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MONDO PICCOLO
Volume 2 di 5
*
Il padre arrivò dopo una decina di giorni e don Camillo
lo ricevette con tutti i riguardi.
«Ha messo la testa a posto?» s'informò il padre.
«È un bravo ragazzo» rispose don Camillo.
«Dov'è adesso?»
«Sta studiando» rispose don Camillo. «Lo andiamo a
trovare.»
Quando giunsero all'officina di Peppone don Camillo si
fermò e aperse la porta.
Gigino stava lavorando alla morsa con la lima.
Venne avanti Peppone e il padre di Gigino lo guardò a
bocca aperta.
«È il padre del ragazzo» spiegò don Camillo.
«Ah!» disse Peppone con aria poco benevola squadran-
do diffidente il signore pieno di dignità.
«Fa bene?» balbettò il signore.
«È nato per fare il meccanico» rispose Peppone. «Fra un
anno non saprò più cosa insegnargli e bisognerà mandarlo in
città a lavorare nella meccanica di alta precisione.»
Don Camillo e il padre di Gigino tornarono in silenzio
alla canonica.
«Cosa dico a mia moglie?» domandò sgomento il padre
di Gigino.
Don Camillo lo guardò.
«Dica la verità: lei è contento di aver preso una laurea e
di essere finito caporeparto in un ufficio statale?»
«Il mio sogno era di diventare specialista di motori a
scoppio» sospirò il padre di Gigino.
Don Camillo allargò le braccia:
«Dica questo a sua moglie!».
Il padre di Gigino sorrise tristemente.
«Preghi per me, reverendo. Verrò tutte le settimane a
trovare Gigino. Se occorre qualcosa mi scriva. Non a casa
però: mi scriva in ufficio.»
Poi si fece raccontare come era andata la faccenda della
presentazione a Peppone e, quando seppe il particolare della
chiave del quattordici che era proprio del quattordici e ci vo-
leva quella del quattordici, gli brillavano gli occhi.
«Mio padre» esclamò «era il primo tornitore della città.
Buon sangue non mente!»
98 L'ALTOPARLANTE
*
Peppone entrò come una saetta.
«E allora?» domandò.
Il federale lo guardò sbalordito.
«Allora cosa?»
Peppone cavò di tasca il giornale e lo sciorinò davanti al
federale.
«Non ti preoccupare, compagno» rispose sorridendo il
federale. «Sono le solite falsità della stampa governativa. La-
scia perdere!»
Peppone rimase a bocca aperta.
«Appunto perché sono tutte falsità bisogna fare una pro-
testa!» disse alla fine. «Qui si è offeso il popolo! Qui si sono
infangate le purezze di due eroici campioni del popolo! Si va
a Bologna e si spacca tutto!»
Il federale era piuttosto pallido. Accese una sigaretta.
«Compagno: quello che stampano i giornali reazionari
sono tutte falsità. Quei due non hanno dato le dimissioni:
sono stati espulsi dal Partito.»
Peppone si passò il fazzoletto sulla fronte.
«Espulsi?» balbettò. «Ma allora è vero.»
Il federale allargò le braccia:
«Il Partito non può tollerare nelle sue file i traditori! I
traditori devono essere messi al bando!».
Peppone quei due là li conosceva. Con uno dei due era
anche stato a combattere in montagna, e qui il tipo si era
guadagnato la medaglia d'oro. Era uno di quelli che sembra-
no fabbricati da Stalin tanto sono perfetti in tutto. Fin nel
muovere le mani, nel parlare adagio con quella voce bassa e
pacata che incanta. L'altro era anche lui uno in gamba. Ave-
vano votato tutti per lui, il 18 aprile. Quando parlava, anche
se non si capiva niente, era una meraviglia sentirlo.
«Traditori quelli là!» esclamò Peppone. «Non è possibi-
le!»
Il federale strinse le mascelle e guardò cupo Peppone.
«Tutto quello che dice il Partito è possibile e deve esse-
re possibile!» disse con voce dura.
Peppone faceva degli sforzi da leone ma non riusciva a
fermarsi. Gli pareva di essere in discesa sul Dodge, coi freni
che non rispondono.
«Il Partito ha dato l'ordine di votare tutti per loro» obiet-
tò.
«Se avesse saputo di avere a che fare con due miserabili
titoisti, non lo avrebbe ordinato. Adesso che lo ha saputo se
ne è liberato. Non importa quel che può dire la gente: la gen-
te non ci interessa, ci interessa il Partito.»
Peppone riuscì finalmente a frenare.
«Giusto. Ma cosa devo dire ai compagni?»
«Quel che io ho detto a te» rispose il federale. «La forza
del Partito sta principalmente nel non aver paura della verità.
La borghesia nasconde le sue magagne. Noi le cerchiamo, le
studiamo e le eliminiamo. Perché il pero possa dare frutti ab-
bondanti e sani, bisogna potarlo. Scoprire i rami secchi e inu-
tili e tagliarli.»
Peppone si rasserenò.
«Questo va benissimo per i miei» disse. «È tutta gente
di campagna. Se non si pota al momento giusto, il pero fa
della gran frasca e il frutto viene piccolo e non dura. Giusto.
Ho anche dei muratori però! Ci vorrebbe qualche cosetta an-
che per loro.»
Il federale rimase un istante soprappensiero.
«Compagno: se tu costruisci una casa a cinque o dieci o
anche quindici piani o venti puoi andare su tenendo sempli-
cemente il piombo. Ma se vuoi fare una casa di novanta o
cento o cinquecento piani devi cominciare con una grande
base e poi, via via che sali, devi stringere. Le piramidi sono
fatte con questo concetto e durano da millenni e dureranno in
eterno. Compagno, il Partito è un edificio a mille piani e,
mano a mano che lo si edifica, bisogna rinunciare a qualcosa
in larghezza per guadagnare in altezza.»
Peppone era più convinto della faccenda della pianta. A
ogni modo con la pianta da sparare subito e con il grattacielo
di riserva si sentiva più che tranquillo.
Durante il viaggio, però, gli venne un dubbio e si rivolse
allo Smilzo.
«E se uno mi risponde: va bene potare il pero, ma biso-
gna potarlo giusto. E se uno taglia il ramo buono invece che
il cattivo? Siamo sicuri che il Partito ha potato il ramo catti-
vo?»
Lo Smilzo non fu turbato da questo ragionamento.
«Siamo sicuri che è caduto il ramo cattivo» rispose.
«Perché il Partito ha, sì, espulso quei due là, ma, prima di
mandarli via lui, quei due avevano dato le dimissioni loro.
Un compagno che dà le dimissioni dal Partito è un ramo sec-
co che casca dal pero. Allora il Partito, quando vede che il
ramo è cascato, dice: "Ah, perbacco: sei secco, porco fottuto
di un ramo. Allora ti taglio!".»
Peppone fermò la moto.
«Tu credi proprio che tutti i compagni siano cretini?»
domandò. «Cosa è questa storia del ramo che casca da solo
ma però il Partito lo taglia? O è cascato da solo dando le di-
missioni o è stato tagliato con l'espulsione.»
Lo Smilzo era in eccellente giornata.
«Capo: il pero ha un ramo secco e, a un bel momento,
soffia il vento e il ramo si spacca e casca. E queste sono le
dimissioni. Però quando un ramo secco si spacca e casca,
non resta forse sempre un pezzetto tutto sfilacciato accanto
al tronco?»
«Certo.»
«E allora il Partito prende il mannarino e, con un colpo
secco e preciso, taglia via dal tronco il rimasuglio del ramo,
e resta il taglio netto e liscio che non marcisce. Il ramo secco
non si può auto-potare. Il ramo cade e il Partito allora lo
pota.»
Peppone guardò lo Smilzo.
«Perbacco, sei più in gamba tu del federale» esclamò.
«La faccenda che se uno dà le dimissioni il Partito lo presen-
ta come espulso non mi è mai piaciuta. Ma adesso con l'affa-
re del pero e del ramo secco che casca da solo e allora il Par-
tito lo pota, tutto va a posto. Perfetto.»
Ripresero la marcia in silenzio. Poi, dopo cinque o sei
chilometri, Peppone sospirò.
«Il guaio è che gli uomini non sono rami di pero» bor-
bottò. «E allora il tuo è un ragionamento giusto ma cretino.»
Lo Smilzo si strinse nelle spalle:
«Capo, se ti danno un letto lungo un metro e mezzo e
vuoi dormire con le gambe distese i casi sono due: o allunghi
il letto o accorci le gambe. E, se non puoi allungare il letto, ti
conviene sempre arrangiarti a dormire con le gambe
piegate».
Peppone era cupo:
«Smilzo, il primo paragone che mi tiri ancora fuori, mi
fermo e ti prendo a calci. I paragoni sono l'oppio dei
popoli!».