Sei sulla pagina 1di 22

LUIGI TANSILLO

N mar, che irato gli alti scogli fera, E monti d'onde in vr la riva spinga; N fiamma, che repente a fosca sera Sorvoli i tetti, e l'aria allumi e tinga; N popol corso d'ogni intorno a schiera, Ch'a danni altrui ferro, aste, e sassi stringa; N procella dal ciel sonante, e nera, Ch'al giorno i campi d'ombra, e d'orror cinga, Teme s forte travagliata nave, Uom zoppo, e pellegrin, che tra via reste, Com'io temo l'orgoglio d'un bel ciglio. Qui sol trov'io, qualor vien d'ira grave, Il mar, gl'incendii, l'arme, e le tempeste, E s'altro ha il mondo di maggior periglio.

II

Se vuol ch'io scampi, la mia nobil Maga, Che piet del mio mal forse la punga, Franga il serpente che gi morse, ed unga De mortal fier suo sangue la mortal mia piaga. Se la man bella di soccorrer vaga, Deh! non sia tanto la dimora lunga, Che 'l rigor de la morte al cor mi giunga, Che per le membra a lunghi passi vaga. Il dente, che mi morde e m'avvelena S, ch'io ne moro, fiera gelosia: Bench 'l tosco sia sparso in ogni vena, Vivr, pur ch'io non vegga, quel che vidi, E coi begli occhi la nemica mia Quanto mi spavent, tanto m'affidi.

III

Valli nemiche al sol, superbe rupi, Che minacciate al ciel; profonde grotte, D'onde non parton mai silenzio e notte; Aer, che gli occhi d'atra nebbia occpi; Precipitosi sassi, alti dirupi, Ossa insepolte, erbose mura e rotte, D'uomini albergo, ed ora a tal condotte, Che temon'ir fra voi serpenti e lupi; Erme campagne, abbandonati lidi,

Ove mai voce d'uom l'aria non fiede; Spirto son io dannato in pianto eterno, Che fra voi vengo a deplorar mia fede; E spero alfin con dolorosi stridi, Se non si piega il ciel, muover l'inferno.

IV

Dolente serpe, in cui mostra natura Di quanto ha forza il tuo mirando istinto; Perch ti veggio languido e s cinto? Non puoi fuggir tua morte, o tua sventura? Cos opra Amor in me con ogni cura, Bench io non cerco uscir di laberinto: Che doler non si dee, trovarsi avvinto Chi la cagion di sua morte procura. Te sol d'un'erba un cerchio tien s stretto; Me sol d'un foco, ond'io sempre m'affino; Bench sia disegual tra noi l'effetto. Ma se al morir ciascun tanto vicino; L'un more a forza, l'altro per diletto: Io per elezion, tu per destino.

E freddo il fonte, e chiare e crespe ha l'onde, E molli erbe verdeggian d'ogn'intorno, E 'l platano coi rami, e 'l salce, e l'orno Scaccian Febo, che il crin talor v'asconde: E l'aura appena le pi lievi fronde Scuote; s dolce spira al bel soggiorno: Ed il rapido sol sul mezzo giorno, E versan fiamme le campagne bionde. Fermate sovra l'umido smeraldo, Vaghe ninfe, i be' pi, ch'oltra ir non ponno; S stanche, ed arse al corso, ed al sol sete. Dar ristoro alla stanchezza il sonno: Verde ombra ed aura, refrigerio al caldo; E le vive acque spegneran la sete.

VI

Strane rupi, aspri monti, alte tremanti Ruine, e sassi al ciel nudi e scoperti, Ove a gran pena pon salir tant'erti Nuvoli in questo fosco aere fumanti: Superbo orror, tacite selve, e tanti Negri antri erbosi in rotte pietre aperti:

Abbandonati, sterili deserti, Ov'han paura andar le belve erranti; A guisa d'uom, che per soverchia pena Il cor triste ange fuor di senno uscito, Sen va piangendo, ove il furor lo mena; Vo piangendo io tra voi: e se partito Non cangia il ciel, con voce assai pi piena Sar di l tra le meste ombre udito.

VII

Quella notte s lunga, ond'Ercol nacque, Se fosse ver ci che gli antichi han detto, Che 'l sol, per non turbar l'altrui diletto, Tante ore e tante ascoso in mar si giacque; E quel s lungo d, quando a Dio piacque, Mosso a merc del popol suo diletto, Ch'ai destrieri del sol fosse interdetto Per tanto spazio d'attuffar nell'acque; Allato a queste notti, e a questi giorni, Ch'io passo qui fra tenebre e tormenti, Elli furon brevissimi soggiorni. Ma se ai begli occhi, e pi che il sol lucenti, Amiche stelle vorran mai ch'io torni; Le notti parranno ore, e i d, momenti.

VIII

Cadan dal ciel le stelle a cento a cento, E de la lor belt copran la terra, Giaccia mill'anni il sol prigion sotterra, E non fia mai qui suso il giorno spento. Sien campi l'onde di cornuto armento, E riposo di pesci ogni erta serra, Svellansi i monti, e faccian tra lor guerra, E abbian radice in aria e l'acqua e 'l vento, Sia ci ch'esser non pu; quando il disio Verde in un d secc, ch'otto anni ed otto Nel mezzo verdeggi del pensier mio. L'eterno oso sperar che fia condotto Al fin degli anni, poich 'l nodo ch'io Credea, che mai non si sciogliesse, rotto.

IX

Quando, negletta il crin, rossa la faccia, Da lato al suo vecchion la bella Aurora S'alza, e con una man la terra infiora,

Con l'altra il giorno fuor de l'onde caccia. L'amante, che felice entro le braccia Avvinto gode di colei che adora, Prima che Febo altrui l'accusi, fuora Sen va piangendo, e i cari nodi slaccia. Io, che n speme n desio nel core Oso annidar, ch'oltre la vista voli, Lieto m'accingo al ben che il d m'adduce. Cos le usanze Amor cangia ne l'ore: Ad altri apron le tenebre la luce, Ed a me ride il giorno con due soli.

Come quercia talora alta ed annosa, Mentre dal ceppo suo ruvida e grande Quinci e quindi superba i rami spande E drizza al ciel la cima alta a frondosa, Di cui la chioma s verde ed ombrosa, I rami alteri e le spicate ghiande, Improvisa poi vien che a terra mande Ira di Dio ch' tra le nubi ascosa; Cos dal petto mio ne svelse Amore L'arbore che nudria de la speranza, In un momento, frutto, fronde, e fiore. N rimase altro, oh fiera rimembranza! Che 'l fulminato tronco in mezzo al core, Dove dipinse Amor vostra sembianza.

XI

Corrono il freddo borea, e l'umido austro Per li campi del cielo: Ciascun dal regno suo move aspra guerra; Se l'un di triste nubi l'aria ingombra, L'altro sparge il terren d'orride nevi: Arma il pigro Boote il freddo plaustro, ...........................[-erra] Or veste fango, or gelo; La luce vinta cede il mondo a l'ombra; E son le notti lunghe, e i giorni brevi. Io, che penose e grevi Ore trapasso, a miglior vita usato, Risguardo al tempo simile al mio stato: L'interna doglia mia cresce altrettanto, E ne' tristi occhi si raddoppia il pianto. Escon dal maggior fondo del mio petto (Ove ha il suo regno Amore) Sospir, che pace, o tregua mai non hanno: Guerreggian dentro, e par ch'ognun contenda Di tirarne, a l'uscir, l'anima seco. Qual move di desio, qual di sospetto ..............................[-anno]

..............................[-ore] Orgoglio ed ira ai dolci rai fan benda; E parmi il vago mondo, orrido speco. Cos del tutto cieco Foss'io, poi che il veder solo m'avanza, Perch l'arbor de l'alta mia speranza, Ch'un tempo verdeggi lieto e felice, Veda sfrondato e svelto da radice. Spregiando il fren dei sassi curvi ed alti Gl'insuperbiti fiumi Corron licenziosi le campagne; Scendon dai monti i rapidi torrenti, E i lati campi diventar fan laghi; Tran l'acque gi co' ruinosi salti Arbori, e pietre, e pezzi di montagne. Ebber nel pianger modo i tristi lumi, Mentr'ebber qualche modo i miei tormenti, Or del mio pianto par che il mondo allaghi; Par ch'allor pi m'appaghi, Che maggior pioggia avvien, che ne derivi; Cadon dal volto lacrimosi rivi, Turban pace e riposo, e menan via Le miglior parti de la vita mia. Schive del freddo tempo, ch'a noi torna, Le vaghe rondinelle E quasi ogni altro augello pellegrino Fuggon dal nostro, e cercan l'altrui clima, Onde pi il tristo verno han di lontano. Ogni allegro pensier, che in me soggiorna, Siccome pellegrin prende il cammino, E fugge la tristezza e le procelle De' tempi miei, lieti e tranquilli prima Che rea fortuna vi mettesse mano. Calan le fere al piano, Poi che nei monti, ch'alta neve imbianca, Tutto ad un tempo il verde, e 'l cibo manca: Sgomenta il freddo de l'altrui durezza I desir miei nudriti in tanta altezza. Mirando aride stoppie e tronchi e sterpi Le piagge, ove l'altrieri Splendeano i fiori, ed ondeggiavan l'erbe, E l'odorate siepi, nude spine, Che le strade spargean dianzi di rose, Andan sotterra le sdegnose serpi E pascon dentro, esche mortali acerbe. Quando spariro i lieti miei pensieri, E 'l mio fiorito stato giunse a fine, Le cure pi mordaci e venenose L'alma nel sen s'ascose: Ivi del suo velen le nutre, e pasce, E nova schiera d'ora in or ne nasce: Cos fra tante un d ne nascesse una, Che ratto divorasse la sua cuna! Vedo, malgrado del rabbioso verno, Qualche valle riposta, A cui fanno alto schermo amici monti, Che vento e gelo non le faccia oltraggio, Serbar sempre fiorito e verde il seno, Serbar de le sue piante il pregio eterno: Ancor che 'l sol sopra il centauro monti, E moran l'erbe, e i fior l, ond'ei si scosta,

Par che si vedano ivi aprile, e maggio, S stellato di fior ride il terreno. Sento allor venir meno L'alma; tal morso fera invida dlle: E dico: o lieta, o fortunata valle, Tu a mezzo inverno hai primavera, ed io Al miglior tempo ho verno iniquo e rio. Vedo talor del mar le torbide onde, Che altiere, e d'ira gonfie Correr pareano a divorare il lido, Giacer nel letto lor umili, e stanche, E pure s che l'alga ne traspare, E forse fan su l'arenose sponde Alcione, e 'l marito il caro nido; Poi che fiato non soffia, che le gonfie, Bench l'ombra s'avanze, e 'l giorno manche, Cadono le ale ai venti, e l'onde al mare. O sventure mie rare, Quando cader vedr l'altiero orgoglio A quei begli occhi, ch'hanno il cor di scoglio? Quando pensier si annider ne l'alma, Che le fortune mie rivolga in calma? Canzon, ben verr Febo A seder sopra il pesce e su l'ariete; E fian l'aria e la terra, e l'acque liete; E verran l'aure dolci e i tempi gai, Primavera per me non verr mai.

BERNARDINO ROTA

Se di questa piagata accesa scorza, che segno ed esca al duro strale, al foco si sta d'Amor, vi cal, donna, s poco che n si spunta l'un n l'altro ammorza, deh, perch voi piet di voi non sforza? Dovreste aver voi stessa in voi pur loco, gi ch'io son vostro, o ch'io sia molto o poco, n cerco o viver posso in altrui forza. Io non son io ma voi: a voi mi diede il cortese destin dal d che Amore in voi cangiommi, e fu larga mercede. Gran torto esser voi stessa a voi dolore, gran mal far di voi stessa e strazio e prede: e siete donna e non marmo il core.

II

Famelico augellin che manca e pave e da pietosa madre il cibo attende

e l'ale a poco a poco apre e distende, dappoich scaccia il digiun lungo e grave, sembra il cor senza il lume almo e soave onde Amor arde, onde la face accende; ma tosto che 'l pensier presso gliel rende, si rinforza e vitale e dolce esca ave. E come egli talor se del nido esce e si spazia volando, infin che giunto da colpo vien, ch'oltra la piuma il tocchi, cos il cor mio, cui lo star meco incresce, se per l'aria sen va di due begli occhi dolcemente riman ferito e punto.

III

Orribil verno in sen di primavera, avoltoi al pensier, chiodi al cor fissi, aspidi sotto fior, porpore e bissi che riescon poi tela e vile e nera, Cerbero, arpie, sirene, idra e chimera, diluvi, terremoti, incendi, ecclissi, ima profonda altezza, eccelsi abissi, son della vita mia l'immagin vera. N per, perch al passo ultimo giunga l'alma, uscir vuol della prigione antica, anzi al suo strazio i termini prolunga. Oh, va', per viver suda e t'affatica, dannoso empio desir di morte lunga, pace guerriera e nimistate amica!

IV

Chiamo morte e non ode, e roco e stanco non trovo ov'io mi posi, ov'io m'appaghi; e fatto il cor fornace e gli occhi laghi, vorrei segnar, n posso, un giorno bianco. N lancia la man preme o spada il fianco, n di gir quinci e quindi i pie son vaghi, n mi pungon d'onor le spine e gli aghi, ed in non cale ho messo Ostilio ed Anco. Mio desir fora e l'une e l'altre carte, c'ho piene di sospir, non ancor veglio, alzar, ma pur si stanno in umil parte. Ben hai tu, mio buon Scipio, eletto il meglio, se volto a Dio vivi a te stesso in parte: o di puro giudizio esemplo e speglio!

Giaceasi donna languidetta e stanca, quasi notturno fior tocco dal sole, e tal era a veder qual parer sole raggio di sol che a poco a poco manca. Io l'una e l'altra man gelata e bianca baciava intanto e non avea parole, fatto gi pietra che si move e dole, sospira, piange, trema, arrossa, imbianca. E baciando bagnava or questa or quella col fonte di quest'occhi e co' sospiri l'alabastro asciugava intorno intorno. Part quest'alma allor, per gir con ella, sperando di dar fine a' miei martiri, poi torn meco a far tristo soggiorno.

VI

Ben sono io senza il mio perduto bene, arida tronca selva, inutil felce, assetato ruscel, fulminata elce, deserto campo d'infelici avene; ben son io senza lui, dove Pirene alza pi 'l corno, rotta ignobil selce. Ma poich 'l dolor vince e 'l fato dielce, che altro mai che lagrimar convene? N fia novo per che ancora un sasso still lagrime un tempo, e s'io rimango selce, pianger selce i dolor miei. Niobe, tu piangesti altri, ad un passo gir non puoi meco e ben ceder mi dei, poich me stesso eternamente io piango.

VII

Pascete l'alma pur, lagrime mie, lagrime mie, vital mio cibo e caro, dolcezza del mio stato acerbo amaro, solo rifugio all'aspre pene e rie. In pianto il cor si stille, apra le vie per gli occhi tutte e non sen mostri avaro, poich, spento quel sol che tanto amaro, non veggon pi n veder sanno il die. Gli occhi, che poser prima entro il nemico, che fur cos veloci al nostro danno, portin la pena del lor fallo antico. Ma chi non sa che mai non si potranno spegner le fiamme, onde ardo e mi nutrico, per lungo pianto o per rivolger d'anno?

VIII

O luce del gran Padre, o vita, o via del mondo errante e morto, il ghiaccio, il sasso distruggi e rompi al cor, che cieco e lasso langue pur troppo e 'n se stesso travia. Passano gli anni e i lustri e pur la mia alma giace sepolta in tetro e basso abisso di miserie, e chiuso il passo l'ha verso il ciel dolcezza amara e ria. Sgombra la nebbia che la copre e scalda, l'alto giel che la preme, e la ferita, che le fer due begli occhi, ungi e risalda, s che faccia a se stessa ormai disdetto, di te solo, Signor, ricca e vestita, nobil nemica al suo pi caro affetto.

IX

Fermasi il pastorel col rozzo incarco, sperando pur che manchi 'l corso al rio, che oltra la riva il tien, posto in obblio la greggia, la sampogna, i cani e l'arco; il qual, pur come suoi, rapido e carco dell'acque che la pioggia e 'l tempo rio gli accrebbe dianzi, corre: ond'ei restio siede, scoprendo e sospirando il varco. Cos al soccorso mio debile e manco, obbliando me stesso, attendo il giorno della salute, che lontana io scorgo. N vien mai l'ora ond'io risani il fianco dallo stral che l'ha punto, e non m'accorgo che 'l pentirsi l'uom tardi danno e scorno.

Ardere i sassi, arder le selve intorno, le fere uscir da' pi riposti orrori, i balli abbandonar ninfe e pastori, lasciar gli armenti il bel verde soggiorno, troncare Apollo il corso a mezzo il giorno, e le prede obbliar gli armati Amori, sparger fior sul terren Zeffiro e Clori, i satiri arrestar chinando il corno, Venere piena gir d'invidia e trista, reverenti le Grazie io vidi e cose che per tutto sgombrare angoscia e noia, quando m'accorsi che tra gigli e rose pass madonna, e la sua dolce vista il cor m'empi di maraviglia e gioia.

ANGELO DI COSTANZO

Come chi tra pungenti e dure spine rosseggiar vede una vermiglia rosa, o tra vecchie di mura e vil ruine splender da lungi gemma preziosa, cos tra quella ria turba odiosa subito scorsi il biondo aurato crine e la sembianza altera e gloriosa, ch'innanzi i giorni miei mi mena al fine. Ahi, con quanti sospiri Amor pregai che le fermasse, a l'incontrarmi, il passo, per aver spazio di mirarla assai. Ma ebber contrario effetto i preghi, ahi lasso, ch'ella pass volando, ed io restai da' suoi begli occhi trasformato in sasso.

II

Occhi leggiadri, che sovente scorno feste a' lumi del ciel con que' splendori ov'infiammar soleano e notte e giorno gli aurati strali i pargoletti Amori, deh, or qual nube ria v'aggira intorno e vi contende i bei vostri tesori, spogliando del suo onor quel viso adorno, prato di lieti e d'odorati fiori? Se per punirvi del mio duro strazio la giustizia divina or vi condanna a star lunga stagion languidi e infermi, fate con umilt voto d'avermi qualche pietade, e 'l mal che s v'affanna dileguarsi vedrete in breve spazio.

III

Di vivaci amaranti e di viole e di rose vermiglie, all'aura estiva, un pastor lieto una ghirlanda ordiva, e cantando dicea queste parole: "Se non t' uscito ancor di mente, o sole, l'amor di quella ch'a la patria riva mutossi in lauro, ond'ancor verde e viva ogni spirto gentil l'onora e cole, finch giunga colei ch'io bramo, all'ombra,

temprando i raggi tuoi caldi e possenti, il volto tuo di fresca nebbia ingombra, lascia in tua vece respirare i venti, e poi tosto ritorna, e l'aria sgombra, seguendo il corso a passi tardi e lenti. "

IV

Per valli oscure e vie solinghe e torte, seguendo Amore e il desiderio interno, ch'eran a tal camin mie fide scorte, poco prezzando l'aer fosco e 'l verno, giunsi al giardin, che del mio foco eterno sar forse cagione e di mia morte, ma il ciel che il mio penar si prendea a scherno non lasci pormi il piede entro le porte. Sol d'un bel fonte che celeste umore stillava fuor, tra perle e bei rubini, gustando, mitigai l'intenso ardore. Cos tornai cogli occhi umidi e chini, che la fame addoppi l'aura e l'odore ch'uscia de' frutti suoi santi e divini.

Mentre per l'Appennin d'aspri cigniali, e d'altre fiere io vo l'orme cercando, impresse in su la neve, alfn sperando di trovar tregua a' miei con gli altrui mali, e son in dubbio quante prede e quali far di lor, perch veloci errando si vanno innanzi a' pie miei dileguando con passi a' passi miei molto ineguali; l'alma, ch'in monte assai pi duro e forte, seguendo l'aura estiva e i pensier vani, fugge per strade solitarie e torte, cacciata da pensier crudi inumani, soffre un'acerba e disperata morte, in guisa d'Atteon da' propri cani.

VI

Come il padre No nel cavo legno dal diluvio, che i monti allor copriva, il seme conserv d'ogni alma viva pi per voler divin, che per ingegno, cos nel vasto mar del vostro sdegno, che cresce ognor fuor de l'usata riva,

l'alma d'ogni piacere ignuda e priva nell'arca della f salvo e sostegno. Ma in pochi d per la fenestra aperta ebb'ei, mandando la colomba audace, del ciel fatto seren notizia certa. Io, perch al fiero mio destin non piace, non mando mai chi almen con speme incerta mi riporti da voi tregua n pace.

VII

Mancheran prima al mare i pesci e l'onde, al ciel tutte le stelle, a l'aria i venti, al sole i raggi suoi vivi e lucenti, e di maggio a la terra erbette e fronde, ch'io, per volgere il viso e i passi altronde, di voi, dolce mio ben, non mi rammenti, e che non brami con sospiri ardenti vostre bellezze a null'altre seconde. Dunque error vano a sospettar v'invita ch'io parta per fuggir l'arder ch'io sento, o cerchi di morir d'altra ferita. Che, bench' senza pari il mio tormento, m' pi caro per voi perder la vita, che d'ogni altra men bella esser contento.

VIII

Desiai morte e con pietosi accenti gran tempo la chiamai crudele e parca, perch la vita mia d'affanni carca non fu presta a trar d'ira e di tormenti. Or che pi dolci e pi secondi venti spiran dentro la vela alla mia barca, amo la vita e prego ognor la Parca che aggiunga i lieti ai d tristi e dolenti. Godete, amanti, negli avversi amori, che spesso uno stato assai caro e gentile nasce da gravi ed inauditi ardori; cos fortuna e il ciel cangiano stile: veggio nel verno i d sereni e i fiori, che in piogge e in tuoni ho gi passato aprile.

IX

Ben assomiglia al tuo, notte, il mio stato, tu ten vai senza sol mesta ed oscura, io d'ogni intorno il cor fosco e turbato

tengo, mentre il mio sole altri mi fura; tu, scacciando il calor, d'aspro e gelato manto ti cuopri, io la diurna arsura rendo gelata col timor ch'a lato mi vola, rinforzando ogni mia cura; tu vani sogni alberghi, io colmo e pieno ho il petto di sperar vano e fallace, tu mille larve, io mille orrori ho in seno. Ma in ci non t'assomiglio, e ben mi spiace, che tanti occhi non ho, quanti hai, che almeno pi godrei in mirar quel che mi piace.

Figlio, io non piango pi; non che la voglia di pianger sempre oggi in me sia minore che quel d che volando al tuo fattore lasciasti fredda la tua nobil spoglia; ma perch l'infinita intensa doglia ha spento e secco in me tutto l'umore, onde convien che l'indurato core mostri sol co' sospir quanto si doglia. E siccome la vena asciutta al pianto, cos il calor mancando al petto interno, mi torr il sospirar grato a me tanto. Non sia per che in questo vivo inferno, con questa penna il tuo bel nome santo non cerchi e il mio dolor far forse eterno.

GALEAZZO DI TARSIA

Non perch chiaro in queste parti e 'n quelle Passi 'l mio nome a le future genti Rivolsi il corso con pi tardi e lenti A i vostri sacri poggi, alme sorelle. Sperai, adorno s di verdi e belle Frondi, piacere a due begli occhi ardenti, E piangendo il suo viso e i miei tormenti Sfogar il mal che vien da ferme stelle. Ma che pro? Veggio omai che nulla valme: Sordo aspe chiamo, e 'l duol, fatto immortale, Non sostien che d'amor altri m'affidi. Vergini, e tu che a lor Febo mi guidi, Di lode no, ma di mia vita calme: Ecco lo stile se a piet non vale.

II

Tempestose sonanti e torbid'onde Tranquille un tempo gi, placide e chete Voi fuste al viver mio simile, e sete Simili a le mie pene ampie e profonde. Spalmati legni, alme vezzose e liete Ninfe ed ogni altra gioia a voi s'asconde: A me ci che facea care e gioconde Queste luci e quest'ore egre inquiete. Lasso, ei verr ben tempo che ritorni Altra stagion che rallegrar vi suole, Onde diversa fia la nostra sorte: A me serene notti o chiari giorni, O che s'appressi o s'allontani il sole, Non fia che 'l mio tiranno unqua m'apporte.

III

Amor una virt che n per onda Pesce guizza, n crud'angue in sentero, N fende l'aria augel rapace e fero, N cresce erbetta in riva o in ramo fronda, N vento questa o quella agita e sfronda, N stende corso umor, n s'erge al vero Angel puro l su, qua gi pensero, N fuoco o stella spiega chioma bionda, Che non scaldi, addolcisca, prenda a volo, Rinverda, nutra, a mezzo corso affrene, Guidi, volga, risvegli, allume, indore. Per s si move ed un oggetto ha solo: Bellezza e natural desio di bene; Nasce in noi di ragion, vive d'errore.

IV

Vide vil pastorel pietosa e leve Scender a' prieghi suoi chi Delo onora, Un selvaggio garzon la biond'Aurora, Questa cinta di fior, quella di neve; Altri, cui 'l Xanto, ma pi il Tebro, deve, La dea che il terzo giro orna e colora; Altri, perch di gran desio non mora, Un freddo marmo intenerirsi in breve. Io voi quando vedr, pregio del cielo, Ignuda folgorar su l'erba fresca, O sotto molle e prezioso velo? Ahi, di misero amante van desiri! Donna, s'esser non pu, non vi rincresca Che da quest'ermo colle io vi sospiri.

Te, lagrimosa pianta, assembro a Amore Bench altrove i miei mal sian gemme e scogli; Tu sola e nuda verdi germi sciogli Dal tuo grembo natio divelta fuore: Ch s possente e di cotal vigore Quella natura che da prima accogli, Che nuovo parto a generar t'invogli Allor ch'ogni altra si corrompe e muore. Ei da la speme, onde si nutre e pasce, Tolto lunga stagion, virt non perde, Ma spiega mille ognor freschi desiri. Lasso, n fredda pietra od erba verde, Onda, rena, pratello, orto non nasce Che a tristo esempio del mio mal non giri.

VI

A qual pietra somiglia La mia bella colonna Amor, ch' duce Del pensier, mi consiglia. Una ch'avaro peregrin n'adduce Da la vermiglia riva, La qual, s'avvien ch'a fervid'onda pura S'appressi, tosto ogni fervor risolve. Cos questa mia viva Pietra leggiadra e dura Raffredda e spegne, se vr me si volve, Ogni virt visiva, Ogni vigor che l'intelletto avviva. A i colli lidi in seno Si cria un sasso che da lor si chiama, Di tal virtute pieno Che le false sembianze odia e disama Ed a i mortali avari I difetti de l'or toccando scopre. Similemente questo freddo marmo, Con sensi accorti e chiari, Ci che 'l petto ricopre Scorge pi adentro quanto fuor pi m'armo Di casti fregi e rari, Perch ben desiar quest'alma impari. L ove irriga e stagna Ponto, tracio pastor un sasso coglie Cui, s'acqua lava e bagna, Vivace chioma di faville accoglie, E dal contrario umore Virt riceve a far contrario effetto. Cos dal pianto che m' cibo e gioco Move, con novo errore, Questo tenero e schietto Sasso, d'amore un bel tacito foco,

S che mi cuoce il core Con l'onda che dovria spegner l'ardore. Altro fra gl'Indi splende Di maggior pregio, cui pur ch'occhio miri, La vera imagin rende Che serba su ne' cristallini giri Con eterne facelle, Memoria di un fallace e falso toro. Simil valor de la mia donna accolto L'altiere luci e belle Hanno, e i crespi crin d'oro: Che s'io fermo la vista in quel bel volto, Mille pure fiammelle, Mille scorgo d'amor pi vaghe stelle. Ov' pi ricca e grave D'or la terra, una selce si ritrova Cui pur che ferro aggrave, Sfavilla e manda fuor facella nova, Che, per natio costume, Pu far d'arido legno cener breve E, l onde scioglie, ogni sua forza perde. Cotal convien ch'allume Questa di bianca neve Selce d'onor, la mia stagion pi verde, E m'incenda e consume, N paventi d'amor foco n lume. Nasce tenero stelo Fra l'onde, e serba l'umilt natia Mentre non vede il cielo, Ma divelto da' scogli ove si cria, S'indura a l'aere e veste Di molle verga un duro sasso e vivo. Cos quest'aurea palma spiega lieta Ogni suo don celeste, Di cui ragiono e scrivo, Mentre il rio fato la m'invola e vieta: Quinci prende altra veste S'a me si mostra e par ch'un sasso reste. S'alta piet non rompe, Canzon, de la mia donna il bel diaspro, Bramo cangiarmi in scoglio: Ch discorde da lei viver non voglio.

VII

Vinto da grave mal, uom che non posi In sua antica magion, debole e infermo, Cerca sotto altro ciel riparo e schermo, Ove d'arte sperar altro non osi. Tal io gli ostri, le gemme ed i famosi Alberghi, ov'a ferir braccio ha pi fermo Amor, fuggendo, in loco alpestr'ed ermo Ricercai le mie paci e i miei riposi. Ma perch'io vada o dove folto e spesso Stuolo si prema, o dove uom non s'annide, Il mio fiero tiranno ognor m' appresso; E s'io cavalco, ei su gli arcion s'asside; Se l'onde solco, in su del legno istesso

Mel veggio a fianco, e che di me si ride.

VIII

Queste fiorite e dilettose sponde, Questi colli, quest'ombre e queste rive, Queste fontane cristalline e vive Ov'eran l'aure a' miei sospir seconde, Ora che 'l mio bel sol da noi s'asconde Son nude e secche e di vaghezza prive, E le ninfe, d'amor rubelle e schive, Lasciato han l'erbe, i fior, le selve e l'onde. Ponete dunque, o miei pastor, da canto Le ghirlande, i piaceri, i giochi e 'l riso, L'usate rime e le sampogne e 'l canto. E tu, dicea Amarilli, in cielo assiso, Porgi l'orecchie al mio dirotto pianto, Se ti fr care e le mie chiome e 'l viso.

IX

O felice e di mille e mille amanti Diporto, o di real donne diletto, Albergo memorabile ed eletto A diversi piacer quest'anni avanti; Or di paura, d'ira e di sospetto, D'odio, di crudelt solo ti vanti, Ed abisso di tenebre e di pianti Sei fatto al popol vile anco in dispetto. Cos in altra stagion altra sembianza T'ha dato il tempo, ed io nel tempo adietro Fui pur simile a te, se ben risguardo. Or di man m' caduta ogni speranza E conosco, quantunque indarno e tardo, Ch'ogni nostro diletto un fragil vetro.

Gi corsi l'Alpi gelide e canute, Mal fida siepe a le tue rive amate, Or sento, Italia mia, l'aure odorate E l'aer pien di vita e di salute. Quante m'ha dato Amor, lasso, ferute Membrando la fatal vostra beltate, Chiuse valli, alti poggi ed ombre grate, Da' ciechi figli tuoi mal conosciute! O felice colui ch'in breve e colto Terren fra voi possiede e gode un rivo,

Un pomo, un antro e di fortuna un volto! Ebbi i riposi e le mie paci a schivo (O giovenil desio fallace e stolto), Or vo piangendo che di lor son privo.

XI

Donna, che viva gi portavi i giorni Chiari ne gli occhi ed or le notti apporti, Non sono spenti i tuoi splendori e morti, Ma nel grembo del ciel fatti pi adorni. Tu Lucifero in questi almi soggiorni Rotavi lieta; or che spariti e torti Sembrano i lumi tuoi, da' freddi e smorti Espero stella a folgorar ritorni. Ma io m'acqueto meno ove pi luci, Ch l'alma, usa appagarsi in tutti i sensi, Non s'arresta nel ben del veder solo. Almeno un di quei cerchi alti ed immensi Fuss'io, vivo o dopo' l'ultimo volo, Che ti portassi al cor per mille luci.

XII

Viva selce, onde usc la viva e pura Fiamma che avr vigor cenere farmi, E che d'asprezza incontro me pi t'armi Quanto Amor pi m'accende e rassicura, Quando fia che pietade o mia ventura De l'usato rigor s ti disarmi Che i tuoi gelidi smalti e saldi marmi Vestan nuova e pi bella altra natura? O felice colui che freddo sasso, Onde avesser poi fin gli aspri martiri, Ebbe tosto a mirar tenero e molle! Io, perch intorno a pi bel marmo, ahi lasso, Adopri ingegno, stil, pianti e sospiri, Pur di mollirlo in parte il Ciel mi toglie.

LUDOVICO PATERNO

Mi punge, annoda, e arde a parte a parte, stral, nodo e fiamma; or pi parlar non oso, n fuggire, apparire o starmi ascoso giova, con ogni industria, ingegno e arte.

Egli che squarcia, prende e 'n cener parte, non mi die' modo alcun, pace o riposo fin che m'ebbe il cor punto, stretto e roso, onde tronchi ho vergato, arene e carte. Trafitto, dunque, avvinto ed arso, ho frutto di ci fatal, ch'io piango, grido e mostro la ferita, il tumore e 'l rogo mio. Sanguigno, negro e 'ncenerito in tutto non pi sembro uom ma fera, anzi un gran mostro, tanto l'arco, la rete e 'l solfo rio.

II

Come, quando a l'occaso il sole inchina fra valli erbose e rotte aspre montagne, smarrito il buon camin, sospira e piagne la stanca vecchiarella peregrina, che sovra duro sasso o tronca spina giace e le cure solo ha per compagne, misera, finch 'l cielo i poggi bagne con dolcissima pioggia matutina, cos'io dal mio sentier gi tratto in parte ove non veggio i lumi miei fatali, con Amor, con Fortuna e meco garro, e travagliata e dura notte inarro, contando a piante, a fere, a parte a parte, tutti i martiri miei, tutti i miei mali.

III

Crespo dorato crin, che ad amorose viole intorno e neve calda voli, viso, in cui quanta luce hanno i duo poli l'alma natura con sue man ripose, candide perle tra due fresche rose, grata armonia, ch'i cori e l'alme involi, cielo di meraviglia, ove in duo soli talvolta Citerea vaga s'ascose, dico degli occhi che nel cor mi stanno, pomi acerbetti che n sol n luna tocc pi dolci, al rinovar de l'anno: voi, voi m'avete morto, in voi s'aduna eguale a la belt sdegno ed inganno, n contra voi mi vai difesa alcuna.

IV

Stende al vicino ramo ambe le mani

e le labbra per ber china ne l'onda: ma fugge l'acqua e la bramata fronda par, quanto pi la vuol, pi s'allontani. Alma infelice, i cui pensier fian vani eternamente a l'arenosa sponda, che se d'odor si pasce e d'ombre abonda, sente i piaceri suoi penosi e strani. Tantalo io sono e 'l frutto e 'l fiume siete voi, donna, che con nova e crudel arte quanto pi presso v'ho pi m'ingannate. Fame eterna amorosa, ingiusta sete, di doppia pena il venir vostro armate, ch'io mi contento sol di poca parte.

Se colonne, trofei, tempi, archi e fori, stagni, terme, acquedotti, are e teatri, strade, rostri, colossi, anfiteatri, marmi, palme, trionfi, arme, ostri e ori; e consuli e tribuni e dittatori e presidi e proconsoli e gran patri, e littori con fasci oscuri e atri, e decemvir e regi e imperadori, e superbe memorie e spoglie opime e querce e lauri e di metal pi chiaro mitre, scettri, alte pompe, opre divine, ha finito con fiamme e dure lime in cenere e ruina il tempo avaro, spero ch'anco il mio mal debba aver fine.

VI

O che leggiadri e vaghi, o che giocondi, o che belli, o che dolci, o che divini sono, speranza mia, questi tuoi crini, negletti ad arte e 'nnanellati e biondi! Io giurerei che dentro Amor v'ascondi, annodi e stringi: o d'or politi e fini cerchi, voi fate voi ch'ogni uomo inchini i furti vostri, i vostri rai profondi. Come perfetta sei, come n'ancidi! Or non prendo di duol picciola dramma, se non ho col desio tregua n pace, se da me stesso il mio pensier dividi e se d'ardere ognior poco mi spiace, sendo vii esca di s nobil fiamma.

FERRANTE CARAFA

D'oriente le perle, e gli smeraldi pi famosi degli Indi, e quei rubini e topazi e giacinti ardenti e fini ch'empiono il cor di pensier vivi e caldi, i diamanti ricchissimi, e s saldi dei pi riposti lidi e pellegrini, e quante gemme, o sol, coi raggi affini per far gli uomini gir pomposi e baldi, nulla fur, nulla son, nulla saranno a par sol d'una scheggia di quel marmo che respirando a s gli animi tira: ricchi di fuor le gioie ricche fanno, ma 'l bel sasso divino, ond'io sol m'armo, dentro fa ricco il cor che l'alma e mira.

II

Di fiamma io fiamma son, voi sete un ghiaccio, bench'io nome ho di ghiaccio e voi di fiamma, dal disio d'una fiamma or volta in ghiaccio, ch'anzi il ghiaccio facea tutto di fiamma. Fiamma io son, se ben fui d'alpestre ghiaccio, voi ghiaccio, s'alcun d foste fiamma, e s cresce la fiamma entro il mio ghiaccio, che di ghiaccio ha rivolto un vetro in fiamma. Che fa l'oblio? Tornato ha il Fiamma ghiaccio, verso il cristallo mio ghiaccio di fiamma, per la fiamma pregiar conversa in ghiaccio. Siete pur ghiaccio voi, ch'io sar fiamma, che se l'oblio fa tanta fiamma un ghiaccio, amor fatto ha il mio ghiaccio eterna fiamma.

III

Un corbo non pu dar candide piume, n ambrosia un aspe venenoso e fiero, n un mentitor pu dir (volendo) il vero, n chiare acque pu dar torbido fiume, n da tenebre uscir pu chiaro lume, n divenir pu falso cor sincero, n un tiranno feroce, empio ed altero lasciar pu l'aspro suo preso costume, n dar virt pu chi nel vizio ognora via pi s'immerge, ond'alcun mai non puote dar se non quel che l'uso o 'l ciel gli diede, s che onor non pu dar ch'infamia onora, n virt chi virt scaccia e percuote, n f chi non ha f ne l'alma fede.

Potrebbero piacerti anche