aveva terminato di formarsi il discorso, strumento fondamentale della
nostra memoria.
Che cosa resta a nostra disposizione, dei ricordi della prima infanzia? Poche immagini confuse,
evanescenti... Una figurina incollata al coperchio d'un baule; i gradini d'una scala dove a quei tempi
si stava seduti; la sensazione della sciarpa di lana, che ci avvoltolavamo intorno al collo...
Ma il mondo dei ricordi di S. è incomparabilmente più ricco del nostro: e la cosa non può stupirci.
La sua memoria, infatti, non si è trasformata in quel semplice apparato di elaborazione verbale delle
informazioni, a cui da un pezzo si è ridotta in noi; essa ha conservato quei caratteri d'immediata
insorgenza delle immagini, che le erano proprie nel primo periodo di formazione della coscienza.
Possiamo credere più o meno a ciò che egli ci racconta, e fare a volte dei tentativi di verificare
quanto gli sentiamo dire, anziché credervi ciecamente. Ma dobbiamo ascoltare con tutta l'attenzione
possibile le scene che ce ne sorgono innanzi, e nutrire il massimo interesse, se non per i fatti in se
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stessi (dei quali si può sempre dubitare), per quello stile in cui ci vengono riferiti, che è quello tipico
di S. Passiamo senz'altro a esaminarlo.
"Ero ancora piccolissimo, non avevo forse neanche un anno... Più chiaro d'ogni altra cosa mi risale
alla memoria l'arredamento che avevo intorno... Non ricordo l'arredamento di tutta la stanza ricordo
quello dell'angolo dove si trovavano il letto di mia madre e la culla. La culla era una specie di
lettino con le balaustrine alle sponde e, sotto, due assicelle arrotondate, su cui dondolava... Ricordo
che il parato della camera dava sul marrone, il letto era bianco.. Ecco mia madre che mi prende su e
poi mi posa di nuovo: io sento quel movimento... Ho un'impressione di calduccio e una sgradevole
impressione di freddo... Chiarissimo, poi, è il ricordo della luce: di giorno era 'così', più tardi, 'così'
(questo, al crepuscolo), e ancora più tardi, la luce gialla della lampada... e allora diventava 'così'".
("agosto 1934").
Fin qui, non si esce dai limiti di quelle immagini che possono facilmente affiorare in chiunque, con
maggiore o minore vaghezza.
Ma ecco subentrare nel racconto delle note ben diverse. Le immagini nette si ritirano in secondo
piano, e sorgono quelle confuse esperienze sinestesiche, nelle quali le percezioni e le sensazioni non
hanno limiti, le immagini del mondo esterno vengono sostituite da impressioni sfocate, tutto diviene
labile, confuso, ed è difficile esprimere a parole quel che si prova.
"Mia madre mi si è impressa dentro così: prima che io cominciassi a ravvisarla, era 'qualcosa che
faceva star bene'. Senza forma, senza volto, è una cosa che si curva su me, e dalla quale mi verrà del
bene... Vedevo mia madre come quando si guarda nella camera d'un apparecchio fotografico:
dapprima non si scorge nulla, tranne una nuvoletta tondeggiante, una chiazza... poi appare un viso...
poi i tratti del viso acquistano nettezza... Mia madre mi prende su... Io non mi accorgo delle sue
mani: c'era solo un'impressione che, dopo l'apparizione di quella chiazza, qualcosa sarebbe capitato.
Sono preso in braccio... E allora sì, mi accorgo di quelle mani... Mi è subentrato un senso tra
gradevole e sgradevole... Evidentemente, quando mi asciugavano, lo facevano con rudezza, e mi
riusciva sgradevole... o quando mi tiravano su dal lettino... Specialmente la sera... Io sto giù disteso:
è così... Tra poco, sarà 'così'... E io mi spavento, piango e, piangendo, mi metto a piangere più forte
che mai... Solo più tardi cominciai a capire che, dopo quel 'così', sarebbe seguito un rumore... e poi,
silenzio. Avevo sentito il pendolo."
("agosto 1934").
"Mia madre, la vedo vividamente e con chiarezza: è una nuvoletta, poi una cosa piacevole, poi un
viso, poi un movimento... Mio padre, lo riconoscevo dalla voce... La mamma mi dondolava da un
lato della culla e mio padre, dondolando anche lui, mi parava la luce dall'altro lato. Probabilmente,
ogni tanto, mi si accostava più da presso, giacché su me si faceva buio, chinandosi egli dal lato della
luce...
... Questa era poi, quasi sicuramente, la vaccinazione del vaiolo... Ricordo una massa di nebbia, dei
colori, so che c'era frastuono: forse un chiacchiericcio, o roba del genere... Dolore, però, non ne
sento... Mi vedo sul letto di mia madre, dapprima la testa verso il muro, poi verso la porta. Il rumore
della voce, io già lo riconosco: ebbene, so che, dopo questo, ci sarà un rumore, probabilmente il mio
pianto... Mi si affaccendano torno: dopo di che, rumore, nebbia: e dopo, deve venire "quella tal
cosa" e "quella tal altra".
...Per me, non si poteva chiamare un'impressione del lettino bagnato. Io non sapevo se fosse bene o
male... Ricordo in che modo, nel lettino, si faceva umido: era dapprima una sensazione piacevole, di
tepore, poi sopravveniva un senso di freddo... un non so che di spiacevole che mi scotta, e io mi
metto piangere... Non mi castigavano per questo... Ricordo un momento: dormivo con mia madre,
ma ero già capace di scendere dal letto. Sento la voce di lei... Da parte mia, forse, sapevo appena
balbettare...
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Ed ecco, ancora: è qualcosa di sgradevole: sento freddo... il senso d'una macchia... come quando mi
mettono sul vasetto accanto alla porta e alla stufa... Piango: quando mi mettono sul vasetto per
forza, mi pare che mi passi la voglia di farne uso. Ne avevo paura... All'interno era bianco,
all'esterno verdognolo; al centro, sulla vernice a smalto, c'era una grossa macchia nera. Io pensavo
che quella macchia fosse come uno scarafaggio sul muro. Credevo che fosse "lo scarabeo"."
("16 settembre 1934").
Non è facile dire se un racconto simile rimandi alle sensazioni della prima infanzia, o rispecchi quel
tipo di sensazioni che appunto attualmente era peculiare di S., seduto lì dinanzi a me. E' possibile
rispondere sia in un senso sia nell'altro: e sarebbe sterile rompersi il capo a voler arzigogolare su
questo.
Una cosa è indubbia: che un tale tipo di sinestesi diffusa - che in qualsiasi uomo adulto (a dire dei
neurologi) caratterizza esclusivamente le più primitive forme "protopatiche" di sensibilità - si
conserva nelle esperienze di S. anche ulteriormente, e investe, si può dire, tutte le forme delle sue
sensazioni. Ecco per quale ragione è difficile trovare un confine che divida, in lui, una forma di
sensazione dall'altra, le sensazioni dalle esperienze.
"Avevo dieci o undici anni, e stavo cullando la mia sorellina. Eravamo molti figli, io ero il secondo,
e così cullavo i più piccoli.. Avevo già cantato, quella volta, tutte le cantilene e bisognava cantare
forte, ci voleva una nebbia per far venire il sonno... Ma come mai ci metteva tanto, la sorellina, per
addormentarsi? Socchiudo gli occhi, e mi provo a intuire perché mai non si addormenterà. Alla fine,
indovino: forse, sarà anche qui "lo scarabeo"? Tolsi su, allora, un asciugamano e le bendai gli
occhi... E lei si addormentò."
("16 ottobre e 1934").
Non c'è forse, in questo brano, tutto ciò che ci interessa di più, da quel sinestesico "bisognava
cantare forte, ci voleva una nebbia per far venire il sonno", a quelle infantili vaghe impressioni di
terrore, a quel tentativo di penetrare nelle impressioni d'un altro, chiudendo gli occhi e
rappresentandosi i motivi da cui l'altro è angosciato (punto su cui torneremo ancora in seguito)? E si
badi bene, tutto questo - a credere a S. - in un ragazzo di dieci, undici anni!
No, non solo in un ragazzo... Sono tutte cose rimaste fino ad oggi nella coscienza di S.: e quante
impressioni sinestesiche ed esperienze diffuse possiamo ritrovare in lui, se analizziamo ciò che
tanto spesso ci si offre nella sua sfera percettiva, e che caratterizza la sua coscienza!
Eccone qualche esempio soltanto.
"A questo punto ha squillato un campanello... mi è rotolato qualcosa di tondo dinanzi agli occhi,
una specie di gomitolo, e poi, un gusto di sale... e un non so che di bianco..."
Qui c'è tutto: lo squillo suscita, in modo immediato un'immagine visiva: esso è fornito di qualità
tattili, d'un colore bianco, ed è salato al gusto. Sinestesie cosiffatte si conservano in tutte le
sensazioni, in tutte le esperie del mondo esterno.
"... Sto seduto in un ristorante, e l'orchestra suona... Sapete perché c'è musica, lì? Perché, con la
musica, tutto cambia di sapore... E, se si sa sceglierla come si deve, tutto diventa gustoso... Chi tiene
i ristoranti, deve saperlo benissimo."
E ancora:
"... Io ho sempre di queste impressioni... Montare su un tram? Sento nei denti uno stridio... Ecco che
mi vado a prendere un gelato, per starmene un po' seduto, mangiare e non udire più quello stridio.
Mi avvicino alla gelataia e le domando che cosa ha di buono: "Un sorbetto con frutta candita!" mi
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risponde lei, con una voce come se un mucchio di carbone, di scorie nere, le fosse sgorgato dalla
bocca: e io non posso più prendere quel gelato perché lei ha risposto così... Eppoi, ancora: quando
mangio, io resto ben poco aperto alle percezioni: se leggo, il sapore del cibo mi soffoca il
significato."
("22 maggio 1939").
"... Scelgo i cibi secondo il suono. E' ridicolo a dirsi: la maionese è molto gustosa, ma quelle 'esse'
dolce ['majonez'] guasta tutto il sapore: la 'esse dolce' è un suono antipatico... Per gran tempo non
mi e stato possibile mangiare i francolini di monte: "francolino", infatti, è qualcosa di saltellante... E
se, nel menu, ci sono errori di scrittura, io non posso più mangiare: mi sembra che il piatto sia così
vecchio, logoro...
Sentite che cosa mi è successo... Entro nella sala da pranzo. Mi dicono: "volete dei 'korziki'
(pronuncia Korgiki) [una specie di 'chiffel']?" e mi portano dei panini... No, questi non sono
'korziki'! I 'korziki' sono così ben cotti, croccanti, pungenti..."
Tutto il mondo di S., insomma, non è come il nostro. Non ci sono, in esso, confini ai colori e ai
suoni, alle sensazioni di gusto e a quelle di tatto. Suoni lisci e freddi, luci scabre, tinte salate, odori
chiari, luminosi, pungenti: e, tutto questo, intrecciato, mescolato insieme, tanto che ormai è difficile
separare una cosa dall'altra...
Ma siamo giunti, così, a un altro tema, e ad esso passeremo subito. Come si manifestano le
sinestesie di S. nella percezione delle parole? Che cosa significano le parole per lui? Anche ad esse
si mescoleranno quelle stesse impressioni sinestesiche, che dei rumori facevano "globi di fumo", e
mutavano il gusto del cibo, se il nome d'una pietanza veniva pronunciato da una voce "sgradevole"
e "pungente"? In che modo si costruisce in S. il significato delle parole?
Le parole.
Il significato delle parole... Questo è per noi, del resto, un problema non del tutto nuovo: già lo
abbiamo incontrato un paio di pagine indietro... Lo "scarabeo"! Qual era, in S., l'intima
appercezione di questa parola, che nella sua applicazione primitiva notava lo scarafaggio, ma poi
aveva assunto un così ampio senso traslato?
""Lo scarabeo" (1): è una scrostatura del vasetto da notte... Queste scrostature sono di color nero...
Di sera, col comparire dei lumi, compare anche "lo scarabeo"... Infatti, non tutto è illuminato, la
luce della lampada cade soltanto su un piccolo spiazzo, intorno è buio: ed ecco "lo scarabeo"... I nei
pelosi, anche quelli sono "lo scarabeo"... Ecco che io vengo posto dinanzi allo specchio: c'è
rumore... ridono... Ed ecco là nello specchio, i miei occhi, scuri: è, ancora una volta, "lo scarabeo".
Ora sto coricato nella culla; poi nasce un gridio, un fracasso, minacce... Stanno bollendo qualche
cosa nella teiera smaltata... nonna, sta facendo il caffè. Essa lascia cadere qualcosa di rosso e lo tira
fuori... "lo scarabeo!" Il carbone, anche quello è "lo scarabeo"... Ecco che accendono le candele del
Sabato: la candela arde sul candeliere, il residuo di stearina non si scioglie, lucignolo tremola,
diventa nero... Io ho paura, piango: a questo è "lo scarabeo"... E quando mescevano il tè
trascuratamente, e dentro ci capitavano frammenti di foglioline... ecco: nel piattino: era di nuovo "lo
scarabeo"."
("16 settembre 1934").
Oh, sono tutte cose che gli psicologi conoscono già così bene! Stumpf, per esempio, osservando il
suo figliolino, notò come, per lui, un "kva" fosse insieme un'oca e un'aquila e la moneta stessa su
cui quest'ultima era e effigiata... O quel tanto noto "kch", con cui il bambino denota sia il gatto, sia
la sua pelliccia, sia la pietra aguzza che l'ha sgraffiato!
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Sì, nei racconti di S. c'è un che di autentico, di aderente alla realtà, che ci fa ritornare agli anni
lontani de prima infanzia.
L'ampia capacità di traslato delle parole infantili ci è dunque ben nota (2): in S., però, anche in
questi conosciutissimi motivi incominciano a intrecciarsi assai presto delle note nuove.
"... Ecco "mama", o "mame", come dicevamo da piccoli. E' una nebbiolina luminosa... Così "mama"
come tutte le altre donne, è qualcosa di luminoso... e il latte nel bicchiere, e la lattiera bianca, e la
tazza bianca, tutto insieme è come una nuvola d'un bianco luminoso... E ora ecco la parola 'ghiss'
(in ebraico "mesci!"); questa è apparsa più tardi, e denota una manica, qualcosa di stralciato, di
lungo, come quel rivoletto quando si mesce il tè... Nel samovar lucidato, il riflesso del viso è
anch'esso 'ghiss': risplende come il suono 'ss', ed è un viso allungato, come un rivolo d'acqua, come
il braccio che lentamente, nella sua manica, si abbassa verso di me, quando versano il tè nella mia
tazza..."
("settembre 1934").
Qui non abbiamo più di fronte, semplicemente, un'ampia dilatazione del significato d'una parola.
Infatti, una parola ha un dato senso, indica una certa connotazione, e tale connotazione viene estesa
ad altri oggetti, e la parola viene a indicare tutti gli oggetti in cui quella connotazione sia palese: si
tratta, fin qui, d'un processo arcinoto. Ma la parola è espressa da un complesso di suoni, vien
pronunciata da questa o da quella voce: ed ecco che il suono e la voce hanno anche un loro colore e
sapore, e suscitano "globi di fumo", "spruzzi", "chiazze", e, tra i suoni, gli uni sono lisci e bianchi,
gli altri color arancione, aguzzi come frecce: e i significati delle parole incominciano a rispecchiare
quei suoni che la parola pronunciata include in sé. Questa è ormai una forma diversa di estensione
dei significati verbali: è un'estensione che si attua secondo le peculiarità sonore - sinestesicamente
sentite - della parola.
Noi, di solito, facciamo astrazione dal modo in cui la parola suona: la distinguiamo dalle altre per il
significato fondamentale, convenzionalmente attribuitole. Ritraiamo forse una qualsiasi impressione
d'armonia o di contrasto, quando chiamiamo un albero "pino", un altro "abete", un terzo "betulla"?
Ben diverse erano le esperienze di S. Egli aveva l'acuta sensazione che ci sono parole in piena
armonia col loro contenuto, altre che bisogna correggere, e altre ancora il cui contenuto
manifestamente ne discorda, e che sono esclusivamente il prodotto d'un malinteso.
"... Avevo preso la scarlattina: di ritorno dal 'cheder', la testa mi doleva... Mia madre dice: "lui ha il
'chiz'" [la febbre]. Ben detto, questo! Il 'chiz' è una specie di lampo, qualcosa di abbagliante...
infatti, dalla testa mi esce un non so che di tagliente, di arancione... veramente ben detto!
... Ma, per esempio, 'cholz' (per legna), proprio non lega. 'Cholz' ha un alone chiaro, luminoso... E
qui, invece, sta per un pezzo di tronco! No, non va... qui c'è un malinteso!
Così pure, 'svinjà' [maiale]! E' possibile una cosa simile? 'Svinjà': è qualcosa di snello, di elegante...
Ben altro è il caso 'chavrònja' [in russo, più volgarmente: porco], o di 'chazer' [porco in ebraico].
Qui sì, con quelle 'ch-ch', il maiale c'è: grasso, col pancione, con le setole ispide, col fango rappreso
addosso: "'a chazer'!"
Ho cinque anni, mi hanno condotto al 'cheder': ma già da prima il rabbino era stato a casa nostra...
Quando mi hanno detto: "Tu andrai a scuola da Kameraz (Kamerag)", io ho subito indovinato che
c'era di mezzo quell'uomo con quella barba così scura, con la giubba lunga e il tubino. Era chiaro
che quello era "Kameraz"! Non gli stava bene, invece, quella parola 'rebe' [rabbino]. 'Rebe' è
qualcosa di bianco, mentre lui era così scuro...
E ora un altro esempio: Nabucodonosor (che in ebraico Nabuchadneizer)... No, qui c'è un equivoco!
Quello era tanto cattivo, era capace di fare a pezzi un leone: si sarà chiamato, piuttosto,
'Nabuchadreizer': così sì che gli starebbe bene! Quanto a 'spits' (shpitz) [guglia], sì, è giusto:
bisogna che sia una cosa smilza e aguzza... e anche 'dog' [molosso]: questo pure è comprensibile: è
un cane grosso, e così dev'essere...
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...E 'samovàr'! Indubbiamente, è un luccichio compatto: non proviene, però, dal 'samovàr', ma da
quella lettera 's'... I tedeschi invece, dicono 'Teemaschine': non va bene! 'Tee' è qualcosa di
cascante, ecco che viene giù... Ohi! Ho avuto paura che cadesse in terra... Come potrebb'essere mai,
insomma, un 'samovàr'?"
("16 settembre e 16 ottobre 1934").
Il contenuto della parola deve quindi armonizzare con suono che essa dà: se questo manca, S. è
capace di piombare nello smarrimento.
"Il nostro medico di famiglia era il dottor Tigher... "'Me darf rufen den Tigger'"... Io pensavo che
dovesse arrivare una specie di bastone alto alto, che si sarebbe ficcato giù in terra ("e" "r")... ma
chissà chi era? Mi risposero: il dottore!... E allora io vidi, "il dottore": tondeggiante, una specie di
pan pepato, delle nappine intorno, qualche cosa che penzolava all'ingiù... e appunto lo collocai su
quel bastone... Quando poi entrò stanza un buon tipo di zio d'alta statura, acceso in faccia, io lo
squadrai da capo a piedi... Macché, non si trattava davvero di quello!"."
("31 marzo 1938").
"... Stavo a scuola. Si leggeva di come Afanasij Ivanovitch e Pulcherija Ivanovna mangiassero dei
'korziki' (korgichi) ['chiffel'] col lardo... 'Korzik': io capivo che si trattava d'un cibo, ma... 'korzik'...
doveva essere di forma oblunga quel panino, doveva avere assolutamente una scannellatura, e la
crosta assolutamente abbrustolita! Trovandomi molto più tardi, nel 1931, in un caffè di Baku, che
cosa vedo scritto? "'Korziki' col lardo!" Se di 'Korziki' si trattava, bisognava che fossero fatti in quel
modo là, e non già diversamente. Ecco, invece, che mi portano il caffè con due focaccine. Io dico:
"Ho chiesto dei 'korziki'!". E la venditrice: "E appunto dei 'korziki' col lardo vi ho portato io!". Ma,
evidentemente, si trattava di tutt'altro: quelli lì non coincidevano neppure lontanamente..."
("ottobre 1934").
"Il significato d'una parola deve coincidere in pieno col suo suono. Il tedesco 'Mütter', chissà
perché, è un sacchetto scuro, color cannella, appeso in posizione verticale con delle pieghe... La
prima volta che lo sentii pronunciare; subito mi apparve così... Il suono vocalico, in una parola, è la
cosa fondamentale, mentre quello consonantico ne forma lo sfondo: io vedo, dunque, una sinuosità,
ma la 't' e la 'r' qui sono dominanti... mentre per esempio 'Milch' è una specie di cordino con un
borsello... 'Löffel' [cucchiaio] è un che d'intrecciato... e 'maim' [in ebraico: acqua] è una nuvola e
quella 'm' si allontana anch'essa chissà dove."
("ottobre 1934").
Grandi difficoltà incontrava S. nei tentativi di adattare il contenuto della parola al suo suono: e
questa infantile sinestesi delle parole rimase in lui ancora per lungo tempo.
"La parola, secondo il suono che dà, possiede un certo aspetto e colore, mentre il significato ha un
altro aspetto e peso, suona altrimenti... Di tutto questo bisogna tener conto perché io possa applicare
la parola al momento e al luogo: da una parte, costituisce una complicazione, dall'altra, un metodo
mnemonico. Se io, in quel momento, penserò al fatto che possiedo questa strana singolarità, e che
debbo adattarmi a quanto mi circonda, si avrà un risultato; se, invece, non ci penserò, potrà darsi
che io faccia l'impressione d'un uomo limitato, ottuso, sconclusionato..."
("16 ottobre 1934").
Una simile percezione sinestesica della parola, per cui il suono è altrettanto determinante del
concetto quanto il significato, ha anche un altro aspetto. Se alcune parole vengono percepite come
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non rispondenti al concetto, tali da portare in un vicolo cieco, e da ostacolare la percezione suono di
altre viene a dar loro espressività. L'impressione che S. ha delle parole, diventa la misura della loro
espressività. Non per nulla conversava con lui con tanto interesse S. M. Ejzenstejn, il quale, della
psicologia dell'espressività, aveva fatto il compito centrale della sua vita.
"... In una bottega di salumaio si era intrufolato un ragazzetto, e aveva sottratto dalla cassa una
moneta da mezzo rublo ['poltinnik]. Io non sapevo ancora che cosa fosse un 'poltinnik': doveva
essere un oggetto oblungo, inerte, scuro, giacché 'p', 'i' e 't' sono (non è vero?) suoni scuri... Il
bottegaio gli diede un 'paz' (in ebraico: schiaffo). Io capisco che 'paz' è una brutta parola... e poi
ecco, ancora, un 'frask' (altra variante per schiaffo, quando questo rimbomba), e poi un 'chljask'
(altra variante della stessa parola, quando i denti scricchiolano)..."
("maggio 1936").
Ma forse l'esperimento più significativo, per la per la percezione dell'espressività del suono, si ebbe
quando S. fu invitato a definire la differenza tra le varianti d'uno stesso nome di persona: Masa
(Masha), Mànja, Marúsja, Meri (Mary), in che cosa questi nomi differiscono?
"... Anche ora che sono un adulto, io li percepisco in modo diverso. Maríja, Masa, Meri: macché,
non sono mica la stessa cosa! Mànja, a quella tale, le sta bene, ma Marúsja e Meri, proprio no. Mi ci
è voluto molto tempo a rendermi conto che una stessa donna si può chiamare così. Ma poi, anche
adesso, non riesco ad esserne ben persuaso... "Maríja": è una donna d'aspetto posato, pallida,
biondina, di colorito delicato, di movimenti calmi, con due occhi perfidi... "Màrja": questa è
d'aspetto simile, ma piena, con le gote accese, grossa di petto... "Masa": è un po' più giovane, vestita
di rosa, di carni morbide... "Mànja" è decisamente giovane, diritta e ben fatta, fors'anche una
brunetta, coi tratti del viso ben netti, naso e guance senza nulla di particolare. Non riesco a capire
come possa esistere una "zia Mànja".
"Ma perché dev'essere giovane? - domando a S., ed egli mi risponde: - Il suono 'n' è nasale... Mah,
non saprei dire... certo è però, che è giovane... mentre 'Músja', per esempio, è tutt'altra cosa... Qui
salta agli occhi una pettinatura vistosa, la statura è sempre piccolina, c'è nella donna una certa
rotondità: dev'essere per quella lettera 'u'... 'Meri', invece, è un nome molto asciutto....
"Qualcosa di scuro al crepuscolo, siede alla finestra... E quando mi dicono: 'hai visto Masa?', io lì
per lì non mi capacito che quella là possa essere Masa... Eh, Masa, Mànja, Marúsja, non sono la
medesima cosa! A volte mi riesce assai difficile abituarmi al fatto che una data persona porti uno di
questi nomi, mentre altre volte, sì, non c'è dubbio: questa sì che è Masa!.""
Tutti sanno quanto sia squisita nei poeti la sensibilità per l'espressività del suono. Ricordo che S. M.
Ejzenstejn, facendo una selezione fra gli studenti per l'ammissione ai corsi di regista nell'istituto per
il cinema, diede loro per tema che descrivessero come vedevano "Maríja", "Meri" e "Marúsja". E,
nello scegliere coloro che avevano un senso vivo dell'espressività delle parole, si trovava a non aver
mai sbagliato.
Di tale facoltà, S. era dotato in grado altissimo: la espressività dei suoni era da lui percepita in modo
infallibile, riflettendo delle caratteristiche espressive che, nei suoni, sono universali.
E' quindi naturale che delle parole che, alla nostra coscienza, appaiono sinonimi, avessero per lui
ciascuna il suo significato distinto.
"... Il ladro e il furfante... Il ladro ['vor'] è un tipo pallido pallido, vestito poveramente, una tasca
strappata, le guance cascanti, patito, senza cappello, i capelli come paglia... Tutto è quell''o', quell''o'
così prolungato: 'vo-or': è qualcosa di grigio, di squallido... e per giunta, poi, gli ebrei non
pronunciano bene la 'erre', cosicché ne vien fuori un 'voch': una cosa, insomma, completamente
grigia. Il furfante ['zulik' (giulik)], questo no, è tutt'altro... E' un tipo con le guance rigonfie, lustre,
gli occhi sfrontati, sul naso una cicatrice... Prima, quando ero piccolo, io pronunciavo 'zzulik': era
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un bassino, tarchiato, compatto: 'zz'... c'era una mosca che ronzava, mi pareva che stesse lì alla
finestra... ma poi ho inteso correttamente: zulik, e allora è cresciuto di statura.
... Quanto poi a 'chanef' [in ebraico: ladro], è quando, di sera una stanza è semibuia, che ancora non
si è acceso il lume, e si sente un fruscio, e quello prende un pezzo di pane del palchetto... Dove,
precisamente? Dev'essere in casa nostra, in dispensa...
Del 'vor' potrei avere pietà, ma del 'canef', mai più! Al 'zulik' si potrebbe perdonare, ma al 'zulik', a
quel muso massiccio?! Di solito, per gli altri, tutto dipende da come uno è vestito, e per me, invece,
da come lo vedo, dal viso.
...Ed ecco, ancora: 'chvorat' [essere infermo] e 'boljet' [star male]: sono due cose diversissime.
'Boljet' è una cosina da poco, ma 'chvorat' è grave. 'Chvoroba' [stato d'infermità]: che parola grigia,
ti cade addosso, ti ricopre! "Egli è seriamente malato ['bolen']": sì, questo può andare: 'bolezn'
[malattia] è una nebbia che può uscire da un uomo e circondarlo tutto... Ma, quando si tratta di
'chvorat', allora egli se ne sta coricato giù giù 'chvorat' è assai peggio: "Lui 'prichvaryvaet" [è
malaticcio]: cammina e 'prichramyvaet' [zoppica]... ma queste sono cose che la comunanza di suono
non lega: sono cose completamente diverse..."."
("31 marzo 1938").
Ma, a questo punto, noi stiamo già oltrepassando il limite di una semplice "fisiognomica delle
parole", ed entriamo in un campo diverso, del quale ormai ci dovremo occupare...
La sua mente.
Abbiamo esaminato, finora, la memoria di S., e compiuto una fuggevole escursione in quello che è
il suo mondo. Ce n'è venuta la dimostrazione che questo mondo è, per molti lati, diverso dal nostro.
Abbiamo veduto che si tratta d'un mondo d'immagini vivide e complesse, d'impressioni
difficilmente esprimibili in parole, nelle quali una sensazione sfuma impercettibilmente nell'altra. E
abbiamo veduto come sono costruite le parole che egli percepisce, e quale lavorio egli debba
compiere per enucleare il loro autentico significato.
Ma quale, in modo più preciso, è la struttura della sua mente? Che cosa caratterizza i suoi processi
cognitivi? Come si svolge in lui l'apprendimento delle cognizioni, e tutta la complessa attività
dell'intelletto? In che si distingue il suo pensiero dal nostro?
Qui entriamo di nuovo in un mondo di contraddizioni, nel quale i vantaggi e le superiorità d'un
perspicuo pensare per immagini s'intrecciano coi suoi difetti, e dove, in modo davvero stupefacente,
la sovrabbondanza si associa con la povertà.
Cercheremo di descrivere, a un tempo, la forza e la debolezza d'una mente cosiffatta: potremmo
trovare, in questo, molto d'istruttivo.
Lo stesso S. dà al suo modo di pensare la definizione di "visività mentale". Certo, non c'è in esso
proprio nulla di comune col ragionamento astratto e speculativo dei filosofi razionalisti... E' una
mente, questa, che lavora con l'appoggio della facoltà visiva, secondo una "visività mentale".
Ciò che gli altri pensano, ciò che vagamente si rappresentano, S. lo vede. Sorgono dinanzi a lui
immagini chiare, la cui consistenza sinestesica confina con la realtà: e tutto il suo pensiero si riduce
a un insieme di operazioni, eseguite ulteriormente su codeste immagini.
E' naturale che una così perspicua capacità di visione importi una serie di vantaggi (alla serie degli
altrettanto sostanziali difetti torneremo più innanzi). Essa fa che S. disponga d'un più completo
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orientamento nell'informazione del mondo esterno, non si lasci sfuggire il minimo particolare, e a
volte possa rilevare certe contraddizioni, che l'autore stesso non aveva notate.
"... Ecco un esempio di come, spesso e volentieri, io mi accorgo delle contraddizioni. Tutti avete
letto quel racconto di Cechov (Tchechov). Il 'malintenzionato'. Ebbene, che ne dite: c'è, lì, nessun
punto che non vada? Ascoltate: il giudice istruttore dice al contadino: "Ah, e tu pretenderesti di non
saperlo, che ci vogliono dadi per fissare i binari alle traverse?" Vi pare giusto, questo? No? Però, In
Cechov, così c'è scritto. Il fatto è che io vedo la cosa, e vedo che non corrisponde a verità! Torno a
leggere: macché, i dadi, qui, proprio non ci fanno!
... E chi ha letto 'Il camaleonte'? "Ocumelov (Otchumenov) uscì di casa col mantello nuovo...". Poi,
una volta uscito, alla vista di quella tal scena, egli dice: "Suvvia, brigadiere, toglimi il paltò...". Io
penso di essermi sbagliato: riguardo il principio: sì, là c'era proprio 'mantello'... O si è sbagliato
Cechov, o io non sono più io... E ancora un altro esempio: prendete 'Il grasso e il magro'. I liceali
d'un tempo portavano la divisa, e lì è detto: "dapprima, egli sentiva un certo impaccio a portare il
cappello": ['sapka' (shapka)], e poi "sentendo d'essere un generale, si raggiustò il berretto" ['furazka'
(furagika), berretto a visiera e di ordinanza]. Tratti di questo genere si possono riscontrare sia in
Cechov, sia in Solochov (Sholochov). Gli è che loro non vedevano la cosa, mentre io la vedo..."
("15 marzo").
Indubbiamente, il carattere di perspicuità dell'appercezione del testo crea delle condizioni, che negli
autori del "Malintenzionato" o del "Placido Don" erano assenti. Essi esponevano un'idea e
sviluppavano un soggetto; S., invece, vede, e quindi non può non constatare le contraddizioni, se
nel testo ve ne sono. Per lui non c'è bisogno di affinare l'osservazione: questa costituisce già una
caratteristica imprescindibile della sua mentalità.
E la "visione" perspicua lo esentava anche da altro che dallo spirito di osservazione. Lo aiutava,
altresì, a risolvere con invidiabile facilità certi problemi pratici, che, da chiunque di noi, esigono
lunghi ragionamenti, mentre egli li risolveva agevolmente, con la sua "visività mentale".
Nel tortuoso cammino della vita gli avvenne di occuparsi, una volta, nientemeno che della
razionalizzazione del lavoro nelle officine: e con quanta facilità gli si presentavano le trovate giuste!
"Tutte le mie scoperte avvengono in modo semplicissimo... Non ho davvero bisogno di rompermi la
testa: vedo dinanzi a me, semplicemente, quel che c'è da fare... Arrivo, per esempio, in una fabbrica
di articoli d'abbigliamento, e vedo le balle ammucchiate nel cortile: le balle stanno là, legate con
strisce di cimosa. Ed ecco che io, tra me e me, vedo l'operaio che lega quelle strisce: le avvolge
parecchie volte, la cimosa si spezza, e io sento il crepitio con cui scoppia... Vado oltre, e mi
sovviene di quell'elastico per chiudere le agende: quello sì andrebbe bene! Ci vorrebbe, però, un
elastico ben grosso... E allora io lo ingrandisco, lo ingrandisco, e vedo la camera d'aria di
un'automobile. A tagliarne tante strisce, sarebbe quel che ci vuole! E' una cosa che io vedo: e subito
propongo di farla.
... E ancora: vi ricorderete quando c'erano le carte annonarie, con quei tagliandi: c'erano delle
caselle con le cifre: rubli, copeche, eccetera. Cosa fare per rendere più facile staccarli, ed evitare di
perder tempo a calcolare in che modo staccare il tagliando necessario, senza girare intorno a troppi
altri? Io vedo un tizio... ecco, sta presso la cassa... è un furbacchione, e vuol fare in modo di
staccare furtivamente un tagliando... Lui stacca, e io sto a osservare. Macché non è così! Meglio
così, piuttosto! E trovo subito qual è il modo migliore! Ciò che gli altri riescono a fare solo per
mezzo di calcoli e sulla carta, io posso farlo con la visività mentale..."
("6 ottobre 1937").
Ammettiamo pure che molte di queste proposte non siano poi troppo pratiche: dove trovare, infatti,
tante camere d'aria di automobile, da poterle tagliare in anelli di gomma e introdurre così un nuovo
sistema d'imballaggio? Del resto, S. non si è mai distinto per praticità (e ne vedremo in seguito la
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ragione). Ma resta il fatto che, "quanto gli altri risolvono col calcolo e sulla carta", lui lo risolveva
con la "visività mentale": e qui stava la sua gran superiorità. La quale, in modo particolare, si dava a
conoscere in quei cimenti, che a noi riescono difficili appunto perché il "calcolo" verbale ci
impedisce la perspicuità della "visione".
"Ricorderete quel problema scherzoso: "C'erano su uno scaffale due volumi di 400 pagine ciascuno.
La tignola li traforò dalla pagina 1 del primo volume all'ultima del secondo. Quante furono le
pagine traforate?".
Voi, quasi di certo risponderete 800: e cioè, 400 del primo e 400 del secondo volume. Ma io "vedo"
immediatamente: no, furono traforate soltanto due copertine! Infatti, vedo tutto benissimo: eccoli lì,
dritti in piedi, i due volumi, a sinistra il primo, a fianco il secondo. Ecco il verme che attacca dalla
prima pagina e va verso destra. Là c'è unicamente la copertina del primo libro e poi quella del
secondo: e così, ecco che esso si trova all'ultima pagina del secondo libro... Sicché, in conclusione,
niente è stato traforato tranne le due copertine..."
("maggio 1934").
E con chiarezza anche maggiore i meccanismi di questo modo di pensare perspicuo risaltano nella
soluzione di quei problemi, nei quali i concetti astratti, da cui si prendono le mosse, entrano più
nettamente in conflitto con qualsiasi rappresentazione visiva. S. resta immune da tal genere di
conflitti: e ciò che noi, faticosamente, riusciamo a rappresentarci, egli agevolmente lo contempla.
"... Là, in via Bronnaja, avevamo una cameretta dove ci s'incontrava col matematico G. Lui mi
raccontava come risolveva i problemi, e mi proponeva di risolverne qualcuno anch'io: lui seduto al
tavolo, io in piedi. "Figuratevi - mi diceva - di avere dinanzi a voi una mela, e che questa debba
essere circondata con un cordino o con una correggiuola: si otterrà un circolo, con una determinata
lunghezza di circonferenza. Ora, a tale lunghezza di circonferenza, io aggiungerò 1 metro, e così
questa nuova lunghezza corrisponderà alla circonferenza della mela aumentata di 1 metro. Tornate
di nuovo a disporre il cordino intorno alla mela: è chiaro che, fra la mela e il cordino, resterà uno
spazio maggiore di prima..." Mentre egli mi viene dicendo così io vedo lì, di fronte a me, la mela mi
ci chino sopra, la circondo col cordino... Lui dice "correggiuola", e subito io vedo lì quel laccio di
cuoio. Quando mi ha parlato del metro, ho visto un pezzetto di questo laccio, anzi no, era tutto
intero, e l'ho disposto a cerchio, e nel centro ci ho collocato la mela. Ora lui mi dice: "Figuriamoci il
globo terrestre". E, sulle prime, io vedo il grosso globo della terra, anch'esso abbracciato torno torno
da una correggiuola, e poi i monti, i rilievi... "Ora, allo stesso modo, noi aggiungeremo alla
correggiuola un metro. Dovrà risultarne un certo intervallo di spazio. Quale sarà questo intervallo?"
La prima rappresentazione che mi faccio è un enorme globo terrestre. Io lo abbraccio: no, mi sta
troppo vicino. Lo allontano... lo trasformo in un mappamondo, ma senza piedistallo... No, neppure
così va bene: somiglia alla mela... Allora, a un tratto, la stanza dove ci trovavamo svanì, e mi
apparve un immenso globo in lontananza, a parecchi chilometri... Sostituisco il laccio di cuoio con
un cerchiello di acciaio: il compito è arduo: bisogna girare là attorno con precisione. Poi aggiungo
quel metro, e guardo l'intervallo di spazio che ne scaturisce. Quanto spazio c'è? Debbo rifletterci
sopra, farmene un concetto, per ridurlo alle misure in uso fra gli uomini... Accanto alla porta, mi dà
nell'occhio una cassetta io la trasformo a uso di globo e, attorno, ci giro la correggiuola. Fatto
questo, ci aggiungo un metro, attenendomi esattamente agli spigoli... Poi prendo la misura precisa,
taglio la correggiuola in quattro parti, e ciascuna risulta di 25 centimetri: per ogni pezzo della
correggiuola resta un sopravanzo: la lunghezza l'ogni lato della cassetta più una quarta parte...
Naturalmente a grandezza della cassetta è indifferente: se ogni lato misurasse 100o chilometri, io
dovrei aggiungerci sempre 25 centimetri. Abbiamo così 4 lati, e a ciascuno tocca una giunta di 25
centimetri... Ora discosto il laccio di cuoio dai fianchi della cassetta, e ne risultano per ogni lato
12,5 centimetri, cioè dappertutto il laccio dista dalla cassetta 12,5 centimetri.
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La cassetta potrebbe anche essere enorme, misurare un milione di centimetri di lato, ma sarebbe
sempre lo stesso: aggiungendo 1 metro, toccherebbero a ciascun lato 25 centimetri... E ora la
cassetta ritorna alla sua condizione normale. Io non ho che da togliere gli spigoli e trasformarla in
una figura rotonda... Ebbene, il risultato è sempre lo stesso... Ecco in che modo io ho risolto quel
problema."
("12 marzo 1937").
Il lettore vorrà perdonare la citazione troppo lunga; c'è per l'autore una giustificazione: il passo
citato serve ottimamente a dimostrare quali siano i metodi di "visività mentale", applicati da S., e
come tali metodi lo conducano a risolvere un dato problema per tutt'altre vie quelle da cui fa ricorso
chiunque operi "col calcolo e con la penna".
Noi che scriviamo, abbiamo passato molte ore con S. ad analizzare quali prerogative offrisse il
metodo della visività mentale nella soluzione dei problemi matematici; molte sono le cose che il
soggetto delle mie esperienze mi ha insegnate attraverso l'analisi del ruolo che, nella soluzione dei
problemi, rivestono le immagini perspicue.
Indubbiamente, i "calcoli carta e matita", ovvero in base a schemi intellettuali, non possono non
restare pur sempre il modo fondamentale di risolvere i problemi; ma, come spesso avviene nei
problemi in cui calcoli simili non poggiano su immagini perspicue, possono far deviare dalla
soluzione giusta, o sostituire una forma semplice di soluzione con un'altra complessa e
antieconomica.
Chi non sa quanto può apparire difficile un problema, che in fondo è semplice, come questo: "Un
mattone pesa 1 chilo, più tanto quanto è il peso della metà del mattone. Quanto peserà il mattone?"
Sarà molto probabile che chi si concentra esclusivamente sui numeri, dia la risposta erronea: 1,5
chili! Scivoloni di questo tipo, di rimando a domande formali, restano completamente estranei a S.,
anzi erano per lui addirittura impossibili. La forma di soluzione "mentale visiva", che gli era
propria, e che lo teneva sempre ben a contatto con gli oggetti, collegando i numeri a cose perspicue,
non gli permetteva soluzioni formali: e i problemi che negli altri provocano una situazione di
conflitto, si svolgevano in lui senza le difficoltà che tali conflitti derivano.
"... Mi viene proposto il problema: "Un libro rilegato costa 1 rublo e 50 copechi. Il libro costa un
rublo più della rilegatura. Quanto costa il libro e quanto la rilegatura?". Io ho risolto questo
problema in modo semplicissimo. Ho sul mio tavolo un libro con la rilegatura rossa: il libro costa
un rublo più della rilegatura. Strappo via dal libro una parte, e penso che essa abbia il valore di 1
rublo... Rimane una parte del libro che è pari al valore della rilegatura, 50 copechi. Poi attacco
questa parte al resto, e ne risulta 1 rublo e 25 copechi.
O ancora: un ingegnere mio amico mi diede il problema: "Un padre e un figlio, presi insieme, hanno
47 anni; quanti ne avevano 3 anni fa?". Io vedo il padre che tiene il figlio per mano: hanno in tutto
47 anni. Ci sono con loro anche un altro figlio e un altro padre. Io tolgo 3 anni a ciascuno dei due...
Mi figuro che bisogna fare il doppio di questo. Moltiplico per 2, il risultato è 6: e sottraggo appunto
6."
("12 marzo 1937").
Come si vede, le immagini perspicue delle cose preservano dagli errori d'una soluzione formale dei
problemi, e S. resta immune dalla tentazione di sostituire la soluzione autentica con un'operazione
di calcolo numerico formale.
Faremo, ora un altro passo, e osserveremo in che modo, con la "visività mentale", si risolvono dei
problemi ai quali, comunemente, si applica il calcolo convenzionale.
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"Problema: "Un'agenda costa 4 volte la matita. La matita è di 30 copechi meno cara dell'agenda.
Quanto costano, rispettivamente, l'agenda e la matita?".
S. risolve il problema così. Sul tavolo appare un'agenda, e con essa 4 matite (disegno la):
(descrizione del disegno: a) un quadrato che rappresenta l'agenda, a fianco 4 linee orizzontali che
rappresentano le matite; b) un quadrato, a fianco una linea segnata 30 copechi, 3 linee.)
Una matita è di 30 copeche meno cara dell'agenda... Tre matite, come superflue, vengono spostate
verso destra (disegno b), e cedono il posto al loro equivalente in denaro. Al seguito di queste
immagini, appare la raffigurazione delle due cifre 10 e 40... Si dà così risposta a quanto costassero
l'agenda e la matita separatamente."
("da appunti di S.").
E' facile scorgere quanto rapida e agevole sia la soluzione "mentalmente visiva" d'un problema là
dove, per via logico-verbale, la sua soluzione richiederebbe l'integrazione di calcoli astratti.
E ancora più netta risalta la preminenza dei metodi "mentalmente visivi", quando si tratti di
risolvere problemi di maggiore complessità. Ci soffermeremo a darne due esempi:
"Viene dato a S. il problema: "Un saggio e un viaggiatore sedevano in una radura. Il viaggiatore
aveva 2 pani, il saggio 3. Essendosi avvicinato loro un passante, essi gli offrirono da mangiare, e
divisero il pane in tre parti uguali. Dopo che ebbero mangiato, il viandante, in ringraziamento del
cibo, diede loro dieci uova. In che modo il saggio e il viaggiatore divisero tra loro le uova
ricevute?".
"...Ecco sorgermi dinanzi delle immagini: due persone (A e B) siedono in una radura: a loro si
unisce un passante (C). Tutto il gruppo si dispone a triangolo. Fra i tre appaiono i pani. Scompaiono
gli uomini e vengono sostituiti dalle lettere A, B, C, e i pani (irregolari di forma), da tavolette
oblunghe. Le tavolette appartenenti ad A sono di color grigio, a B di color bianco. Con due linee
orizzontali taglio le tavolette in tre gruppi uguali di cubetti. Ne risulta il seguente quadro:
"Per cinque cubetti mangiati, C ha dato 10 uova- Ad A sono toccati 6 cubetti, dei quali ha mangiato
la prima colonna verticale e 2 cubetti della seconda colonna. Dal canto suo B, a norma della stessa
figura, ne ha mangiati altrettanti il successivo disegno mostra la quantità dei cubetti lasciati a C da
parte di A e di B.
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"Per comodità di calcolo, sostituisco la parola 'uovo' con 'rublo'. La parte del pane mangiata dal
passante abbia il valore di 10 rubli. Siccome i tre hanno mangiato parti uguali, l'intera quantità del
pane mangiato dall'intero gruppo varrà 30 rubli (10 per 3 uguale 30), e uno dei pani ne varrà 6 (30
diviso 5 uguale 6). I due pani di spettanza del passante varranno 12 rubli (2 per 6 uguale 12). Il
viaggiatore ha mangiato da parte sua una quantità di pane del valore di 10 rubli, sicché ha potuto
dare al passante pane per non più di 2 rubli (12 meno 10 uguale 2). Il saggio aveva 3 pani, il cui
valore assommava a 18 rubli... eccetera eccetera. Come si vede, mentre la soluzione visiva si
svolgeva rapida, quasi automaticamente, la forma di soluzione astratto-verbale esige un severo
lavoro di analisi, di ragionamenti deduttivi, e anche d'intuizione. Il risultato che si ottiene, è
identico""
("da appunti di S.").
"Viene dato a S. il problema: "Marito e moglie raccolgono i funghi. Il marito dice alla moglie:
dammi 7 funghi dei tuoi, così io ne avrò il doppio di te! Risponde la moglie: no, dammene 7 tu, così
ne avremo un pari numero a testa... Quanti funghi ha ciascuno dei due?".
"Io ho veduto un sentiero nel bosco, con un uomo d'alta statura, con gli occhiali. Egli tiene infilato
al braccio un paniere bianco, pieno di funghi. E' stanco... Ah, allora ne traggo la conclusione che
ormai deve averne raccolto una buona quantità. Quanto alla donna, mi sta voltata di spalle: è il
primo lui che ha cominciato a parlare, non la sua compagna di dialogo... Io vedo me stesso, vedo i
due... ed è quel mio 'io' che sta lì in margine al bosco quello che fa i suoi accertamenti, mentre 'io'
come sono in realtà, come persona viva, non faccio che registrare ciò quello accerta.
"Primo accertamento: non so con precisione se siano molti i funghi che ha l'uomo, ma penso che
dovrebbero essere molti: lui stesso parla d'una quantità doppia rispetto alla moglie. Non so ancora,
dunque, quale sia la situazione esatta; ma quando pronuncia la sua replica, eh, allora tutto mi
diventa chiaro! Quando lui dice 'dammi 7 funghi', io vedo quel mucchietto che ripone nel paniere;
quando invece lei ribatte a modo suo, ecco che lo toglie dal suo paniere: e io vedo bene che, in
entrambi i panieri, il livello è uguale.
"Quanto al mucchietto '7', esso porta il contrassegno, distintivo del "sette".
"Ora l'uomo si discosta, io lo seguo... e, d'improvviso, appare il numero 14... Ho appurato, ormai,
che quel tale 'io' ha calcolato giustamente 14: giacché facciamo, noi due, lavori diversi :io lavoro
con le cifre, e 'lui' converte ogni cosa in peso, in evidenza, in rappresentazioni.
"Non basta, però, che al marito siano stati tolti 7 funghi (eccolo là, scivolato giù dal fondo del
paniere, il mucchietto di 7 funghi): è anche necessario che questi finiscano nel paniere della moglie,
altrimenti, in quello di lui, ce ne sarebbero 7 in più. Dunque, in tutto, lui ne ha in più 14, pari a due
mucchietti. Io dò un'occhiata nel paniere di lei, e vedo che il suo livello diminuisce
corrispondentemente, mentre quando si aggiungono 2 mucchietti, s'innalza d'altrettanto.
"A questo punto viene ad acquistar valore quella prima parte che finora non aveva importanza:
'Dammi 7 funghi, e allora io ne avrò il doppio di te'. Tutto, fra i due, torna alla situazioni di prima:
lui ha sempre i due mucchietti pronti, ma se lei gliene toglie uno, lui non ne avrà più il doppio: e
non basta che dal paniere di lei, scivoli fuori un mucchietto, bisogna che per l'appunto questo
mucchietto passi nel paniere di lui. Occorre, cioè che un mucchietto sia tolto, perché a lui restino 21
funghi in più, e che gli sia dato per giunta, perché ne abbia in più 28. Quando ne avrà in più 28,
allora si troverà ad averne il doppio! Io gi gli vedo il fondo del paniere: lui ora ha 8 mucchietti, e la
donna ne ha 4...
"E adesso mi metto a controllare, giacché tutte queste cose bisogna tradurle, naturalmente, in
linguaggio comune...
"Tutto dilegua, i due se ne vanno, ed ecco sorgermi innanzi due colonne di color nero, che vanno a
terminare in una nebbia (infatti, io non so quanto abbia ciascuno dei due...).
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"Ma dopo aver riflettuto, quando io mi chiarisco che lui ne ha di più, l'estremità della prima colonna
si fa più alta: ne ha di più lui! Qui ragiono ormai in modo duplice: con le cifre e col diagramma;
cerco, a questo punto, di pareggiare le due colonne: dalla prima stacco un pezzetto corrispondente a
7, e quando questo è tolto, essa rimane sempre più alta: le colonne si pareggiano solo quando lo
trasferisco su quella di destra. Si tratta, evidentemente d'un 14. Le rimetto entrambe nella posizione
precedente; il pezzetto superiore è dunque 14! Ma lei dice a lui: 'Dammi 7 funghi, e sarò il doppio
più alta di te! 'Ora io stacco da destra ancora un 7, e lui, così, diviene più alto in ragione di 21. Ma
ancora bisogna aggiungere a lui: sicché, lui è più alto in ragione di 28... Vedo. adesso, che il
pezzetto inferiore di lei è alla pari col pezzetto superiore di lui: dunque, in tutto, è 56! Faccio la
sottrazione, e ottengo: 56 meno 7 uguale 49; 28 più 7 uguale 35""
("18 gennaio 1947").
Abbiamo riportato a bella posta questo ragionamento in tutta la sua lunghezza, giacché esso ci
introduce nel mondo intimo di S., e ci mostra al vivo quelle perspicue vie della "visività mentale",
lungo le quali scorrono le soluzioni che egli dà ai problemi. Si può forse nutrire ancora qualche
dubbio che tali vie siano ben diverse da quelle a base di "penna e carta", e che noi ci siamo
affacciati sul mondo originalissimo di questo modo di pensare "mentalmente visivo" (3)?
Finora ci siamo sollevati alle quote alte del pensiero di S.: ora dobbiamo scendere alle sue quote
basse. Qui il nostro cammino diverrà più difficile, e saremo costretti inoltrarci su un terreno infido,
dove ad ogni passo il piede può sprofondare nella palude...
Abbiamo visto quale efficace punto d'appoggio costituisca il pensare per immagini, che permette di
eseguire nella mente tutte le manipolazioni che possono comunemente venir eseguite con gli oggetti
nella realtà. Tuttavia, non si nascondono forse in questo pensiero immaginativo tanto più,
sinestesico, anche dei pericoli? Non crea esso degli ostacoli a una corretta esecuzione delle
fondamentali operazioni conoscitive? Soffermiamoci su questo.
S. legge il frammento d'un testo. Ogni parola genera in lui un'immagine. "Gli altri pensano, ma io
vedo! Appena incomincia una frase, le immagini appaiono. Più innanzi si va, sempre immagini
nuove. E via, e via di questo passo..."
Abbiamo già parlato del fatto che, se il brano vien letto rapidamente, un'immagine rincorre l'altra, e
tutte si accalcano, si ammucchiano insieme. Come raccapezzarsi, allora, in un tal caos d'immagini?
E se, d'altronde, il brano vien letto lentamente, mancano forse delle altre difficoltà?
"Mi viene data la frase: "N. stava in piedi, appoggiato con la schiena a un albero...". Io vedo già un
uomo vestito d'un abito blu scuro, giovane, magrolino. N. è un nome così elegante! Si trattiene sotto
un grosso tiglio e, tutt'intorno, c'è erba, c'è bosco... "Attentamente N. osserva la vetrina d'un
negozio..." Eccoti servito! Ma allora non si tratta d'un bosco, né d'un giardino: costui fa sosta lungo
una via cittadina, e bisogna rifar tutto da capo!"
("marzo 1937").
L'acquisizione del senso d'un brano, la ricezione delle informazioni, che in noi corrisponde sempre
a un processo di scelta del più essenziale e di scarto del meno essenziale - processo che si svolge in
modo sintetico - viene a rappresentare, qui, un tormentoso processo di lotta con le immagini sempre
ripullulanti. Così, le immagini possono riuscire, anziché di aiuto, di ostacolo all'apprendimento:
esse spingono fuori strada, impediscono di enucleare l'essenziale, si affollano insieme, rigogliano di
nuove immagini, e poi, a un certo punto, salta agli occhi che esse non sono affatto appropriate al
filo conduttore del testo, e tutto va rifatto da cima a fondo. Che lavoro di Sisifo non viene a
costituire, allora, la lettura d'un semplice frammento, perfino d'un semplice inciso? Né si potrà mai
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avere la certezza che queste così vivide immagini sensibili giovino ad orientarsi nel senso giusto:
chissà che non ne portino lontano?
Ma non finiscono qui le difficoltà: questo, piuttosto, ne è soltanto il principio.
"... Le maggiori difficoltà nascono quando, in un testo, ricorrono dei particolari che già c'erano in
un altro testo. Allora io incomincio da un posto e vado a finire in un altro completamente diverso,
col risultato che tutto si mescola insieme... Leggo, per esempio 'I proprietari di Slarosvetsk':
"Afanasij Ivanovitch uscì sul Poggiuolo di casa sua...". Ah sì s', uno di quei poggiuoli alti alti e con
quelle panchette scricchiolanti... Ma diamine, un poggiuolo così c'è già stato! E' quello della
Korobocka (Korobotchka), quando Cicikov (Tchitchikov) arrivò da lei! E così, avviene che
Afanasij Ivanovitch possa incontrarsi, in me, con Cicikov e con la Korobocka!
... O un altro esempio, che stavolta tocca proprio Cicikov: "Cicikov giunse all'albergo". Io vedo
tutto benissimo: è una casa a un sol piano: entrando, c'è la stanza d'ingresso, poi una grande sala a
pianterreno: presso la porta una finestra, a destra il tavolo, al centro un'enorme stufa russa... Ma
queste sono cose che ho vedute! In questa casa, per l'appunto, ci abita il grasso Nikiforovitch, e il
magro Ivan Ivanovitch sta anche lui lì, nel giardinetto lungo la facciata, e intorno gli corre, tutto
inzaccherato, Gapka: ed ecco che, insomma, io mi ritrovo ormai con tutt'altra gente. Potete capire
che lavoro sia per me raccapezzarmi fra tutto questo!"
("marzo 1937").
Quali pericoli si annidano dunque nei testi, dove un dettaglio qualsiasi può generare un'immagine
che già si era incontrata in altri brani! Giacché S. non dimentica nulla: una volta emerse, le
immagini rimangono lì ben salde, non si cancellano più... Niente di più facile, allora, che salire al
poggiuolo di Afanasij Ivanovitch e, d'improvviso, trovarsi in casa della Korobocka!
Eppure, i pericoli che si celano nel pullulio delle vivide immagini, sono ancora maggiori.
Vi sono infatti, in S., immagini di particolare vivezza e persistenza, immagini che per migliaia e
migliaia di volte si sono ripetute, immagini che assai rapidamente acquistano il predominio sulle
restanti, e che insorgono al di fuori d'ogni controllo, non appena si tocchi il minimo tasto collegato
in qualche modo con loro. Sono le immagini d'infanzia, le immagini della piccola casa in Rezica
(Regica) (Regica), l'immagine del cortile di Chaim Petuch, dove al riparo della tettoia stanno i
cavalli, e nell'aria c'è odore di fieno e stabbio.
Ecco come si spiega che, incominciando a leggere un testo, o ad effettuare quelle "passeggiate per
le vie", che si generano nel corso dei suoi ricordi, S. constata, d'improvviso, di aver dato inizio alla
sua passeggiata in via Majakovskij, e di terminarla invariabilmente presso la casa di Chaim Petuch,
o in una piazza di Rezica.
"Incomincio, per esempio, a Varsavia, e mi ritrovo in casa mia a Torzok (Torgiok) nell'edificio di
proprietà di Alterman... Oppure, sto leggendo La 'Bibbia': è il punto in cui re Saul si presenta a una
fattucchiera. Appena incominciai a leggere questo passo, mi parve dinanzi agli occhi quella strega
descritta nella 'Notte di Natale'; e quando continuai con la lettura, mi apparve la casetta dove si era
svolta una scena che avevo visto quando avevo sette anni: la stalla dei montoni, l'abitazione
sotterranea accanto, eccetera eccetera. E pensare che avevo incominciato dalla lettura della
'Bibbia'!"
("14 settembre 1936").
"Il fatto è che, quanto vedo mentre leggo, è fantastico, non corrisponde al contenuto della mia
lettura... Quando c'è la descrizione d'un qualsiasi castello, le sale centrali, chissà come, finiscono
sempre a trovarsi in quell'appartamento dove abitavo da bambino... Così, quando leggevo 'Trilby',
in quel punto che si era dovuto prendere in affitto una stanza sotto i tetti, questa, infallibilmente,
veniva a trovarsi ai miei occhi là da un nostro vicino, in quella stessa casa... Mi accorgevo che la
cosa non andava, ma, per forza d'inerzia, le immagini mi conducevano pur sempre là... E così sono
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costretto a trattenermi, a fare uno sforzo su me stesso, a mutare artificialmente le immagini che mi
stanno dinanzi agli occhi... Ne nasce un conflitto tremendo, che mi ostacola la lettura, la rallenta, e
mi distrae dall'essenziale. Foss'anche diversissimo l'ambiente: ma quando arriva la descrizione del
protagonista che esce sulla scala, risulta che si tratta della scala di quella casa dove abitavo una
volta... Io gli vado dietro, mi distraggo dalla lettura, e così non posso più leggere non posso più
concentrarmi: è una cosa che mi sottrae una enorme quantità di tempo..."
("12 marzo 1935").
Con che facilità, in tal modo, i processi dell'apprendimento possono subire un'alterazione nel loro
normale decorso; con che facilità il filo lungo il quale il pensiero conduce le immagini, si trova
sostituito da un altro, in cui le immagini pullulanti vengono a condurre il pensiero!
E le difficoltà del perspicuo pensare figurativo non terminano neppure qui. Ci sono in agguato, più
oltre, scogli ancora più pericolosi, creati - stavolta - dalla natura stessa del linguaggio.
Sinonimie... omonimie... metafore... Sappiamo tutti quanto posto esse occupino nel linguaggio, e
quanto agevolmente l'intelligenza comune si sbarazzi di simili difficoltà. Noi, infatti, possiamo
trascurare del tutto il fatto che una medesima cosa sia designata con termini diversi; troviamo anzi
un certo incanto nella possibilità di chiamare un bambino anche "piccino", un medico "dottore" o
"sanitario", il disordine "baraonda" e il bugiardo "mentitore". O che forse, noialtri, troviamo
qualche difficoltà se, una volta, leggiamo che al portone della casa si è fermato un "equipaggio"
['ekipaz' (ekipag), carrozza], e un'altra volta, che "l'equipaggio della nave si è distinto per valore in
una tempesta apocalittica"? Forse la locuzione "scendere in basso per una scala" impaccia la nostra
comprensione del discorso, se sentiamo dire di qualcuno che è "moralmente sceso in basso"? E,
infine, ci dà forse fastidio che 'rucka' (rutchka) [diminutivo di 'ruka', mano], possa
contemporaneamente significare la manina d'un bambino, e la maniglia d'una porta, e il cannello
della penna con cui scriviamo, e chissà quante altre cose?
L'uso comune delle parole - nel quale l'astrazione e la generalizzazione rivestono una funzione di
guida - spesso non avverte neppure simili difficoltà, o ci si passa rasente senza il minimo attrito;
alcuni linguisti pensano addirittura che tutto il linguaggio consista esclusivamente di metafore e di
metonimie (4). Ma questo costituisce uni inceppo per il nostro pensiero?
Completamente diverso è ciò che osserviamo nel ragionamento immaginativo e sinestesico,
peculiare di S.
Già si è visto quali difficoltà sorgessero in lui quando il suono della parola non armonizzava col suo
significato, e quando un medesimo oggetto veniva indicato con termini diversi. Poteva egli mai
conciliarsi col fatto che uno 'svinijà' [maiale] potesse non avere, nella realtà, nessun segno di quella
leggiadria che recavano in loro i suoni della parola, o che un 'korzik' [chiffel] non fosse
inderogabilmente oblungo e scannellato? O poteva mai accettare che le parole 'svinjà' e 'chavrònja'
[due nomi diversi del porco] potessero designare il medesimo animale (5)?
"... Ecco, per esempio, "equipaggio" ['equipaz']. Questo è per forza una carrozza. Come faccio a
capire che può essere un equipaggio di marinai? C'è un gran lavoro da compiere, per liberarsi di
tutti i dettagli e rendersi conto di questo! Per farlo, io debbo rappresentarmi che, sulla carrozza, non
ci sia il solo cocchiere, ma anche il lacchè, e che essa sia servita da un numeroso personale: soltanto
allora riesco a farmi questo concetto...
E "pesare le parole...". E' forse possibile pesarle? 'Pesare': io vedo dei grossi pesi, come c'erano a R.
nella nostra bottega, che in un piatto ci si metteva il pane, nell'altro il peso, ed ecco la lancetta che si
sposta, ecco che viene a fermarsi al centro... E qui, invece, "pesare le parole!" (6).
("maggio 1934").
Insomma, il ragionamento a base d'immagini è ben lontano dall'essere sempre un aiuto nella
comprensione del senso delle parole.
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E difficoltà particolari esso incontra nella poesia... Poche cose riuscivano a S. più ardue che leggere
versi e ravvisarne il senso.
Molti credono che la poesia esiga un suo proprio pensiero a base d'immagini. Non sembra possibile
convenirne, purché vi si rifletta più a fondo. La poesia non genera rappresentazioni, ma significati;
dietro le immagini si nasconde un senso intimo, un sottotesto; occorre far astrazione dall'immagine
perspicua per intendere il senso traslato della poesia, che altrimenti non sarebbe tale... E che cosa
accadrebbe, infatti, se noi c'immedesimassimo nell'immagine della Sulamite al punto di
rappresentarci perspicuamente quelle metafore, con cui il 'Cantico dei Cantici' la raffigura?
Leggendo i versi, S. s'imbatteva in ostacoli insormontabili: ogni espressione generava un'immagine,
cozzava con l'altra: com'era possibile aprirsi il passo fra un simile caos d'immagini? Ci limiteremo a
pochi esempi.
"Vedevo chiaramente il vecchio, un po' più alto della media, somigliante a Lev Tolstoj, con le fasce
ai polpacci. Stava in una specie di frutteto... la tina era, per me, un cespuglio di viti. Dapprima mi
era apparso un tavolo lucidato, di legno marrone... Vedo il vecchio 'en face': pare che sgridi un
servo per qualche cosa... Poi d'improvviso appare un fiume di vino, di colore cupo: 'vinò' [vino] è
una parola così cupa... Quel fiume era quello di Rezica, la località si chiamava "Basseves
(Bassheves) Barg"... Anzitutto, il castello in rovina in cima a quell'altura; nello sfondo, apparve un
riverbero rosso, doveva essere il sole che sorgeva... A destra, dove si trovava la segheria, apparve
dell'erba alta, che cominciò a piegarsi... Io non saprei spiegare che cosa volesse dire questo... Quei
fili d'erba spiccavano uno per uno: erba robusta, falasco... Ero rimasto sulla riva, e tutte quelle cose
stavano in lontananza... Gli oggetti ingrandiscono... Balenò, trasvolò, diafana come una garza, la
figura del vecchio: di traverso a essa, io scorgo l'erba in trasparenza, e mi sembra che, da sinistra,
sia spuntata una capanna col tetto aguzzo... L'arredamento della stanza mi è noto: dev'essere quello
di casa nostra... No, non capisco...
L'impressione che me n'è restata, è quella d'un discorso udito per caso: frammenti d'immagini
senz'alcun senso. In principio mi pareva che quel vecchio si adirasse contro il servo, che colpisse il
servo col piede, e che fosse un riccone, e che avesse ai piedi pantofole: il servo non protestava
contro l'offesa, gli piaceva il vino... Poi è apparso il fiume... e poi io ho smesso di fare attenzione...
Una specie d'incubo..."
("12 marzo 1935").
Tre giorni dopo, la lettura viene ripetuta lentamente, una strofa alla volta:
1.) Ah, ora ho visto tutt'altro: lui stesso è quello che lavora, in lui c'è una gran bramosia, esulta di
fronte a quel fiume di vino. Ho udito: "dentro di lui"... ah, ecco, vuol dire che è l'operaio a giornata?
Allora deve provare delle sensazioni tremende...
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(A questo punto lo sperimentatore spiega: sta pigiando l'uva!) Ah, sì! Ma a me, dall'infanzia, è
rimasta una visione diversa: delle travi tutt'attorno, e il rabbino che mi dice: "'dreshen die
Weintrubn'"; io guardo dalla finestra: e tutto si svolgeva in quel vicolo là. Quando debbo concepire
un'immagine nuova, sono costretto a dominare quella vecchia.
2.) "Entrò nella baraonda"... che pasticcio! Come sarebbe? Dalla capanna usciva del fumo... Che
roba è? "Tuonava": questo l'ho tralasciato... perché le gocce di pioggia vengono a battere sull'erba...
E' entrato nella capanna: ma dentro c'era una stanza... E' la stanza che ho veduto leggendo Zoscenko
(Zoshtchenko), dove un tale, in tempo di mietitura, chiedeva amore a una donna... "Lei stava seduta
e si grattava una gamba"... Ed ecco la capanna: si trattava d'una stanza...
"Tuonava il tramonto": questo, poi, non può stare... Il tramonto del sole? Il tramonto è qualcosa
d'idillico...
"Oscillavano l'erbe": è inverosimile! I fili d'erba non oscillano, oscillano gli alberi... Ma poi ho visto
il falasco... Però, se il tramonto è idillico, come mai "l'erbe oscillano?"
"Il vento scompigliava la capanna": ma come poteva esserci il vento, con un tramonto così?
Scompigliava, scompigliava... vuol dire che spostava la capanna? La capanna veniva spostata? Ah
forse, all'interno la scompigliava... ma no, non può essere: io mi trovo ancora all'esterno... Solo
quando "è entrato scalzo", solo allora la porta s'apre sull'interno della capanna...
... Io sono un grande conservatore, nelle parole... Avevo sempre pensato che delle 'misure
profilattiche' potessero esservi soltanto in medicina, e un 'intervallo' soltanto in musica... Mi
domandavo: come mai con tanta disinvoltura la gente applica le parole in campi diversi? E' un
trucco, è della sofistica... Sì, io ho bisogno di leggere con la massima sveltezza possibile per poter
capire, per impedire che le immagini insorgano: altrimenti, ogni parola, io la vedo..."
("15 marzo 1938").
""Fece un sorriso al ciliegio selvatico": io ho visto un giovanotto... poi ho riconosciuto che si stava
in via Motinskaja Rezica... Lui le ha sorriso... ma qui c'è "scoppiò in pianto": dunque già sono
apparse le lacrime, la irrorano... dunque già siamo di fronte al dolore... Mi sovvenne una donna che
andava al crematorio e lì restava seduta per ore fissando un ritratto... Ma ecco la "lacca delle
carrozze": significa che ormai arriva la padrona: è venuta in carrozza dal mulino di Juzatov
(Jugiatov) e io guardo che cosa fa. Essa s'affaccia al finestrino... Ma di che cosa si tratta, qui? Per
quale ragione "lui" è triste?... E quel "degli alberi il fremito"... Il fremito degli alberi, sì, mi
resterebbe facile: io vedo bene il fremito, e poi gli alberi; ma così all'inverso, "degli alberi il
fremito", mi fa prima vedere un albero, e poi debbo anche scrollarlo, e insomma mi tocca un sacco
di lavoro..."
("15 marzo 1938").
C'è da stupirsi se un tipo di percezione, nella quale o parola genera un'immagine, sia tale da non far
comprendere nel modo giusto il senso d'una poesia?
A S. piaceva distinguere i poeti in "complessi" e "semplici". Fra i semplici annoverava anche
Puskin (Pushkin): ma poi, perfino i versi di Puskin gli provocavano notevoli difficoltà.
Ecco un'analisi del suo modo di percepire una delle poesie puskiniane: ne mandò a me una copia,
accompagnata da una lettera, dalla quale riproduco testualmente la sua analisi.
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"Un metropolita, vantatore sfrontato
a te ha mandato i suoi frutti
volendo certo persuadere noialtri
che appunto lui è il dio dei suoi giardini.
Tutto è possibile a te, che sei una delle tre Grazie:
col tuo sorriso la decrepitudine vincere,
far girare la testa a un metropolita,
e la fiamma dei desideri in lui risvegliare.
Ed egli, incontrato ormai il tuo sguardo fatato,
si lascerà cader di mente la sua croce,
e intonerà appassionati Te' Deum
alla tua celestiale bellezza."
"Mi rendo conto che è immensamente difficile far nello stesso tempo da sperimentatore e da oggetto
dell'esperimento. Ma ho cercato di farlo coscienziosamente e imparzialmente. Appena letta la
poesia, mi sono affrettato a scrivere i miei commenti, cercando di eseguir la cosa con rapidità, in
modo che non vi s'insinuassero particolari estranei.
La lettura è scorsa fino in fondo senza difficoltà. Tutto liscio. Senza accorgermene, sono stato preso
intimamente dal contenuto (si vede che lo stile non faceva ostacolo allo srotolarsi dei quadri). Nella
sala da pranzo dell'appartamento dei miei genitori, in casa Ravdin, siede su un'alta poltrona la
bellissima Ogareva. La parte sinistra del suo viso è illuminata. Alle sue spalle, il nostro orologio a
pendolo. In grembo essa tiene un cesto di frutta dal quale trae fuori una lettera: e lì, appunto, legge:
"volendo persuadere noialtri"... A chi si riferisca quel "noialtri", per il momento lo ignoro. Che
cerchi di persuadere, è chiaro, ma il modo? Evidentemente, per mezzo della lettera... Dalla parte in
penombra della stanza viene ad emergere, trasparente, la figura del "dio dei giardini": un vecchio
canuto, con la barba tutta inanellata. Cerco ora una giustificazione di un'immagine simile. Ho
indovinato! Argomento del discorso è il metropolita: leggendo il secondo verso, vedo subito chi è
quel noialtri: lì sulla strada, presso la finestra aperta, ci sono Puskin e due suoi compagni, e
malignamente sghignazzano. Puskin indica con la mano la finestra, e le arguzie si susseguono senza
interruzione. Io non ho tempo di ascoltare, giacché ormai sono passato alla lettura del terzo verso. Il
decrepito "dio dei giardini" si è come ispessito (era, infatti, trasparente), è vestito d'una tonaca nera,
sta dritto in piedi e, come in atto di pregare, guarda alla Ogareva: ma la mano di lei, con la lettera, si
è rilassata, abbandonata giù. La grossa croce d'oro, sul petto di lui, lentamente si fonde, lui solleva
la testa e, con occhi velati ma, chissà perché, alquanto brillanti (ah, ora è proprio bene in luce tutto
quanto), guarda la donna. Con la sua rauca voce di basso, ecco, ha intonato una romanza nello stile
dei canti di chiesa. La Ogareva lo guarda stupita, sconcertata. Il soffitto della stanza, tappezzato di
carta lustra si è trasformato in nubi color del latte, sullo sfondo delle quali viene a risaltare per
primo il bel viso della donna, coi chiari capelli sciolti. E' un viso di donna che mi è ben noto fin
dagli anni dell'infanzia, quando facevo i miei studi al 'cheder'. Essa mi si presentava allora come la
"voce di Dio", affacciato a guardare dalle nuvole, e faceva parte delle predizioni dei profeti: in
antico ebraico, si chiamava "'Bas-Koil'", cioè la figlia della voce (divina)..."
("Da una lettera di S. in data 15 novembre 1937").
Ecco che cosa provoca in S. una poesia, quando è "semplice". E se, in questo caso, le immagini non
fanno ostacolo all'acquisizione del senso, non si può dire davvero che la favoriscano.
Fin qui abbiamo sempre tenuto l'occhio al discorso narrativo, all'immagine, al linguaggio poetico.
Ma come si svolge, per S., la comprensione d'un testo esplicativo, scientifico, astratto? Di fronte a
quest'ultimo, quali risultati ottiene il ragionamento basato sulle immagini e sulla sinestesia?
Dalle poesie di Tichonov e di Pasternak trasferiamoci dunque ai trattati scientifici. E incominciamo
dal semplice.
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"La giornata di lavoro era incominciata normalmente": che cosa può esserci di complicato in una
frase simile? Infatti, S. riesce a comprenderne il senso senza fatica. Senza fatica? No, nient'affatto!
Anzi, con grande, a volte, addirittura grandissima fatica...
"... Io leggo: "La giornata di lavoro era incominciata normalmente"... La giornata di lavoro? Vedo
lo svolgersi d'un lavoro... una fabbrica... ma ecco: "normalmente": qui si tratta d'una donna grossa,
colorita: insomma, una donna normale... E "era incominciata"... Chi era incominciata? Che diavolo
può essere mai? L'industria, la fabbrica, la donna normale: come mettere insieme tutto questo?
Quante cose sono costretto a eliminare, perché il più semplice significato mi divenga chiaro!"
Questo è un punto che già conosciamo: le immagini si generano da ogni parola, dirottano dal retto
cammino, offuscano il concetto.
Ma, in frasi talmente semplici, la difficoltà non è ancora tanto grossa. Assai peggio avviene nei casi
in cui il testo indica rapporti, formula regole, illustra nessi causali.
Leggo a S. una norma semplicissima, che qualsiasi scolaro delle elementari comprenderebbe senza
fatica: "Se, al di sopra d'un recipiente, si trova dell'acido carbonico, quanto più alta sarà la sua
pressione, tanto maggior quantità se ne scioglierà in acqua". Si direbbe che, in un testo come
questo, astratto ma tutt'altro che complicato, non dovrebbero trovarsi inciampi di nessun genere.
"Quando voi mi avete dato questa frase, io ne ho subito avuto la visione... Ecco il recipiente... lì,
appunto, è collocato quell''al di sopra'... Io vedo una linea ('a'), al di sopra della linea vedo una
nuvoletta, questa s'innalza... è l'acido carbonico ('b')...
Ora leggo più innanzi: 'quanto più alta è la sua pressione...' Il gas si solleva... e poi qui c'è qualcosa
di solido... è la 'sua pressione' ('c'). Ma questa si fa più alta... la pressione si solleva verso l'alto... 'e
tanto più gas si scioglie in acqua...' L'acqua è diventata pesante ('d')... ma il gas? Siccome 'la
pressione è più alta', è andato tutto in su... Ma come mai, allora, se la pressione è più alta, avviene
che esso si scioglie in acqua?"
Egli, dunque, non riesce ad afferrare agevolmente neppure il senso, che parrebbe semplicissimo, di
questa legge. Ciò che, in tutti noi, resta alla periferia della coscienza, e viene ignorato, messo in
ombra dal senso generale della frase, qui acquista valore di per sé, crea le sue proprie immagini, e il
significato complessivo svanisce.
In tutti questi esempi, tuttavia, abbiamo considerato un discorso che trattava di oggetti e di fatti, e
che era quindi, più o meno, concreto, cosicché era possibile rappresentarsi alla mente quanto si
diceva.
Che cosa avverrà, a maggior ragione, con ciò che non è possibile rappresentarsi? Che cosa avverrà
coi concetti puri, che designano relazioni complesse, con quelle astrazioni che l'umanità ha
elaborate in millenni di pensiero? Esse esistono, noi le facciamo nostre: ma vederle non è
possibile... E invece, qui, "io capisco soltanto quello che vedo...". Quante volte, da parte di S., non
ci è stato detto così?
Ed ecco incominciare a questo punto un nuovo giro di difficoltà, una nuova ondata di penosi
tentativi, intesi a far coesistere ciò che coesistere non può.
"L'eternità: è quello che sempre è stato così... ma che cosa c'era prima? E dopo, che ci sarà? No,
sono cose che non si possono vedere...
Per intendere a fondo il senso d'una cosa, bisogna vederla... Ecco, per esempio, la parola "nulla".
Ho letto attentamente: "nulla"... E' molto profondo... Mi sono figurato che potesse essere meglio
chiamare così, "nulla" qualche cosa... Se io questo "nulla" ['ni-cto' (ni-tchto)], diverrà qualche cosa
['cto-to' (tchto-to)]. me, per capire il senso profondo, è indispensabile, a questo vedere... Mi rivolgo
a mia moglie e le domando. che cos'è il nulla? E' che non c'è niente! Ma, per me, non è così... Io già
vedo questo "nulla", sento che lei non pensa in modo giusto... la nostra logica si è formata sulla base
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di una lunga esperienza... Vedo bene come questa logica si è formata... Dunque, bisogna risalire alle
nostre sensazioni... Se vien fuori il "nulla", dev'esserci qualche cosa... Qui, qui è il difficile! Quando
mi si dice che "l'acqua è incolore", io mi ricordo di come mio padre doveva segnare gli alberi sul
fiumicello Bezymjannaja, perché era ostacolo alla corrente... Comincio a pensare al fiumicello
Bezymjannaja [senza-nome]. Esso, dunque, non ha nome... Quante immagini inutili mi nascono
dentro da una sola parola! E "qualche cosa"... "Qualche cosa", per me è una specie di nuvoletta di
vapore, condensata, d'un determinato colore simile a quello del fumo. Quando invece mi si dice
"nulla", allora è una nuvoletta più rarefatta, perfettamente trasparente; e quando, da questo "nulla"
io cerco di captare qualche particella, ottengo qualche particella minima di tale "nulla"."
("12 dicembre 1935").
Come sono strane e, nello stesso tempo, come note e familiari queste esperienze! Esse sono
inevitabili in qualsiasi adolescente che, abituato a pensare per immagini perspicue, affronti la sfera
dei concetti astratti e si trovi nella necessità di assimilarli. Che cos'è il "nulla" ['ni-cto'], se sempre
qualche cosa ['cto-to'] c'è? Che cos'è l'"eternità", e che cosa c'era prima di essa? E che cosa ci sarà
dopo? E l'"infinito"... che cosa ci sarà di là dall'infinito?... Sono concetti che esistono, che si
studiano nelle scuole, ma come rappresentarseli? E, se rappresentarseli non è possibile, che
imbroglio ne vien fuori?
Queste domande maledette, che sgorgano dall'impossibilità di coesistenza fra le rappresentazioni
perspicue e le concezioni astratte, assillano l'adolescente, lo opprimono, destano in lui l'esigenza di
battersi con tutte le forze per venire a capo di ciò che è talmente contraddittorio. Ma,
nell'adolescente, esse fanno presto a ritirarsi: il pensiero concreto cede il passo a quello astratto, il
ruolo delle immagini perspicue passa in secondo piano di fronte a quello che assumono i valori
verbali convenzionali, il pensiero logico-discorsivo; le rappresentazioni perspicue restano in una
zona periferica, dove è meglio non andare a stuzzicarle, quando si tratta di maneggiare i concetti
astratti.
In S., al contrario, questo processo non può svolgersi così rapidamente, lasciandosi dietro soltanto il
ricordo dei tormenti passati. Egli non può capire se non vede: tant'è vero che si sforza di vedere il
"nulla", di trovare un'immagine dell'"infinito"... I tormentosi tentativi rimangono, ed egli, per tutta
la vita, conserva i conflitti intellettuali dell'adolescente, dimostrandosi senz'altro impotente a
varcare la soglia "maledetta".
Ma le immagini, che quei concetti richiamano, non sono in alcun modo d'aiuto: che può venirne dal
fatto che, quando si dice "eternità", emerga un antico vegliardo, probabilmente quel Dio di cui S. ha
sentito leggere nella "Bibbia"? E allora, al posto delle immagini, sorgono di nuovo "globi di fumo",
e "spruzzi", e "linee"... Che cosa rappresentano? Forse quel contenuto dei concetti astratti, che egli
si sforza di vedere in forme perspicue? O si tratta di quelle immagini, già a noi note, dei suoni
attinenti alla pronuncia d'una parola, che sorgono quando il senso della parola resta sconosciuto? E'
difficile dire se qualche aiuto possa venirne ad assimilare un concetto: certo è che, in lui, sorgono di
continuo, si affollano riempiono tutta la sua coscienza.
"... Bene, tutto questo è chiaro... Ma come. rappresentarsi la "reciproca compenetrazione di due
opposti"? Io vedo due cupe nubi di fumo: sono quegli oscuri "opposti"... Ecco che muovono l'uno
verso l'altro, si compenetrano a vicenda... Ma ecco, per esempio, la "negazione della negazione"...
No, questo non riesco proprio a rappresentarmelo! A lungo mi ci sono arrabattato intorno, ma, in
coscienza, non ci ho capito nulla...
... Ho letto i giornali, e qualche cosa me n'è entrato in mente: per esempio, tutto ciò che toccava la
vita economica: qui mi raccapezzavo benissimo; alcune cose, invece, non mi entravano in mente lì
per lì, ma solo dopo un pezzo... Come mai? La risposta è chiara: erano cose che non vedevo. Quel
che non vedo, infatti, non mi entra in mente... E anche quando ascolto dei pezzi di musica, del resto,
io ne sento il sapore, e allora va bene: ma quelli che non vengono a toccarmi la lingua, mi restano
incomprensibili. Dunque non solo ciò che è astratto, ma anche la musica, anche quella bisogna che
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io la senta al gusto... Anzi perfino un numero telefonico, sì, posso ripeterlo, ma se non mi ha toccato
la lingua io non lo conosco, debbo ascoltarlo di nuovo, debbo farmelo passare attraverso tutti gli
organi dei sensi: allora sì che lo so bene... Qual è dunque la mia posizione di fronte ai concetti
astratti? Ecco, quando sento "malattia", vedo dei nastrini, delle pallottole, e poi nebbia. E una
nebbia simile è tutto ciò che è astratto."
S. tenta insomma di avvolgere tutto in immagini: se queste non ci sono, in "nuvolette di fumo", in
"linee": e quale spreco di forze, per potersi aprire il passo fra tanta calca di immagini! Eppoi, qui
sorge un nuovo a ostacolo: quanto più egli pensa, con tanta più insistenza emergono quelle che sono
le immagini più salde di tutte; immagini della lontana infanzia, di Rezica, della casa paterna, dove -
ancora bambino - gl'insegnavano la "Bibbia", e dove per la prima volta cercava di formarsi il
concetto di ciò che tanto a fatica entra nella coscienza.
"... Per quanto riguarda l'arte, è noto che determinati periodi del suo fiorire non trovano nessuna
rispondenza nel generale sviluppo della società, e neppure, di conseguenza, nello sviluppo del
materiale fondamento di quest'ultima, costituente per così dire lo scheletro della sua
organizzazione..." (7)
"L'inizio è stato buono. Ho visto, non so perché, l'antichità in cui vivevano Aristotele, Socrate... Si
trattava, semplicemente, della casa di Chaim Petuch: là mi hanno fatto studiare l'antichità. Quando
ho guardato meglio, mi trovavo su certe rovine, che erano quelle della fortezza dei Maccabei... Ma
noi avevamo cominciato a parlare dell'arte... Io vedo sempre Nerone, allo stesso modo che anche il
Senato di Caligola mi si dà a vedere nella nostra verde sinagoga: è là che si svolgeva il Sinedrio...
Ma, di tutta questa frase niente mi è rimasto dentro!
Sicché, allora, la vita della società... lo spirito sociale... non si rifletteva nell'arte... I rapporti sociali
e di classe della società non trovavano riflesso nell'arte... E, in quanto allo "scheletro"... sarà stato la
carcassa di qualche cosa...
Oh, ecco, rileggendo una seconda volta, ora sì che capisco! Perfino quello "scheletro", ora, mi
sembra una cosa di secondo piano... In quanto poi a quel 'non tengono conto del materiale
fondamento della società', si tratta per me di qualcosa di astratto, è una specie di cirro, di
nuvoletta..."
E' vero che, tutto sommato, S. riusciva pur sempre ad assimilare l'essenziale, dove gli avveniva
d'incontrarlo; è vero che riusciva pur sempre a vivere nel consorzio civile, a seguire corsi di studio,
a dare esami. Ma per quale spinoso cammino si trovava costretto a procedere allorché, dalle bassure
infide, tentava di salire alle vette, ed ogni passo provocava in lui tante immagini e sensazioni
superflue, eppure così implacabilmente ripullulanti!
No, il modo di pensare per immagini perspicue e per sinestesie, caratteristico di quest'uomo, non
aveva soltanto lati positivi, ma anche negativi; non vi era connessa soltanto forza, ma anche
debolezza. E quali sforzi, per superare appunto questa sua debolezza, egli si trovava costretto a
compiere...
La sua "volontà".
Abbiamo dedicato molte pagine ai lati forti e della mente di S. Occupiamoci ora della forza e
debolezza della sua immaginazione.
Testimonianze obiettive.
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Chi non ricorda una prova semplicissima, una prova che risale alla nostra infanzia, intesa a
dimostrare la forza dell'immaginazione?
Il vostro braccio è teso: fra le dita, tenete ben stretto un filo, al quale è legato un piccolo peso. Voi
incominciate a figurarvi con vivezza che la mano stia compiendo un movimento circolare. E il
piccolo peso, dapprima lentamente, poi con sempre maggiore decisione, incomincia descrivere il
profilo d'un cerchio.
L'immaginazione ha condotto così al movimento: e la psicologia, ben conoscendo i meccanismi
dell'"atto motorio", ha già da gran tempo dimostrato che la misteriosa "lettura del pensiero" si
riduce forse senza residui a una lettura dei movimenti che l'immaginazione provoca nella persona
osservata. E quanti altri fatti, attestanti la facilità con cui una forte immaginazione (quella stessa che
provocava nel medioevo, in donne isteriche, le stigmate) può dar luogo ad alterazioni dei processi
somatici, sono stati raccolti ai nostri giorni dalla psicosomatica e dalla medicina! Quanti spiragli su
un mondo ancora ignoto si aprono i fenomeni osservati negli yoghi indiani!
In che modo tutto questo si sarà riflesso in chi, come in S., la forza dell'immaginazione superava
tanto nettamente ogni altro esempio a noi noto?
Potremo stupirci se un'immaginazione di eccezionale vivezza, com'era quella di S., non mancherà di
dimostrarcisi idonea a provocare dei movimenti, e ,se il dominio sui processi del proprio organismo,
attuato per mezzo di una simile immaginazione, supererà quanto ci è noto dall'osservazione
condotta su oggetti normali?
"Quando io voglio una cosa, me la raffiguro, e non ho bisogna di fare sforzi: la cosa si compie da
sé..."
("maggio 1934").
Tuttavia, lo studioso non può credergli sulla parola: dovrà verificare quali fossero, in questo caso, le
reali possibilità di dominio sul proprio organismo, e quali ne fossero i limiti.
Ebbene, non erano soltanto parole, che S. potesse regolare a suo piacimento il lavoro del proprio
cuore e la temperatura del proprio corpo: egli era effettivamente capace di farlo, e di farlo in misura
assai rilevante.
Ecco, in condizioni di tranquillità, il suo polso normale: 70-72 battiti al minuto. Ma ecco, dopo una
piccola paura, il polso diviene più frequente, accelera il ritmo, già raggiunge gli 80-96-100 battiti al
minuto. Dopo di che, assistiamo al processo inverso: la frequenza ritorna nei limiti precedenti, il
polso si fa più raro, fino ai 64-66 battiti.
Come avviene questo?
"E che cosa c'è di strano? Io mi vedo, semplicemente in corsa dietro un treno: il treno si è appena
mosso, mi distanzia... ma io ho necessità di raggiungerlo, di saltare sul predellino dell'ultimo
vagone. C'è da meravigliarsi, allora, se il cuore si mette a lavorare così in fretta? Dopo, invece, mi
corico per dormire... me ne sto sdraiato immobile nel letto... ecco che incomincio ad assopirmi e il
respiro diventa regolare, il cuore ricomincia a battere lentamente, uniformemente..."
"...voi mi chiedete che la temperatura della mano destra s'innalzi, e di quella sinistra si abbassi?
Ebbene, incominciamo..."
("giugno 1938").
Abbiamo con noi un termometro clinico; controlliamo la temperatura da tutt'e due le parti: è la
medesima. Restiamo in attesa per un minuto, per due... "Ora, incominciamo!" ci dice S. Noi
applichiamo di nuovo il termometro alla pelle della mano destra: la temperatura è salita di due
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gradi... E a sinistra? Ancora una pausa, poi: "Ora siamo pronti!". E la temperatura della mano
sinistra si è abbassata di mezzo grado.
Di che cosa si tratta? Com'è possibile regolare su ordinazione, a capriccio, la temperatura del
proprio corpo?
"No, anche qui non c'è niente di straordinario! E' che io vedo me stesso in atto di accostare la destra
a una stufa infocata... che calore scottante! S'intende bene che la sua temperatura s'innalza! Nella
sinistra, invece, io ci tengo un pezzetto di ghiaccio. Io vedo questo pezzetto di ghiaccio, mi sta lì
nella sinistra, lo tengo ben stretto... Sfido io che mi diventa più fredda!"
("giugno 1938").
Ma allora, per questa via, si potrebbe forse arrivare anche a vincere il dolore? Più d'una volta S. mi
ha raccontato come avesse cessato di sentire un dolore acuto, e con quali mezzi vi fosse pervenuto.
"Debbo andare dal dentista... Sapete anche voi che piacere sedersi in quella poltrona e sentirsi
trapanare un dente! Prima, infatti, era una cosa che mi faceva proprio paura. Adesso, però è
diventato così semplice... Ecco, mi dolgono i denti... S'incomincia da un filo d'un rosso arancione,
che mi dà inquietudine. So che, a lasciar le cose così, il filo si allargherà, si trasformerà in massa
compatta... Io accorcio il filo, lo accorcio ancora, ancora... fin tanto che, ecco, non è più che un
puntino: e il dolore scompare... In seguito, però, ho adottato un metodo diverso. Sto già seduto lì
sulla poltrona: ma no, non sono io, è un altro, è lui che ci sta seduto... E io, S., gli sto a fianco, e
osservo come a lui trapanano il dente... Lascia pure che, a lui, faccia male: già non sono io che sento
il male, ma lui! E, in questo modo, non sento più nessun dolore..."
("gennaio 1935").
Questa esperienza - lo confessiamo - non è stata da noi condotta sotto un controllo obiettivo; ma,
anche con la collaborazione di altri colleghi, abbiamo potuto constatare come mutino in S. i
processi dell'adattamento della pupilla quando "si vede" in una stanza oscura o luminosa; come in
lui appaia il riflesso cocleo-pupillare quando si raffigura un suono stridente; e come,
nell'elettroencefalogramma, si determini una netta depressione del ritmo alfa, non appena egli
immagina che la viva luce d'una lampada da 500 W venga a battergli sugli occhi (8)!
Le ricerche fisiologiche (condotte nel Laboratorio di fisiologia della Clinica neurologica dell'Istituto
di medicina sperimentale, ad opera di S. A. Charitonov e dei suoi collaboratori) hanno fornito solo
qualche indicazione - anzi pochissime, in verità - circa i possibili meccanismi di tali fenomeni.
Non si sono riscontrate alterazioni apprezzabili nella soglia delle impressioni tattili, ma i contatti
vengono da lui percepiti in forma d'immagini perspicue (sinestesiche). Le soglie della sensibilità
olfattiva e gustativa sono abbassate. Notevolmente abbassata è pure la soglia dell'adattamento
visivo gli ci vuole maggior tempo per adattarsi all'oscurità. La stimolazione della cute per mezzo
dei filamenti di Frey non ha prodotto mutamenti apprezzabili della soglia, ma, invece, della
puntiforme sensazione di contatto, S. ha avuto la sensazione di un'onda che si espandeva e
dominava su notevoli zone dell'epidermide; la sensibilità cutanea mostra sintomi di inerzia elevata,
mentre alcune caratteristiche dell'esperienza tattile indicano il predominio d'una sensibilità
protopatica. La soglia della cronassia ottica non esce dai limiti consueti, ma le sensazioni
soggettive, insorgenti nel corso delle stimolazioni elettriche della cute, sono insolitamente brusche,
mentre l'intensificazione dello stimolo non conduce per lo più ad una proporzionale esaltazione
delle sensazioni una volta mutata, la soglia, inerte, rimane tale e quale per un lungo tratto di tempo,
e qualche singolarità, piuttosto che sotto questo riguardo, si manifesta nella dinamica delle
eccitazioni provocate.
Da tutte queste cose si potrebbe concludere che, se le soglie delle sensazioni non esorbitano dai
limiti della norma, la loro qualità e la loro dinamica presentano invece una notevole originalità; e lo
sperimentatore potrebbe parlare perfino di un certo abbassamento dell'eccitabilità dei sistemi
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corticali, e di un'esaltazione dell'eccitabilità di quelli sottocorticali. Se a questo si aggiunge il
rilevante abbassamento dei processi di adattamento, e l'intensificazione di quelli di risonanza, il
profilo fisiologico delle sensazioni e del sistema vegetativo di S., quale si ricava da questi appunti,
risulterà esaurientemente delineato.
Senza dubbio, saremmo in diritto di aspettarci di più da un'indagine obiettiva delle sue
manifestazioni vegetative, sensoriali ed elettrofisiologiche. Senza dubbio, i dati di fatto da noi
riportati non offrono che dei contributi relativamente insignificanti (e alquanto indiretti) per una più
aderente comprensione di quegl'importanti fenomeni, che sono stati oggetto delle nostre descrizioni.
Ma non sempre, purtroppo, la prova di un'analisi obiettiva dei fatti indagati può venire a soddisfare i
desideri del ricercatore. Ora, però, torneremo alla psicologia delle manifestazioni che ci interessano,
e tenteremo di aggiungere qualche interessante chiaroscuro a quanto già abbiamo descritto.
Fin qui si è trattato di dati di fatto, veduti con l'occhio dell'osservatore obiettivo.
Ma in che modo questi dati di fatto apparirebbero, se si guardassero con gli occhi di S. medesimo?
Per pervenire a questo, dobbiamo prendere il cammino alla larga, e soffermarci su alcuni punti, che
non abbiamo toccato prima.
Ogni immaginazione ha dei confini, che la distinguono dalla realtà.
In noi - persone dall'immaginazione limitata - questi confini sono nettamente segnati. In S., in cui
l'immaginazione crea delle immagini tali, da produrre a volte la sensazione della realtà, quei confini
finiscono col cancellarsi.
"... Ecco com'era quando io ero piccolo. Andavo a scuola al 'cheder'. E' già giorno: bisogna alzarsi!
Guardo l'orologio: no, c'è ancora tempo, si può restare un altro po' a letto... E, intanto, continuo a
guardar sempre le lancette dell'orologio... Segnano, ora, le otto e mezzo... Dunque è presto, ancora...
E, d'improvviso, mia madre: "Come, non sei ancora uscito, e tra poco sono le nove!". Ma come
facevo, io, a saperlo? Io vedevo la lancetta grossa che guardava in giù: all'orologio, erano le otto e
mezzo..."
La vivida immaginazione del ragazzo cancella i confini tra l'ideale e l'immaginario: e sono appunto
questi confini così cancellati che rendono tanto inconsueto il suo comportamento. Ma, se si può far
questo dei confini tra il reale e l'immaginario, perché non si potrebbero cancellare - o per lo meno
attenuare - quelli tra l'immagine di "se stesso" e l'immagine d'un "altro"?
E' una cosa che aveva avuto inizio fin dai primi anni di scuola. Chi non conosce le magie dello
studentello in erba? Ci vuol tanto, forse, a fare in modo che il maestro non ti chiami? Basta,
soltanto, che tu ti tieni ben saldo al banco, e pensi fra te che lo sguardo del maestro passerà oltre...
D'accordo, non sempre la faccenda funziona: ma chissà, potrebbe sempre giovare... Anche a S.
avveniva questo, come a tutti, nei primi anni di scuola. Senonché, negli altri, passa presto, e non ne
resta che ricordo fra i tanti dell'infanzia, qualcosa di mezzo tra un giuoco di quei tempi e
un'ingenua, simpatica magia di scolaretto... In S., invece, la cosa è rimasta a lungo, e non sa
nemmeno lui se vi crede o no.
"... Avevamo per insegnante un certo Fridrich Adamovitch... Noi facevamo delle birichinate... "Chi
è stato?" grida Fridrich Adamovitch entrando in classe... Ed ecco che acchiappa proprio me... Allora
io, con quanta forza avevo, puntai su lui lo sguardo... No, così non potrà farmi nulla! Infatti, lo vedo
girarsi di là, proseguire da un'altra parte... No, non mi chiamò nemmeno a dir la lezione!"
E ancora molte volte egli osservò su se stesso fatti simili, ma sempre lasciandoli a mezzo fra un
giuoco dell'immaginazione e azioni fatte sul serio.
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"... Non c'è per me gran differenza tra quello che mi raffiguro e quello che esiste. E spesso, se mi
raffiguro una cosa, proprio quella accade! Per esempio, feci una scommessa con un collega, che la
cassiera del negozio mi avrebbe dato in resto più del dovuto. Io mi rappresentai alla mente tutto per
filo e per segno; ed effettivamente, quella mi diede in resto non 10, ma 20 rubli... bene, so anch'io
che si tratta d'un caso, d'una coincidenza; ma nell'intimo, ho pur sempre l'impressione che ciò
avvenga perché io lo vedo... E se poi la cosa non mi riesce, mi pare che si debba attribuire o al fatto
che ero stanco, o che, in quell'altra persona la volontà era diretta altrove...
A volte mi sembra perfino che potrei guarire me stesso, purché me ne faccia una rappresentazione
ben chiara... E anzi, che potrei guarire anche gli altri... So che, se avverto i sintomi del male, subito
mi figuro che esso se ne vada: ed ecco, infatti, non c'è più, e io sto bene: il male non è potuto venire
avanti!
Sto partendo per Samara... D'improvviso Misa (Misha) (mio figlio) si ammala di stomaco. Viene il
medico e non riesce a capire che cosa abbia. E invece, è tanto semplice: gli ho fatto mangiare troppo
lardo... Io vedo, dentro al suo stomaco, quei bocconi di lardo... Voglio che lui riesca a digerirlo,
cerco di venirgli in aiuto... Mi figuro, vedo quel lardo che si scioglie. E Misa, a poco a poco torna a
sentirsi bene... D'accordo, non c'è dubbio, so che non è così: ma il fatto è che sempre, tutto questo,
io lo vedo..."
E quante non ce ne sono di queste briciole d'ingenua magia dove l'immaginazione trapassa così in
persuasione, e dove il raziocinio sembrerebbe controllare ogni punto, ma lascia fuori, pur tuttavia,
qualche piccolo seme inconsapevole, per cui chissà dove, in chissà quali cantucci della coscienza,
rimane l'impressione: "eppure, eppure, se fosse proprio così?". Quanti di questi fantastici ripostigli
della coscienza, dove l'immaginazione viene insensibilmente a fondersi con la realtà, non si sono
conservati in quest'uomo?
La sua personalità.
Ci resta soltanto di passare all'ultima parte del nostro racconto, che è quella più inesplorata, ma
forse anche la più interessante.
Sui mnemonisti di maggior rilievo c'è una vastissima letteratura. Sono nomi ben noti agli psicologi
quelli di Inodi e di Diamandi, e non è sconosciuto il notevole mnemonista giapponese Ishihara. Ma
tutti gli psicologi che si sono occupati di costoro, si sono soffermati esclusivamente sulla loro
memoria.
Chi, in realtà, è stato Inodi, e come si è svolta la vita di Diamandi? Quali i tratti caratteristici della
personalità di Ishichara, e quale lo svolgimento della sua vita?
I canoni fondamentali della psicologia classica facevano una distinzione netta fra lo studio delle
varie funzioni psichiche e quello della personalità: restava come sottinteso, da tale punto di vista,
che le caratteristiche personali abbiano scarso rapporto con la struttura delle funzioni psichiche, e
che un individuo, in cui si manifestino straordinarie particolarità mnestiche in laboratorio, possa poi
non distinguersi in nulla da tutti gli altri nella vita vissuta.
E' verosimile, questo?
E' mai possibile che un eccezionale sviluppo della memoria visiva e delle esperienze sinestesiche
non faccia sentire in alcun modo il suo peso sulla formazione della personalità di coloro che ne sono
i portatori, cosicché un uomo che tutto vede" e che nulla può intendere a fondo, se non a patto di
"far passare" le impressioni attraverso tutti gli organi dei sensi, un uomo il quale si trova costretto a
"sentire i numeri del telefono sulla punta della lingua", si sviluppi poi come tutti gli altri? E' mai
possibile che anche lui, come tutti, vada a scuola, abbia dei compagni, inizi una vita professionale, e
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la sua biografia decorra allo stesso modo di tutte le biografie dei suoi convicini? Un simile
presupposto pare a noi, di primo acchito, quanto mai improbabile.
Un uomo, nella coscienza del quale il suono si fondeva col colore e col gusto, e qualsiasi fuggevole
impressione suscitava una vivida e incancellabile immagine; un uomo per il quale le parole avevano
un valore talmente diverso da quello che hanno le parole nostre, non poteva avere una formazione
identica a quella degli altri, un identico mondo interiore, un'identica biografia.
Un uomo che tutto "vedeva" - e tutto sinestesicamente sperimentava - non poteva essere alla pari
con noi nel sentire le cose, nel vedere gli altri uomini, nell'esperire se stesso.
In che modo, dunque, la personalità di S. si era formata? Quale la strutturazione della sua biografia?
Inizieremo da lontano la storia dello sviluppo della sua personalità.
Egli è ancora un ragazzetto. Ha appena incominciato a frequentare la scuola.
"... Ecco, è giorno: debbo andare alla scuola... Manca poco, ormai, alle otto... Bisogna alzarsi,
vestirsi, mettersi il paltò, il cappello, le soprascarpe... Non posso più rimanere a letto: e, così, mi
viene una rabbia... Vedo, sì, che a scuola ci debbo andare, ma perché non ci va "lui", piuttosto? Ed
ecco che è "lui" ad alzarsi, a vestirsi... è "lui" che prende il paltò, il cappello, s'infila le
soprascarpe... è "lui" che, ormai, è andato a scuola... Oh, adesso, finalmente, tutto è in ordine! Io
resto a casa, e "lui" se ne va. D'improvviso, entra mio padre: "E' tardi, e ancora tu non sei andato a
scuola?"."
("20 ottobre 1934").
Il ragazzo fantastica come tutti i suoi coetanei, ma la fantasia gli s'incarna in immagini troppo
vivide, immagini che vengono a creare in lui un secondo altrettanto vivido mondo, nel quale egli si
trasferisce tutto. E così il sognatore smarrisce i confini tra ciò che esiste e ciò che lui "vede"...
"... Questa è una cosa che è rimasta in me molto a lungo, e anzi, forse, rimane tuttora... Guardo
l'orologio e poi, per un pezzo, continuo a vederlo... Le lancette stanno sempre lì allo stesso punto, e
io non mi accorgo che il tempo è già trascorso oltre. Ecco perché spesso mi avviene di tardare..."
("ottobre 1934").
Ma come fare dunque, in tali condizioni, ad adattarsi alla mutevolezza delle impressioni, una volta
che le immagini provocate da quest'ultime sono tanto sfolgoranti e tanto facilmente riescono a
sovrapporsi al mondo della realtà?
"Mi hanno sempre chiamato "'Kalter Nefesch'" [in ebraico: anima fredda]: c'è, per esempio, un
incendio, e io tardo a capire: "Che cos'è, un incendio?"... Il fatto è che, prima, devo vedere ciò che
mi vien detto... E, in questo secondo d'intervallo che passa prima che io veda, accolgo tutto
freddamente..."
("giugno 1934").
A noi psicologi è ben nota quella immaginazione creatrice, dalla quale si genera l'azione, e che
puntualmente si coordina col mondo esterno. Da un tal genere d'immaginazione sono discesi tutti i
grandi inventori. Ma ci è pure nota un'altra immaginazione, la cui attività non si orienta verso il
mondo esterno: un'immaginazione che nasce dal desiderio e che fa da surrogato all'azione, rendendo
quest'ultima superflua. Quanti inattivi fantasticatori vivono nella sfera d'una tale immaginazione,
trasformando la loro vita in un "sogno ad occhi aperti", riempiendola tutta intera di ciò che gli
inglesi chiamano "waking dream"!
C'è da meravigliarsi se S., con le sue esperienze sinestesiche diffuse e le sfolgoranti immagini
sensibili, sia divenuto un fantasticatore incallito?
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Ma non sono, le sue, di quelle fantasticherie che approdano all'azione. Sostituiscono, piuttosto,
l'azione, poggiando sulle esperienze della propria vita psichica, convertite in immagini. E' quanto
già abbiamo veduto nel frammento riportato qui sopra.
"Debbo andare alla scuola... Ed ecco che vedo me stesso... "E' 'lui' che va a scuola!" Io mi stizzisco
contro di "lui": perché è così lento a prepararsi?
Ho otto anni. Stiamo facendo il trasloco. Io non ho voglia di muovermi... Mio fratello mi prende per
mano e mi porta alla carrozza da nolo... Vedo il vetturino che sta biascicando una carota... Ma io
non ho voglia di partire: e così rimango a casa. Vedo "lui" che se ne sta là, alla finestra della
vecchia camera, e non va in nessun posto." ("20 ottobre 1934").
E appunto una simile divisione: un "io" che ordina e un "lui" che esegue, e che dall'"io" è veduto,
permane in S. per tutta la vita. "Lui" è quello che va dov'è necessario, "lui" è quello che ricorda,
mentre l'"io" non fa che comandare, guidare, controllare... Tanto che, a non sapere nulla di quei
meccanismi psicologici della vivida, perspicua "visione", sui quali così particolareggiatamente
abbiamo insistito nel corso della nostra narrazione, sarebbe davvero facile confondere tutto questo
con quella "scissione della personalità", di cui tanto si occupano gli psichiatri, e con la quale, in
realtà, tanto poco di comune ha la "alienazione" della propria personalità, quale in S. si verifica.
La possibilità di "vedere" e di "alienare" se stesso, trasformando le proprie sensazioni ed azioni in
una immagine a norma della quale è "lui" che prova quelle sensazioni e compie quelle azioni su
"mio" comando, può anche riuscire a volte di grande aiuto per una libera regolazione del
comportamento: lo abbiamo già visto parlando del dominio sui processi vegetativi, o della
eliminazione del dolore mediante il trasferimento su un'altra persona. Ma quanto spesso, viceversa,
una simile "alienazione" può essere di ostacolo a una valida direzione del comportamento!
"... Eccomi seduto in casa vostra, tutto immerso nei miei pensieri... Voi, che siete un padrone di
casa ospitale, mi domandate: "Che ve ne pare di queste sigarette?". "Così così, una cosa di mezzo..."
Io non avrei mai risposto in questo modo, ma "lui" ci può rispondere. E' una mancanza di tatto, ma
spiegare a "lui" quale papera abbia commesso, non mi è possibile. "Io" mi sono assorto in altro, e
"lui" parla come non sta bene."
("20 ottobre 1934").
In casi come questo, la minima distrazione conduce al punto che quel "lui", che S. vede così
chiaramente, esorbita da ogni controllo e viene ad agire automaticamente.
E quanto frequenti sono i casi in cui le immagini pullulanti impediscono di mantenere l'opportuna
linea del discorso, e fanno dirottare di qua e di là! In quei momenti egli si trova assediato dal
rigoglio dei particolari, dalle reminescenze collaterali; il discorso diviene verboso, pieno di
digressioni a non finire: e gli occorre un grande sforzo su se stesso per tornare di nuovo al tema
originario.
S. era il primo ad essere consapevole della sua verbosità, della necessità di restar sempre ben vigile
per conservare il tema del discorso, e della impossibilità in cui si trovava di riuscirvi ogni volta.
Tanto a me, che lo tenevo in osservazione, quanto pure agli stenografi, che annotavano le nostre
conversazioni, questo era noto anche meglio che a lui. E quanta fatica costava, a chi scrive, separare
l'essenziale dall'incessante ramificarsi e disviarsi della conversazione con quest'uomo!
"...Tutto questo conduce all'incapacità di tenersi nella cornice del tema. Non si tratta di loquacità:
voi mi fate delle domande sul cavallo, ma il suo colore e il suo "sapore" costituiscono una massa
compatta d'impressioni... E se "io" non prendo la situazione in mano, non si viene a capo di niente.
Infatti, "lui" non ha affatto il senso di essere uscito d'argomento: si tratta pur sempre di quello stesso
sapore, di quello stesso cortile con stallaggio: e, da questo, non si è affatto usciti! Solo da poco ho
imparato a star dietro al tema e ad attenermi ad esso..."
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("25 maggio 1939").
Quanto frequenti, però, sono i casi in cui le immagini sfolgoranti entrano in conflitto con la realtà, e
vengono a ostacolare la conveniente realizzazione dell'azione a cui ci si è accinti!
"... Ho avuto una questione giudiziaria... Una questione semplicissima, che dovevo vincere senza il
minimo dubbio... Ecco che mi preparo alla deposizione da fare in tribunale... E, ogni cosa, io la
vedo: diversamente non posso fare! Ecco dunque la grande sala del tribunale... le sedie in fila... A
destra c'è il tavolo del giudice: io sto a sinistra, e pronuncio il mio discorso... Tutti restano
soddisfatti delle mie dimostrazioni: sono io, evidentemente, che l'ho spuntata! Quando, però, sono
entrato davvero nella sala del tribunale, tutto è risultato diverso... Sia il fatto che il giudice sedesse
non a destra ma a sinistra, sia che io fossi dovuto entrare da tutt'altra parte da come avevo veduto...
E così, mi sono trovato sconcertato, smarrito... Non potevo più dire una parola come si deve... E
insomma, ho perso la causa!"
("maggio 1939").
Con quanta frequenza, dunque, le vivide immagini che S. vedeva, non coincidevano con la realtà, e
con quanta frequenza, abituato com'era a far leva su queste sue immagini, egli veniva a trovarsi
impotente di fronte alla realtà che lo circondava!
Il caso del tribunale, sotto questo riguardo, è di una chiarezza esemplare; ma di casi consimili la vita
di S. è tutta piena, e appunto per questo (come spesso si lamentava) gli altri lo consideravano un
uomo lento, esitante, trasognato.
Ma a livello ben più profondo il carattere di realtà dell'immaginazione, e la labilità del mondo reale,
avevano improntato, in S., la formazione della personalità.
Di continuo egli era in attesa di qualche cosa, fantasticava e "vedeva" più che non agisse. C'era in
lui di continuo, l'impressione che dovesse accadere qualcosa di bello, destinato a risolvere tutti i
problemi, per cui la sua vita sarebbe divenuta d'un tratto talmente semplice, talmente limpida... E lui
"vedeva" questo, e lo aspettava... E tutto ciò che faceva intanto, era "provvisorio", era quel che si fa
nell'attesa che ciò che si aspetta finalmente arrivi.
"Io ho molto letto, e sempre mi sono identificato con l'uno o con l'altro dei protagonisti: giacché io
li vedevo... Ancora a diciott'anni, non riuscivo a capire come mai i miei compagni si preparassero a
diventare ragioniere o commesso viaggiatore... Ciò che più importa, nella vita, non è la professione:
la cosa principale è quel non so che di piacevole, di grandioso, che un giorno accadrà... Se a diciotto
o vent'anni io mi tossi creduto maturo al matrimonio, e una contessa o una principessa mi avesse
offerto di divenire mia moglie, nemmeno questo mi sarebbe bastato: chissà che non potessi
diventare un personaggio ancora più alto? Quanto a tutto ciò di cui finora mi sono occupato -
articoli scritti in terza pagina, o il mio debutto nel cinema - è tutta roba che "non è ancora quel che
dico io", roba ancora provvisoria, temporanea...
Essendomi capitato, un giorno, di leggere il bollettino azionario, e avendo dato prova di tenere a
mente le quotazioni di borsa, diventai agente di cambio; ma questo non era davvero "quel che dico
io", era semplicemente un modo di far quattrini... La vita, quella vera, è ben altra cosa. Tutto stava,
per me, nelle fantasie, non già nelle faccende... E così, abitualmente, io restavo passivo. Non capivo
che gli anni passavano: si trattava sempre d'un "frattanto che...". Ed ecco quell'impressione: "Ho
solo 25 anni" "Ne ho solo 30": e sempre avanti così... Nel 1917, partii volontario per la provincia,
deciso ad abbandonarmi alla tendenza corrente: partecipai al 'proletkult', diressi una tipografia, feci
il reporter, ebbi un mio giro di vita... Così anche adesso: il tempo passa, io potrei pervenire a tante
affermazioni, ma sempre continuo ad aspettar qualche cosa... Tale, ormai, sono rimasto..."
("25 febbraio 1937").
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Era rimasto, appunto, un uomo costruito a mezzo, un uomo che aveva cambiato dozzine di
professioni, delle quali non ce n'era una che non fosse "temporanea".
Espletava incarichi redazionali, si era iscritto al conservatorio di musica, recitava al varietà, era
stato negli uffici per la razionalizzazione del lavoro, poi era diventato un mnemonista, e
d'improvviso si era ricordato di saperne abbastanza di ebraico antico e di aramaico, e si era messo a
curar la gente con le erbe, giovandosi appunto di quelle antichissime fonti...
Si era anche fatto una famiglia: una buona moglie, un figlio intelligente; ma, come tutto il resto,
anche questo gli appariva come attraverso un velo di nebbia... E sarebbe stato difficile dire che casa
fosse più reale, per lui: il mondo dell'immaginazione, nel quale viveva, o il mondo delta realtà nel
quale restava sempre come un ospite temporaneo...
La psicologia non è ancora una vera scienza della personalità umana nei suoi aspetti vitali e reali.
Non è ancora giunta, infatti, al punto di poter descrivere il contesto della personalità in modo tale,
che ogni sua parte trovi la rispettiva collocazione, e le leggi della sua formazione divengano
altrettanto note e trasparenti quanto quelle della sintesi dei corpi chimici composti.
Una psicologia di tal genere appartiene al futuro: a un futuro dal quale sarebbe ancora più difficile
dire quante decine d'anni ci separano ancora...
Sul cammino che conduce a una tale psicologia della personalità, sono molte tuttora le strade
tortuose, sono molti i sentieri scoscesi, difficilmente accessibili...
Non c'è dubbio, però, che un'indagine diligente del modo in cui si configura la personalità in
condizioni dello sviluppo anormale delle sue varie parti, e la descrizione del processo a capo del
quale vengono a formarsi in essa le "sindromi", resta una delle principali vie d'approccio a questo
arduo problema.
E chissà che questa descrizione d'un uomo che tutto "vedeva", non possa avere anch'essa il suo
valore, lungo quel difficile cammino...
Appendice.
Per vari decenni, si è parlato del processo di memorizzazione come di un processo relativamente
semplice: ridotto a impressioni (ricordi), ritenzione e richiamo (reminescenza) di tracce. Tale
semplicistica concezione, già da tempo accolta in psicologia, è stata resa più "complessa" solo da
qualche tempo. Negli ultimi due decenni, sono venute a consolidarla le ricerche fisiologiche relative
al riflettersi - sulla struttura molecolare di base della memoria - della stimolazione sul
consolidamento delle tracce: ricerche che hanno apportato nuovo e prezioso materiale, senza
riuscire peraltro a scuotere questa semplicistica concezione della memoria.
Attualmente, tali grossolane affermazioni sono decisamente superate, ed è cominciato a fervere,
nelle file del nostro paese, un grande lavoro, inteso a sostituire, alle antiquate, nuove e più moderne
concezioni di memoria.
Il ravvivarsi di quest'attenzione prestata ai problemi della memoria ha precise origini.
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Per un verso - è evidentissimo - appaiono alquanto rudimentali le concezioni meccanicistiche del
processo di memoria inteso come semplice registrazione di stimoli e di legami associativi di
reazione a questi, e si è dimostrato scarsamente proficuo lo schema che, nel corso di mezzo secolo,
ha dominato nella letteratura psicologica americana.
Una radicale disamina, è iniziata già 30-40 anni fa, quando Tolman portò l'attenzione sul ruolo di
motivi e "esigenze", nella formazione dei processi psichici, e Hull intraprese i primi tentativi di
elaborazione di ipotetici schemi, includenti un'analisi dettagliata (sebbene per altro verso
nettamente teoretica) di quelle "variabili intervenienti" che separano lo stimolo dalla risposta, che
hanno indotto a riproporre, in maniera ben più dettagliata, il processo di strutturazione delle tracce.
Nell'ultimo decennio, un grosso impulso al superamento del mero associazionismo si è avuto grazie
alle minuziose ricerche effettuate sulla strutturazione dei processi di memoria, in rapporto alla
codificazione degli stimoli, all'analisi delle correlazioni fra ricordi a lungo e breve termine, è al
moltiplicarsi degli studi relativi al reperimento e adozione di un metodo valido per tali problemi,
nonché di una teoria esplicativa.
Altra origine del ravvivarsi d'interesse per i problemi della memoria sono i progressi effettuati nella
tecnica dei computers: da qui una specifica attenzione all'analisi della memoria a breve e lungo
termine, e all'elaborazione di schemi che "spianassero", all'occhio dello psicologo, tutta la
complessità dei processi mnestici. Ultima e non meno importante scaturigine a tale interesse: da un
lato, le analisi della memoria su base molecolare, da un altro, le indagini su alterazioni patologiche
della memoria, a seguito di lesioni cerebrali localizzate. Entrambi questi settori, hanno consentito
contatti più approfonditi con alcuni meccanismi di apprendimento, quali i processi di impressione,
ritenzione e richiamo, come con i meccanismi sottostanti ai processi di oblio, fenomeno la cui
analisi è divenuta, negli ultimi tempi, uno dei problemi centrali della scienza psicologica.
Tutti questi fattori hanno esercitato un influsso decisivo sugli studi in questione, specie tra quelli
della psicologia anglo-americani. Nonostante il deplorevole, assoluto isolamento della stessa dalla
psicologia sovietica, sulla struttura dell'attività psichica, che tanto avrebbe apportato alla
conoscenza della memoria, la ripresa d'interesse per tali problemi appare indiscutibilmente folta di
positive implicazioni e senz'altro in fase evolutiva.
Quest'impulso è rispecchiato dalla serie di simposi organizzati sulla nozione di memoria a livello
psico e biologico: come, anche dalla pubblicazione di tre volumi, esponenti in forma sintetica
quanto di nuovo è stato "accertato" sulla memoria, a livello psicologico, biologico e patologico,
negli ultimi tempi.
Noi esporremo specificamente il contenuto di ciascuna delle tre opere.
Maggior interesse fra tutte presenta la prima, "Modelli della memoria umana", pubblicata a cura di
D. A. Norman. Essa è, probabilmente, la fonte più ricca di elementi per una conoscenza dell'attuale
stato degli studi sulla memoria umana, nonché delle ricerche effettuate in questi ultimi anni dalla
psicologia americana, sull'argomento (10).
L'opera presenta notevole interesse, sia per il corpo dei partecipanti, sia per le idee di base. Gli
articoli in essa presentati riportano il pensiero di tutti, più o meno, i principali psicologi americani e
inglesi: i loro nomi - D. A. Norman, W. A. Wickelgren, G. Sperling, J. Morton, W. Reitman,
eccetera - sono ben noti, e i lavori di altri - quali M. I. Pozner, L. Postman, N. C. Waugh, V. K.
Estes, e altri - sono citati ampiamente dagli autori.
L'opera è dedicata all'elaborazione di un modello di memoria. Tale termine non va assolutamente
inteso come modello matematico. Nella stragrande maggioranza delle relazioni, "modello" compare
come un tentativo di precisare la struttura del processo di memoria, specificarne le componenti,
presentare le tappe del processo di memorizzazione, mettendo a punto le più complesse nozioni
sull'organizzazione funzionale della memoria, sostituendole a quelle superate e grossolane.
Per lo più, tale modello offre il risultato di un'analisi di ordine puramente logico, a volte operata
sulla base di dati sperimentali, altre, di dati introspettivi, raramente espressa da una formulazione
matematica.
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Suo obiettivo fondamentale è fornire un sistema di riferimento sui processi di memoria, che possa
consentire predizioni sui risultati dell'esperimento, se - tramite quest'ultimo - si vorrà verificare
l'esattezza dell'ipotesi di lavoro.
Risultato incontestabile, l'arricchimento e specificazione delle nostre nozioni sui processi di
memoria: pericolo reale è, invece, - come, del resto, in ogni caso di "modelli" - nella possibilità di
sostituire reali fattori psicologici con ipotetiche congetture, e, talvolta, con semplicistiche analogie.
Partendo da presupposti diversi, gli autori tendono a focalizzare i differenti aspetti del problema;
l'ipotesi su cui tutti, comunque, concordano, è che "la memoria" si presenti come processo
complesso, protendentesi nel tempo, reso frammentario da una serie di successive articolazioni
(tappe), aventi ineguale struttura.
Per la maggior parte, essi ritengono che la memoria prenda le mosse da un'immagine-lampo
(consecutiva all'esperienza), sufficientemente ampia quanto a "corredo", ma assai instabile
(Sperling), che rapidamente evolva verso la seconda tappa, di una ricodificazione acustica,
incorporante l'annotazione sonora del materiale; tale tappa possiede un ristrettissimo "corredo"
(limitato, talvolta, a pochi elementi), e durata molto breve. Seconda tappa, quella del passaggio
dall'impressione sensoriale alla memoria per immagini: essa possiede grande corredo e notevole
stabilità, ma deve essere considerata a malapena come intermedia.
Alcuni autori sarebbero inclini a designarla come una sorta di "tampone" fra recezione e
codificazione dell'informazione ricevuta, tramite un inserimento nei sistemi già noti, o matrici, che
costituiscono la base del ricordo, a breve e lungo termine, e assicurano, come un corredo
vastissimo, così anche una durata di ritenzione praticamente illimitata.
Ognuna di queste tappe, a giudizio concorde di molti autori, poggia sul variegato sistema di segni
impressi, costituenti la complessa trama dei supporti che fungono da base del ricordo. Gli elementi
di tale trama presentano differente stabilità e comprensibilità: la loro attualizzazione oscilla a
seconda dello stato del soggetto e degli obiettivi cui egli tenda. La pluralità e frammentarietà di tali
elementi rende assai complesso il processo di richiamo, che una tele quantità di autori dell'opera
(Feigenbaum, Kintsch, Murdock, Shiffrin, Reitman) avvicinano al processo conoscitivo, e
considerano come ricerca attiva, compiuta secondo la consueta strategia. Proprio tali processi, di
codificazione e decodificazione dell'informazione, nella misura del loro passaggio dal supporto
delle componenti sensoriali, e della loro inclusione nei corrispondenti sistemi complessi, risultano
elementi centrali nella funzione di elaborazione del modello di memoria umana, che gli autori
dell'opera si sono prefissi.
Varie sono le sfere di analisi, nell'opera.
Norman e Rumelhart (cap. 2) e Wickelgren (cap. 3) analizzano la complessa e composita
costituzione della tappa percettiva. Bernbach (cap. 4) si studia di mostrare che tale complessa e
composita costituzione è caratteristica - a uguale livello - di qualsiasi tappa del processo di memoria
(sia a breve, sia a lungo termine). Reitman (cap. 5) traccia un probabile schema di ricostruzione di
tale complicato processo. Sperling e Speelman (cap. 6) esaminano specificamente la memoria a
breve termine, soprattutto acustica, i cui elementi, a loro giudizio, sono praticamente riscontrabili in
qualsiasi forma, anche non acustica, di memoria.
J. Morton (cap. 7) sviluppa tale asserzione, e, inserendo un'analisi linguistica del processo
mnemonico, ne descrive dettagliatamente le tappe "precategoriali" e "categoriali", soffermandosi in
special modo sul ruolo che nel ricordo gioca il contesto.
Una determinata parte dell'opera, è riservata all'analisi dei processi associativi. In essa, Greeno (cap.
8) si sofferma sull'analisi della correlazione di elementi logici (superassociativi) e immediati,
nell'impressione e richiamo di tracce, e considera il processo di codificazione come una sorta di
apprendistato agli schemi del richiamo; mentre Murdock (cap. 9) prende in esame, specialmente, il
rapporto fra oblio e reminiscenza, descrivendo la natura instabile e fluttuante delle tracce di
memoria.
La parte dedicata ai meccanismi di impressione e richiamo di tracce include una serie di specifici
capitoli. Bjork (cap. 10) prende in esame tale questione: come vengano a influenzare le tracce, da
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un lato, una reiterata ripetizione del materiale, da un altro, un ripetuto, attivo richiamo delle stesse.
L'interessante e vasto lavoro di Kintsch (cap. 11) analizza il processo di reminiscenza come
"selettivo" entro la fitta rete dei segni, e considera minuziosamente le condizioni di relazione
esistenti fra le complesse matrici (sensoriali e conoscitive) di tali segni. Vedute affini sviluppa R.
Shiffrin (cap. 12), trattando del problema della reminiscenza come di processo di ricerca.
L'opera si conclude con due capitoli, in cui E. Feigenbaum dà una breve, ma eloquente definizione
del passaggio dalla memoria a breve termine (sensoriale), all'intermedia (per immagini), a quella a
lungo termine (concettuale), e W. Reitman (cap. 14) si studia di tracciare l'effettivo percorso della
memoria nel soggetto che ricorda: memoria orientata secondo una determinata strategia, che muta
considerevolmente il contenuto del sistema di tracce formatesi.
Per due aspetti, l'opera, il cui contenuto, ovviamente, abbiamo appena sintetizzato nelle linee
principali, presenta notevolissimo interesse.
Sotto un aspetto - ed è questo il lato positivo - essa dimostra quanto si sia evoluta la contemporanea
psicologia americana dalle acritiche concezioni di memoria come risultato di ripetizione e
consolidamento di tracce precedenti; e quale sviluppo si sia avuto dalle semplicistiche teorie finora
perdurate negli studi fisiologici sulla memoria.
D'altro canto, suscita un comprensibile timore il fatto che, presso molti studiosi, al posto dei
"ponderati" esperimenti, siano subentrati o i dati dell'analisi introspettiva, o ipotetiche costruzioni,
quelle appunto di cui sono così ricchi i contemporanei tentativi di "modelli" di memoria.
Proprio in relazione a questo, la lettura di alcune parti dell'opera, suscita una vivace reazione, pari a
quella che dovette provocare, 40-50 anni fa, la lettura delle opere della scuola di Würzburg, sebbene
l'oggetto dell'"introspezione sperimentale" sia sostanzialmente cambiato, e il posto del problema
dell'"immagine" sia stato preso dal problema della "codificazione", della "strategia" e della
"selezione".
Non possiamo non rilevare che in tale campo avrebbero degnamente figurato gli studi di A. N.
Leontjev, di L. V. Zankov sullo sviluppo della memoria intermedia, quelli di A. A. Smirnov
sull'analisi psicologica della struttura del ricordo; quelli, ancora, di P. I. Zincenko (Zintchenko) sul
ruolo dell'apprendimento nell'organizzazione del ricordo spontaneo e non spontaneo, e altri. E aiuto
sicuro potrebbero offrire anche le ricerche neuropsicologiche sulla memoria (pochissimo utilizzate
dagli autori dell'opera), nonché quei lavori sulla correlazione fra segni acustici e semantici, la cui
effettiva analisi è stata realizzata a suo tempo da psicologi americani, come dai sovietici (confronta
A. R. Lurija e O. S. Vinogradova).
La seconda opera, "Biologia della memoria" (11) pubblicata a cura di due noti esponenti della
psicologia, per il suo contenuto, è già in parte nota agli psicologici sovietici: essa raccoglie il
materiale di due simposi (sulle "Basi biologiche della memoria", e sulla "Memoria a breve e a lungo
termine"), del diciottesimo Congresso internazionale di psicologia, tenutosi a Mosca nel 1966.
Sostanziale complemento all'opera è costituito da numerosi lavori, fra i più avanzati al riguardo, di
cui alcuni presentati al cinquantesimo Congresso degli psicologi americani, tenutosi a Washington
nel 1967.
Il libro consta di cinque sezioni fondamentali.
La prima passa in rassegna i principali problemi dell'impressione, ritenzione e richiamo del
materiale. Essa comprende una serie di articoli, relativamente brevi, dei maggiori psicologi nel
campo della memoria, dal punto di vista psicologico: A. W. Melton, E. Tulving, B. B. Murdock
(USA); D. Broadbent (Inghilterra), P. Nevelskij (URSS), B. Milner (Canada), J. L. Mc Gaugh e N.
Waugh (USA).
Problema centrale di questa rassegna, è, da un lato, l'esame delle questioni circa il rapporto fra
memoria a breve e lungo termine; da un altro, circa la natura dell'oblio.
E' sufficiente prendere un'attenta visione di tale parte, per accorgersi di quanto differiscano i metodi
proposti dai principali psicologi riguardo a entrambi i problemi.
Se alcuni autori considerano memoria a breve, e memoria a lungo termine, come due processi
assolutamente diversi, altri propendono all'ipotesi che in entrambi gli aspetti della memoria noi
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abbiamo un "continuum" - dalla prima alla seconda tappa del processo - e, dunque, a ritenere
scientificamente non provata una rigorosa distinzione fra le stesse.
Se alcuni fra i congressisti formulano l'ipotesi che l'oblio rappresenti un processo relativamente
semplice di progressivo affievolimento di tracce, altri inclinano a ritenerlo condizionato
dall'influsso infrenante di fattori accessori interferenti - perduranti e retroattivi - cui pertanto
rivolgono seria attenzione. Ricordiamo che, nella letteratura sovietica, tali fattori da tempo sono
stati oggetto di studio da parte di numerosi autori, A. A. Smirnov e altri.)
Ne consegue, naturalmente, che, nella ricerca di una soluzione a entrambi i problemi, vengano
chiamati in causa specifici studi, utili a fungere da supporto per le rispettive tesi, tramite un'accurata
revisione del contenuto di informazione di "memoria specifica", "fattori di richiamo", "ruolo dei
fattori suppletivi accessori", e così via.
Dati interessanti circa la perturbazione della memoria, a seguito di lesioni all'ippocampo, reca la
Milner nel suo lavoro.
La seconda e terza sezione della rassegna vertono sull'analisi della microstruttura di memoria, e
sullo studio del problema del trasporto chimico (umorale) dell'informazione. Da qui prendono le
mosse articoli relativamente ampi e esplicativi, di M. R. Rosenzweig e A. Riesen (USA), H. Hyden
(Svezia), A. Jacobson e J. McConnell e collaboratori (USA).
Gli articoli che costituiscono la seconda parte del volume, risultano una rassegna di studi
contemporanei sui problemi della memoria sulla base molecolare, con particolare riferimento
all'apporto arrecato dai vari agenti chimici - colinesterasi, acetilcolina - nell'organizzazione delle
tracce nei ratti, con l'estirpazione di vari settori del cervello; un'analisi dell'influsso esercitato dalla
maturazione del cervello, come dalle lesioni delle sue zone sensoriali, sul formarsi delle tracce (A.
Riesen); un esame approfondito del ruolo giocato dai fattori RNA, DNA, sull'organizzazione delle
tracce stesse; e, a conclusione, un articolo di Hyden, di evidente interesse, con una completa
rassegna dei dati da lui reperiti.
Nella terza parte, due articoli (di A. Jacobson, Mc Culloch e collaboratori), sulla possibilità di
trasmissione per via chimica, oltreché nervosa, dell'informazione. Vi troviamo ampiamente esposti i
noti "esperimenti cannibalici", in cui gli autori si studiano di dimostrare che la introduzione di
sostanze chimiche (ad esempio di estratto di carne o di cervello di animali quali vermi e topi) su
altri animali possa risvegliarne non soltanto l'eccitabilità diffusa (globale), ma apportarvi anche vera
e propria informazione.
I risultati di tali esperimenti sono stati più volte oggetto di serie critiche che li hanno posti in
dubbio, ma è indiscutibile l'interesse informativo presentato dai dati schematicamente forniti dagli
autori.
La quarta parte è dedicata all'analisi - su base neuronica - dei processi mnestici.
Vi compaiono articoli di I. Kupfermann e H. Pinker (USA), E. N. Sokolov, A. Pakula, G. G.
Arakelov e O. S. Vinogradova, T. P. Semënova e V. F. Konovalov (URSS); L. Gerbrandt, J. Bures
(Buresh) e O. Buresova (Bureshova) (Cecoslovacchia).
Tutti forniscono materiale prezioso per la conoscenza dei meccanismi plastici dei singoli neuroni e
delle sinapsi, nonché dei meccanismi più interni che appunto nel corpo della cellula e della sinapsi
si verificano, durante il prodursi delle tracce. Di particolare interesse le relazioni accuratissime di E.
N. Sokolov e della Vinogradova e collaboratori. Oggetto della prima: i processi interni verificantisi
nel corpo del neurone isolato, sotto l'influsso di un'impressione, come anche i meccanismi di
eccitazione legati a tracce durevolmente impresse, e ancora quelli di abituazione; nella seconda
relazione, dati sufficientemente significativi per poter includere nella globale struttura architettonica
del cervello il processo di impressione di tracce all'interno di ciascun neurone; e vi è, almeno in
parte, spiegato il ruolo giocato dall'organizzazione del sistema "non specifico" della zona limbica
del cervello, e di altre strutture, sul formarsi di risposte a nuovi eccitamenti, sui rapporti fra questi
ultimi e altri precedenti, sull'elemento "abituazione" agli stessi, e così via.
Entrambi gli articoli sono ampiamente illustrati e corredati da materiale esauriente, che consente di
controllare i dati sulla cui base gli autori sono addivenuti alle relative conclusioni.
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L'ultima sezione dell'opera è dedicata al problema della elaborazione del modello di memoria.
A differenza degli articoli compresi nella prima opera da noi esaminata, questi, figuranti
nell'analogo settore della seconda, non rivestono alcun carattere di pura astrattezza, basati, come
sono, su precise analisi psicologiche condotte sugli animali. Essi tendono a mostrare come si
diffonda il processo di eccitazione apportato al sistema nervoso dell'animale, e quale ruolo
modellatore esplichino le singole strutture, nelle variazioni di tale circolazione.
La rassegna è conclusa da un originale articolo del collaboratore di K. Pribram, O. N. Spinelli, sotto
la curiosa denominazione di "OCCAM" dove è proposto uno schema dei processi di memoria,
basato su controlli neurofisiologici, verificabili su specifici computers elettronici.
Evidente dunque l'interesse di questa panoramica sullo stato attuale della biologia della memoria,
presentata da Pribram e Broadbrent.
La terza opera da noi presa in esame, "Patologia della memoria" (12), ci porta nel campo dei
problemi patologici della memoria.
Il materiale in essa pubblicato è il risultato di un simposio, tenuto negli Stati Uniti nel 1967, sulla
patologia della memoria, per iniziativa dello stesso Talland, ora defunto. Sia la problematica in sé,
sia la partecipazione di psicologi - quali D. Broadbent, J. Bruner, G. A. Miller, O. Zangwill, M.
Pozner, L. Postman - o di neurologi - quali N. Geschwind, H. Hecaen, K. Pribram, e altri - rendono
l'opera significativa, nella letteratura finora apparsa in materia.
Idea base, e punto di partenza di quanto esposto, è che un soddisfacente sviluppo della conoscenza
della memoria richieda - da un lato - l'utilizzazione, da parte degli psicologi, del materiale clinico, -
da un altro - l'apporto, in campo clinico, degli esatti metodi psicologici. Proprio tale obiettivo ha
indotto a conglobare, in un unico simposio, psicologi e clinici, e a considerare la patologia della
memoria come materiale valido a un incremento di teorie esplicative.
L'opera consta di tre parti.
Oggetto della prima: i principali problemi dei disturbi della memoria, nelle varie forme cliniche:
aprassia, agnosia (N. Geschwind), afasia (H. Hecaen), sindrome di Korsakov (S. Brion), amnesie
senili (V. Kral), lesioni cerebrali localizzate (J. Barbizet), epilessia temporale (J. Bruner e E.
Walker), trauma (M. Williams), stati da post-elettroshock (B. Cronholm), isteria (J. Nemiah). In
forma schematica, è presentata anche un'analisi dei dati sul substrato cerebrale nei difetti di
memoria (R. Adams).
La seconda parte è dedicata all'esame fisiologico dei processi di memoria. Comprende un'analisi dei
meccanismi molecolari (S. H. Barondes) e un importante articolo riassuntivo di Pribram, inteso a
indicare, negli esperimenti con le scimmie, il ruolo della codificazione nella fisiologia della
memoria.
La terza parte riveste carattere totalmente psicologico, dedicata com'è ai meccanismi psicologici di
base, reminiscenza e oblio. Rientrano in tale settore: un rapporto di O. Zangwill, sui modelli
neuropsicologici della memoria, indicante i meccanismi di transizione dalla memoria a breve a
quella a lungo termine, con un'analisi critica del modello proposto da L. Weiskrantz; una relazione
di Broadbent, dedicata alle tappe fondamentali del processo di richiamo, dalla percezione, alle
successive tappe della codificazione; un importante articolo di Posner, sul ruolo delle varie forme e
dei vari fattori della codificazione e del richiamo; un altrettanto valido rapporto di Postman, sul
ruolo delle interferenze nell'oblio; un articolo di G. A. Miller, sui principi base dell'organizzazione
della memoria verbale (lessicale), e un altro, di Bruner, sullo sviluppo delLa memoria selettiva nel
ragazzo; uno di L. S. Kubie, sul rapporto fra memoria cosciente e precosciente, e di A. Koestler, sui
due aspetti della memoria (astratta e per immagini), e altre ancora.
L'idea base, dominante, più o meno, in ogni relazione, consiste nel fatto che la memoria non possa
assolutamente esser considerata processo omogeneo, in quanto, come appunto ha sottolineato uno
dei congressisti, Kubie, "Il concetto di memoria, genericamente espresso, è una astrazione": e
dunque lo psicologo (e, si capisce, anche il neuropsicologo), deve conoscerne le successive tappe, i
fattori promuoventi la reminiscenza o l'oblio, e stabilire un rapporto fra tali fattori e i meccanismi
mnestici del cervello.
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Tale posizione è di primaria importanza, ora che le pagine dei periodici sono inflazionate dai
dibattiti sui meccanismi "della memoria" - genericamente espressa - ed è divenuta una moda, in
dozzine di conferenze, "puntare" sui "meccanismi mnestici, di ordine biologico e fisiologico", senza
ulteriori tentativi di precisare la complessa struttura dei processi dell'altrettanto complessa attività
mnestica.
Comprensibile, dunque, lo sforzo degli autori di "impadronirsi", da un lato, della struttura
psicologica della reminiscenza, da un altro, dei meccanismi psicologici dell'oblio.
Circa il primo problema: Broadbent, Miller, Pozner, Kubie, Koestler partono dal presupposto che la
reminiscenza sia, in ogni caso una codificazione dell'informazione ricevuta, e che, senza tale
codificazione, o organizzazione di tracce nei sistemi noti, non possa praticamente darsi alcuna
attività mnestica.
Partendo da questa posizione, Broadbent propone un modello di memoria, al primo stadio,
risultante come registrazione percettiva del materiale, al secondo, codificazione dello stesso nei
sistemi noti, al terzo, ritenzione di questi codici, al quarto, passaggio dal sistema codificato allo
stato latente.
Posizione affine sviluppa M. Pozner, che parte da una analisi dell'impressione non codificata
(modalmente-specifica), considera quindi il ruolo della denominazione (degli oggetti percepiti)
nella codificazione e ritenzione dell'informazione, e conclude con un'analisi del ruolo
dell'attenzione selettiva nella memorizzazione. Analogamente J. Miller: con particolare dovizia di
esempi, e una specifica attenzione alla complessa rete di codici sottostanti all'uso dei termini, su cui
- egli sottolinea - è indispensabile documentarsi, per approfondire i processi di memoria verbale.
Affini a tali autori, appaiono L. Kubie - inteso a puntualizzare come la memoria, non sempre risulti
un processo cosciente, e come, nella codificazione del materiale ricevuto, giochi spesso un ruolo
attivo l'esperienza inconscia; e C. N. Cofer, che formula l'ipotesi di una codificazione sistematica
(generalizzata), come meccanismo base della memoria. Tutta questa sfera di rapporti è logicamente
conclusa dalla relazione di A. Koestler, cui dobbiamo una decisa distinzione fra forma astratta
(sistematizzata, basata su codificazioni logiche), e forma per immagini (immediata), di memoria,
che rivela il diverso ruolo, giocato da entrambe le forme, nella vita psichica del soggetto.
Appunto sull'assoluta necessità di valutare la codificazione come esperienza fondamentale del
processo di memorizzazione verte in sostanza l'importante lavoro di K. Pribram, che a tale
conclusione giunge proprio sulla base di una vasta documentazione su animali.
Secondo Problema fondamentale dell'opera è lo studio dei meccanismi sottostanti al processo di
oblio.
Già nell'introduzione, N. Waugh rileva come sia tuttora irrisolto il dilemma, se l'oblio debba essere
imputato a instabilità e affievolimento di tracce, o piuttosto a inibizione delle tracce stesse, per
interferenze accessorie. In proposito, ed esattamente sul ruolo dell'interferenza, un'accurata analisi
di Postman: se tale interferenza verta a impedire la fissazione della nuova esperienza, o a inibire il
ricordo (della vecchia), o ancora a rendere impossibile una tempestiva eccitazione. L'autore non
giunge a una risposta conclusiva, ma hanno comunque incontestabile interesse gli argomenti da lui
addotti circa il carattere sistematico dell'interferenza, e sul fatto che essa comporti, non tanto
un'inibizione di elementi individuali e distinti, quanto piuttosto quella di sistemi generali.
Altrettanto interesse riveste, nella relazione di Postman, l'accento posto sulla difficoltà di valutare
l'elemento "affievolirsi di tracce", a seguito di lunghi intervalli di tempo (la nota curva discendente
di Ebbinghaus), proprio per il fatto che, in tali lunghi periodi, è inevitabile il prodursi di interferenze
accessorie, non calcolabili durante l'esperimento.
Sull'importante ruolo che gioca l'interferenza (nel duplice aspetto di interferenza perdurante e
retroattiva) nei processi di oblio - sia genericamente, sia nei casi patologici - si è infine espresso,
con considerazioni conclusive, il promotore del simposio stesso, J. Talland.
Pienamente apprezzabile, dunque, l'obiettivo fondamentale del simposio: l'approfondimento delle
nostre conoscenze sulla complessa struttura psicologica dei processi mnestici, anche in vista di
un'utilizzazione delle stesse per una patologia della memoria.
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Abbiamo presentato una sintetica esposizione delle tre principali fonti in grado di metterci al
corrente su quanto è emerso nella più recente scienza psicologica straniera, Specie anglo-americana.
Se a ciò si aggiunge che, durante questi ultimi tre anni, sono state pubblicate opere che espongono
in maniera pressoché esauriente il contenuto di precedenti pubblicazioni sui problemi della memoria
(13) ne verrà che il lettore potrà ben esser certo di essere stato informato dovutamente sullo stato
attuale di tale importante capitolo della psicologia.
Registrando tutta l'importanza dei dati esposti in tali fonti, non possiamo non rilevare ancora una
volta, e sempre con profondo rincrescimento, l'assoluta assenza, nella loro informazione, di
qualsiasi cenno ai relativi studi psicologici sovietici.
Ciò, tanto più è deplorevole, in quanto, già da tempo nell'intero complesso della ricerca sovietica -
da noi sopra delineata (i lavori di A. N. Leontjev, sullo sviluppo della memoria; o di A. A. Smirnov,
sul processo di richiamo; o di P. I. Zincenko (Zintchenko), sulla registrazione spontanea; e molti
altri) - erano stati trattati problemi di psicologia della memoria, che solo negli ultimi anni, nella
letteratura straniera, sono cominciati ad apparire; e già da tempo erano stati proposti metodi analitici
della memoria umana, quali tuttora, nella scienza occidentale quasi da nessuna teoria risultano
utilizzati.
Si parla spesso dei disturbi della memoria associati alle lesioni cerebrali localizzate, ma raramente
essi vengono descritti con cura e mai vengono analizzati nei termini dei meccanismi fisiologici di
base dai quali dipendono. Soltanto durante gli ultimi due decenni sono stati fatti dei tentativi per
dare un'impostazione più scientifica all'analisi del problema dei disturbi della memoria (vedi, ad
esempio, [1, 2]). Tenteremo in questo articolo di passare in rassegna alcuni dei principi
fondamentali che governano i nostri studi clinici e di interpretare i risultati, dove è possibile, nei
termini dei principi psicologici generali.
Sono state proposte due ipotesi per spiegare i difetti della memoria del genere comune nelle lesioni
cerebrali localizzate. La prima attribuisce l'oblio al "decadimento della traccia" vedi, ad esempio,
[3]). I neurologi suppongono che negli stati patologici del cervello la velocità di decadimento viene
accresciuta, le tracce divengono instabili e la loro consolidazione diviene difficile.
La seconda ipotesi attribuisce il disturbo della memoria non ad una ridotta capacità di
immagazzinare, ma ad una difettosa capacità di recuperare; viene supposto che le difficoltà della
memoria sono dovute ad un accresciuto blocco delle tracce da parte di azioni o di impressioni in
interferenti [4, 5.]. Questo aumento della inibizione delle tracce a causa di interferenze viene
considerato come la causa principale dell'oblio anormale negli stati patologici [6, 7].
Cercheremo di esaminare entrambe le ipotesi. Cominciamo con due serie di esperimenti. Nel primo
analizzeremo come le tracce possono essere recuperate dopo un intervallo di 1-2 minuti libero da
impressioni o azioni interposte ("intervallo libero"). Nel secondo ripeteremo l'esperimento, ma con
l'intervallo occupato da impressioni o azioni interposte (cioè, "interferenti"). Queste possono essere
"eterogenee", come quando viene richiesto al soggetto di fare dell'aritmetica mentalmente, o
"omogenee", come quando gli viene richiesto di ricordare una seconda serie di parole. Se si trova
che il recupero è normale dopo il periodo libero, ma è bloccato dagli stimoli interferenti, ci sono dei
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fondamenti per accettare la seconda ipotesi: l'oblio patologico è dovuto ad un blocco della capacità
di recupero a causa di una attività interposta.
I nostri risultati sono chiari: si è trovato che una larga maggioranza di pazienti affetti da lesioni
cerebrali: localizzate (tumori, emorragie, traumi cranici) è capace di ricordare una serie breve di
forme geometriche, disegni, movimenti, cifre, parole o frasi nella condizione di "intervallo libero",
mentre si è trovato che essi avevano una grossa difficoltà nel ricordarli nella condizione di
"interferenza". In tali casi i pazienti dicevano che le tracce delle impressioni precedenti
"scomparivano" e che non erano capaci di ricordarle, oppure davano prova di una "combinazione"
della tracce della serie precedente con quelle della serie successiva. Questi risultati dimostrano che
gli stati patologici del cervello, associati a lesioni focali, danno luogo ad un aumento del blocco
delle tracce causato dall'attività interposta tra la percezione ed il richiamo e che i disturbi della
memoria, osservati in questi casi, sono dovuti ad un aumento della inibizione delle tracce causata da
ciascuna attività interposta.
Ebbene, si sono ottenuti dati con pazienti affetti da tumori profondi del cervello [8, 9, 10], da
aneurismi dell'"arteria communicans anterior" [11], da lesioni focali del lato convesso dell'emisfero
sinistro [9, 12], ed anche con pazienti affetti da traumi cerebrali massivi [13]. Soltanto le lesioni del
lobo sinistro temporale e temporoparietale danno luogo ad un'instabilità delle tracce immediate
verbo-acustiche, e sono stati osservati anche dei difetti nella loro consolidazione [9, 14].
Discuteremo più avanti questi casi.
L'inibizione delle tracce, che si è accresciuta patologicamente a causa dell'interferenza, sembra
essere un fattore fondamentale sottostante ai disturbi della memoria associati a tutte le lesioni
cerebrali. Ecco il motivo per il quale consideriamo questo meccanismo come fondamentale.
I disturbi della memoria possono essere del tipo "generale" (cioè, di modalità non specifica), come
nella classica sindrome di Korsakov, o del tipo "parziale" (modalità specifica), ad esempio, acustici,
verbali, spaziali. Essi possono essere presenti a tutti i livelli di codificazione od essere limitati ad un
livello soltanto, ad esempio, a quello inferiore (sensoriale) o a quello superiore (intellettuale).
Inoltre, possono essere presenti in pazienti non affetti da stati di confusione o di sonnolenza,
sebbene la loro associazione con questi stati, o con l'inerzia patologica dell'attività nervosa, non sia
naturalmente incomune [15]. Vedremo più avanti come possono essere importanti queste differenze
e considereremo il loro significato per la localizzazione ed il substrato fisiologico dei disturbi della
memoria.
La memoria generale (non specifica) può essere osservata nei casi di lesioni profonde degli emisferi
che coinvolgono il tronco cerebrale, i nuclei talamici e le vie provenienti dall'ipotalamo, i corpi
mammillari e l'ippocampo: il cosiddetto circuito di Papez. Questo tipo di disturbo della memoria
viene ben descritto negli studi ormai classici come pure nei recenti articoli della B. Milner e dei suoi
collaboratori [16]. I disturbi vengono osservati in pari modo in ogni modalità e l'oblio viene causato
dalle influenze di blocco delle attività che intervengono tra la percezione ed il ricordo e possono
essere dovuti ad un deterioramento dei neuroni non specifici dell'ippocampo che servono da centri
di "confronto" [17].
Sebbene l'amnesia generale sia comune a tutte le lesioni profonde del cervello, il livello del disturbo
e le due caratteristiche neurodinamiche possono variare a seconda della partecipazione di diversi
sistemi funzionali del cervello e di diversi fattori eziologici, ad esempio, la ipertensione, gli stati
tossici e di carenza.
65
Tale disturbo si osserva nella disfunzione cerebrale lieve, ad esempio, nei tumori pituitari che
coinvolgono le parti mediali degli emisferi [10]. Non è presente alcun disturbo delle funzioni
corticali superiori o nessuna perdita di coscienza, e i pazienti hanno una buona consapevolezza del
loro disturbo mnestico. Nessuna alterazione della memoria era evidente nella prova di "intervallo
libero", ma era evidente un disturbo rilevante nelle condizioni di "interferenza". Ciò talvolta risultò
anche dopo 4-5 ripetizioni degli esperimenti.
L'osservazione seguente è tipica:
Veniva presentata una serie di tre parole, e non si osservava nessuna difficoltà nella capacità di
ricordare questa serie dopo una pausa "libera" di 2 minuti. Quando (subito dopo la prima) veniva
presentata una seconda serie di tre parole e al paziente veniva richiesto di ricordare questa seconda
serie, allora le sue risposte diventavano confuse.
colonna 1: casa-albero-gatto
colonna 2: notte-stufa-dolce
colonna 3: ?/1
colonna 4: ?/2
- prima risposta:
positiva (alla colonna 1.)
positiva (alla 2.)
no dimenticato (alla ?/1)
non riesco proprio a ricordarmi (alla ?/2)
- seconda risposta:
due risposte positive (alla 1)
due risposte positive (alla 2)
prima niente - seconda: no... dolce?... (alla ?/1)
prima niente - seconda: ...no ...non ricordo (alla ?/2)
- terza risposta:
positiva (alla 1).
positiva (alla 2.)
...gatto ...no... non so (alla ?/1)
...albero... dolce ...no ...non ci riesco (alla ?/2).
Qui l'effetto di blocco risulta molto chiaramente. In un tale paziente, il richiamo corretto al 100 per
cento è possibile solo dopo gli "intervalli liberi", mentre lo è soltanto al 40-45 per cento negli
intervalli occupati da materiale "omogeneo" interferente.
Dati analoghi sono stati ottenuti in esperimenti sulla capacità di ricordare una serie di disegni,
movimenti, figure, eccetera. E' significativo che non si sono osservati disturbi rilevanti in questo
gruppo di pazienti nel corso di esperimenti sulla ritenzione di semplici tracce sensoriali
(esperimento di Konorski), o di tracce senso-motorie (esperimento di Uznadze sul "set") e di sistemi
di strutture verbali bene organizzate (frasi) che potevano essere facilmente ricordate anche dopo che
veniva presentata un'altra frase come fattore interferente; il numero delle volte in cui si riusciva a
ricordare adeguatamente la prima frase rimaneva al livello del 90-100 per cento.
Tale disturbo si osserva nei casi di tumori profondi e massivi agli emisferi, specialmente in quelli
che coinvolgono le superfici mediali, nei tumori mediali profondi che coinvolgono il talamo, la
formazione reticolare del tronco cerebrale ed il sistema limbico, incluso l'ippocampo. I casi riportati
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da Milner ed altri [16], Popova [8] e da altri autori rientrano in questo gruppo. Uno speciale
sottogruppo comprende pazienti con aneurismi all'"arteria anterior communicans" associati ad
emorragie o costrizioni d'entrambe le arterie cerebrali anteriori [11]; un analogo disturbo esteso
della memoria si è osservato anche nei casi di traumi cranici massivi con emorragie nella stessa
regione generale del cervello [13].
Questi deterioramenti massivi, non specifici, della memoria somigliavano talvolta alla sindrome di
Korsakov. Spesso erano associati a sonnolenza, confusione, pseudoreminiscenze e confabulazione.
Solo in un numero limitato di questi pazienti la coscienza era del tutto chiara. Inoltre, i pazienti si
lamentavano dei disturbi della loro memoria e talvolta sembrava che non ne fossero consapevoli.
In questi casi, le tracce delle impressioni immediate erano molto instabili e scomparivano dopo ogni
spostamento dell'attenzione e dopo ogni interferenza. D'altra parte, le tracce ben consolidate delle
esperienze precedenti potevano rimanere intatte. Talvolta questi pazienti , si dimenticavano della
visita del medico solo dopo un minuto o due e lo salutavano di nuovo se egli ritornava. Il
disorientamento spaziale e quello temporale (specialmente in quest'ultimo) erano assai rilevanti e
c'era poca o nessuna memoria del passato immediatamente precedente. La confabulazione
incontrollata era molto accentuata nei pazienti affetti da lesioni coinvolgenti entrambi i sistemi
frontali e diencefalici, sebbene non ci fosse mai nei pazienti affetti da lesioni ippocampali
circoscritte.
Allo stesso tempo, sarebbe errato supporre che le impressioni immediate scomparivano
completamente. Spesso possono essere stabiliti semplici atti motori [16] o riflessi condizionati e le
unità di informazione conservate ed isolate sono talvolta trattenute per lunghi periodi di tempo.
In tutti i casi di questo tipo, l'evidenza sperimentale suggerisce che i disturbi della memoria sono
dovuti non a un decadimento spontaneo della traccia, ma ad effetti di interferenza. Ciò si rileva bene
anche nei casi di una chiara sindrome di Korsakov: tali pazienti possono facilmente trattenere una
serie di 5-6 elementi e ricordarla dopo un intervallo "libero" di 1,5-2 minuti, e spesso possono
ricordare il succo di un paragrafo e riprodurlo dopo un intervallo "libero" della stessa durata.
Quando però l'intervallo è occupato da un'attività interposta, ad esempio dal semplice computo o
dalla presentazione di 2-3 unità successive, la capacità di ricordare la prima serie decresce dal 90-95
per cento al 55 per cento, o, nei casi di frasi, dal 95-100 per cento al 60-70 per cento, e negli
esperimenti su paragrafi interi, dal 90-95 per cento al 45-50 per cento [10]. Risultati simili sono
stati ottenuti con esperimenti su figure geometriche, disegni, movimenti, eccetera.
In questo gruppo, il disturbo della memoria è evidente a tutti i livelli d'organizzazione mnestica e (a
differenza di quanto si trova nei casi più lievi) anche la organizzazione delle parole in frasi o brani
non altera la ritenzione.
Come si è detto, l'obnubilamento della coscienza, la confusione e la confabulazione risultano
associati ai disturbi della memoria solo nel caso di lesioni coinvolgenti parti mediali del lobo
frontale e del tronco cerebrale. E' importante il fatto che le combinazioni, del tipo descritto
nell'esperimento sulla capacità di ricordare, spesso preannunciano lo sviluppo della confabulazione
a un livello clinico. Essa può durare, in qualche grado, anche dopo un ristabilimento per altri aspetti
buono da uno stato amnesico-confabulatorio.
Può citarsi brevemente un caso rappresentativo di un disturbo della memoria generale:
"Caso R.
Donna di quaranta anni. Tumore alle parti posteriori del corpo calloso coinvolgente le aree
ippocampali. Sindrome di amnesia grave con disorientamento spaziale e temporale, e con gravi
disturbi alla memoria recente. Aumento patologico del blocco della incapacità di ricordare causato
da stimoli interposti.
1. 'Riconoscimento delle forme' (tecnica di Konorski). Veniva presentato per 5-6 secondi un
triangolo blu. Dopo un intervallo "libero" di 30 secondi, un minuto od un minuto e mezzo, veniva
presentata una seconda figura. Questa poteva essere lo stesso triangolo blu o un quadrato blu o un
triangolo verde. La paziente doveva dire se la seconda figura era la stessa o era differente. Con gli
67
intervalli "liberi" ella poteva facilmente svolgere questo compito, ma esso invariabilmente non
veniva svolto se una attività (ad esempio, semplici computi, osservazione di un disegno) veniva
interposta tra la presentazione delle due figure. In tali circostanze la paziente non poteva neppure
ricordarsi che precedentemente era stata presentata una figura.
2. 'Effetti del contrasto tra dimensioni' (tecnica del "set fisso" di Uznadze). Due palle di legno di
diversa dimensione venivano poste nelle due mani, la più piccola nella sinistra. Alla paziente veniva
richiesto di dire quale palla fosse la più grande. Dopo 15 prove alla paziente venivano presentate
due palle identiche. Come di norma, la paziente stimava la palla posta nella mano sinistra come la
più grande e questa illusione veniva conservata dopo un intervallo "libero" di due minuti massimo.
Se, tuttavia, l'intervallo veniva occupato da una attività interposta, le stime della dimensione relativa
divenivano casuali.
3. 'Ricordo di parole: interferenza "eterogenea"'. Non si osservavano difficoltà nella ripetizione di
gruppi di 3-4 parole dopo un intervallo "libero" di due minuti massimo. Ma quando l'intervallo era
occupato da un'attività estranea come la descrizione di un disegno o un semplice computo, potevano
essere ricordati solo uno o due elementi.
4. 'Ricordo di parole: interferenza "omogenea"'. Dato un gruppo di 2-3 parole isolate e poi un
secondo gruppo di uguale lunghezza e richiesto di ricordare dapprima il primo gruppo di parole e
poi il secondo, la paziente non vi riusciva affatto. Diceva che il primo gruppo di parole la
confondeva completamente e che mentre cercava di ricordarlo dimenticava anche il secondo
gruppo. Ciò si vedeva dopo 5-6 ripetizioni dell'esperimento, sebbene talvolta venisse riprodotto un
gruppo combinato.
5. 'Riproduzione di disegni o di azioni'. Risultati analoghi venivano ottenuti se le parole venivano
sostituite da gruppi di disegni o di azioni non collegati tra di loro.
6. 'Ricordo di frasi'. Delle brevi frasi, con significato, di 4-7 parole presentate oralmente potevano
essere riprodotte senza difficoltà dopo intervalli "liberi" di 2 minuti massimo. Quando tuttavia
veniva presentata immediatamente dopo la prima una seconda frase di lunghezza paragonabile, e
alla paziente veniva richiesto di ripetere la prima frase e poi la seconda, ella non vi riusciva affatto o
dava una versione della seconda frase includente solo elementi della prima [combinazione]. C'era
poca o nessuna alterazione nella ripetizione.
7. 'Ricordo di brani'. Il succo di un racconto molto breve presentato oralmente, poteva essere
riprodotto subito dopo (con qualche omissione) e tale capacità poteva essere alterata con 2-3
ripetizioni. Tuttavia, se veniva letto e riprodotto, subito dopo il primo, un secondo racconto e alla
paziente veniva poi richiesto di ripetere il primo racconto, ella o non riusciva a ricordare neppure il
primo o ne dava una versione combinata. La capacità non era alterata dopo 5-6 ripetizioni."
In questa paziente, i disturbi della memoria erano chiaramente del tipo di modalità non specifica ed
altrettanto chiaramente dovevano la loro origine al blocco delle tracce di memoria recente causato
da interferenze. Si noterà che il disturbo della memoria era presente a tutti i livelli
dell'organizzazione semantica.
Questo tipo di disturbi della memoria lo si osserva nei pazienti affetti da lesioni localizzate delle
parti posteriori del lato convesso dell'emisfero sinistro. Non è associato a confusione od
obnubilamento della memoria, disorientamento o trasformazione della personalità. La intuizione nei
disturbi gnostici e mnestici è intatta.
La natura fondamentale di tutti i disturbi della memoria "parziale" è che essi sono limitati dalla
modalità sensoriale. I difetti nel ricordare le relazioni visivo-spaziali si osservano nelle lesioni
occipito-parietali e quelli nel ricordare l'informazione verbo-acustica nelle lesioni delle aree sinistre
temporale o temporo-parietale.
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Negli esperimenti precedenti [12] si è rilevato che i pazienti affetti da lesioni temporali potevano
ritenere facilmente un gruppo di 3-4 figure presentate nella modalità visiva e recuperarle dopo un
intervallo "libero" di due minuti massimo, ma non riuscivano a ritenere un gruppo di 3-4 parole
presentate nella modalità acustica; il recupero dopo un intervallo "libero" di 1,5-2 minuti
raggiungeva solo il 30-40 per cento. D'altra parte, i pazienti con lesioni occipito-parietali di sinistra
ritenevano gruppi di 3-4 parole presentate oralmente, ma non riuscivano a ritenere un numero
equivalente di figure geometriche dopo un intervallo "libero" di 1,5-2 minuti specialmente se tali
gruppi erano organizzati in relazioni spaziali complesse. In queste condizioni, essi ritenevano non
più del 50 per cento degli elementi presentati, e tale percentuale si abbassava al 30-35 per cento se
un fattore di interferenza complicava il recupero.
Questi dati dimostrano che, in contrasto coi pazienti affetti da lesioni mediali profonde, i difetti
della memoria nelle lesioni corticali del lato convesso sono dovute non solo ad effetti di
interferenza, ma anche ad una instabilità primaria e ad un facile decadimento delle tracce all'interno
di una modalità specifica. Per questa ragione, l'"effetto di posizione" era molto accentuato; in questi
casi, ad esempio, pazienti affetti da lesioni temporali di sinistra tendevano a ricordare gli elementi
di un gruppo di parole nell'ordine inverso [14]. Una marcata caratteristica del comportamento di
questi pazienti è quella per la quale rimangono conservate le strategie attive di ricerca, ed i pazienti
che non sono capaci di ricordare gli elementi separati spesso possono afferrare il senso generale di
una frase od anche di un brano. Nel ripetere un racconto possono dire "un passero" invece di "un
merlo", "una mosca" invece di "una formica", ma possono ritenere facilmente il senso generale
dell'intero racconto. La conservazione di tutto il programma (o il significato generale) associata
all'instabilità per quanto riguarda gli elementi particolari è la vera caratteristica essenziale di questa
forma di disturbo della memoria.
Si osserva uno speciale disturbo della memoria nei pazienti affetti da lesioni dell'"area corticale del
linguaggio", in particolare le aree terziarie (temporale-parietale-occipitale ) dell'emisfero sinistro.
Ciò riguarda essenzialmente il recupero verbale nel corso normale del linguaggio. E' noto che gli
"input" in arrivo devono essere codificati, e che la codificazione per mezzo del linguaggio ha un
ruolo essenziale nella memoria. Si riconosce, anche, che una "parola" non è affatto una semplice
associazione di un suono complesso con un'immagine; è piuttosto una matrice pluridimensionale
che ha una sua struttura fonetica, morfologica e semantica. Dal punto di vista della sua
organizzazione acustica la parola "cat" [gatto] è assai connessa a "hat" [cappello]; dal punto di vista
della sua organizzazione morfologica, la parola "blackbird" [merlo] è assai connessa a "whitehead";
dal punto di vista del suo significato semantico, "cat" [gatto] può essere messo in relazione a "dog"
[cane], o a "kitten" [micino]; "school" [scuola] a "college" [collegio], "library" [biblioteca] come
pure a "teacher" [insegnante], "student" [studente], eccetera. Solo una scelta corretta della parola
all'interno di una tale matrice può fornire un sistema linguistico organizzato selettivamente.
Questa selettività presuppone alcune condizioni fisiologiche di base, delle quali una è la "regola
della forza" di Pavlov, secondo la quale stimoli forti (o importanti) producono forti reazioni
corticali, mentre stimoli deboli (non importanti) producono reazioni deboli. Solo se questa regola è
messa in opera, la funzione selettiva dell'area del linguaggio può aver luogo in modo appropriato.
Negli stati patologici della corteccia, tuttavia, la "regola della forza" può venir meno causando una
serie di "stati inibitori", nei quali sia gli stimoli forti che quelli deboli possono produrre reazioni
uguali (fase di uguaglianza) o quando gli stimoli deboli producono reazioni più forti di quelle
prodotte dagli stimoli forti (fase paradossale). Queste condizioni (quando riguardano i meccanismi
corticali del linguaggio) possono disturbare grossolanamente l'organizzazione selettiva del
linguaggio e la selettività delle tracce verbali. In questo modo tracce deboli o non-specifiche
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possono essere evocate allo stesso tempo come se fossero forti ed importanti e la scelta delle parole
nella memoria verbale viene danneggiata. Così nel caso della "afasia amnesica" che si osserva nelle
lesioni delle aree terziarie (temporale-parietale-occipitale) dell'emisfero sinistro.
Il paziente affetto da afasia amnesica può facilmente ritenere le tracce degli stimoli non verbali e
recuperarle anche dopo attività "interposte". Si verificano delle grosse difficoltà quando egli cerca
di ricordare una parola e di recuperarla. In questi casi viene evocata un'intera matrice di connessioni
in egual modo probabili e la scelta corretta delle parole diviene estremamente difficile. Così,
cercando la parola "hospital" [ospedale], il paziente può dire "school" [scuola] o "hotel" [albergo] o
"Red Cross" [Croce Rossa]. Cercando di recuperare la parola "teacher" [insegnante] può dire
"preacher" [predicatore] (somiglianza acustica o morfologica) o "pupil" [alunno] (connessione
semantica); l'accesso alla parola richiesta è bloccato. Questa sembra che sia la base fisiologica della
"parafasia", la cui base neurodinamica è stata così poco esplorata. Discuteremo questo problema in
un articolo specifico.
Un tipo molto speciale di disturbi della memoria lo si osserva in alcuni pazienti affetti da lesioni
massive dei lobi frontali. In questi casi, non vi sono difetti primari della ritenzione e la perdita
apparente della memoria è dovuta ad una trasformazione patologica di tutta la struttura del
comportamento. Ciò è dovuto ad un alto grado di distraibilità, da una parte, e ad una inerzia
patologica, dall'altra, che danno come risultato "una perdita nelle forme programmate di attività"
[15]. In questi casi non c'è una vera e propria amnesia, generale o parziale, e si osserva una buona
ritenzione di una serie di elementi in qualsiasi modalità dopo intervalli "liberi" di due minuti o più.
Il difetto nella capacità di ricordare di questi pazienti risulta da una incapacità nel creare "uno
stabile proponimento di ricordare, assieme ad un fallimento nello "spostare" il richiamo da un
gruppo di tracce all'altro". In esperimenti sull'apprendimento, questi pazienti non riescono a
produrre una curva tipica di apprendimento e rimangono indefinitivamente in una fase di "plateau".
Non viene sviluppata alcuna strategia e non vengono aggiunti nuovi elementi durante la ripetizione
del compito. Nei compiti di "recupero" descritti sopra non sono, inoltre capaci di passare dalla
prima serie alla seconda (inerzia patologica) e non riescono a correggere i loro errori. Questo
fenomeno è chiaro in special modo nelle lesioni del lobo frontale sinistro (dominante) e, se si
estendono alla regione temporale, può associarsi a sintomi aggiuntivi come la "alienazione del
significato delle parole". Se ad un tale paziente si richiede di ricordare il nome di tre oggetti
avvalendosi di una ripetizione inerte della stessa parola o delle parole ad essa associate, ad esempio
"mela... e pera... e una mela", eccetera. In generale, questi dati indicano che i difetti della memoria
nei pazienti affetti da lesioni frontali sono legati ad un disturbo più generale dell'attività
programmata del comportamento assieme ad un'inerzia dei processi nervosi superiori.
Si può fare l'esempio di un paziente con grave sindrome frontale.
"Caso K.
Studente di anni 26. Trauma massivo ad entrambi i lobi frontali. Stato di incoscienza, durato 4-5
giorni, seguito da uno stato prolungato di confusione. Il paziente mancava di spontaneità, era affetto
da acinesi e da ecolalia da perseverazione marcata e da disturbi della memoria. I dati sotto riportati
furono osservati in un arco di tempo compreso tra uno ed i tre mesi dopo aver subito la lesione.
Durante l'intervista, il linguaggio del paziente era povero ed era molto perseverante.
'Ricordo di parole: interferenza "eterogenea"'. Il paziente poteva ritenere gruppi di 2-3 o anche 4-5
parole e ricordarle dopo intervalli a liberi" di un minuto e mezzo. Se veniva interposto un semplice
computo tra la presentazione ed il richiamo, il paziente sostituiva delle cifre alle parole richieste e
negava averle dette.
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'Ricordo di parole: interferenza "omogenea"'. Il paziente ripeteva facilmente due gruppi di 2-3
parole isolate presentate in successione immediata. Se poi però gli si richiedeva di ripetere di nuovo
il primo gruppo, egli ripeteva semplicemente il secondo gruppo, senza correggersi.
'Riproduzione di disegni o di azioni'. Il paziente poteva ritenere delle sequenze di 2-3 disegni o
azioni e riprodurli dopo un intervallo "libero" di 1,5-2 minuti. Quando però veniva presentata una
seconda sequenza simile e gli veniva richiesto di riprodurre la prima dopo aver riprodotto la
seconda egli falliva completamente, ripetendo semplicemente quest'ultima senza alterazioni o dando
una risposta "combinata" con marcate perseverazioni.
'Ricordo di frasi'. Frasi potevano essere ricordate facilmente dopo intervalli "liberi" di 1,5-2 minuti.
Quando però si richiedeva di ricordare una frase dopo aver ricordato una seconda, egli non faceva
altro che riprodurre semplicemente quest'ultima. Sebbene riconoscesse che le due frasi erano
differenti per significato e suono, egli sembrava impotente ad inibire la perseverazione.
'Ricordo di brani'. Durante il primo periodo di osservazione il paziente cominciava a riprodurre il
brano presentato, ma non era capace di fermarsi e continuava a produrre associazioni libere ed
incontrollate che potevano continuare per 15-20 minuti (confabulazione). Poche settimane più tardi,
egli era capace di riprodurre il paragrafo, ma quando veniva presentato un secondo paragrafo, la sua
riproduzione era assai contaminata dal primo e venivano messi in evidenza degli errori stereotipati.
Gli sbagli non venivano mai corretti."
E' chiaro che i difetti apparenti della memoria nei pazienti affetti da lesioni ai lobi frontali sono
dovuti soprattutto ad una mancanza di capacità di passare da un soggetto ad un altro, con
conseguenti perseverazioni e grossi insuccessi nella correzione degli errori stereotipati. Il ricordo è
di conseguenza reso difficile ed impreciso.
Bibliografia.
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pagine 175-180.
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1969.
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medicina di Mosca, 1964.
[9] KLIMKOVSKI M., [Disturbi della memoria acustico-verbale associati a lesioni del lobo
temporale sinistro"], Tesi, Università di Mosca, 1966.
[10] KIJASENKO (Kijashenko) N. K., ["Difetti della memoria nelle lesioni cerebrali localizzate"],
Tesi, Università di Mosca, 1966 e Edizioni Universitarie, Mosca, 1972.
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ad aneurismi dell'arteria 'anterior communicans'"], Mosca, Edizioni Universitarie, 1970.
71
[12] PHAM MING HAC, ["Disturbi della memoria associati a lesioni focali delle parti convesse
dell'emisfero sinistro"], Tesi Università di Mosca, 1971.
[13] AKBAROVA N. A., ["Difetti della memoria nei traumi cerebrali gravi"], Tesi, Accademia
delle scienze mediche, Mosca 1961.
[14] LURIJA A. R., SOKOLOV E. N., KLIMKOVSKI M., "Towards a neurodynamic analysis of
memory disturbances with lesions of the left temporal lobe", in "Neuropsychologia", 1967, 5, 1-11.
[15] LURIJA A. R., CHOMSKAJA E. D., BLINKOV S. M., CRITC M., "Impairment of selectivity
of mental processes in association with a lesion of the left frontal lobe", in "Neuropsichologia",
1967, 5, 105-117.
[16] MILNER B., CORKINS S., TEUBER H. L., "Further analysis the hippocampal amnesic
syndrome: 14 year follow-up study of H. M.", in "Neuropsychologia", 1968, 6, 215-234.
[17] VINOGRADOVA O., "Registration of information and the limbic system", in G. Horn, R. A.
Hinde (Eds.), "Short-term changes in neural activity and behavior", Cambridge Univ. Press, 1970
pagine 95-140.
NOTE.
Nota 1: Nel testo, sempre, "a zuk (giuk)", dove il termine russo "zuk" [scarabeo] è inscindibilmente
preceduto, nella mente del bambino, dall'articolo ebraico "a". (n.d.t.).
Nota 2: Confronta A. R. LURIJA, F. JA. JUDOVITCH "Rec (Retch) i razvitie psichiceskich
(psichitcheskich) protsessov rebenka" [Il linguaggio e lo sviluppo dei processi psichici infantili],
Mosca 1956.
Nota 3: Non appesantiremo il nostro racconto con esempi atti a dimostrare i vantaggi che derivano
al pensiero quando si appoggia ad immagini perspicue. Abbiamo a nostra disposizione un gran
numero di soluzioni di problemi, descritte dallo stesso S., che potrebbero servire di esempio.
Nota 4: Confronta R. JAKOBSON, M. HALLE, "Foundations of language" Mouton, Hague, 1956.
Nota 5: Reali difficoltà nell'apprendimento di tali significati sorgono in casi particolari. Un esempio
ce ne porge l'acquisizione del linguaggio nei bambini sordomuti, nei quali l'apprendimento del
significato generalizzato delle parole è una delle più serie pietre d'inciampo. Confronta R. M.
BOSKIS, "Osobennosti recevogo (retchevogo) razvitija u detej pri narusenii (narusheni) zvukovogo
analizatora" [Particolarità dello sviluppo del linguaggio nei bambini in caso di lesione
dell'analizzatore acustico], in Izv. AMN. RSFSR, 1953, n 48, e anche N. G MOROZOVA,
"Vospitanie soznatelnogo ctenija (tchtenija) u gluchonemych skolnikov (shkolnikov)"
[L'educazione alla lettura consapevole negli allievi sordomuti], Mosca, Ucpedgiz (Utchpedgiz),
1953.
Nota 6: Tralasciamo qui altri due esempi, intraducibili in italiano. (n.d.t.).
Nota 7: Confronta MARX, "Per la critica dell'economia politica", Prefazione, Roma, Editori
Riuniti, 1971.
Nota 8: Queste esperienze sono state condotte, a loro tempo, con la partecipazione di S. A.
Charitonov, N. V. Raevaja, S. D. Rolle, A. I. Rudnik, che ringraziamo della collaborazione
prestataci.
Nota 9: A. R. LURIJA, "Novoe v psichologii, biologii i patologii pamjati", in "Voprosy
psichologii". n. 2, 1971, pagine 164-152. (Trad. di S. Sorrentino).
Nota 10: D. A. NORMAN (ed), "Models of human memory", New York, Academic Press, 1970.
Nota 11: M. PRIBRAM, D. E. BROADBENT (ed). "Biology of memory", New York, Academic
Press, 1970.
Nota 12: G. TALLAND, N. WAUGH (ed), "The pathology of memory", New York, Academic
Press, 1969.
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Nota 13: N. I. SLAMECKA (ed.), "Human learning and memory", saggi scelti, Oxford university
Press, 1967; L. POSTAM , G. KAPPEL, "Verbal learning and memory", Penguin Books, 1969.
Nota 14: "Mernory desorders in local brain damages", in "Neuropsychologia", n. 6, 1971. (Trad. di
L. Mecacci.)
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