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NO USE IN TRYING TO DEAL WITH THE DYING Valerio Fusi Hakopian

La domanda, sempre la stessa, : perch? Alluscita da ogni concerto, dagli stadi, dai teatri, dalle piazze, sempre la stessa. Perch continua con questa compulsione ossessiva a proporsi senza tregua, giorno dopo giorno, anno dopo anno? E perch continua a farlo ogni volta negandosi a chi accorre con la stessa incrollabile fiducia, con la stessa sempre delusa speranza, nellattesa che il miracolo alla fine volta si ripeta, e il sangue finalmente si sciolga, e la primavera ritorni con il dio bambino, e il ciclo ricominci. Perch manifestare cos tenacemente il bisogno che ha di noi e poi cos sprezzantemente dimostrarci ogni volta quanto noi abbiamo bisogno di lui. Di lui, certo, ma non dello stupefatto fantasma che alligna sulle scene di questo modesto millennio: di quellaltro fantasma glorioso, piuttosto, che abita da qualche parte dentro di noi. Sembrerebbe che il patto col demonio che accett di firmare pi di quaranta anni fa sia giunto a scadenza, e il dono luciferino acquistato allora debba essere pagato con questa lenta agonia, con quellurlo lacerato e stridulo in cui si trasformata la sua voce, con le pieghe impietose che gli scavano il viso, con la struttura inarticolata delle sue melodie di oggi, con le sue tenute da pagliaccio. C un fascino in questo, una fascinazione piuttosto: ma il fascino delle rovine. Quello che ci fa ritornare sempre di nuovo ad ascoltarlo ormai solo il desiderio di rinnovare ogni volta la suggestione di quella antica potenza ormai estinta di cui ci contentiamo di contemplare vestigia ogni volta pi dilavate: Ozymandias, le rovine di Ninive, i vulcani spenti della luna. Come un vampiro, ha bisogno del nostro sangue, della vita e dellenergia surrettizia che produciamo quando siamo insieme ad ascoltarlo, ma evidentemente ce n appena per assistere un pallido volo notturno. Forse ci odia, probabilmente ci detesta di tutto cuore. Certo noi lo detestiamo: detestiamo il suo autismo, il suo insultare la nostra devozione, detestiamo lo spreco che fa di s stesso, loffesa che fa alla sua arte. C una parola sola, per questo: tradimento. Ma non quel tipo di tradimento che gli stato cos spesso rimpreverato in passato, quando ha voluto cercare spazi pi ariosi per il suo genio e la sua arte, non quella stupefacente capacit di cambiare le carte in tavola, di inventare tutto di nuovo dove noi non vedevamo che perfezione e completezza, di rimettere tutto in gioco. E il tradimento del suo genio e della sua arte, barattati con questo scempio premeditato, sistematico, con questo spettacolo desolante di indifferenza e disprezzo per noi e per s stesso. Ed insieme un grido di dolore per la fine di tutto, un grido agghiacciante che ci parla della nostra propria morte, della lenta consunzione che giunge alla fine a reclamare il suo prezzo, della fine delle cose che sembravano eterne, della tragica deriva delle energie e delle speranze. C una lezione, in tutto questo, ma non amiamo sentirci fare lezioni ad un concerto: vogliamo invece che il sangue scorra ancora nelle vene, che i fantasmi tornino alla vita. Vogliamo che il tempo non sia passato, o almeno che rimanga compostamente l dove passato, perch lo si possa evocare convenientemente quando il momento, e renda tollerabile questa parte discendente della parabola, cos come ne ha reso

gloriosa lascesa.

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