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CRONACHE SCOLASTICHE

Si avvicina lestate. A scuola mi aggiro fra i banchi per vincere il sonno. I


ragazzi scribacchiano stracchi i loro esercizi. Cammino per vincere la
calata di sonno che, se siedo, mi riempie come uno stampo vuoto. A casa
non dormirei di certo, starei a leggere qualche libro, a scrivere agli amici.
A scuola diverso. Legato al remo della scuola, battere, battere come in
un bagno in cui lincubo di una disperata immobilit, della impossibile
fuga. Non amo la scuola, e mi disgustano coloro che standone fuori,
esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro. Non nego per, che in altri
luoghi e in diverse condizioni un po di soddisfazione potrei cavarla da
questo mestiere dinsegnare. Qui, in un remoto paese della Sicilia entro
nellaula scolastica con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle
oscure gallerie.
Trenta ragazzi che non possono stare fermi, che chiedono la correzion
manuale che i regolamenti proibiscono; mi portano allegri il bastoncino di
mandorlo perch me ne serva sulle loro spalle; e vengono anche le
mamme a raccomandare che li raddrizzi a botte i loro figli, son legni storti,
il timore ci vuole. Il timore sarebbe luso incondizionato del bastone.
Trenta ragazzi che si annoiano, spezzano le lamette da barba per lungo, le
piantano nel legno del banco per mezzo centimetro e le pizzicano come
chitarre. Si scambiano oscenit che oramai mi forzo di non sentire (tua
sorella, tua madre); bestemmiano, sputano, fanno coniglio coi fogli del
quaderno. E barche, cappellacci; o colorano le vignette dei libri di testo
adoperando il rosso e il giallo selvaggiamente fino a strappare la pagina.
Si annoiano poveretti, altro che favole, grammatica, ci che produce la
Sicilia: alla refezione pensano, appena il bidello suoner il campanello
scapperanno fuori a prendere la ciotola di alluminio, fagioli brodosi con
rari occhi di margarina, la scaglia della carne in scatola, il listello di
marmellata che involtano nel foglio degli esercizi e poi vanno leccando per
strada: marmellata e inchiostro.
Il direttore viene due o tre volte allanno. Entra, guarda i ragazzi seduti su
banchi vecchissimi e scomodi, a quelli pi grandetti che lo guardano
tenendo le mani in tasca, dice di toglierle, di metterle sul banco: diventa
poi un vizio mi dice. Io dico di s. Sono daccordo: la disciplina, il profitto,
spiegare in questo modo il 3 e 14, il numero fisso per trovare lapotema,
e quel ragazzo pare un po tocco, quegli altri non si lavano. Si
bestemmiano, scrivono sulle pareti dei cessi scandalosissime cose.
Rompono le scatole ai vecchi fuori, ai bidelli dentro, ai santi e al mondo
intero. Si azzuffano, scavalcano le lance dei cancelli fra grida disperate di
vecchie in paturnie, giocano a testa e croce il turno alla refezione, poich
son trenta, ma solo dieci per ogni classe han diritto al pasto. Dieci al
giorno. Il fatto che hanno fame.

Qualche volta arriva anche lispettore. Quei trenta miei ragazzi sporchi,
arruffati che non hanno soggezione della sua presenza, continuano a
mormorare e litigare tra loro, evidentemente non gli vanno gi. Vede la
verga sul mio tavolo, forse immagina chiss quali scene di tortura. Io non
li ho mai picchiati, la verga mi serve per indicare citt e fiumi sulla carta
geografica. Ma lispettore non lo crederebbe mai. Bisogna prenderli con
dolcezza dice. E mi racconta di suoi alunni, (perch io vengo dalla
gavetta si vanta) bugiardi, violenti, ladri: da lui corretti e oggi con
posizioni nellisola.
Ed ogni settimana viene il prete per la mezzora di religione. Ricomincia
ogni volta dal principio: Adamo ed Eva. I ragazzi si danno a pizzicare le
lamette. Qualche bestemmia ronza nellaula, ma il prete non finge come
me di non sentire. Promette il fuoco eterno. Ridono. Si fa scarlatto di
collera. Una volta allanno arriva persino monsignore. Da unasola
sbottonata balugina vicino al collo un po di viola. piccolo, magro e nero
come un lucignolo. Parla con voce dolce, sorridendo chiede quanti ancora
devono fare la prima comunione. Circa una met. Monsignore
scandalizzato. Sinforma a quale parrocchia appartengano. Uno dice:
nella mia chiesa cera il prete che scappato con l figlia di Cardella.
Monsignore resta l, impalato, come il portiere che vede il pallone
fulminare improvvisamente la rete. Il fatto vero. Per ricomporsi
monsignore si cerca in petto lorologio. Se ne va, ancora turbato ma
sorridendo; sia lodato Ges Cristo gli rispondono oggi e sempre
sghignazzando.
I figli degli zolfatari e dei salinari sono un po pi svegli dei figli dei
contadini. Nei giorni di vacanza i contadini portano i figli in campagna a
lavorare. Da maggio non li mandano pi a scuola; a meno che non siano
certi che saranno promossi. Hanno bisogno per la raccolta delle fave. Cos
ai primi di maggio i padri mi fermano per la strada la sera della domenica,
e mi chiedono del profitto dei figli. Io rispondo nel modo pi evasivo: se
dicessi la verit mi si spopolerebbe la classe, arriverei allesame con una
decina di alunni. Anche le mamme sinteressano, ma a una sola cosa: la
refezione. Mi raccomandano che io li mandi ogni giorno a mangiare. Ma
ogni giorno non posso, c il turno. Dieci al giorno, per ogni classe.
Nella palestra dove servono la refezione c un grasso sentore di
risciacquatura, carne andata male e pasta cotta come colla. Ma che
spettacolo il guardare come questi ragazzi si precipitano avidi sulle
scodelle, duecento ragazzi affamati e urlanti. Il direttore della refezione
grida la preghiera, la preghiera, e quelli sbrodolano unavemaria mentre
rabbiosamente inghiottono le dieci cucchiaiate di fagioli. Una volta c
stata una distribuzione di scarpe, ma chi ordin la partita (affari grossi, di
gente che sta in citt), credeva che le scuole fossero piene di ragazzi coi
piedini da bambin Ges, e le scarpe servirono a calzare i fratellini.
Nemmeno un paio ho visto calzarne da qualche ragazzo della scuola. I

miei ragazzi portano vecchie scarpe militari, aperte davanti come enormi
bocche sdentate, scarpe di tela o di gomma, sandali di legno con
striscette di cuoio.
Il paese umido, non una di queste case nata nellocchio di un
architetto; murate a gesso, si intridono di nebbia come carta assorbente,
fioriscono allinterno di muffe. Vecchie case, con stanze che escono una
dallaltra a cannocchiale, con scale storte e ripide. Dinverno ardono nelle
stanze bracieri di quellarida carbonella di gusci di mandorle; il calore
risveglia un acre sentore di muffa, di gatti, di animali. I materassi pieni di
paglia stillano acqua. Si dorme vestiti, stanchi, abbruttiti di infiniti secolari
digiuni, di opprimente, quotidiana, stanchezza. Anche i bambini dormono
cos, col fango e la polvere addosso. La mattina si lavano come i gatti,
passano un paio di volte le mani bagnate sul volto; prendono poi il pezzo
di pane con la sarda salata schiacciata dentro, i libri che son rimasti legati
con lo spago dalla sera prima (non hanno studiato, non hanno fatto i
compiti), e si avviano lentamente, a gruppi, mangiando e litigando verso
la scuola. Ma non sempre vanno a scuola, le giornate di sole sono il loro
pi grande tesoro, allora corrono verso la ferrovia a giocare e rincorrersi
fra vecchi vagoni merci in disuso. Se riescono a rubacchiare o ad avere
(chiss come) cinquanta lire vanno al cinema. Se il film vietato ai minori,
se ne stanno nellatrio a fantasticare chiss quali scene erotiche possono
apparire sullo schermo.
Li guardo mentre risolvono un problema, due o tre che veramente
lavorano, chiusi sul quaderno con evidente sforzo fisico, come se invece di
scrivere avvitassero bulloni da ferrovia; gli altri aspettano la soluzione per
copiarla. Oramai non vi pi niente da fare, una situazione cronica.
Aspettando fingono per di essere intenti al lavoro e qualcuno a furia di
fissare il quaderno finisce con la testa sul foglio per unondata di sonno.
Un giorno al circolo, il circolo dei civili, (cos viene qui denominato il
caff dove si ritrovano i possidenti del luogo e le autorit) sentii parlare
dellaffitto dei ragazzi per tutta la stagione estiva.
A dieci anni incomincia per loro il servizio, sono bocche di meno in casa,
i padroni danno loro d mangiare, e in pi qualche vestito smesso che le
mamme pazientemente riadattano e rattoppano. I padroni al circolo ne
parlano come se parlassero di animali, preferiscono avere a servizio dei
ragazzi invece che le ragazze; proprio come se parlassero di gatti,
preferiscono i gatti maschi, con le femmine c linconveniente della
figliata, e poi stanno troppo per casa e sporcano. Preferiscono i ragazzi
perch possono mandarli in giro a cercar uova, in campagna a zappare, ad
abbeverar lasina; pronti a tutte le ore, uno si vanta che il suo ragazzo
sappia fare persino il bucato.
Un tempo ogni classe aveva il suo banco degli asini, un limbo dove fin dai
primi giorni di scuola venivano respinti gli irrimediabili, stralunati ragazzi

dalla testa a pera. Di tanto in tanto il maestro, per ironico scrupolo, li


chiamava a ripetere una lezione, a svolgere alla lavagna un esercizio; non
si alzavano nemmeno, scuotevano le grosse teste mormorando: non mi
fido cio non mi fido a farlo, non credo di spuntarla. Cerano quando io
facevo le elementari ed in alcune classi di maestri anziani ci sono ancora.
Ma i regolamenti li proibiscono, e qualche direttore ha pensato fosse
pedagogicamente pi utile istituire la classe degli asini, una classe di
ragazzi tutti allo stesso livello mentale e nozionale.
A me, non so se perch il direttore confida nelle mie positive qualit o, al
contrario, perch mi ritiene affatto sprovveduto, tocca di solito una di
queste classi degli asini. Se mi ritiene in grado di risollevare le condizioni
della classe, il direttore si illude di certo, come si illuderebbe su chiunque
altro, nessuno essendo capace di un miracolo simile; se invece intende
dare un calcio alla classe, mandarla al diavolo, e me con essa, bisogna
riconoscere che concretamente capisce le cose della scuola.
Qui proverbiale la frase che un vecchio signore rivolgeva alla donna di
casa affidandole una certa parte del suo corpo: Concettina, se resuscita
tuo. Nei riguardi del direttore io penso: se la classe resuscita sua. Non
milludo. Svolgo il programma come si trattasse di una classe normale, su
trenta ce ne sono una decina che mi seguono. Da sei anni, da quando ho
cominciato a insegnare, mi sembra di avere sempre la stessa classe, gli
stessi ragazzi. Il fatto pi vero, di l dalle scolastiche valutazioni, che non
una classe di asini o ripetenti mi tocca ogni anno, ma una classe di poveri,
la parte pi povera della popolazione scolastica, di una povert stagnante
e disperata. I pi poveri di un paese povero. Quelli dei paesi vicini lo
chiamano il paese del sale, la campagna tarlata di gallerie che
inseguono il sale: sale, nebbia e miseria. E io me ne sto tra questi ragazzi
poveri, in questa classe di asini, stralunati di fatica e di fame.
La pubblica istruzione! Obbligatoria e gratuita, fino ai quattordici anni di
et; come se i ragazzini cominciassero a mangiare soltanto dopo, e
mangerebbero le pietre dalla fame che hanno, e dinverno hanno le ossa
piene di freddo, i piedi nellacqua. Io parlo loro di quello che produce
lAmerica, e loro hanno freddo, hanno fame; e io dico loro del
Risorgimento e loro hanno fame, aspettano lora della refezione, giocano
per ingannare il tempo, e magari pizzicando le lamette dimenticano la
fatica del servizio, le scale da salire con le brocche dellacqua, i piatti da
lavare.
Destate il paese caldissimo, infuocata polvere, sembra si sgretoli tutto
in polvere per il fuoco del sale. Ma dinverno, lontana la montagna di neve
di Cammarata, nitida nel cielo smaltato di gelo, il freddo, come dicono i
vecchi, sinfila nelle corna del bue; lo sentiamo anche noi, vestiti come la
stagione vuole, avvitarsi nelle ossa. Stretti e intirizziti come passeri, i
ragazzini si raccolgono sui gradini della scuola, dentro una striscia di sole
che soltanto gracile luce. In attesa che la campana suoni e si aprano le

porte, consumano la loro prima colazione: il pane scuro che addentano


con furia, la sarda iridata di sale e squame che mordono appena, con
attenzione. Pi penoso guardare le bambine, in attesa davanti allaltro
padiglione. Alcune portano ancora la vesticiuola dellestate, le maniche
corte; e tremano di freddo, hanno gli occhi di animali che
indecifrabilmente soffrono. Come in tutte le societ dominate da greve e
antica miseria, da pregiudizi che, scaturiti da economiche angustie,
persistono in una loro forma superstiziosa, le famiglie qui considerano
come evento felice la nascita di un maschio, e la nascita di una femmina
ritengono invece chiuda il passo ad una sorte migliore. Un figlio maschio
speranza, braccia per il lavoro, aiuto e difesa; ma una femmina non
porter mai niente a casa, pu magari disonorarla e sempre se ne andr
portandosi dietro qualcosa. Perci se cure si possono avere per i figli,
vanno ai maschi. Delle femmine cominciano a preoccuparsi quando sar
necessario attirare qualcuno in casa che se le porti via, che se le sposi.
Allora si fanno sacrifici per vestirle in modo che, come si dice, non
scompaiano, che cio si facciano notare: e le mamme hanno un gran da
fare a portarle in giro per chiese e negozi. Si levano il pane di bocca per
comprare alle figlie le calze di nailon; ci sarebbe da fare uno studio su quel
che il nailon significa per i poveri; e ai ricchi, sentire i poveri parlare di
nailon, pare che il mondo non vada pi nel senso giusto il mondo di
questi poveri ricchi che hanno il loro circolo e il salotto stile impero, con le
luttuose fotografie ingrandite, qualche spanna di terra che avaramente
frutta un triste decoro. I ricchi veri, quelli venuti su con le saline, non
hanno di queste preoccupazioni: il mondo va bene per loro, se negli ultimi
dieci anni ha rovesciato dalla loro parte un mucchio di soldi. Infine, non
poi del tutto peregrina lidea che il nailon stia facendo la rivoluzione. I
sensi dei poveri stanno risvegliandosi al tatto del nailon, le antiche
pratiche della familiare ruffianeria matrimoniale, il gioco delle amorose
corrispondenze, dei desideri, e persino di quello che oggi si dice il
comportamento sessuale, si va facendo pi acuto e complesso in grazia
dalle calze di nailon. Una lieve bandiera color carne ondeggia sulla marcia
dei poveri.
Alla fine di maggio qui si festeggia Maria Santissima del Prato. Dura una
settimana. Dal mercoled, noi maestri, attendiamo invano larrivo dei
nostri scolari, firmiamo il registro della presenza e ce ne stiamo a
chiacchierare nelle aule deserte, i ragazzi che dovrebbero essere a scuola,
seguono a grappoli le bande musicali che girano il paese. Le aule vuote
rendono ancora pi malinconico questo piccolo esilio; la stessa malinconia
che aleggia in un teatro vuoto. Le nostre voci risvegliano nelle aule e nei
corridoi echi misteriosi. Le discussioni cadono invariabilmente su stipendi,
indennit, aumenti; e, si capisce, sul governo. I maestri lhanno a morte
col governo, a sentire i miei colleghi mai uno di loro ha dato o dar il
proprio voto al partito che governa. Invece, di quel partito, molti hanno la
tessera nel portafoglio. Cos avviene per il sindacato. Ogni anno tutti

giurano che non rinnoveranno liscrizione; e mantengono la promessa fino


a quando lispettore non li chiama ad uno ad uno. Lispettore il
segretario provinciale del sindacato; e il sindacato quello pi vicino al
governo. Siamo dei miserabili, dicono i colleghi; e ci si sfoga a parlare;
fuori c la festa e noi stiamo qui a discutere le complicatissime tabelle
degli stipendi. Il governo ci tratta come pezze da piedi, strillano i miei
colleghi. Ma se domani il sindacato ci chiedesse di scioperare, prevarrebbe
lopinione degli anziani e lo sciopero finirebbe in burletta: oh s, anche i
pi accaniti, quelli che adesso rischiano lapoplessia urlando, si
arrenderebbero. Pensate un po, dice in proposito un collega, i nostri mille
ragazzi che tornano a casa dicendo di aver trovato la scuola chiusa per lo
sciopero dei maestri. E perch scioperano i maestri? Perch chiedono
qualcosa in pi delle 1500 lire che per ora guadagnano. Mille e
cinquecento lire: Cristo, qui a un salinaro ci vogliono tre giornate per
guadagnarle, tre lunghe giornate a fiaccarsi le ossa, a ingrommarsi i
polmoni della polvere del sale e del fumo delle mine E a sentire che noi,
togliamo loro le braccia dei loro figli perch li obblighiamo a mandarli a
scuola (anche coi carabinieri); e ce ne stiamo a guadagnar tanto, tre ore e
poi via, al circolo stravaccati nelle sedie di vimini, e non ci basta quello
che guadagniamo, certo ci odieranno pi di quanto odiano il padrone che
li spreme. Una volta, prima del fascismo, i braccianti diedero lassalto alla
scuola, volevano bastonarci, e s che allora la maggior parte di noi faceva
la fame. Chi non aveva del suo, con lo stipendio ci comprava il pane,
scarso anche quello.
E poi, quando venne il fascismo, noi tutti bardati e lustri che le strade
sembravano nostre tanto la facevamo d padroni, il fascismo eravamo noi
maestri di scuola, poveri uomini splendenti di patacche a buon mercato; e
il sabato ce ne andavamo in gloria con la divisa di gabardine e il
berretto con aquila a sedere.
Il discorso persuasivo. verissimo che i poveri ci odiano. Ma ci odiano
anche i piccoli proprietari, ad ogni aumento di tributi che vien loro
notificato, essi trovano in noi maestri loggetto immediato del loro astio
contro lo Stato, cos cieco lo Stato da rodere le loro poche spanne di terra,
da costringerli a vendere e a far debiti; e noi pagati per non far niente,
centottanta giorni di scuola allanno, tre ore al giorno di lavoro. Parlano di
noi come se le loro tasse passassero direttamente nelle nostre tasche.
Con cinque palmi di terra dice uno al circolo trentamila lire non mi
restano. Non dice che le trentamila lire lui le aspetta seduto al circolo da
un capodanno allaltro, a enumerare punti al gioco dello scopone. E il
farmacista, il notaio, il medico? Beati voi che lo stipendio lavete sicuro ci
dicono. E si dice pane di governo per dire di guadagno sicuro, che ogni
mese giunge puntuale come il giorno dopo la notte; pane di governo che,
noi maestri, secondo i nostri amati compaesani, noi mangiamo come quei
cani buoni a nulla che n cacciano n fan la guardia, e i contadini
prendono sovente a calci perch mangiano a tradimento. Tutti ci

guardano male, insomma. Se scioperassimo, qui al mio paese, quello dei


cinque palmi di terra e relativo scopone, forse accopperebbe uno di noi.

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