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Meeting Nazionale di Action Research

Università degli Studi di Teramo, Teramo 8 settembre 2006

Intervento alla Tavola Rotonda – Agnese Vardanega

Un'ambivalenza della ricerca-azione


La ricerca azione (RA) può essere il luogo dove azione e ricerca, teoria ed azione si
incontrano nel modo più proficuo – come transazione; oppure il luogo in cui questo rapporto
può dissolversi completamente, venendo meno il senso della distinzione fra i due poli, che in
realtà sono tre: la teoria, la ricerca empirica in quanto raccolta, analisi, interpretazione ed uso
delle informazioni; l’azione
Trovo che dal punto di vista metodologico, questa ambivalenza sia fra le più interessanti, e
potrebbe meritare di entrare a far parte del bagaglio culturale di studenti che vogliano ottenere
una competenza di ricerca azione che possa definirsi avanzata.

In primo luogo, mi pare importante sottolineare che in sé e per sé le tecniche di ricerca non
hanno un significato autonomo dalla situazione e dal contesto di uso delle stesse. Diverso il
discorso dei modelli di analisi, che invece sono costruiti intorno ad ipotesi ben precise, ed alle
quali non si può sfuggire – che si tratti di modelli diciamo quantitativi, o invece di approcci
qualitativi.

Ciò di cui sto parlando è l’atteggiamento del ricercatore, nei confronti della teoria sociale,
dell’oggetto del suo studio e/o del suo intervento, del contesto in cui andare ad operare. E’ qui
che si evidenzia la perniciosità di una ambivalenza che va in qualche presa in considerazione,
analizzata, approfondita, chiarita. In un chiarimento che di volta in volta potrà e dovrà essere
rimesso in questione, ma che resta nondimeno necessario.

Non penso di essere in grado di sviluppare pienamente il senso, la portata e le conseguenze di


questa ambiguità, ma penso di poter qui proporre alcuni punti di riflessione, che mi sono
suggeriti proprio dall’intervento del Prof. Friske.

In primo luogo, onde evitare di portare avanti io per prima una ambiguità di fondo, devo
chiarire che la mia formazione è di stampo che oggi potremmo definire positivista, positivista
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soprattutto in considerazione – ed in polemica – con le varie correnti post-positiviste
contemporanee, e con il relativismo di fondo che esse esplicitamente propugnano, e che io
personalmente non accetto affatto. La mia posizione in sé non è affatto positivista in senso
proprio, anche per me è passato il Novecento, ma capisco che possa oggi essere letta così,
stante la situazione attuale della sociologia, ben riassunta – a mio avviso – nel 2000 da
Goldthorpe. D’altra parte, non considero il termine positivista un insulto, e quindi, con un
certo gusto per la faziosità e la polemica, posso anche utilizzarlo senza troppa reticenza.
Questo chiarimento preliminare può lasciar intendere quali saranno i punti che intendo
sviluppare, quali aspetti del ragionamento del Prof. Friske condividerò e da quali invece
prenderò le distanze.

Problem-solving e valori

Il punto fondamentale che condivido è l’idea che la ricerca sia orientata alla soluzione dei
problemi. Tutta la ricerca empirica, e non solo la RA. In realtà, nessun problema di ricerca
viene sviluppato al di fuori di un contesto sociale, e non vorrei che questa affermazione venga
recepita in senso banale. Mi pare al contrario che essa richieda una approfondita riflessione,
anche se questo non è il momento, né il contesto giusto. Non abbiamo teorie sociali, o ricerche
sociali che non risentano fortemente dei contesti in cui sono state prodotte, anche se molti
sociologi se ne dimenticano, dando prova di non saper applicare il metodo sociologico a se
stessi.
Forse proprio per questa ragione, tanto rapidamente la sociologia della conoscenza è in
inarrestabile declino. Medico cura te stesso! sembrerebbe proprio il caso di dire.

Sono poi d’accordo con l’idea che la RA sia guidata dai valori. Ma anche questa non mi pare
una specificità della RA. Tutta la ricerca, tutta la conoscenza – e ce lo insegna Weber, ma ci
potremmo spingere anche al suo maestro Rickert – è guidata dai valori. Non esiste un punto di
vista che sia “neutrale”. Per una persona religiosa, può esistere un punto di vista superiore, ma
nemmeno quello può essere considerato esterno, e seppure “oggettivo” certamente non è
neutrale.

Il punto è: questo cosa significa, esattamente? Significa che si debba fare più teoria, o meno
teoria? Qui si dividono le due principali correnti della sociologia contemporanea, ammesso,
che sia possibile parlare di correnti in una situazione tanto frammentata. A mio avviso, questo
significa che si debba fare più teoria, che sia necessario cioè che il ricercatore espliciti i valori

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che guidano la sua osservazione, e a maggior ragione la sua azione sul campo. Per non citare
un positivista, citerò Luckmann, che ricorda come in assenza di una teoria esplicita che guidi
la ricerca e l’azione, saranno i presupposti impliciti, occulti, le preassunzioni del senso
comune a guidarla. Non ci sarebbe niente di male, in questo, a parte naturalmente la profonda
opacità dell’operazione, ed il suo configurarsi in questo senso schiettamente ideologica.

Strano che a correre questo rischio sia oggi soprattutto la sociologia che continua a definirsi
critica, con buona pace di Marx e soprattutto di Mannheim.

Quindi, in pratica, va bene utilizzare le categorie degli attori, ma attenzione a che queste
categorie interpretative diventino oggetto di riflessione teorica, di discussione, chiarificazione
e critica, onde evitare che le categorie interpretative di alcuni – sotto celate spoglie – vengano
proposte come categorie di tutti. Non è l’unico rischio serio che si corre, ma è certamente il
principale, quando si parla di ricerca azione. Penso che il ricercatore debba saper gestire con
grande attenzione e delicatezza il suo voler essere dentro e fuori il contesto di ricerca. Su
questo punto, l’essere dentro e fuori un contesto sociale e le sue categorie interpretative, ci
sarebbe molto da dire, e molto del resto è stato detto dalla fenomenologia e dallo stesso
Luhmann. Importante tenere a mente, poi, l’esperienza e la riflessione metodologica della
psicologia ed anche dell’antropologia.

Questo lavoro di riflessione sulla pratica (per usare un espressione nota) potrebbe essere il
punto di forza dell’insegnamento accademico, che non per questo deve mantenere il suo stile
tradizionale. Anzi. Se c’è qualcosa che sicuramente non riusciamo più a trasmettere agli
studenti, è proprio la capacità di astrazione, riflessione e critica. Li mandiamo nel mondo del
lavoro, con un bagaglio di conoscenze preconfezionate, per non parlare delle esperienze
pratiche, piuttosto superficiale, e con una capacità di riflessione sulla pratica che è
praticamente pari a zero. Ovviamente, questa è un’autocritica.

Teoria sociale, valori, e asimmetrie di potere

Ma naturalmente i punti di maggiore distanza fra la mia posizione e quella espressa dal prof.
Friske, riguardano proprio le caratteristiche della teoria. In primo luogo, giova ricordare la
distinzione di Merton – che poi è anche di Hempel, e di tanti altri – fra teoria come sistema di
riferimento complessivo e teorie di medio raggio; gioverebbe poi ricordare anche tale
distinzione è funzionale, e non ideologica. Non è che chi faccia teorie di medio raggio, teorie

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legate cioè ai contesti empirici, possa esimersi dall’essere ancorato ad un modo di vedere ed
interpretare la realtà, di fare riferimento un sistema paradigmatico e concettuale.

Quindi secondo me, diversamente da quanto intende il prof. Friske – se ho ben interpretato il
suo punto di vista – la teoria è un corpo di conoscenze che cresce mediante la ricerca
empirica, inclusa la ricerca azione, e costituisce il tentativo di sistematizzare concetti,
categorie interpretative, risposte a problemi teorici e pratici. E qui il riferimento non solo a
Merton, ma anche a Dewey mi pare d’obbligo.

Proprio per questa ragione, e non in opposizione a questo punto di vista, la teoria è connessa
alla pratica in maniera complessa e spesso poco decifrabile. Certamente, si sviluppa a partire
dalle conoscenze e dalle esperienze prodotte nei contesti locali. Osserverò per inciso che nel
caso della sociologia questa opposizione pare del tutto speciosa: in pratica noi non abbiamo
ricerca di laboratorio, per cui mi pare quasi impossibile sviluppare un dibattito concreto ed
utile in questi termini, come nel caso ad esempio della psicologia e soprattutto della psicologia
sociale.

Proprio la chiarificazione dei rapporti fra teoria e pratica, non sul piano epistemologico, ma su
quello metodologico mi pare possa essere uno dei compiti teorici più stimolanti per il
ricercatore impegnato nella RA, un compito in grado forse di riportare la sociologia alla sua
natura autenticamente critica e riflessiva, evitando che proprio il concetto di riflessività diventi
il famoso dito dietro il quale il ricercatore tenta di nascondere la sua posizione di potere
oggettivo all’interno di un contesto.

Quello che intendo dire è che le asimmetrie di potere esistono nei fatti, e conformano la realtà
sociale in cui vivono i nostri attori, ed in cui peraltro viviamo anche noi, e non è sufficiente
assumere un corretto atteggiamento epistemologico per annullarne le conseguenze sul piano
pratico, o su quello conoscitivo – io direi tantomeno su quello conoscitivo.

Torno a ripetere che su questo si è dibattuto molto dagli anni Venti in poi, e ce n’è a
sufficienza per impostare un curriculum accademico più che adeguato per un ricercatore in
azione. Il grande impegno, piuttosto, mi pare debba essere nell’innovazione della didattica –
una didattica che stimoli la riflessione e l’uso consapevole di teorie e concetti nei contesti
sociali reali.

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Per concludere, ed a proposito di asimmetrie, devo ringraziare il prof. Friske che facendo
circolare il suo paper mi ha dato modo di riflettere sulle sue posizioni, interessanti ed
estremamente stimolanti. Spero di avere al più presto l’occasione – non di annullare, perché
non è possibile – ma di riequilibrare questa asimmetria.

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